“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
“Chi possiede coraggio e carattere, è sempre
molto
inquietante per chi gli sta vicino.”
Hermann Hesse
L’Onorata Società, primo nome della Mafia e prodotto delle tradizioni
locali, fu, innanzitutto, un mezzo per gli isolani per resistere ai diversi
invasori, succedutisi nella sua storia, e per protestare contro la
disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale. Tuttavia, il
contropotere iniziale divenne un “sistema parallelo di autorità”, che si sostituì al potere locale fino a costituire uno Stato nello
Stato.
La lotta contro la Mafia, nonostante le rappresaglie sanguinose di cui sono
oggetto magistrati, Forze dell’Ordine e giornalisti, continua in Italia.
Echo
Daniela
Zini
Quand dans
le charme ardent
De ta pâle
beauté
Je
cherchais comme d’autres
Ton rire
et ton regard,
A qui
souriais-tu,
Dis,
statue terrifiante?
Qui donc
voyais-tu
Ne
regardant personne?
“Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere
comprensione su molte cose e potere su nessuna.”
Erodoto
Mariusz
Lewandowski [1979] – Dolore
Tutto è pronto per la morte,
Ciò che resiste meglio sulla
terra è la tristezza,
E ciò che resterà è la Parola sovrana.
Queste belle parole sono della grande Poetessa
russa Anna Akhmatova [1889-1966].
Nella breve introduzione al ciclo di
poesie, raccolte sotto il titolo di Requiem
[1935-1940], Anna Akhmatova racconta come queste siano nate:
“Negli anni terribili della
Ezovscinaio
trascorsi diciassette mesi in code di attesa fuori del carcere, a Leningrado.
Un giorno, qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dietro di me, con le labbra
livide, che, certamente, in vita sua, mai, aveva sentito il mio nome,
riprendendosi dal torpore mentale, che ci accomunava, mi domandò all’orecchio [là
comunicavamo tutti sottovoce]:
“Ma lei questo può descriverlo?”
E io dissi:
“Io posso.”
Allora una specie di sorriso
scorse per quello che una volta era il suo viso.”
Leningrado, 1 aprile 1957
Anna Akhmatova [1889-1966] attribuisce al Poeta il compito di essere Voce e Coscienza del Popolo:
Io sono
la vostra Voce, il calore del vostro fiato,
Il
riflesso del vostro volto,
I vani
palpiti di vane ali...
Fa lo
stesso, sino alla fine io sto con voi.
In certi periodi della Storia vi è solo la Poesia che sia capace di guardare la realtà,
condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che, in nessun altro modo,
la mente riuscirebbe a trattenere.
In questo senso, tutto un Popolo prese il nom
de plume di Anna Akhmatova: ciò che spiega la sua popolarità e, fatto più
importante, le permise di parlare per il Popolo e di dire al Popolo cose che il
Popolo non sapeva.
Requiem è il risultato della grande e dolorosa
prova di una madre, alla quale hanno strappato il proprio figlio, ma Anna
Akhmatova, al di là del lirismo puramente personale, ingloba in questa raccolta
la sofferenza di tutto un Popolo.
Composto, alla fine degli anni 1930 per
testimoniare, con milioni di persone, la scomparsa di Esseri cari, Requiem passa, clandestinamente, di mano
in mano, e sarà il conforto di una popolazione sottomessa a un folle
sanguinario.
Sarà pubblicato, in Russia, soltanto nel
1980, ma questa vittoria postuma è meno importante della battaglia vinta
durante la sua vita.
Nessuno aveva potuto condannarla al
silenzio o sopprimere la sua Memoria.
Come un sasso posato sul greto di un fiume
ne modifica il corso, così Anna Akhmatova, aggrappata al suo piccolo
territorio, aveva costretto il regime a scavalcarla, aggirarla, tenere conto
della sua presenza.
Bevevo le mie proprie lacrime
Nelle mani degli altri.
Anna Akhmatova dedica questa raccolta a
tutte le donne che, come lei, avevano passato ore davanti alla prigione, per
avere notizie del proprio figlio o del proprio marito.
Questa figlia
dell’alta borghesia sarà etichettata “rinnegata”, nociva per la gioventù,
reazionaria e del tutto squilibrata da Stalin.
Solo la sua fama
la salverà dal gulag.
Come diceva il
potere sovietico:
“Noi
non possiamo conciliarci con una donna che non ha saputo morire in tempo.”
E, seppure morta,
il suo Fantasma continua a terrorizzare Putin e altri…
Anna Akhmatova
è stata per me un cartello indicatore.
La Poesia, per quanto
intellettualizzata poteva esserne l’espressione, era sempre diretta: grido,
sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasceva sulle labbra dell’Amante
in presenza dell’Amato.
Mescolava
raramente il patetico da un lato, l’elaborazione realistica dall’altro, al suo
lirismo o alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione
morale, il rigore o l’ipocrisia dei costumi non avevano influito sui Poeti
antichi come su questa donna del suo tempo.
Il gioco delle
reticenze e degli schermi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di
eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permeava
certi componimenti ne erano una ulteriore testimonianza.
La vergogna e
la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferivano alla Poesia la
bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi.
La posizione
del Poeta restava quella tipica delle grandi epoche, quella di un Artigiano
squisito.
La sua funzione
si limitava a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più
precisa e la più levigata delle forme.
I suoi versi
migliori non ci davano delle esperienze o delle idee del Poeta che il punto di
partenza o quello di arrivo; tralasciavano tutto quello che, anche nei più
raffinati, si rivolgeva visibilmente al lettore, tutto quello che rientrava
nell’ordine della eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere nella
saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma
più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e
non la cenere.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono
allontanata dalla Poesia, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle
mani rattrappite e aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad
andarmene a fondo.
Confesso che,
di quando in quando, l’aria intorno a me perdeva l’umidità e la permeabilità al
suono; il secchio, calato nel pozzo, non produceva un piacevole spruzzo, ma un
colpo secco contro la pietra e aveva inizio, in genere, una asfissia che durava
anni.
Presentare le
parole tra loro, far scontrare le parole tra loro è divenuto usuale.
Ciò che era
arditezza, oggi, suona come una banalità!
Ma vi è un
altro percorso, anche più importante: l’esattezza, in modo che ciascuna parola,
nel verso, stia al proprio posto, come se vi fosse, già, da mille anni, ma il
lettore la sentisse, per la prima volta, nella vita.
È un percorso molto difficile, ma quando riesce le
persone dicono:
“Mi riguarda; è come se fosse scritto da me.”
Io stessa,
molto raramente, provo questo sentimento nella lettura o nell’ascolto di versi
altrui.
È qualcosa tipo
invidia, ma un pò più nobile.
Scrissi la
prima poesia all’età di otto anni, era orribile, ma, già, prima, mio Padre mi
chiamava, chissà perché, poetessa decadente. Persistei nello scrivere versi,
apponendovi sopra dei numeri, cosa di cui si ignora il fine.
Viene per ciascuno di noi il momento in cui
dobbiamo pronunciare questo:
“Io
posso.”,
che non si riferisce a una certezza né a
una capacità specifica, e che, tuttavia, ci impegna e ci mette in gioco
interamente.
In un momento culturale, politico e
sociale, così carico di tensioni, ho deciso, dunque, di porre un accento di
riflessione sulla tormentata Storia del secondo dopoguerra italiano.
Far conoscere il significato universale
degli eventi disastrosi della nostra Storia è un debito verso le generazioni
future e verso il proprio Paese.
Platone diceva:
“Conoscere
è ricordare.”
E, il tentativo
evoca profondi strati di Passato: voci, suoni, odori, persone e così via, senza
fine.
Nell’epoca in cui si porta al massimo
sviluppo l’individualità, l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che,
per sua natura, spinga il pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che
svegli il senso di appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un
comportamento armonico per la vita di questi Esseri.
Intimamente mi sorge una intuizione:
“La
forza, la posizione privilegiata, i mezzi, di cui dispongo, mi sono stati
donati in fiducia dagli Altri, affinché siano potenza di redenzione dei deboli?”
Mantenere viva la Memoria di tutte le Vittime,
civili o in divisa, cadute sotto il fuoco nemico o amico, aggiornandone l’elenco
e ricostruendone la storia è, dunque, l’impegno che prendo con:
A
Nicolò
ALONGI
Nicolò AZOTI
Carmelo AGNONE
Giovan Battista ALCE
Vito ALLOTTA
Eugenio ALTOMARE
Giorgio AMBROSOLI
Carmine APUZZO
Pasquale
ALMERICO
Filadelfio
APARO
Vincenzo
ABATE
Marcello
ANGELINI
Giovanbattista
ALTOBELLI
Ottavio
ANDRIOLI
Cristiano
ANTONIO
Giuseppe
ASTA
Salvatore ASTA
Roberto
ANTIOCHIA
Morello
ALCAMO
Francesco
ALFANO
Salvatore
AVERSA
Cosimo
ALEO
Antonino
AGOSTINO
Alfredo
AGOSTA
Antonio
AMMATURO
Graziano ANTIMO
Sebastiano
ALONGHI
Mariangela ANZALONE
Giovanni ATTARDO
Paolino AVELLA
Michele AMICO
Raffaele
ARNESANO
Vincenzo
ARATO
Agata
AZZOLINA
Ilaria ALPI
Rita
ATRIA
Beppe ALFANO
Fortunato
ARENA
Giuseppe ALIOTTO
Carlo
ALA
Alfredo
ALBANES
Filippo
ALBERGHINA
Emilio
ALESSANDRINI
Luigi
ALLEGRETTI
Antonio
ANNARUMMA
Mario
AMATO
Mauro
AMATO
Pino
AMATO
Antonio
AMMATURO
Maurizio
ARNESANO
Benito
ATZEI
Giovanni
ARNOLDI
Mauro
ALGANON
Vito
ALES
GIovanbattista ALTOBELLI
B
Mariano
BARBATO
Fiorentino
BONFIGLIO
Mario BOSCONE
Sebastiano BONFIGLIO
Antonio BUBUSA
Emanuele BUSELLINI
Giuseppe BIONDO
Salvatore BUSCEMI
Giovanni
BELLISSIMA
Salvatore BOLOGNA
Attilio
BONINCONTRO
Francesco
BUTIFAR
Carmelo
BATTAGLIA
Giuseppe
BURGIO
Paolo
BONGIORNO
Rocco
Giuseppe BARILLA’
Domenico BENEVENTANO
Emanuele BASILE
Sebastiano
BOSIO
Lorenzo BRUNETTI
Rodolfo
BUSCEMI
Anna
Maria BRANDI
Antonino BURRAFATO
Giuseppe
BOMMARITO
Salvatore
BARTOLOTTA
Michele
BRESCIA
Pietro
BUSETTA
Salvatore BENIGNO
Paolo
BOTTONE
Donato
BOSCIA
Giovanni
BONSIGNORE
Andrea BONFORTE
Filippo
BASILE
Angelo
BRUNO
Gioacchino
BISCEGLIA
Antonino BUSCEMI
Francesco BRUGNANO
Luigi
BODENZA
Salvatore BENNICI
Paolo
BORSELLINO
Francesco BUZZITI
Paolo
BORSELLINO
Giuseppe
BORSELLINO
Antonio BRANDI
Stefano BIONDI
Salvatore
BOTTA
Carmelo
BENVEGNA
Vittorio
BACHELET
Antonio
BANDIERA
Franco
BATTAGLINI
Vittorio
BATTAGLINI
Sergio
BAZZEGA
Rosario
BERARDI
Marco
BIAGI
Franco
BIGONZETTI
Carlo
BONANTUONO
Domenico
BORNAZZINI
Renato
BRIANO
Gabriella
BORTOLON
Felicia BARTOLOZZI SAIA
Nicola BUFFI
Giulietta BANZI BAZOLI
Sonia BURRI
Katia
BERTASI
Euridia
BERGIANTI
Nazzareno BASSO
Paolino
BIANCHI
Irene BRETON BOUDOUBAN
Anna Maria BRANDI
Argeo
BONORA
Francesco BETTI
Verdiana
BIVONA
Silvana
SERRAVALLI BARBERA
C
Nicola
CALIPARI
Giuseppe
CASSARA’
Vito CASSARA’
Giuseppe COMPAGNA
Calcedonio
CATALANO
Calogero CICERO
Pino CAMILLERI
Giovanni CASTIGLIONE
Giuseppe CASARRUBEA
Alfonso CANZIO
Stefano
CARONIA
Antonino
CIOLINO
Vitangelo
CINQUEPALMI
Margherita CLESCERI
Giorgio CUSENZA
Calogero COMAIANNI
Stefano CONDELLO
Vincenzo CARUSO
Calogero CAJOLA
Candeloro CATANESE
Giovanni CALABRESE
Calogero
CANGELOSI
Salvatore
CARNEVALE
Cosimo CRISTINA
Gaetano
CAPPIELLO
Giorgio CIACCI
Filippo COSTA
Silvio
CORRAO
Orazio
COSTANTINO
Pasquale
CAPPUCCIO
Pietro
CERULLI
Gaetano COSTA
Susanna
CAVALLI
Angela CALVANESE
Paolo
CANALE
Antioco COCCO
Lucia CERRATO
Santo
CALABRESE
Sergio COSMAI
Giovanni CARBONE
Graziella CAMPAGNA
Antonino CASSARÀ
Giuseppe CUTRONEO
Giulio
CAPILLI
Bruno
CACCIA
Rocco CHINNICI
Carmelo CERRUTO
Luigi
CAFIERO
Giangiacomo CIACCIO MONTALTO
Domenico CELIENTO
Giovanni CATALANOTTI
Ida
CASTELLUCCI
Donato CAPPETTA
Domenico CALVIELLO
Anna Maria CAMBRIA
Angelo
CARBOTTI
Domenico CATALANO
Pietro
CARUSO
Salvatore
CASTELBUONO
Fabio
CORTESE
Antonio
CIVININI
Aniello CORDASCO
Francesco CRISOPULLI
Giuseppe CARUSO
Saverio
CIRRINCIONE
Leonardo CANCIARI
Liliana CARUSO
Gioacchino
COSTANZO
Giuseppe CILIA
Giovanni CARBONE
Fortunato CORREALE
Adolfo
CARTISANO
Pasquale CAMPANELLO
Dario CAPOLICCHIO
Andrea CASTELLI
Angelo CARLISI
Giulio CASTELLINO
Antonio CONDELLO
Arturo
CAPUTO
Antonio Carlo CORDOPATRI
Pasquale
CRISTIANO
Agostino
CATALANO
Walter Eddie COSINA
Ferdinando
CHIAROTTI
Enrico
CHIARENZA
Maria COLANGIULI
Saverio
CATALDO
Paolo
CASTALDI
Stefano
CIARAMELLA
Torquato
CIRIACO
Massimo CARBONE
Gianluca CONGIUSTA
Luigi
CALABRESI
Fedele
CALVOSA
Andrea
CAMPAGNA
Mario
CANCIELLO
Ciro
CAPOBIANCO
Luigi
CARBONE
Luigi
CARLUCCIO
Giuseppe
CARRETTA
Carlo
CASALEGNO
Antonio
CASU
Giovanni
CERAVOLO
Antonio
CESTARI
Antonio
CHIONNA
Raffaele
CINOTTI
Francesco
CIAVATTA
Giuseppe
CIOTTA
Carmine
CIVITATE
Francesco
COCO
Enea
CODOTTO
Piero
COGGIOLA
Ottavio
CONTE
Lando
CONTI
Giorgio
CORBELLI
Ippolito
CORTELLESSA
Martino
COSSU
Roberto
CRESCENZIO
Fulvio
CROCE
Francesco
CUSANO
Antonio
CUSTRA
Lorenzo
CUTUGNO
Pietro
CUZZOLI
Rita
CACICIA,
Lidia
OLLA in CARDILLO
Mirco
CASTELLARO
Antonella
CECI
Giulio CHINA
Eugenio CORSINI
Elena CELLI
Davide CAPRIOLI
Susanna CAVALLI
Lucia CERRATO
Dario Capolicchio
Flavia
CASADEI
D
Croce
DI GANGI
Giuseppe DI MAGGIO
Filippo DI SALVO
Agostino D’ALESSANDRO
Fedele DE FRANCISCA
Michele DI MICELI
Vincenzo DI SALVO
Antonino DAMANTI
Antonio
DI SALVO
Mauro
DE MAURO
Rosario
DI SALVO
Carlo
Alberto DALLA CHIESA
Emanuela
SETTI CARRARO DALLA CHIESA
Luigi
D’ALESSIO
Gennaro
DE ANGELIS
Calogero
DI BONA
Gerardo D’ARMINIO
Mario
D’ALEO
Anna
DE SIMONE
Giovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Luigi DI BARCA
Claudio
DOMINO
Nicola
D’ANTRASSI
Giovanni DI BENEDETTO
Cataldo
D’IPPOLITO
Fabio
DE PANDI
Cosimo DURANTE
Salvatore D’ADDARIO
Felice DARA
Giuseppe DI LAVORE
Rocco DI CILLO
Salvatore
DI FALCO
Raffaele DI MERCURIO
Maurizio
D’ELIA
Gaetano
DE ROSA
Marco DE FRANCHIS
Alberto
DE FALCO
Giuseppe DI MATTEO
Moussafir
DRISS
Don Giuseppe DIANA
Pasquale DI LORENZO
Andrea DI MARCO
Agatino DIOLOSA’
Matteo DI CANDIA
Federico DEL PRETE
Annalisa
DURANTE
Giovanni
D’ALFONSO
Sebastiano
D’ALLEO
Massimo
D’ANTONA
Fanny
DALLARI
Antioco
DEIANA
Raffaele
DELCOGLIANO
Bianca
DELLER
Mario
DE MARCO
Carmine
DE ROSA
Francesco
DI CATALDO
Giovanni
DI LEONARDO
Fausto
DIONISI
Ciriaco
DI ROMA
Franco
DONGIOVANNI
Pietro
DENDENA
Elena
DONATINI
Roberto DE MARCHI
Elisabetta MANEA DE MARCHI
Franca DALL’OLIO
Mauro DI VITTORIO
Antonio DI PAOLA
Angela CALVESE DE SIMONE
Anna
DE SIMONE,
GIovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Brigitte
DROUHARD
E
Vittorio
EPIFANI
Francesco
ESTATICO
Maurizio ESTATE
Vittorio ESPOSITO
Antonio
ESPOSITO
Francesco
EVANGELISTA
Berta
EBNER
F
Paolo
FARINA
Domenico FRANCAVILLA
Salvatore
FALCETTA
Marino FARDELLI
Francesco
FERLAINO
Giuseppe FIORENZA
Mario FRANCESE
Antonio FONTANA
Antonio ESPOSITO FERRAIOLI
Silvano FRANZOLIN
Antonio FEDERICO
Giuseppe FAVA
Renata
FONTE
Giovanni
FILIANO
Giovanni
FALCONE
Francesca
MORVILLO FALCONE
Francesco
FORTUGNO
Michele
FAZIO
Rosario
FLAMINIO
Salvatore
FRAZZETTO
Giacomo FRAZZETTO
Serafino
FAMÀ
Alessandro
FERRARI
Antonino FAVA
Angela FIUME
Paolo
FICALORA
Silvana FOGLIETTA
Giuseppe FALANGA
Antonio FERRARA
Leonardo
FALCO
Graziella
FAVA
Armando
FEMIANO
Giuseppe
FILIPPO
Lorenzo
FORLEO
Filippo
FOTI
Alessandro
FLORIS
Antonio
FRASCA
Antonio
FERRARO
Tsugufumi FUKUDA
Angela FRESU
Maria
FRESU
Rosa FASSARI
Mirella
FORNASARI
Errica
FRIGERIO DIOMEDE FRESA
Vito DIOMEDE FRESA
Cesare Francesco DIOMEDE FRESA
Alessandro
Ferrari
G
Antonino
GUARISCO
Gaetano GUARINO
Marcantonio GIACALONE
Antonio GIACALONE
Carlo GULINO
Francesco GULINO
Emanuele GRECO
Giorgio GENNARO
Giovanni
GRIFO’
Luigi GERONAZZO
Paolo
GIACCONE
Leopoldo
GASSANI
Giuseppe GRIMALDI
Provvidenza
GRECO
Rocco
GATTO
Boris
GIULIANO
Giuliano
GIORGIO
Carmelo
GANCI
Giovanni GIORDANO
Filippo
GEBBIA
Alberto
GIACOMELLI
Vincenzo
GRASSO
Pietro
GIRO
Elisabetta GAGLIARDI
Mario
GRECO
Valentina GUARINO
Libero GRASSI
Nicola GUERRIERO
Giuliano
GUAZZELLI
Gaetano GIORDANO
Giuseppe GRIMALDI
Vincenzo GAROFALO
Nicholas GREEN
Melchiorre
GALLO
Giuseppina
GUERRIERO
Giovanni
GARGIULO
Loris
GIAZZON
Giuseppe
GIAMMONE
Domenico
GULLACI
Giuseppe
GRANDOLFO
Domenico GERACI
Nicola GIOITTA IACHINO
Guido
GALLI
Enrico
GALVALIGI
Antonio
GALLUZZO
Lino
GHEDINI
Carlo
GHIGLIENO
Nicola
GIACUMBI
Licio
GIORGIERI
Graziano
GIRALUCCI
Sergio
GORI
Michele
GRANAIO
Claudio
GRAZIOSI
Giuseppe GURRIERI
Carlo
GAIANI
Calogero GALATIOTO
Carlo GARAVAGLIA
Paolo GERLI
Manuela GALLON
Natalia AGOSTINI GALLON
Carla GOZZI
Pietro GALASSI
Andrea GANGEMI
Roberto GAIOLA
Raffaella GAROSI
Francesco
GOMEZ MARTINEZ
H
Miran
HROVATIN
Wilhelmus
J. HANEMA
I
Castrenze
INTRAVAIA
Giuseppe IMPASTATO
Filippo
INTILE
Rosario
IOZIA
Carmelo
IANNÒ
Giuseppe
INSALACO
Francesco
IMPOSIMATO
Nicandro IZZO
Saverio
IERACI
Giuseppe
IACONA
Enrico INCOGNITO
Salvatore
INCARDONA
Raffaele IORIO
Luigi
IOCULANO
Raffaele
IOZZINO
Emanuele
IURILLI
Maria
IDRIA AVATI
J
Carmelo
JANNI’
Vito
JEVOLELLA
K
John Andrei KOLPINSKI
Herbert KONTRINER
L
Paolo
LI PUMA
Vincenzina LA FATA
Serafino LASCARI
Giovanni LA BROCCA
Vittorio LEVICO
Epifanio
LI PUMA
Giuseppe LETIZIA
Angelo LOMBARDI
Vincenzo LA ROCCA
Vincenzo LO IACONO
Carmelo LENTINI
Armando LODDO
Caterina
LIBERTI
Salvatore LONGO
Giannino LOSARDO
Pio LA TORRE
Giuseppe
LALA
Antonino
LORUSSO
Simonetta LAMBERTI
Renato LIO
Giuseppe LEONE
Calogero
LORIA
Rosario
LIVATINO
Pier
Francesco LEONI
Stefano
LI SACCHI
Vincenzo
LEONARDI
Carlo
LA CATENA
Giuseppe
LA FRANCA
Raffaella
LUPOLI
Antonio
LIPPIELLO
Davide
LADINI
Ferdinando
LIQUORI
Fortunato
LAROSA
Velia
CARLI LAURO
Salvatore LAURO
Umberto LUGLI
Pier
Francesco LAURENTI
Vincenzo
LANCONELLI
Pier
Francesco LEONI
Carlo
La Catena
Emanuela
LOI
Vincenzo LI MULI
Angelo
Raffaele LONGO
Hamdi
LALA
Rolando
LANARI
Salvatore
LANZA
Santo
LANZAFAME
Giuseppe
LOMBARDI
Oreste
LEONARDI
Andrea
LOMBARDINI
Giuseppe
LORUSSO
Ezio
LUCARELLI
Antonio
Francesco LASCALA
M
Giuseppe
MISURACA
Mario MISURACA
Accursio MIRAGLIA
Pietro MACCHIARELLA
Paolo MIRMINA
Giuseppe MONTICCIOLO
Santi MILISENNA
Enrico MATTEI
Giovanni
MEGNA
Nicola MESSINA
Michele MARINARO
Giuseppe MANIACI
Salvatore MESSINA
Pasquale MARCONE
Sergio MANCINI
Lenin MANCUSO
Domenico MARRARA
Piersanti
MATTARELLA
Giuseppe
MARTURANO
Domenico
MARTURANO
Mario
MALAUSA
Calogero
MORREALE
Giuseppe MUSCARELLI
Nicola
MIGNOGNA
Rosario
MONTALTO
Sebastiano MORABITO
Giuseppe
MONTALBANO
Natale MONDO
Maria
MARCELLA
Vincenzo MICELI
Pietro
MORICI
Andrea
MORMILE
Pasquale
MANDATO
Salvatore
MUSARO’
Luisella
MATARAZZO
Maria Luigia MORINI
Gennaro MUSELLA
Vincenzo
MULE’
Valeria
MORATELLO
Giuseppe
MANGANO
Antonio
MARINO
Beppe MONTANA
Giuditta MILELLA
Carmine
MOCCIA
Giuseppe
MACHEDA
Antonio
MORREALE
Girolamo
MARINO
Antonio
MONTALTO
Antonino MONTELEONE
Pasquale
Salvatore MAGRI’
Claudio
MANCO
Giuseppe MONTALTO
Cosimo Fabio MAZZOLA
Rosario MINISTERI
Francesco MARZANO
Giuseppe MESSINA
Graziano MUNTONI
Francesco MANISCALCO
Salvatore
MINEO
Antonino MONTINARO
Mauro MANIGLIO
Tonino
MAIORANO
Tina
MOTOC
Gaetano
MARCHITELLI
Giuseppe
MARNALO
Francesco MARCONE
Giuseppe MANFREDA
Gianfranco MADIA
Bartolomeo
MANA
Angelo
MANCIA
Mikaeli
MANTAKAS
Luigi
MARANGONI
Antonio
MARINO
Felice
MARITANO
Luigi
MARONESE
Edoardo
MARTINI
Federico
MASARIN
Giorgina
MASI
Manfredo
MAZZANTI
Giuseppe
MAZZOLA
Stefano
MATTEI
Virgilio
MATTEI
Antonio
MEA
Girolamo
MINERVINI
Aldo
MORO
Gianni
MUSSI
Anna
Maria BOSIO MAURI
Carlo MAURI
Luca MAURI
Angela
MARINO
Leo Luca MARINO
Domenica MARINO
Eckhardt MADER
Patrizia
MESSINEO
Catherine Helen MITCHELL
Antonio
MONTANARI
Rosina
BARBARO MONTANI
Lina
FERRETTI MANNOCCI
Rossella
MARCEDDU
Margret ROHRS MADER
Kai MADER
Luigi
MELONI
Vittorio
MOCCHI
Antidio MEDAGLIA
Amorveno MARZAGALLI
Luisella
MATARAZZO
Carmine MOCCIA
Valeria MORATELLO
Maria Luigia MORINI
Nicoletta
MAZZOCCHIO
Driss Moussafir
Maria Angela MARANGON
Livia BOTTARDI MILANI
N
Emanuele
NOTARBARTOLO
Pasquale
NUCCIO
Luciano
NICOLETTI
Nadia
NENCIONI
Caterina NENCIONI
Fabrizio
NENCIONI
Francesco
NAZZARO
Emanuele
NOBILE
Fabio
NUNNERI
Salvatore
NUVOLETTA
Antonio
NIEDDA
Angelamaria
Fiume Nencioni
Fabrizio Nencioni
Ceterina Nencioni
Nadia Nencioni
Nilla
NATALI
Euplo NATALI
O
Giovanni
ORCEL
Andrea ORLANDO
Peter
IWULE ONJEDEKE
Salvatore
OTTONE
Giuseppe ORLANDO
Francesco OLIVIERO
Serafino
OGLIASTRO
Vittorio
OCCORSIO
Pierino
OLLANU
P
Lorenzo
PANEPINTO
Giorgio PECORARO
Vincenzo
PECORARO
Antonino PECORARO
Mario
PAOLETTI
Rosario PAGANO
Giuseppe PUNTARELLO
Pietro
PONZO
Nunzio PASSAFIUME
Imerio PICCINI
Vito PIPITONE
Francesco PIGNATARO
Antonino POLLARI
Gabriele
PALANDRANI
Anna PRESTIGIACOMO
Joe PETROSÌNO
Giuliano
PENNACCHIO
Giacinto PULEO
Giuseppe
PIANI
Nicolò
PIOMBINO
Salvatore
POLLARA
Pasquale
PAOLA
Luciano
PIGNATELLI
Antonio
PIANESE
Pietro PATTI
Franco PUZZO
Roberto PARISI
Giuseppe
PILLARI
Carmela
PANNONE
Emanuele PIAZZA
Saverio
PURITA
Nunzio PANDOLFI
Angelica PIRTOLI
Ignazio
PANEPINTO
Maria Teresa PUGLIESE
Girolamo PALAZZOLO
Santa
PUGLISI
Giuseppe
PUGLISI
Stefano PICERNO
Sergio PASOTTO
don Giuseppe PUGLISI
Anna
PACE
Luigi
PULLI
Stefano
POMPEO
Giovanni
PANUNZIO
Claudio
PEZZUTO
Francesco
PEPI
Lucia
PRECENZANO
Vito
PROVENZANO
Calogero PANEPINTO
Domenico
Nicolò PANDOLFO
Domenico
PACILIO
Rodolfo PATERA
Ennio PETROSINO
Vittorio
PADOVANI
Riccardo PALMA
Antonio
PALUMBO
Prisco
PALUMBO
Pasquale PAOLA
Alfredo PAOLELLA
Paolo PAOLETTI
Settimio PASSAMONTI
Enrico PEDENOVI
Antonio PEDIO
Giuseppe PEGLIEI
Giovanni PERSOGLIO GALAMERO
Emanuele PETRI
Franco PETRUCCI
Giuseppe PISCIUNERI
Salvatore PORCEDDU
Sergio
Pasotto
Stefano Picerno
Giuseppe
PANZINO
Donato
POVEROMO
Gerolamo
PAPETTI
Mario PASI
Carlo PEREGO
Luigi PINTO
Giuseppe PATRUNO
Roberto PROCELLI
Angelo PRIORE
Vincenzo PETTENI
Letizia
Concetta PALUMBO
Q
Cosimo
QUATTROCCHI
Francesco QUATTROCCHI
R
Giuseppe
RECHICHI
Giuseppe
RUMORE
Placido RIZZOTTO
Andrea RAJA
Vincenzo
RICCARDELLI
Emanuele
RIBOLI
Quinto
REDA
Ilario
RUSSO
Paolino
RICCOBONO
Matteo
RIZZUTO
Salvatore RAITI
Domenico
RUSSO
Vincenzo
RUSSO
Giuseppe
RUSSO
Mauro
ROSTAGNO
Luigi RANIERI
Michele
REINA
Pietro
RAGNO
Massimo
RIZZI
Alessandro
ROVETTA
Barbara RIZZO ASTA
Angelo
RICCARDO
Domenico RANDÒ
Antonio RAMPINO
Antonio
RUSSO
Francesco
ROSSI
Attilio ROMANO’
Maria
Incoronata RAMELLA
Silvia
RUOTOLO
Giuseppe RUSSO
Nicola REMONDINO
Paolo RODA’
Giuseppe
RADICIA
Salvatore ROSA
Romano
RADICI
Giuseppe RAPESTA
Sergio
RAMELLI
Stefano
RECCHIONI
Valeria
RENZI
Domenico
RICCI
Giulio
RIVERA
Mariano
ROMITI
Guido
ROSSA
Luciano
ROSSI
Walter
ROSSI
Francesco
RUCCI
Roberto
RUFFILI
Maria
Santina CARRARO RUSSO
Marco RUSSO
Nunzio RUSSO
Pio
Carmine REMOLLINO
Gaetano RODA
Romeo RUOZI
S
Costantino
STELLA
Domenico SPATOLA
Mario SPATOLA
Pietro SPATOLA
Paolo SPATOLA
Antonino
SCUDERI
Vito
STASSI
Giovanni SANTANGELO
Vincenzo SANTANGELO
Giuseppe SANTANGELO
Giovanni SEVERINO
Marina SPINELLI
Francesco SASSANO
Giuseppe SPAGNUOLO
Filippo
SCIMONE
Giuseppe SCALIA
Emanuela SANSONE
Nunzio
SANSONE
Girolamo SCACCIA
Vincenza SPINA
Giovanni SPAMPINATO
Angelo
SORINO
Michelangelo SALVIA
Vincenzo SAVOCA
Giuseppina
SAVOCA
Vincenzo
SPINELLI
Nunziata SPINA
Filippo SALSONE
Antonio SABIA
Antonino
SAETTA
Stefano SAETTA
Giuseppe
SALVIA
Rosario
SCIACCA
Giuseppe
SCEUSA
Salvatore SCEUSA
Grazia
SCIME’
Andrea
SAVOCA
Sandra
STRANIERI
Antonino SCOPELLITI
Salvatore
SCHIMMENTI
Giuseppe SPADA
Giancarlo SIANI
Biagio SICILIANO
Salvatore
SQUILLACE
Incoronata
SOLLAZZO
Maria Antonietta SAVONA
Riccardo SALERNO
Davide
SANNINO
Rosario
SALERNO
Antonio SOTTILE
Vincenzo
SALVATORI
Stefano SIRAGUSA
Antonio
SPARTÀ
Salvatore SPARTÀ
Vincenzo SPARTÀ
Giovanni SIMONETTI
Emanuele SAUNA
Antonino SIRAGUSA
Lucio STIFANI
Leonardo
SANTORO
Dario
SCHERILLO
Matilde SORRENTINO
Fedele
SCARCELLA
Domenico
STANISCI
Sandro
SCARPATO
Luigi
SEQUINO
Orazio SCIASCIO
Vito SCHIFANI
Francesco
SCERBO
Lino
SABBADIN
Franco
SAMMARCO
Antonio
SANTORO
Rocco
SANTORO
Giovanni
SAPONARA
Carlo
SARONIO
Giuseppe
SAVASTANO
Rosario
SCALIA
Italo
SCHETTINI
Roberto
SCIALABBA
Giuseppe
SCRAVAGLIERI
Gianfranco
SPIGHI
Franco
STRAULLU
Oreste
SANGALLI
Angelo SCAGLIA
Carlo SILVA
Salvatore SEMINARA
Mario SICA
Iwao
SEKIGUCHI
Silver SIROTTI
Loredana
MOLINA SACRATI
Sergio
SECCI
T
Giuseppe
TESAURO
Giovanni
TASQUIER
Antonino
TRIPODO
Ugo
TRIOLO
Mario
TRAPASSI
Giuseppe
TRAGNA
Michele Arcangelo TRIPODI
Carmine TRIPODI
Federica TAGLIALATELA
Gioacchino
TAGLIALATELA
Roberto
TICLI
Marcella
TASSONE
Antonio
TAMBORINO
Cesare
TERRANOVA
Marcello
TORRE
Claudio
TAGLIATATELA
Hiso
TELARAY
Francesco
TAMMONE
Calogero TRAMUTA
Anna
Maria TORNO
Claudio
TRAINA
Giovanni TRECROCI
Francesco
TRAMONTE
Valentina
TERRACCIANO
Salvatore
TIENI
Bonifacio TILOCCA
Ezio
TARANTELLI
Giuseppe
TALIERCIO
Girolamo
TARTAGLIONE
Michele
TATULLI
Domenico
TAVERNA
Lucio
TERMINIELLO
Euro
TERSILLI
Walter
TOBAGI
Pierluigi
TORREGGIANI
Mario
TOSA
Vincenzo
TUMMIELLO
Emanuele
TUTTOBENE
Bartolomeo
TALENTI
Clementina
CALZARI TREBESCHI
Maria Antonella TROLESE
Anna Maria SALVAGNINI TROLESE
Angelica
TARSI
Federica
TAGLIALATELA
Gioachino TAGLIALATELA
Alberto
TREBESCHI
V
Bernardo
VERRO
Francesco
VICARI
Calogero VACCARO
Onofrio
VALVOLA
Mariano
VIRONE
Giuseppe
VALARIOTI
Domenico VECCHIO
Antonio VALENTI
Leonardo VITALE
Abramo
VASTARELLA
Vincenzo
VENTO
Francesco
VECCHIO
Paolo VINCI
Alberto
VALLEFUOCO
Riccardo VOLPE
Antonino VASSALLO
Raffaele
VITIELLO
Alberto
VARONE
Gelsomina
VERDE
Vincenzo
VACCARO NOTTE
Salvatore VACCARO NOTTE
Giovanni
VOLPE
Antonio
VARISCO
Sebastiano
VINCI
Eleno
VISCARDI
Eliberto
VOLGGER
Attilio
VALÈ
Eleonora
GERACI VACCARO
Vittorio VACCARO
Rita
VERDE
Adriana
Maria VASSALLO
Abramo
VASTARELLA
Fausto
VENTURI
Z
Giovanni
ZANGARA
Celestino
ZAPPONI
Calogero
ZUCCHETTO
Carmelo ZACCARELLO
Daniele
ZOCCOLA
Erilda
ZTAUSCI
Ciro ZIRPOLI
Rosa ZAZA
Giuseppe ZIZOLFI
Agata ZUCCHERO
Alfio ZAPPALA’
Mario ZICCHIERI
Francesco ZIZZI
Vincenzina
SALA ZANETTI
Paolo
ZECCHI
Viviana
BUGAMELLI ZECCHI
Onofrio ZAPPALÀ
Vittorio ZAMBARDA
Roma,
21 luglio 2015
Daniela Zini
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’
SEGRETE
I.
LA CAMORRA
1.
LA CAMORRA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
I.
LA CAMORRA
2. L’ANNORATA
SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II.
LA MAFIA
1.
LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II.
LA MAFIA
2.
LA ONORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO
DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
II. LA MAFIA
“Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per
guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa
Giorgio
Napolitano, al termine di una visita a Portella della Ginestra, nel 2012:
‘In Italia ci sono problemi gravi e
complessi e l’Italia deve essere unita per risolverli.”
[…]
COSSIGA. Io
posso confermare per scienza diretta che in Sardegna noi eravamo armati.
Eravamo armati con armi corte in parte fornite dalle Forze dell’ordine e in
parte acquistate su libero mercato: la Sardegna aveva visto passare gli
eserciti tedeschi e gli eserciti alleati. Personalmente io ero armato con uno
Stein. Le bombe a mano ci furono fornite dall’Arma dei carabinieri. L’addestramento
del gruppo, del commando di cui
facevo parte venne seguito da un sottufficiale della San Marco del Sud, non di
quella di Valerio Borghese, anche se poi la storia dovrà chiarire che
differenza c’è. Passato il 18 aprile noi riconsegnammo le armi. Nulla posso
dire per scienza diretta del fatto che la parte avversa fosse armata.
PRESIDENTE. Tutti
gli omicidi del triangolo rosso.
COSSIGA. No, è
un fatto diverso. Non confondiamo gli omicidi del triangolo rosso, che sono di
iniziativa individuale di settori del Partito di quella zona, con il Partito Comunista
perché si tratta di due cose diverse. Comprendo benissimo, potei ammettere
tutto ciò perché ero già Presidente della Repubblica e non era in vista o
probabile una mia rielezione; altri lo dovettero negare perché potevano essere
eletti al mio posto. Paolo Emilio Taviani conosceva tutto questo perché era uno
dei capi delle formazioni partigiane bianche; uno di quelli più attivi in
questo settore, come poi appresi, fu Enrico Mattei. A quanto so, dopo il 1948,
almeno noi sardi, restituimmo le armi. Per quanto riguarda l’altra parte non so
nulla di scienza diretta: so soltanto quello cui fui edotto quando, diventato
sottosegretario alla difesa, mi fecero un briefing su una forza potenzialmente ostile quale era il Partito
Comunista che, così, veniva considerato all’interno dell’Alleanza Atlantica,
nel Comitato di Sicurezza, che ancora nella NATO esiste. Bisogna che i miei
colleghi ammettano che noi abbiamo pesantemente discriminato i comunisti per 50
anni: questo è vero. Gli inglesi lo ammettono se nel costituire legalmente il
servizio di sicurezza britannico, chiamato M15, un’introduzione firmata dal
Primo Ministro afferma che gli scopi del servizio di sicurezza britannico sono
ormai ridimensionati perché non c’è più il dovere del controllo ed il contrasto
con il Partito comunista britannico: questo è stato scritto e firmato dal Primo
Ministro britannico. Non capisco perché i miei colleghi non lo vogliono
ammettere. Io ho sempre ammesso che la nostra è stata una democrazia limitata.
PRESIDENTE. Di
questo le do atto.
COSSIGA.
Abbiamo
pesantemente discriminato i comunisti, mi limito a dire discriminati, ma è vero
che talvolta li abbiamo perseguitati: li abbiamo licenziati, li abbiamo
controllati. Probabilmente se avessero vinto loro avrebbero fatto lo stesso, ma
questo a me non interessa: a me interessa dire quello che abbiamo fatto noi.
Questa è la tragedia del nostro Paese. Il fatto che gli altri fossero armati
non lo so per scienza diretta, lo so per il bríefing che mi fecero quando divenni sottosegretario alla
difesa e mi occupavo un po’ di queste cose e poi per le conoscenze, sempre
indirette e mai dirette, che avevo in qualità di Ministro dell’Interno. In
questa veste sapevo benissimo, come dissi apertamente e come ha scritto nel suo
bel libro l’amico Cervetti, che arrivavano le valigie di denari per il Partito
comunista, come arrivavano per la Democrazia cristiana fino all’ultima
segreteria Moro i denari della CIA, per essere chiari. Tanto è vero che la
Procura della Repubblica di Roma ha detto che è tutto prescritto, ha chiuso
tutto ed ha fatto bene. Quando mi dissero che cosa facciamo di questi
messaggeri che portano i denari per il Partito Comunista risposi di lasciarli
andare per alcuni motivi. Innanzitutto perché mi volevo tener buono il Partito
comunista nella lotta contro il terrorismo, in secondo luogo perché sapevo che
noi prendevamo denari dall’altra parte ed inoltre perché avevamo tali rapporti
economici con l’Unione Sovietica che non volevo mettere in forse per la
questione dei denari. Chiesi soltanto, come riporta Cervetti nel suo libro -
non mi ha voluto dire chi gliel’abbia riferito - so
lo per far capire a chi mi
faceva queste domande provocatorie, che tipo di valuta portano e mi risposero
che si trattava di dollari americani, pertanto dissi benvenuti.
[…]
Commissione
parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata
individuazione dei responsabili delle stragi
XXVII
Seduta, Giovedì, 6 novembre 1997
Presidenza
del Presidente Giovanni Pellegrino
“Finché una tessera di partito conterà più dello Stato,
non
riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa
Il Primo Maggio 2015, il
ministro della giustizia Andrea Orlando, a Portella della Ginestra, rivolgendosi
a uno dei sopravvissuti, Mario Nicosia, dichiara:
“Sento
tutta la responsabilità e il significato di questa mia presenza in un luogo
pieno di simboli e di memoria civile.”
La sera
cade su Palermo – quel venerdì 3 settembre 1982 – quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa [1920-1982] lascia la
Prefettura in compagnia della moglie, Emanuela
Setti Carraro, sposata solo poche settimane prima, la quale è alla guida di una Fiat A112
bianca. Si allontanano, seguiti da un’altra vettura, guidata da un agente di
scorta, Domenico Russo, incaricato della loro protezione. In via Isidoro Carini,
la loro auto è affiancata da una BMW,
con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci, i quali fanno fuoco attraverso
il parabrezza, con un fucile kalashnikov
AK-47. Il generale e sua moglie restano uccisi sul colpo [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/03/toto-riina-cosi-uccidemmo-dalla-chiesa-gli-sparammo-anche-da-morto/1109576/].
Nello stesso istante l’auto con
a bordo Domenico Russo viene affiancata da una motocicletta guidata da Pino
Greco, che lo fredda.
Il giorno
dei funerali delle vittime, l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo
[1918-2006] fa scalpore per la celebre
citazione di Tito Livio che risuona nell’omelia:
“Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene
espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la
nostra Palermo!”
Al
termine della messa, spesso, interrotta dalle proteste, i politici vengono
fischiati e aggrediti dalla folla: una bottiglia d’acqua viene scagliata contro
il ministro dell’interno, Virginio Rognoni e monetine vengono lanciate al presidente
del Consiglio, Giovanni Spadolini.
Nando Dalla Chiesa confida ai giornalisti:
“Secondo me l’hanno ucciso perché è stato l’unico
prefetto che è venuto qui a parlare di Mafia vera, a cercare di farli venir
fuori. In questi ultimi giorni forse aveva capito qualcosa in più: ed ecco la
fine che ha fatto.”
Lo scandalo della Loggia P2, la morte sospetta di Roberto
Calvi, il banchiere del Vaticano, le questioni relative al terrorismo rosso e nero
avevano, già, seriamente, intaccato la credibilità dello Stato italiano, ma la
morte tragica di colui che aveva sgominato le Brigate Rosse e nel quale la
popolazione riponeva tutte le sue speranze per ristabilire, in Sicilia, la
forza della legge appare “il crimine di troppo”.
Il generale Dalla Chiesa non era la prima vittima della
Mafia.
Nel 1970, il giornalista Mauro De Mauro era stato
eliminato, forse, perché si interessava troppo da vicino alle modalità in cui era
scomparso, nel 1962, il “re del petrolio” italiano, Enrico Mattei.
Il 5 maggio 1971, il procuratore capo di Palermo Pietro
Scaglione [1906-1971]
e l’agente di scorta Antonino Lo Russo, alla guida di una Fiat 1500 nera,
furono abbattuti. Era una prima, perché la Mafia, fino ad allora, era solita
corrompere i magistrati di tale importanza o esercitare su di loro forti pressioni.
Il 25 settembre 1979, veniva assassinato il giudice ed ex-deputato
indipendente PCI Cesare Terranova
[1921-1979] e, il 6 gennaio 1980, il democristiano Piersanti Mattarella
[1935-1980],
che aveva denunciato collusioni tra il suo partito e l’Onorata Società.
Il 22 marzo 1980, era il banchiere della Mafia, Michele
Sindona [1920- 1980], a morire in carcere in circostanze sospette.
Il 1980, vedeva, egualmente, l’assassinio del procuratore
capo di Palermo Gaetano Costa [1916-1980]. Il 6 agosto, veniva, infatti,
freddato Costa da tre
colpi di pistola sparati alle spalle da due killers
in moto, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, in via Cavour. Il
delitto era stato commissionato dal clan
mafioso, capeggiato da Salvatore Inzerillo. Causa di quella spietata esecuzione:
aver firmato, personalmente, i mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola e di alcuni suoi
uomini, che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare e che, come disse
Leonardo Sciascia, lo avevano additato alla vendetta mafiosa. Pur essendo l’unico
magistrato a Palermo, al quale, in quel momento, fossero state assegnate una
auto blindata e una scorta, non ne usufruiva, riteneva che la sua protezione
avrebbe messo in pericolo altri e che la sua persona avesse “il dovere di avere coraggio”.
Il 30 aprile 1982, fu il deputato siciliano Pio La Torre
[1927-1982] a essere abbattuto per aver presentato un disegno di legge che prevedeva, per la
prima volta, il reato di “associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni
mafiosi.
Il 1982, videro, egualmente, la morte Salvatore Raiti,
Silvano Franzolin, Luigi Di Barca e Giuseppe Di Lavore, uccisi, il 16 giugno, sotto i colpi dei
fucili kalashnikov AK-47 dei killers del boss Nitto Santapaola, nella Strage della Circonvallazione, e, l’11 agosto, Paolo Giaccone [1929-1982], un medico
legale
molto preoccupato di identificare le impronte digitali di un assassino.
È in
queste circostanze drammatiche che il governo decideva di affidare la
prefettura di Palermo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il generale arrivava a Palermo in maggio… per la sepoltura
di Pio La Torre.
E, finalmente, la legge invocata da Pio La Torre è
votata.
Ma occorre di più per impressionare l’avversario e, nel
corso dei mesi successivi, esponenti delle istituzioni e della stampa
indipendente pagano, ancora, un pesante tributo: un capitano dei carabinieri,
il decano dei giudici istruttori di Palermo, Rocco Chinnici, lo scrittore
catanese Giuseppe Fava, il giornalista torinese Bruno Caccia, che investigava
sulle ramificazioni di Cosa Nostra nel Nord dell’Italia, un senatore e un
industriale, che si rifiutava di essere ricattato, sono assassinati, come pure molti
operatori delle Forze dell’Ordine di stanza in Sicilia.
È su
un terreno antropologico e storico molto particolare che è nata ed è fiorita la
Mafia. È,
intimamente, legata alle realtà
politiche e sociali di una Sicilia a lungo sottomessa a padroni stranieri – quali
i bizantini, i musulmani, i normanni, gli svevi, gli angoini, gli aragonesi,
gli spagnoli, i borbonici e, infine, i piemontesi, una volta realizzata l’unità
italiana – una terra sempre occupata e preoccupata di preservare la sua
autonomia e che costruisce, nel XIX secolo, una società parallela garante della
resistenza allo straniero, fondata su tutto un sistema di riferimenti arcaici e
feudali. Questi sono, facilmente, identificabili: gerarchia immutabile ; rispetto
quasi religioso per il capo reputato infallibile ; giustizia immediata e sbrigativa,
che si fonda su un codice non scritto in cui la parola fa legge ; senso
del gruppo, dalle “famiglie”, che si spartiscono il controllo di una città, fino alla “sicilianità” da
difendere, a ogni costo, contro le intrusioni di poteri esterni o contro ogni
tentativo di uno Stato centralizzato, che cerchi di imporre la sua autorità.
Aggiunti al culto della virilità e al culto del segreto, tutti questi elementi
compongono nella loro semplicità, nella loro teatralità e nella loro violenza
il cemento di una contro-società che finisce per confondersi con la società tout court.
Agli inizi del 1838, molto prima della
realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario borbonico, Pietro Calà Ulloa
[1801-1879], procuratore generale, che rappresentava, a Trapani, la Giustizia
del Regno delle Due Sicilie e sarebbe divenuto primo ministro di re Francesco
II in esilio, illustra in due
relazioni, al
guardasigilli, Cataldo Parisio, a
Napoli, un quadro palpitante di dati e di fatti, di rilievi e di osservazioni
molto interessanti, attraverso cui possiamo formarci una idea abbastanza chiara
della situazione interna della Sicilia, appena qualche mese dopo uno dei suoi
più gravi rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella prima, datata 25 aprile, sono
tratteggiate le condizioni della magistratura in Sicilia.
“Il basso stato in
cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e
gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello
ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla
macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu, durante
il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei magistrati
del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche, dai bisogni
della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli stranieri e degli
emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea un
felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne anche
nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle cose.”
Nella seconda, datata 3 agosto, di più
ampio respiro e di più ricco contenuto, si descrivono le condizioni politiche,
sociali ed economiche della stessa isola.
“Questa generale
corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi.
Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo
politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un
capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai
bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di
proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie di
piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto
moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i
rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel
ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito.
Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e
s’inscrivon nei partiti. Molti
alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile.”
La realtà della Mafia è, si vede, anteriore all’annessione
della Sicilia al giovane Regno d’Italia ed è, nella tradizione del banditismo
locale, talvolta, confuso con la ribellione contro l’ordine costituito, che fa ricercare
le sue origini, in questi “primitivi della rivolta”.
Questo “tempo
dei briganti” rinvia alla fine del XVIII secolo, all’insurrezione
palermitana del 1820, al sollevamento del 1848, allo sbarco garibaldino del
1860 e alla rivolta che infiamma di nuovo Palermo, nel 1866, e si estende in
tutto l’Ovest dell’isola, segnata dall’assassinio del commissario di Monreale e
dal massacro selvaggio dei carabinieri di Boccadifalco.
La repressione piemontese permette di ristabilire l’ordine,
ma quando un gruppo di parlamentari italiani si reca in Sicilia, nel 1867, per
indagare sulla insicurezza che regna sull’isola e sulla ostilità manifestata
dalla popolazione ai rappresentanti del governo di Firenze, constata che
delinquenza e dissidenza politica sono nate dalla disillusione dei siciliani,
delusi dall’annessione al nuovo Regno. Questi deputati non usano, ancora, il
termine Mafia, che si imporrà, in seguito, e la cui origine resta incerta.
Si tratta per i siciliani di difendersi di fronte a uno
Stato che impone una fiscalità più pesante di quella dell’antico regime
borbonico, allorché gli investimenti decisi dal Governo, insediato, prima, a
Firenze, e, poi, a Roma, vanno prioritariamente al Piemonte e alla Lombardia.
Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della “Spedizione dei Mille”,
guidata da Giuseppe Garibaldi,
aveva fatto nascere qualche speranza di riforma agraria e di trasformazione
sociale, ma l’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato siciliano Francesco
Crispi – che si sarebbe fatto più tardi campione sfortunato della espansione
coloniale italiana – non esitò, allora, a proclamare che la popolazione
insulare detestava il governo di Roma, che considerava peggiore di quello dei
Borbone di Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo organizzato si
sviluppano rapidamente dal 1860.
Gli ex-sostenitori di Garibaldi si rifiutano di tornare
alla vita sociale, quando constatano che la vittoria della insurrezione non
cambia nulla alla lorocondizione. Quando il nuovo Regno d’Italia vuole imporre
il servizio militare, dal 1861, numerosi ribelli si danno alla macchia ed è in
questi strati sociali che la nascente Mafia può reclutare i suoi uomini di
mano.
L’Onorata Società non è una semplice associazione di
fuorilegge, ma una nuova struttura di potere. Allorché il fossato si scava tra
lo Stato italiano e il popolo siciliano, si presenta come un “sistema
parallelo di autorità”. Derivato, direttamente dai quadri preesistenti della
vita politica e sociale, il nuovo potere sembra, così, prolungare il
feudalesimo, abolito, molto tardivamente, in Sicilia, durante l’occupazione
inglese, nel 1812. sostituendosi
ai baroni, i capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese
o della regione, e molti sono più rispettati dei rappresentanti del potere
centrale…
Potere parallelo, la Mafia, strettamente
legata alle classi dirigenti siciliane, inizia, rapidamente, a prendere il
controllo del potere politico legale. In tutta la Sicilia occidentale, “fa” le
elezioni e può assicurarsi complicità e protezioni al più alto livello dello
Stato. Sul terreno locale, le famiglie più importanti si spartiscono borghi e
regioni e forniscono i mediatori – piccoli notabili, avvocati, agricoltori
benestanti – che reclutano, secondo il loro buon volere, la manodopera
contadina e gestiscono le aziende dei grandi proprietari assenteisti,
garantendo loro la perennità della rendita fondiaria. Sono dei veri cacicchi
locali, che costituiscono l’ossatura portante della organizzazione mafiosa e
assicurano il controllo sociale delle masse rurali arretrate e sottomesse.
I delitti commessi da piccole bande armate,
riunite intorno a un capo locale, perdurano nell’ultimo terzo del XIX secolo,
ma è una delinquenza più organizzata, creatrice di una illegalità divenuta
strutturale, che si impone in questa epoca e permette alla Mafia di rinnovare regolarmente
i suoi “uomini d’onore” – in sostanza, gli uomini di mano incaricati dei lavori
sporchi – e i suoi quadri, trasformati in piacevoli notabili, che fanno
attenzione a non ostentare una fortuna tanto improvvisa quanto sospetta.
L’abigeato,
il furto di bovini, è, allora, una industria nazionale in Sicilia; ma la Mafia
controlla, egualmente, il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando,
importato dalla Tunisia, e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie
o immobiliari.
Tutti i tentativi dello Stato centrale per vincere
queste diverse forme di delinquenza falliscono uno dopo l’altro, per la
resistenza della classe politica locale e dei sostegni assicurati a Roma. L’arresto
o l’esecuzione del pesce piccolo dei colpevoli non cambiano affatto la
situazione e non intaccano il potere dell’Onorata Società.
Il suo dominio sull’opinione insulare è
pressoché totale, alla fine del XIX secolo.
Nessuno può sperare di vincere una elezione
senza il sostegno della Mafia e l’assassinio di un sindaco di Palermo resta
impunito, perché i siciliani unanimi si schierano con il deputato accusato di esserne
il mandante, il quale sarà assolto per vizio di forma prima di essere, infine, prosciolto
da ogni sospetto.
È l’epoca che
vede l’etnologo Giuseppe Pitré affermare:
“La mafia non è setta né associazione, non
ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se
nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata
applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico
non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di
sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto
un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere
mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio
essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di
ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della
superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere
rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla
giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la
forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto presente negli ingranaggi dello Stato
centrale, ciò che gli garantisce una impunità pressoché totale, la Mafia può,
anche, sollevare l’opinione siciliana contro questo lo stesso Stato, se
manifesta velleità di ristabilire la legalità.
La storia dei tentativi compiuti dalle autorità dello
Stato per reprimere i fenomeni mafiosi inizia 141 anni fa, precisamente, nell’aprile
del 1874.
Dal 1861 ai primi anni immediatamente successivi alla
Breccia di Porta Pia, il nuovo Stato italiano si era trovato, soprattutto,
impegnato nel settore militare e internazionale, aveva combattuto una nuova e
difficile guerra contro l’Austria, era riuscito a estendere le sue strutture a
tutta la Penisola.
Era stato un cammino lento e difficile.
Il primo nemico dell’ordine interno non era apparso,
allora, quella mitica Mafia, di cui, così poco, si sapeva, laggiù, nelle
estreme province dell’isola di Giuseppe Garibaldi, bensì il banditismo a sfondo
politico del basso Lazio, della Calabria e della Puglia, e, dunque, contro i
fuorilegge, finanziati dagli agenti borbonici, si erano, soprattutto,
indirizzati gli sforzi delle autorità. Il banditismo faceva politica; la Mafia
no, a parte l’episodio di collusione con il tentativo di Maria Sofia di Baviera,
nel 1863. Era, dunque, naturale che il giovane Stato si preoccupasse, in primo
luogo, di eliminare le bande armate brigantesche. Fu una vera guerra, con
orrendi e pietosi episodi da ambedue le parti.
Le cosche mafiose della Sicilia Occidentale,
naturalmente, avevano, largamente, approfittato di questa situazione di forzata
carenza da parte delle autorità. Soprattutto in provincia di Agrigento, il
quindicennio 1860-1874 era stato terribile di estorsioni, rapimenti, delitti e
vendette.
Vi erano, anche, stati episodi sintomatici.
Il primo febbraio del 1869, a esempio, un gruppo
di ingegneri continentali, che effettuavano i rilievi per la costruzione della
nuova strada ferrata, erano stati al centro di una sparatoria, a Canicattì, da parte
di un gruppo di mafiosi, a scopo intimidatorio. Sembra che la Mafia locale
intendesse far deviare la ferrovia dal previsto tracciato, che ledeva gli interessi
di alcuni grossi proprietari terrieri. Il delegato di pubblica sicurezza della
cittadina, membro lui stesso di una potente famiglia agraria, aveva trascurato
di informare dell’accaduto il prefetto di Agrigento e, a Firenze capitale, l’allora
ministro degli interni, l’onorevole Girolamo Cantelli, aveva appreso la cosa
soltanto grazie a una segnalazione del suo collega dei lavori pubblici, al
quale gli ingegneri della Impresa
Generale Strade Ferrate Calabro-Sicule avevano fatto rapporto.
Il ministro Cantelli scrisse una dura lettera al prefetto
di Agrigento, il quale, ignorando ogni cosa, si rivolse, a sua volta, al
delegato di Canicattì, che, nondimeno, negò tutto e inviò a Firenze un rapporto
anodino, nel quale si asseriva che non vi era stata, in vicinanza del gruppo di
ingegneri, alcuna sparatoria, ma soltanto un incauto colpo partito da un revolver per l’”innocua
leggerezza di un gruppo di giovanotti”.
Gli autori della intimidazione non vennero, mai,
identificati e, negli anni successivi, nuovi tentativi simili a quello di
Canicattì si ripeterono, soprattutto, lungo la linea
Agrigento-Sciacca-Castelvetrano.
Tutto ciò dimostrava, in primo luogo, che la Mafia, al
servizio degli interessi agrari costituiti, non esitava a impiegare la violenza
contro le imprese dello Stato e, in secondo luogo, che i delinquenti
organizzati trovavano protezione e connivenza presso gli organi stessi
periferici di governo. Ciò nonostante, la nuova Italia doveva attendere, ancora
a lungo, prima di poter dare inizio a qualche forma di reazione efficace.
Il 17 aprile 1874, l’onorevole Cantelli inviava al
prefetto di Agrigento, Luigi Berti, una lettera, che può essere considerata il
documento che dà l’avvio al primo, serio tentativo di repressione antimafiosa. In
questa lettera, la Mafia viene, per la prima volta, identificata come una vera
e propria “piaga sociale”, che occorre conoscere a fondo nei suoi metodi e nei
suoi uomini, se si vuole combatterla efficacemente; mentre il Governo assicura
alle province “infette” tutto il suo appoggio nell’opera di bonifica. Sulla sua
base, la polizia si mise in moto, con molta buona volontà, sia a Palermo sia ad
Agrigento, e i risultati non si fecero attendere.
Bisogna dire che i vecchi questori piemontesi sapevano il
fatto loro.
Nel 1877, dopo tre anni di lavoro, tutti i mafiosi erano
stati, praticamente, identificati e processati. La magistratura pose una cura
particolare nel selezionare i membri delle giurie; i processi si susseguirono
ai processi e le condanne erano, sempre, dure.
È stato
calcolato che, in pochi anni, non meno di 400 mafiosi furono allontanati dalla
sola provincia di Agrigento e confinati a Lampedusa, Linosa, Ustica o sul
continente.
E
non solo!
Il governo
dell’umile “Italietta” di allora fece qualcosa di più.
La dura quanto giustificata repressione della Mafia sul
piano poliziesco venne, infatti, affiancata da tutta una attività, che ben
possiamo chiamare di carattere sociale. Il Governo inviò, in Sicilia, numerose
commissioni di deputati e senatori che, già, allora, seppero valutare il
fenomeno con profondità superiore alla odierna confusione. Apparve chiaro, a
esempio, che la Mafia non era affatto una organizzazione unitaria, che non
aveva “regolamenti” o tradizioni scritte, che si doveva combattere, caso per
caso, eliminando le varie “cosche”, una dopo l’altra, e, contemporaneamente, agendo sull’ambiente
economico e sociale delle zone colpite ed elevando il tenore di vita materiale
e culturale delle popolazioni.
Per tutto il dodicennio 1874-1885, la Mafia fu messa, praticamente,
nelle condizioni di non nuocere.
Naturalmente, non venne “estirpata”.
Ma che vuol dire, a ben guardare, la richiesta che, di
tanto in tanto, si leva di “estirpare” la Mafia?
La Mafia è un fenomeno delinquenziale, come il furto o l’omicidio ed è certo che furto e omicidio non
si possono “estirpare” né dalla Sicilia né da ogni altra regione o città d’Italia,
bensì solo prevenire, ridurre, contenere. Nel dodicennio suddetto, la Mafia, dunque,
se restò viva in potenza, scomparve come fenomeno in atto.
Non fu poca cosa!
Se poco più tardi, nuove condizioni ambientali e generali
dovevano farla rifiorire, si può dire che, almeno per allora, l’ordine pubblico
fu ristabilito insieme alla sovranità dello Stato.
Gli avvenimenti che portarono alla nuova esplosione
mafiosa, dopo il 1885, furono essenzialmente due. Il primo è costituito dalla
già ricordata estensione alla Sicilia della legge sulla coscrizione militare
obbligatoria, che quelle popolazioni, ancora largamente immature dal punto di
vista unitario, rifiutarono e avversarono, favorendo, così, la diserzione dei
giovani e, quindi, la costituzione di nuove bande di fuorilegge e di nuove
strutture di protezione dei renitenti. Il secondo, anche se è doloroso dirlo,
fu l’apparizione di Giovanni Giolitti, al centro della costellazione politica
nazionale.
“Con l’avvento di
Giolitti al potere”,
scrive Renato Candida,
“ebbe inizio la vera
epoca d’oro della Mafia. Giolitti, per conseguire favorevoli risultati
elettorali, poco addentro nella conoscenza della natura mafiosa, amò
considerare le consorterie dalla possibilità del numero dei voti che potevano
dare al partito al Governo. Uomini politici, funzionari, poliziotti inondarono
di benefici i capi-mafia ed è noto come avvenissero le elezioni politiche di quel
tempo.”
Fu un fenomemo dolorosissimo.
Giolitti, nel Settentrione, era lo statista più moderno
che l’Italia potesse esprimere, concedeva il suffragio universale, avviava alle
riforme un Paese ancora arretrato, favoriva l’inserimento delle masse popolari
socialiste nella Democrazia e con ciò – come si direbbe, con linguaggio moderno
– allargava le basi democratiche dello Stato. Tutto ciò avveniva, tuttavia, a
prezzo di una politica meridionalistica che resta come una macchia sul blasone,
per tanti lati così rispettabile, dell’”uomo di Dronero”. Giolitti, in sostanza, faceva progredire il resto d’Italia
a spese del Mezzogiorno. L’unica cosa che interessasse il suo fondamentale
scetticismo era che le province meridionali gli fornissero il più gran numero
possibile di deputati, comunque eletti, che sostenessero la sua politica e gli
facessero da contrappeso contro la rappresentanza parlamentare socialista.
Furono costoro i cosiddetti “ascari”.
Chiedevano voti e offrivano, in cambio, favori e protezione, mentre il Governo
chiudeva entrambi gli occhi sulla modalità e la provenienza dei loro suffragi.
Su questa base, una nuova generazione di mafiosi emerse
come di incanto.
In pochissimi anni, tutto riprese da capo.
Gli anni dell’ultimo decennio del secolo XIX e del primo
Novecento furono presto terribili. La Mafia, da fenomeno prevalentemente
agrario e provinciale che, di fatto, era stato fino ad allora, si trasferiva
nel cuore stesso delle città, si ramificava nelle banche, negli enti pubblici,
negli uffici di governo. Furono questi, sicuramente, gli anni più neri, neppure
lontanamente paragonabili alla esplosione che doveva verificarsi mezzo secolo
dopo, al tempo del secondo dopoguerra e del bandito Salvatore Giuliano. La
intera Sicilia Occidentale era, praticamente, in mano ai “pezzi
da novanta” e ai deputati mafiosi.
E non solo!
Già, iniziavano a manifestarsi i primi fenomeni dovuti
alla cosiddetta “mafia di ritorno”, vale a dire i delitti imputabili a coloro che erano
emigrati in America, al tempo delle prime repressioni o del rifiuto alla leva,
tra il 1874 e il 1875, e che si erano associati alla Mano Nera di New York e al
nascente gangsterismo locale e che riapparivano in Sicilia, fatti più esperti e
crudeli dalla esperienza.
Due delitti tipici caratterizzano il terribile ventennio
a cavallo del secolo. Il primo febbraio del 1883, il marchese Emanuele
Notarbartolo
venne ucciso a pugnalate da due sicari mentre viaggiava sul treno Termini
Imerese-Palermo. Era un gentiluomo di specchiata onestà, che si era,
strenuamente, opposto alla penetrazione della mafia nel Banco di Sicilia, di
cui era presidente. Come mandante dell’uccisione venne indicato un deputato, l’onorevole
Raffaele Palizzolo, membro della direzione della stessa banca e noto mafioso.
Lo scandalo fu enorme; ma il Palizzolo, condannato, una prima volta, dalla
Corte di Assise di Bologna, finì per essere assolto dalla Corte di Cassazione
di Firenze, dopo che un funzionario, evidentemente, istruito dall’alto, aveva
ritrattato la prima deposizione a lui sfavorevole. Il delitto Notarbartolo
dimostrava che la Mafia era, ormai, penetrata fino alle alte sfere di Palermo e
che i suoi agenti e protettori sedevano tranquillamente in Parlamento.
Il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola fulminavano il
poliziotto italo-americano Joe Petrosino, mentre usciva dal suo albergo di
Piazza Marina, nel centro di Palermo.
Petrosino era sbarcato dall’America, solo pochi giorni
prima. Era famoso per la lotta fortunata e tenace condotta tra New York e Chicago
contro la Mano Nera, complessa organizzazione delinquenziale di tipo mafioso e
camorristico, che reclutava i suoi aderenti, soprattutto, tra gli emigrati
siciliani e calabresi.
Successive indagini stabilirono che, come Petrosino era
venuto, a Palermo, per documentarsi sui collegamenti internazionali delle
cosche americane, così l’organizzazione internazionale mafiosa era riuscita a
farlo eliminare a migliaia di chilometri dal centro delle sue attività. A
quanto pare, a eseguire, materialmente, la sentenza di morte fu un certo Cascio
Ferro, un mafioso, da poco, rimpatriato da New York, che venne, infine,
arrestato, nel 1926, come responsabile di 20 omicidi, 8 mancati, 5 rapine, 37
estorsioni e 53 reati minori. Immediatamente, dopo la sparatoria,
improvvisamente, tutta l’illuminazione pubblica era stata interrotta nel
quartiere del delitto, documentando come l’assassino godesse di utili amicizie.
Il delitto Petrosino, uno dei più clamorosi dell’epoca,
dimostrò, a sua volta, come le strutture mafiose godessero, ormai, di estensione
internazionale e si fossero impiantate, a opera degli emigranti siciliani,
anche nella tumultuosa America di quegli anni. Si iniziava, per la prima volta,
a parlare di malavita italo-americana. New York mutuava da Palermo e da
Agrigento la pratica della protezione imposta con la violenza, dei ricatti e
del “pizzo”, prelevato sulla conclusione di ogni affare. A loro volta,
Palermo e Agrigento mutuavano dall’America i metodi della più efficiente
organizzazione criminale.
Il sopraggiungere della guerra 1915-1918 non faceva che
aggravare la situazione. Le campagne della Sicilia si riempivano di una nuova
ondata di disertori, contadini miserabili, ai quali quella guerra era tanto
estranea quanto lo Stato e la Nazione che la combattevano, ribelli contro una
società che, dopo decenni di disinteressamento, veniva, adesso, a chiedere il
loro sangue, in difesa di confini ignoti e nella esplicazione di una politica
che non era da loro né conosciuta né compresa.
Tempi amari!
Le fanterie siciliane si svenavano con valore e
rassegnazione al fronte, mentre nell’isola una manica di corruttori e di
corrotti approfittava della situazione per estendere il suo arbitrio. Tempi
così equivoci che si poté affermare che lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, “il Presidente
della Vittoria” [https://www.youtube.com/watch?v=tPpQWPKJtug], si fosse lasciato eleggere dai voti della Mafia di
Partinico, quella Mafia che “nel significato antico”, come egli stesso ebbe a dire in pieno Parlamento, nel
1921, “è
sentimento
del coraggio, della lealtà, dell’onore e della giustizia”.
Ora, con il ritorno a casa dei reduci dalla trincea, le
nuove agitazioni sociali che scuotevano il Paese, l’insegnamento di violenza
appreso al fronte, la disorganizzazione e la confusione materiale e spirituale dell’immediato
dopoguerra, la Mafia trovava nuovo terreno favorevole alla sua espansione.
Tra il 1919 e il 1920, la situazione si fece, perfino, intollerabile.
La Sicilia grondava di sangue fraterno.
I delitti si erano fatti più foschi e più crudeli.
Il 19 gennaio 1921, il procuratore generale presso la
Corte di Palermo, senatore Luigi Giampietro, aprendo l’anno giudiziario, ebbe a
dire :
“La vendetta viene
eseguita barbaramente, selvaggiamente, a tradimento, in agguato, con sassi, con
rasoi, con roncole, con armi, avvelenando, decapitando, strangolando e
aggiungendo lo sfregio al cadavere, spargendogli del petrolio e incendiandolo,
ovvero mutilandolo o facendone orrido scempio a segnalico della potenza
veramente terrificante della Mafia.”
Il quadro è esatto.
Tra il 1919 e il 1924, non meno di 2500 omicidi si
verificarono tra Agrigento e Palermo [almeno 300, solo nel 1919, nelle campagne
dell’Agrigentino, ben 109 soltanto a Canicattì], e tutti restarono impuniti.
Non vi era più proprietario terriero, commerciante o professionista che,
volente o nolente, non fosse in rapporto con la Mafia, o per appoggiarvisi e
farsene “proteggere” o come vittima di indebiti ricatti. Una nuova attività si
era aggiunta alle antiche, quella relativa alla importazione clandestina dall’Oriente
e dall’America di carichi di stupefacenti, destinati ai grossi mercati italiani
ed europei.
Lo Stato non poteva più restare inerte.
Occorre a questo punto affrontare il grosso problema
relativo alla discussa operazione che il fascismo condusse contro le strutture
mafiose, tra il 1926-27 e il 1937, attraverso l’Ispettorato Generale della
Pubblica Sicurezza per la Sicilia, creato ad
hoc, e l’opera del celebre prefetto Cesare Primo Mori. Mori, a sua volta,
aveva come suo braccio destro un altro celebre poliziotto, il commissario Giuseppe
Gueli, personaggio di primo piano nella storia della polizia italiana, sgominatore
della famosa banda Bedin, attiva
nel Veneto e in Romagna negli anni 1930, successivamente, inflessibile repressore dei moti nazisti in Alto Adige,
prima della sciagurata alleanza con la Germania hitleriana e, da ultimo,
coinvolto nella liberazione di Benito Mussolini da Campo Imperatore.
L’”Operazione Mafia” del fascismo è stata ed è, tuttora, molto
discussa. Prima di giudicarla, esaminiamo, attentamente, i suoi particolari e i
risultati che raggiunse.
Pronta a legarsi contro il potere di Roma, la Mafia è,
sempre, stata legata all’ordine sociale tradizionale e quando l’agitazione
rivoluzionaria guadagnò la Sicilia, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, si
schierò, chiaramente e dichiaratamente, con i contadini ribelli, che
moltiplicano allora le occupazioni di terre.
All’inizio degli anni 1920, la mafia fa
causa comune con i primi fascisti locali, ma la situazione cambia, rapidamente,
dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si vedono, allora, politici liberali, quali
Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi “mafioso
e fiero di esserlo” e presentare la Onorata Società come un polo di
resistenza, necessario di fronte all’evoluzione autoritaria e liberticida del
nuovo regime. Il 28 giugno 1925, nel
comizio elettorale dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm],
di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da
Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
“Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso
dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza
e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il
forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche
della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi
atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di
contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono
fiero di esserlo!”
Preoccupato
di imporre la sua autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista nell’isola,
Benito Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di briganti di ogni
tipo di poesia e di fascino e si indigna che si parli della nobiltà e dello
spirito cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto, il 2 giugno 1924, a Trapani, poi, a
Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori. Questi impiega
grandi mezzi per sradicare il banditismo classico, in particolare nella regione
montagnosa delle Madonie, nell’entroterra di Cefalù. Carabinieri e milizie fasciste suddividono
a scacchiera il paese, le “famiglie” mafiose sono identificate e i loro beni
confiscati, centinaia di arresti sono eseguiti. Unendo repressione e azione
psicologica verso le popolazioni, ottiene risultati spettacolari e la
tradizionale omertà, la legge del silenzio, non protegge più i capi mafiosi.
Alcuni mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi
legami oltre Atlantico; altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe
Genco Russo.
La
marchiatura sistematica del bestiame, il licenziamento di numerosi gabellotti, le inchieste condotte sul
patrimonio di alcuni sospetti permettono, allora, di portare colpi molto duri
alla Mafia.
Mori è, tuttavia, ringraziato, nel giugno
del 1929, dopo aver fatto scomparire il banditismo classico della “piccola
Mafia”.
Ciò è sufficiente per Mussolini,
soddisfatto di essere uscito vincitore da questa prova di forza; ma intenzionato
ad accattivarsi i notabili siciliani, che, adottando la camicia nera, si sono,
indirettamente, messi al riparo di inchieste troppo approfondite.
L’Onorata Società non è, dunque,
smantellata e la Seconda Guerra Mondiale le fornisce l’occasione di ritrovare
tutto il suo potere.
Mori operò sulla base di tre iniziative, due delle quali
perfettamente giuste e accettabili e l’ultima, invece, resa possibile soltanto
dalla sospensione delle garanzie costituzionali proprie del periodo. Il primo
provvedimento, estremamente utile, fu quello relativo alla istituzione, in
Sicilia, di un apposito servizio speciale denominato Anagrafe del Bestiame, che
rese possibile agli organi di polizia il riconoscimento delle greggi. Ogni capo
di bestiame doveva portare, saldato all’orecchio, un piombo con la sigla del
comune di appartenenza e un numero progressivo. La misura si dimostrò
notevolmente efficace per la lotta contro l’abigeato e la macellazione
clandestina, sulla cui base si era sviluppata una delle più potenti
organizzazioni mafiose interprovinciali.
Mori, inoltre, impose che la nomina dei “campieri”, i
famosi guardiani dei feudi, dovesse essere subordinata al nulla osta da parte
delle questure. Anche questo provvedimento fu giusto e utile. In pratica, a
meno che non si verificasse qualche collusione, in alto loco, venne, quasi sempre, evitato che pregiudicati e noti
mafiosi esercitassero un mestiere così aperto e facile alla prevaricazione. La
pratica della violenza nelle campagne subì un crollo verticale.
Molto discutibile, invece, il terzo provvedimento, vale a
dire l’estensione indebita delle competenze e delle attività delle commissioni
provinciali di confino.
Mori e Gueli non guardarono, certo, per il sottile!
Avevano a loro disposizione una legge già di per sé
illiberale e vessatoria, come quella che permetteva, senza pubblico processo,
senza possibilità di appello e senza la garanzia di un difensore, l’invio al
confino di qualsiasi cittadino segnalato alla Prefettura dagli organismi di
Pubblica Sicurezza.
I due applicarono questa legge con estrema durezza.
In pochi anni, migliaia e migliaia di cittadini furono
allontanati dai loro paesi e l’innocente venne, spesso, coinvolto insieme al
colpevole, il piccolo mafioso punito più del capo-mafia, il corrotto più del
corruttore e il debole più del violento. In sostanza, soffiò sulla Sicilia un
vento di colonialismo, che, alla lunga, non poteva generare che altri odi e
nuovi risentimenti. Interi paesi furono, praticamente, spopolati di uomini.
Invece di isolare i veri mafiosi e colpirli duramente, accadde che tutta la
popolazione dei centri “indiziati” dovette pagare indiscriminatamente. Dalla sola Cattolica
Eraclea, a esempio, vennero confinati 245 individui. Da Palma Montechiaro ben
211, più di 1000 tra Canicattì, Bivona e Favara. Poco, invece, fu fatto contro
le cosche palermitane della “mafia dei giardini” e della “mafia dei mercati”, al cui vertice emerse, in quegli anni, il famoso Zì
Gasperino, uno dei più spietati controllori del racket alimentare.
E, mentre Mori e Gueli combattevano con durissimo rigore
i gregari, certe collusioni si verificarono, invece, a diverso livello, quando
la Mafia, sempre pronta a adeguarsi alle nuove situazioni, entrava nel
complesso gioco delle rivalità politiche e personali, quasi sempre a sfondo
affaristico, che si determinavano tra podestà e segretari federali, tra gruppi
di gerarchi locali e tra fascisti e vecchia classe dirigente siciliana,
sedicente “liberale”. Non vi è dubbio che, ad alto livello, le strutture
mafiose, più che combattute, fossero assimilate e inglobate dal fascismo.
Il risultato di tutto ciò fu che una relativa
tranquillità venne assicurata, per quegli anni, alle province martoriate. La Bassa
Mafia era stata messa in condizioni di non nuocere da Mori e da Gueli, a forza
di deportazioni, arresti indiscriminati, retate e vessazioni che colpivano pressoché
tutti. L’Alta Mafia poteva dirsi, in molti casi, tranquillizzata e soddisfatta
dalle raggiunte posizioni di potere diretto: non aveva più bisogno della
violenza per conseguire i suoi fini economici, le bastava utilizzare le forze
dello Stato a livello locale. Le ultime grosse retate furono compiute nel
1937-1938, e si era, ormai, alla vigilia dei tempi nuovi.
Vi è da aggiungere un’altra considerazione.
Già, nel decennio 1874-1885, lo Stato italiano si era
impegnato a fondo e con estrema durezza, contro le strutture mafiose. Ma, come
abbiamo visto, le misure di polizia prese, in quegli anni lontani, erano state
accompagnate da tutta una attività di carattere sociale, rivolta a sanare le
condizioni obiettive che favorivano la crescita del fenomeno. Il fascismo,
purtroppo, non seppe fare quello che era stato, almeno, tentato dall’”Italietta” del
secolo precedente. In luogo di dare la terra ai contadini ed elevarli alla
condizione di liberi cittadini, li irregimentò e li mandò a combattere. Il
feudo rimase la realtà sovrana dell’interno dell’isola e le popolazioni
divennero sempre più un gregge di sudditi, anziché una comunità di produttori.
A tutti venne chiesto soltanto di “obbedire” e le conseguenze si pagarono, dopo pochissimi anni.
Mutate le condizioni politiche e ambientali, dopo il
durissimo periodo bellico, che la Sicilia pagò in fame e distruzioni, forse,
più di ogni altra regione d’Italia, la Mafia tornò a fiorire.
Dalla fine del XIX secolo, la miseria aveva spinto verso
il Nuovo Mondo numerosi siciliani, che avevano costituito, a New York e in
altre grandi città dell’America del Nord, importanti comunità, ben presto taglieggiati da
compatrioti intraprendenti, preoccupati di assicurare loro “protezione”.
Gli anni
1920 e la prosperità che li accompagna oltre-Atlantico vedono la Mano Nera dell’inizio
del secolo sostituita dall’Unione Siciliana, antenata di Cosa Nostra, in seno
alla quale si
distinguono nel modo che conosciamo, con il favore del proibizionismo, Al
Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Frank Costello e Joe Profaci.
Dal 1942, gli americani si preoccupano di
un futuro sbarco in Sicilia e beneficiano in questa prospettiva dei consigli avveduti
di Lucky Luciano, uno dei più celebri mafiosi degli Stati Uniti, che,
condannato a cinquanta anni di carcere, è liberato su parola per la
circostanza.
E, con lo sbarco anglo-americano, nel
luglio del 1943, i tre quarti dei sindaci, designati dal governo militare
alleato, messo in piedi nell’isola, sono noti mafiosi. Allorché l’incertezza
resta circa la evoluzione politica futura dell’Italia, questi “notabili” sono
interlocutori ideali per gli americani e rivendicano anche la costituzione di
una Repubblica siciliana indipendente.
La Mafia è dietro questa impresa
separatista, che incarna allora Salvatore Giuliano. Accusato di mercato nero,
questo giovane contadino di Montelepre ha ucciso un carabiniere, il 2 settembre
1943, e si è dato alla macchia nelle montagne vicine, dove numerosi altri
giovani braccianti, in situazione molto precaria, lo raggiungono, nel corso dei
mesi successivi.
“Bandito d’onore”, Giuliano non esita ad
attaccare i carabinieri e a far beneficiare di una parte delle sue ruberie la misera
popolazione della sua terra.
Guadagna immenso prestigio!
Nell’estate del 1945, alcuni monarchici,
che sostengono il movimento separatista, lo nominano “colonnello” dell’Esercito
Volontario di Indipendenza Siciliana [EVIS]. Ma la concessione, nel 1946, di
uno Statuto di Autonomia all’isola priva i separatisti del sostegno popolare; mentre
la Mafia vede, immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di
azione che sarà, ormai, la sua, nel quadro della nuova amministrazione
regionale.
Le elezioni di aprile del 1947, che suggellano
la sconfitta della corrente separatista, sono segnate da una forte spinta della
sinistra, in un contesto di bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana.
La Mafia ha, rapidamente, fatto la sua
scelta.
Si tratta, ora, di lottare contro la
sinistra e, più in particolare, contro i comunisti.
Giuliano interviene nella attuazione di
questa nuova strategia.
Il primo maggio del 1947, Giuliano attacca
un raduno di sinistra a Portella della Ginestra e l’operazione fa più vittime.
Altre azioni analoghe sono condotte nel
corso delle settimane seguenti. Ma Giuliano non è che un uomo di mano, che
rischia di divenire troppo loquace, ed è assassinato il 5 luglio 1950.
Allorché sembra aver perduto la sua
influenza con il favore della instaurazione del regime repubblicano, la Mafia
stabilisce, di fatto, dei legami stretti con la Democrazia Cristiana, divenuta
il primo partito della Sicilia. Può, così, intervenire nell’amministrazione della regione, dotata, ormai, di una larga
autonomia e il sistema clientelare, che faceva la sua forza, è, rapidamente,
ristabilito.
La Legge della Riforma Agraria del 1950 –
la cui applicazione è controllata dall’amministrazione regionale – permette tutte
le speculazioni e, al tempo stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli
agricoltori che debbono beneficiarne.
Il controllo della creazione di pubblici
impieghi – che rientra nelle competenze dell’autorità regionale – favorisce, egualmente, il clientelismo e
contribuisce allo sviluppo dell’influenza mafiosa.
L’ottenimento di licenze edilizie, nel
contesto del boom immobiliare del
dopoguerra – Palermo è stata, in effetti, distrutta, in larga parte dai
bombardamenti alleati – permette di privilegiare le imprese mafiose, che sanno,
in cambio, mostrarsi generose, quando viene il momento delle campagne
elettorali…
L’espansione economica dei “Trenta Gloriosi”
genera condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività mafiose.
Racket, speculazione immobiliare, contrabbando di
sigarette e traffico di droga divengono campi di attività, particolarmente
redditizi.
Le famiglie si dilaniano per il controllo
di alcuni settori, perché la Mafia dei giardini o dei campi, molto presente
negli agrumeti della Conca d’Oro, dove controlla il mercato fondiario e l’irrigazione,
si scontra con la Mafia delle città o dei cantieri, specializzata nell’edilizia
e nel riciclaggio del danaro sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio presto
favorito dall’instaurazione della libera circolazione di capitali nell’Europa
in costruzione.
Numerose vittime scompaiono, allora, di cui
nessuno troverà, mai, i cadaveri, discretamente colati nel cemento degli
immobili in costruzione…
Lo sterminio del clan Navarra, di Corleone, da parte di Luciano Leggio [1925-1993]
è uno degli episodi più sanguinosi di queste lotte senza quartiere.
Prima di concludere questa breve storia delle insorgenze
mafiose dobbiamo esaminare, più da vicino, il fenomeno che va sotto il nome di “mafia
di ritorno” e che implica l’analisi dei rapporti intercorrenti tra
tre diverse, ma inaspettatamente collegate “centrali”: le “cosche” del Palermitano, il gangsterismo di New York e di Chicago
e la politica degli anglo-americani, in Italia, tra il 1942 e l’inizio del 1945.
La prima ondata di mafiosi siciliani, che ebbero a
riversarsi al di là dell’Atlantico fu quella determinata, come abbiamo visto,
dalla prima fase delle repressioni tra il 1874 e la fine del secolo scorso. I
delinquenti siciliani, che sfuggivano alla cattura e che si mescolavano con la
grande diaspora degli umili contadini, costretti a “fare fagotto” da tutta l’Italia meridionale, si associarono alla nota
Mano Nera, che fu, inizialmente, nulla più che una società di mutuo soccorso
tra gli emigranti italiani più sfruttati. Ben più grave di conseguenze fu,
successivamente, il fatto che gli anni della seconda ondata – quando i mafiosi
più compromessi lasciarono la Sicilia per non cadere nella rete di Mori – coincisero,
dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, con gli anni del proibizionismo, vale a
dire con l’aprirsi di una situazione che sembrava, appositamente, studiata per
favorire il radicarsi di organizzazioni e strutture fuori dalla legge a
carattere delinquenziale di massa.
Il racket dell’alcool,
in America, aveva, già, in partenza, tutte le caratteristiche delle attività
commerciali illegali, che erano fiorite in Sicilia. Era inevitabile che i
tecnici del rifornimento clandestino, del ricatto, della “protezione” e
del “pizzo”, provenienti dalla Sicilia, venissero, subito,
irreggimentati nelle nuove bande americane.
Tra il 1930 – anno cruciale della repressione Mori – e il
1950 – anno della famosa inchiesta Kefauver – i delinquenti, scacciati dall’Italia,
assunsero il pieno controllo di tutte le attività illegali americane.
Franco Castiglia, detto Frank Costello, ex-mafioso, fu il
boss del racket di New York, mentre
Al Capone regnò su Chicago.
È il
tempo di Albert Anastasia; Charles Lucky Luciano; Michael Coppola; Antonio Carfano, detto Little
Augie Pisano; Frank Nitti; Settimo, detto Sam o Sammy Accardi; Joe Doto detto Adonis; Paul “The Waiter” Ricca; Charles
“Trigger Happy” Fischetti, Richard “Richie Nerves” Fusco.
I giorni della “Anonima Delitti”.
Dal 1933
in poi, come venne dimostrato dalla inchiesta del
senatore Estes Kefauver, questa gente entrò, indubbiamente, in collusione con
una parte del Partito Democratico. A cavallo tra la Tammany Hall, l’Unione
Siciliana e le varie società di mutuo soccorso tra emigranti poveri dall’Italia,
dall’Irlanda e dai Paesi slavi, tra il sindaco William O’Dwyer [1890-1964] e
alcuni uomini politici corrotti, i bosses
organizzano le elezioni, i sindacati, le convenzioni, i municipi. Lo stesso Franklin Delano Roosevelt [1882-1945] [http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/26/Quando_Roosevelt_chiese_aiuto_boss_co_9_100826021.shtml]
è impotente di fronte alla “Piovra” della malavita, concentrata nelle grandi città dell’Est,
e solo la guerra, con la sua ondata di disciplina patriottica, riesce a mettere
un freno al dilagare della corruzione.
La guerra ha, anche, altre conseguenze tra i grandi
mafiosi restati in Sicilia, mimetizzati fino ad allora ai margini del fascismo
o dallo stesso, come è stato giustamente detto, “oppiati” e resi soddisfatti. Furbi, bene informati dai loro
complici americani, sempre pronti a adeguarsi alle nuove situazioni, ancora
prima che si deliniino, i grandi mafiosi siciliani comprendono, subito, che Benito
Mussolini perderà la guerra e che occorre prepararsi a tempi nuovi e a nuove
situazioni per mantenersi a galla e per esserne i nascosti padroni.
La Mafia diviene, allora, antifascista, ma non già per
amore di Democrazia, come non fu antiborbonica, un secolo prima, per puro amore
di Libertà, bensì per acquistarsi meriti in cambio di protezione.
La Mafia americana mise a disposizione dei comandi americani
la sua conoscenza di uomini e cose siciliane, i suoi canali di informazioni, la
sua rete di collusioni.
Si offrì come strumento di spionaggio.
I comandi americani ebbero il torto di accettare questa
offerta.
La rete mafiosa forniva loro una base per il giorno in
cui avrebbero messo piede in Sicilia.
I loro agenti segreti si appoggiarono ai nominativi
forniti da gente come Luciano o Adonis; lo sbarco in Sicilia fu preparato da
una equivoca rete di esperti dello Strategic
Service di Washington e di appartenenti alle “cosche”.
All’indomani dello sbarco del 10 luglio 1943, il 70% dei
sindaci nominati, in Sicilia, dagli Alleati, erano mafiosi: le autorità di
occupazione avevano in tasca i nominativi degli “amici degli amici”, forniti dai capi-banda italo-americani in cambio di
riduzioni della pena e promesse di estradizione.
E non solo!
Tutta un corrente politica, in America come in
Inghilterra, pensava che l’Italia in quanto tale dovesse essere punita. Alcuni
generali ragionavano in termini di vecchia strategia e sembrava loro che il
distacco della Sicilia dallo Stato continentale avrebbe potuto essere, ancora,
utilissimo per il futuro controllo del Mediterraneo.
Il movimento separatista siciliano traeva forza, d’altra
parte, dalle miserrime condizioni dell’isola, dove le rivolte per fame si
susseguivano a Palermo, a Partinico, a Catania e nelle campagne dell’interno.
Come conseguenza della disgregazione sociale, portata
dalla guerra, il mercato nero generò il banditismo.
E il banditismo prese contatti con la Mafia e si mise al
suo servizio.
E, poichè la Mafia sceglieva una politica, il banditismo
diveniva, a sua volta, un fatto politico.
Le bande pre-Giuliano che presero nome di Labruzzo,
Cassarà e Lombardo, nella Sicilia Occidentale, e Russo, nel Catanese, furono il
prodotto di questa nuova situazione.
Sulla collusione mafia-banditismo-politica separatista
degli anni tra il 1943 e il 1950 si è scritto molto. Bisogna riconoscere che, a
seguito di una nuova attività repressiva, che, tuttavia, non ha mancato di
lasciare uno strascico di dubbi e di polemiche, come conseguenza di certi
metodi non ortodossi, la Mafia, dopo il 1950, subisce un altro colpo o almeno
un’altra battuta di arresto.
Le statistiche parlano chiaro.
Tra il 1950 e il 1955, i reati accertati in Sicilia
tendono a diminuire. Gli omicidi passano da una media di 45 a una media di 33 all’anno,
i furti si riducono della metà, da oltre 700 a poco più di 400.
Ora, accanto all’attività repressiva di tipo poliziesco,
la Sicilia conosce una nuova fase di sviluppo sociale, l’avvio alla riforma
agraria che, bene o male, dà la terra e la casa a decine di migliaia di
contadini; la scomparsa del feudo; l’inizio dell’industrializzazione.
E, come sempre, la Mafia viene messa in crisi dalla
riforma sociale. Si mimetizza o emigra sotto l’imperversare della repressione
poliziesca e militare, per poi rialzare il capo appena la pressione venga
allentata; ma ben altre difficoltà deve affrontare, quando mutano le condizioni
sociali ed economiche dell’ambiente, quando i contadini passano dalla
condizione di bracciante, costretto a mendicare una giornata di lavoro, a quella
di piccolo proprietario indipendente e i disoccupati cittadini trovano qualche
prospettiva in una attività economica, avviata verso soluzioni di progresso.
Scompare, dunque, la Mafia?
Al contrario!
Il fenomeno, come abbiamo visto, ha mille volti e una
capacità di adattamento quasi-totale. Negli anni in cui, dopo la liquidazione
di Salvatore Giuliano e delle connivenze politiche separatiste, la Mafia sembra
quasi battuta e le statistiche delinquenziali appaiono in regresso, l’organizzazione
cambia, ancora una volta, uomini, metodi e strutture. Assistiamo, dunque, in
questi anni, al seguente fenomeno: le strutture mafiose si fanno sempre più
urbane e trasferiscono il loro interesse dalle fonti della produzione agricola a
quelle del commercio, dell’edilizia, della industria nascente. I vecchi rackets paesani sono svuotati di
contenuto economico; ma sorgono nuove incrostazioni, laddove il progresso
economico muta il volto dell’isola.
La Mafia diviene, allora, più violenta e più del potere
locale o la considerazione che procura, è la ricchezza che costituisce l’obiettivo
delle nuove generazioni. Una ”Mafia di capi di impresa”
corrotti, organizzata
in una vera multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia
rurale, derivata dagli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di somme
astronomiche, tratte da attività illegali, e docilità di impiegati di imprese
mafiose costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, capi, che non
fanno affatto fatica a prendere il controllo di settori interi della economia
siciliana o italiana.
Il potere economico, derivato dal traffico di droga,
procura di nuovo i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato italiano, in
seno al quale diviene possibile “accaparrarsi” preziose complicità, ciò di cui testimoniano i “sospetti”
molto seri che si sono portati su Giulio Andreotti, presidente del Consiglio
per sette mandati e vero centro di gravità del sistema politico italiano, per
dicersi decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in Parlamento, nel
1962, non ha, così, ottenuto che modestissimi risultati e un nutrito numero di
funzionari, di operatori delle Forze dell’Ordine e di magistrati hanno pagato
con la loro vita la loro volontà di lottare, seriamente, contro la criminalità
organizzata.
La serie di assassinii, che ha segnato gli anni 1970, ed
è culminata, nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione delle menti,
soprattutto, in Sicilia, dove la Mafia non può più beneficiare del consenso
tacito che le garantiva una impunità pressoché totale. È,
ormai, con il terrore che deve imporsi, ma le inchieste di magistrati, quali Giovanni Falcone e Ferdinando Imposimato
permettono di portarle colpi sempre più seri.
L’arrivo a Roma, nel 1984, di Tommaso
Buscetta, estradato dal Brasile, costituisce una svolta nella lotta contro la
Mafia. Trafficante di droga di grande levatura, aveva lasciato Palermo, nel
1981, per sfuggire ai killers di
Michele e Pino Greco, i nuovi Corleonesi. Gli assassinii di suo cognato, di due
figli, di un genero e, infine, di suo fratello – che, semplice artigiano, non
aveva niente a che fare con la Mafia – lo indussero a parlare.
Al termine di una confessione di un mese,
3mila carabinieri e poliziotti possono procedere, il 29 settembre 1984, a una retata di vasta
portata che permette di arrestare diverse decine di mafiosi, immediatamente
portati nelle prigioni del Nord dell’Italia.
Dopo Buscetta, Salvatore Contorno,
superstite di una famiglia decimata dai Corleonesi, Vincenzo Sinagra e una
ventina di altri pentiti permetteranno di accumulare prove e, nel febbraio del
1986, 475 imputati su 840, compaiono davanti al Tribunale di Palermo. Questo,
di fatto, è un vero bunker, dove
misure di sicurezza eccezionali sono state prese: la sola costruzione degli
edifici è costata 54 miliardi di lire, vale a dire poco meno di 28 milioni di
euro.
Il dossier
dell’istruttoria conta pià di 8mila pagine, riunite in 40 volumi e riguarda
circa 100 omicidi. Altri 22 volumi raccolgono i documenti relative ai conti
bancari e al riciclaggio di danaro sporco. 2mila carabinieri e poliziotti sono
incaricati della protezione del tribunale, dei magistrati, dei testimoni e
della quindicina di famiglie delle vittime che hanno avuto il coraggio di
costituirsi parti civili, senza trovare un avvocato siciliano che accettasse di
difenderli. Buscetta, al quale un intervento di chirurgia plastica ha
modificato i tratti del volto, testimonia, il 7 aprile, fuori della vista degli
accusati e del pubblico.
Il processo si trascina, perché i mafiosi e
i loro avvocati utilizzano tutti i cavilli giuridici, che permettano loro di
guadagnare tempo, e, il 7 ottobre, la Mafia uccide un bambino, la cui famiglia,
addetta alla pulizia del tribunale, si era rifiutata di lasciarsi corrompere…
Forza resta, tuttavia, alla Giustizia e
pesanti condanne cadono sui colpevoli.
Ma la Mafia non è morta…
E la sua vendetta si abbatterà, il 23
maggio 1992.
Nella Strage di Capaci perdono la vita il
magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e 3 agenti
della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montanaro. Gli unici
sopravvissuti sono Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe
Costanza.
Il 19 luglio seguente, è il giudice Paolo
Borsellino a essere ucciso con i 5 agenti della scorta, Agostino Catalano,
Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, nella
Strage di via DAmelio.
La sera del 27 luglio, è Giovanni Lizzio,
ispettore capo della Squadra Mobile della Questura di Catania – responsabile
della sezione anti-racket – a essere
abbattuto, nel quartiere periferico di Canalicchio, mentre è fermo in auto
davanti a un semaforo [http://www.cadutipolizia.it/Fonti/Polizia1981/1992Lizzio.htm].
Poco prima di morire, il 18 luglio, Lizzio aveva condotto una operazione,che
aveva consentito la cattura di 14 uomini del clan Cappello, grazie alle rivelazioni di un pentito.
Di fronte a una opinione disgustata da
questi attentati odiosi, le istituzioni sono, dunque, costrette a reagire.
Due giorni dopo la morte di Giovanni
Falcone, il 25 maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro [1918-2012] è eletto Capo
dello Stato al sedicesimo scrutinio.
E, il 28 giugno, dopo una crisi iniziata da
83 giorni, nasce il Governo Amato.
Il 7 agosto, un decreto legge Antimafia
permette di accelerare le procedure giuridico-poliziesche e accorda poteri
eccezionali ai magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità
organizzata.
Il 7 settembre, uno dei capi della Mafia, Giuseppe
Madonia, figlio di Francesco Madonna, capo indiscusso della provincia di
Caltanissetta e membro della commissione regionale di Cosa Nostra, è arrestato,
dopo dieci anni di latitanza, a Longare.
Seguiranno altri arresti.
Poco tempo dopo, l’inchiesta Mani Pulite, condotta
dai giudici di Milano contro la corruzione – con il sostegno massivo della opinione
pubblica – permette, con il favore delle elezioni di giugno del 1993, la
rigenerazione di un sistema politico italiano tanto sclerotizzato quanto
incapace e la Giustizia può, così, segnare punti decisivi; mentre si attuano
nuovi rapporti di forza elettorali, di cui fanno le spese i comunisti, a
sinistra, e la Democrazia Cristiana, a destra.
La lotta contro il crimine organizzato
porta, regolarmente, i suoi frutti, ma se centinaia di mafiosi sono stati
arrestati, tra i quali gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,
le riforme della Giustizia, che sono, oggi, allo studio, in Italia, rischiano
di rimettere in questione questo bilancio positivo. Sono considerate nell’ottica
della difesa dei diritti del cittadino contro l’arbitrio di un giudice, ma
autorizzando, a esempio, – in nome del “sospetto legittimo” circa l’imparzialità
di un magistrato – lo spostamento di un processo da una corte a un’altra, si potrebbero
offrire ai mafiosi e ai loro avvocati seri mezzi per intralciare l’azione della
Giustizia, come aveva fatto valere l’ex procuratore nazionale
antimafia, Pier Luigi Vigna [1933-2005].
Che fare?
Conosciuta a fondo la nuova Mafia, come speriamo sia in
grado di fare la nominata Commissione Parlamentare, occorre combatterla. Tutta
la esperienza del passato ci dice che due sono le strade da battere. Quella del
rigore della legge, affidata a uomini nuovi e decisi e quella della riforma
sociale ed economica, l’unica capace di condurre a quella “rivoluzione
delle coscienze”, che è il vero, definitivo nemico della Mafia.
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
Non ho mai
chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso.
E poi ci sono
rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno.”
Paolo
Borsellino
“Perché avete fatto uccidere Giuliano?
Perché avete turato questa bocca?
La risposta è unica: l’avete turata perché Giuliano avrebbe
potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora
aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le
racconteranno.”
Quel
Primo Maggio del 1947 sul podio naturale, coperto di bandiere rosse, che, in seguito, sarà chiamato “Sasso di
Barbato”, sale Giacomo Schirò,
segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, per il tradizionale
comizio.
Circa 2mila persone del movimento
contadino si sono date appuntamento per festeggiare la vittoria dei partiti di
sinistra, nelle prime elezioni svoltesi il 20 aprile; la fine della dittatura e
il ripristino delle libertà. Cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni
di sottomissione a un potere feudale; le masse contadine vedevano, finalmente,
realizzarsi le loro aspirazioni.
È la
prima Strage di Stato dell’Italia repubblicana.
Per Girolamo Li Causi, che si reca alla Prefettura
di Palermo, è una rappresaglia di Mafia. E dello stesso avviso si mostrano,
nell’ufficialità, i carabinieri. Di altro avviso si dichiara, invece, l’ispettore
di Pubblica Sicurezza Ettore Messana:
“Per me
la strage è stata compiuta da Giuliano.”
E, soggiunge:
“Ho
fatto semplicemente un’ipotesi. Quella è zona dove comanda Giuliano.”
Sotto accusa finirono gli agrari, la mafia
e la banda Giuliano, che, con la copertura politica, non avevano esitato a
sparare sulla folla inerme, pur di bloccare le lotte contadine e l’avanzata
della sinistra.
Mario Scelba negò la matrice politica dell’episodio,
mentiva e sapeva benissimo di mentire…
Come
sostiene Andrea Camilleri:
“L’offesa
peggiore che l’onorevole Mario Scelba,
ministro dell’interno e siciliano, potesse fare agli innocenti morti di
Portella della Ginestra e all’intelligenza degli italiani [ma dei siciliani in
particolare] fu quella di sostenere in Parlamento che l’eccidio del 1° maggio
1947 non aveva retroscena politici di sorta: il bandito Giuliano e i suoi
uomini avevano mitragliato uomini e donne, vecchi e bambini, alla Festa del
Lavoro, di loro personale iniziativa. E che interesse aveva il bandito a farsi
nemica una popolazione se non fosse stato certo di una protezione, di una
copertura più solida di quella che intimoriti contadini potevano offrirgli.”
Sono
passati 68 anni, ma
come ogni atroce fatto di sangue, anche questa strage è avvolta nel mistero,
conosciamo i nomi degli esecutori del massacro, ma non conosciami i nomi dei
mandanti.
Non li conosciamo o ci fingiamo di non
conoscerli?
Per quanto la
ricerca dei mandanti non sia, mai, approdata a conclusioni certe, risultarono
evidenti le responsabilità degli ambienti politici siciliani, interessati a
intimidire le masse contadine che reclamavano la terra e avevano premiato il
Blocco del Popolo, nelle elezioni del 20 aprile 1947. L’ipotesi di collusioni e
compromissioni di tali ambienti con il banditismo fu rafforzata dall’evolversi
degli avvenimenti che portarono alla fine di Salvatore Giuliano.
Consapevole di essere divenuto ormai
scomodo a tanti che lo avevano sostenuto, Salvatore Giuliano iniziò a fare una
serie di allusioni sui suoi rapporti con noti esponenti politici [chiamando in
causa, perfino, l’allora ministro dell’interno, l’onorevole
Mario Scelba], che avrebbero garantito a lui e ai suoi uomini l’espatrio
e l’impunità, in cambio dell’azione di Portella della Ginestra, in una lettera
inviata, il 2 ottobre 1948, all’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano.
Scelba smentì il contenuto di quella
lettera, rafforzando l’idea che i banditi si muovessero su indicazione della Mafia.
Salvatore Giuliano
passò, allora, alla vendetta trasversale e alzò il livello della sfida sul
piano militare, scatenando una nuova offensiva, che ebbe il suo culmine, il 19 agosto 1949, nell’eccidio di
Bellolampo-Passo di Rigano, in cui persero
la vita 7 carabinieri, mentre altri 11 rimasero feriti, tra cui il colonnello
Ugo Luca.
A cadere sotto i colpi di lupara di
Salvatore Giuliano sono esponenti delle istituzioni e politici democristiani:
Luigi Geronazzo, Vincenzo Campo, Santo Fleres [indicato dall’autorità
giudiziaria come capomafia di Partinico],
Leonardo Renda, compare dell’onorevole Bernardo Mattarella.
Il re di Montelepre è divenuto un problema:
deve essere eliminato e il compito viene assegnato al colonnello dei
carabinieri Ugo Luca. Pochi giorni dopo, il ministero dell’interno decideva la
soppressione dell’Ispettorato Generale di Polizia, in Sicilia, e costituiva il
Comando Forze Repressione Banditismo, con lo stesso colonnello Ugo Luca al
comando.
Giuliano ha compreso e, il 30 giugno 1950, in una lettera a L’Unità:
“Scelba
vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi
responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo
la vita.”
Giuliano venne ucciso il 5 luglio 1950,
cinque giorni dopo la lettera inviata al quotidiano comunista.
Il suo luogotenente
di Giuliano, Gaspare Pisciotta, sarà
avvelenato in carcere, il 9 febbraio 1954, dopo aver preannunciato clamorose
rivelazioni sui mandanti della strage.
Per i
mandanti solo ipotesi: Mafia,
politica, iniziativa personale, fascisti, servizi segreti americani,
preoccupati dell’espansione delle sinistre in Italia, latifondisti siciliani…
Conosceremo,
mai, la verità?
Forse,
NO, ma avremo tentato!
Come
dico, sempre, meglio tentare e non riuscire che non riuscire a tentare.
Scena
dal film Salvatore Giuliano [1962] di Francesco Rosi.
“Di
sicuro c’è solo che è morto”,
con questo titolo, passato alla Storia del
giornalismo moderno, L’Europeo di
Arrigo Benedetti lanciò, nel numero
del 16 luglio 1950, il primo J’accuse!
sulla strana morte di Salvatore Giuliano.
Autore della inchiesta fu Tommaso Besozzi
[1903-1964], uno dei migliori
inviati speciali della sua generazione: i quotidiani avevano scritto che il
bandito era stato ucciso, a Castelvetrano, in uno scontro a fuoco con 4
carabinieri; ma la faccenda presentava molti lati oscuri.
Mettendo a confronto le testimonianze,
esaminando i reperti e le fotografie, parlando con la gente, Bezozzi scoprì, a
poco a poco, che la pubblica opinione era stata ingannata da una tragica messinscena.
Mentre le fonti ufficiali insistevano sulla
veridicità della prima versione, la stampa si impegnò a ristabilire i fatti:
presto fu chiaro per tutti che Salvatore Giuliano era stato ucciso altrove con
un colpo a bruciapelo, quindi deposto nel cortile di casa dell’avvocato
Gregorio Di Maria, a Castelvetrano, e bersagliato a raffiche di mitra.
Si scoprì che il cosiddetto “Robin Hood della Conca d’Oro” era stato
venduto dalla Mafia di Monreale ai carabinieri del Comando Forze Repressione
Banditismo. Come, spesso, accade nelle vicende siciliane; nessuno, tuttavia,
riuscì a fare piena luce sull’episodio.
Al processo che si tenne, a Viterbo, per la
strage di Portella della Ginestra, l’ex-luogotenente
Gaspare Pisciotta denunciò le collusioni tra fuorilegge, polizia e mafia e
annunciò altre rivelazioni.
Pisciotta non parlò più, perché venne
avvelenato, il 9 febbraio 1954, con un caffè alla stricnina nella cella
dell’Ucciardone, a Palermo. E il suo assassinio fece estinguere il procedimento
penale in corso per l’omicidio di Salvatore Giuliano.
Nella
foto, le 11 vittime della
strage: Francesco Vicari, Serafino Lascari [15 anni], Vito Allotta, Giovanni
Megna [18 anni], Giorgio Cusenza, Margherita Clesceri, Vincenza La Fata [8
anni], Giuseppe Di Maggio [13 anni], Castrenze Intravaia, Filippo Di Salvo
[morirà, dopo atroci sofferenze, il successivo 11 giugno] Giovanni Grifò [12
anni].
Da allora, le morti misteriose dei
personaggi implicati nella vicenda si susseguirono: dopo Ciro Verdiani, l’alto
funzionario della polizia compromesso dalle rivelazioni di Viterbo, morì anche
il giovane avvocato Geloso Cusumano, indicato come l’“ambasciatore” dei
mandanti di Portella; e, il 20 settembre 1960, con sette colpi di pistola, fu
ucciso, a San Giuseppe Jato, un paese vicino a Palermo, Benedetto Minasola, il
mafioso di Monreale, che avrebbe preparato con Pisciotta il tradimento di
Giuliano.
Neppure Francesco Rosi, che, nel 1962, ha realizzato con il
film Salvatore Giuliano, uno dei
classici del cinema italiano, è, mai, riuscito a penetrare fino in fondo il
mistero della morte di Turiddu.
Si è parlato molto, all’epoca del film, di una rete che i mafiosi,
preoccupati dallo strapotere dei banditi, avessero teso intorno ad alcuni
uomini di Giuliano, in collaborazione con i carabinieri.
Di certo, fu con la connivenza della Mafia
che fu catturato, a Villa Carolina, una costruzione moderna sulla strada di
Monreale, il pericoloso Frank Mannino, tornato, in Sicilia, dopo aver passato
qualche anno nella Legione Straniera,
in Tunisia.
E, nella villa o negli immediate vicinanze,
furono consegnati anche Castrense Madonia e Nunzio Badalamenti, che entrarono
in un camion carico di ceste,
convinti di venire portati da Salvatore Giuliano e si ritrovarono, invece, a
Palermo, nella caserma dei carabinieri.
Secondo alcuni, Giuliano era stato attirato,
a Villa Carolina, con un pretesto e ucciso sul posto, poi, trasportato cadavere
a Castelvetrano; secondo altri, l’uccisione era, invece, avvenuta proprio in
casa dell’avvocato Gregorio Di Maria, nel cui cortile fu ritrovato, la mattina
del 5 luglio 1950, il corpo senza vita di Turiddu.
“Sei
ore”,
diceva Rosi,
“soltanto
sei ore. Dopo aver studiato per anni questo argomento, credo di sapere tutto di
Giuliano: tranne un buco di sei ore nell’ultima notte della sua vita.”
Ma Giuliano fu ucciso, proprio, da Gaspare Pisciotta,
che era ritenuto a torto, tra l’altro, suo cugino?
Non sembra di questo parere Giuseppe
Ferrara, autore insieme allo storico Michele Pantaleone, di un film sulla mafia intitolato Il sasso in bocca. Il film – che trae il titolo dallo sfregio
che l’Onorata Società, riserva ai cadaveri delatori – è una serrata
requisitoria, artisticamente un poco rozza, ma efficace dal punto di vista
giornalistico, attraverso 114 episodi di Mafia, visti nella continua
connessione tra l’incidente minuto e l’evento di portata mondiale, tra la
Sicilia e gli Stati Uniti, alla luce di tutte le più approfondite inchieste
italiane e americane.
Folgorato dal film di Francesco Rosi, al
quale dedicò un ottimo libro – il toscano Ferrara si mosse senza grandi pretese
di originalità, mettendo sullo stesso piano frammenti di attualità, brani di
Salvatore Giuliano e sequenze ricostruite.
Ciò che gli premeva era di fare un discorso
rigoroso sul fenomeno della criminalità nella zona depressa e sulle sue
ramificazioni al di là dell’Oceano Atlantico; finché la catena, da un anello
all’altro, conduceva, perfino, alla uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy
e al possibile attentato dietro l’ultimo volo di Enrico Mattei. Anche qui,
curiosamente, un concreto risveglio di interesse intorno a un episodio,
valutato in modo superficiale, era nato dall’iniziativa del regista Francesco
Rosi per un film sullo scomparso pioniere italiano del petrolio; e tutti avevano
letto sui quotidiani dell’epoca che Mauro De Mauro [1921-1970],
il giornalista rapito, a Palermo, la sera del 16 settembre 1970, stava
occupandosi proprio di una inchiesta preliminare alla sceneggiatura degli
ultimi giorni di Enrico Mattei, in Sicilia.
Cinema, storia e cronaca si intrecciano in
maniera, certo, fertile di sorprese e di approfondimenti importanti, ma non
esente da rischi. Anche se Ferrara garantiva che la Mafia non facesse nulla per
avversare i films che ne parlassero:
“In un
certo senso”,
sosteneva il regista,
“noi
rischiamo di fare le pubbliche relazioni della Mafia, presentandola nei suoi
apetti suggestivi e sottolineandone la potenza in maniera romanzesca.”
Renato
Guttuso - La Strage di Portella della Ginestra [1957]
È noto che Al Capone fosse compiaciuto di
vedersi interpretato da Paul Muni in Scarface
[Lo sfregiato, 1992] e non pochi “uomini di panza” – come sono chiamati i
mafiosi –, in Sicilia, avevano visto con soddisfazione In nome della legge [1948] di Pietro Germi, che si concludeva,
perfino, su una specie di fraterno abbraccio tra la legge dello Stato e le
tradizioni isolane, rappresentate dalla Mafia.
Naturalmente, l’aspirazione di registi,
quali Rosi e Ferrara, è, all’opposto, quella di far riaprire vecchi dossiers.
Nel film
Il sasso in bocca vi sono, a detta di Michele Pantaleone, alcuni elementi
che potrebbero interessare l’autorità giudiziaria per riprendere in esame casi
archiviati. Uno di questi riguarda proprio la morte di Salvatore Giuliano: dopo
aver ripercorso la carriera del picciotto, dagli anni della ventata separatista
alla Strage di Portella della Ginestra, dai rapimenti alla collusione con le
forze dell’ordine e agli screzi con la Mafia, il film ci fa vedere Turiddu in canottiera, seduto a tavola con un
compare.
Un tipo di mezza età, con i baffi, serve al
capobanda del vino drogato: Giuliano beve, cade in un sonne profondo e, subito,
viene ucciso con un colpo di pistola dall’ospite.
Ne abbiamo sentito il nome, quando il
compagno di Giuliano, alla sua domanda:
“Vi
serve ancora qualcosa?”,
ha risposto:
“No,
grazie, don Gaetano.”
Il nome, assicurava Pantaleone, è vero,
l’autenticità dell’episodio è garantita: ve ne sarebbe abbastanza per riaprire
il procedimento sulla morte del “re di Montelepre” e per colmare finalmente il
famoso buco di sei ore.
di
Daniela
Zini
Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta
Michael Stern e Salvatore Giuliano
Nella primavera del 1947, Salvatore
Giuliano rilasciò una intervista al giornalista americano Michael Stern [1910-2009],
che riuscì a raggiungerlo nel suo rifugio sui monti di Montelepre, dove lo
fotografò: l’intervista fu rilasciata pochi giorni prima della strage di
Portella della Ginestra e, in quella occasione, il bandito consegnò al
giornalista una lettera per il presidente Harry Truman,
in cui chiedeva aiuti e armi per la indipendenza della Sicilia, vaneggiando una
annessione agli Stati Uniti d’America.
Ore 7
del mattino del 9 dicembre 1945. Il sole si è appena levato su una splendida
giornata. Siamo nella difficile, inquieta Sicilia dell’immediato dopoguerra.
Fuochi di bivacco brillano sui monti tra Caltagirone e Niscemi, si accentrano
più numerosi intorno al borgo di San Mauro. Sta per accadere qualcosa di
terribile, qualcosa che l’Italia ha, fortunatamente, dimenticato.
Già,
nel fondovalle, si nota un imponente schieramento di forze armate. Carabinieri,
agenti di Pubblica Sicurezza, interi reparti dell’esercito. Le compagnie si
spiegano per il combattimento, le pattuglie iniziano ad avanzare. È presente
anche una sezione di cannoni da campagna. Quel triste giorno le forze dello
Stato italiano prendono di assalto il campo trincerato di San Mauro, dove si è
arroccata la banda orientale dell’EVIS, l’Esercito Volontario Indipendentista
Siciliano.
La banda occidentale dell’assurda formazione opera, contemporaneamente, tra
Palermo e Partinico, al comando di un giovane, che diverrà, presto, famoso e
che si chiama Salvatore Giuliano.
Verso
le 10 del mattino, le formazioni dell’esercito e della polizia giungono a
contatto con le avanguardie separatiste.
A
mezzogiorno, tentano il primo attacco. Le accoglie un fuoco micidiale.
La
stessa sera del 29, giungono da Catania nuovi rinforzi e il panico inizia a
serpeggiare tra i separatisti assediati.
Durante
la notte seguente, numerose defezioni si verificano tra le fila dell’EVIS.
Invano,
Concetto Gallo tenta di rincuorare i suoi combattenti!
Lassù,
tra i monti di Niscemi, i giovani illusi iniziano a comprendere di essersi
imbarcati in una avventura assurda quanto antistorica; mentre i volgari
banditi, che sono entrati a far parte del cosiddetto esercito separatista per
pura sete di bottino, iniziano a temere per la propria vita.
La
mattina del giorno 30, quando le forze dell’ordine ripartono all’attacco e
occupano il centro abitato, trovano che solo 30 uomini sono restati ancora
fedeli a Concetto Gallo.
Questa
triste, incredibile giornata segna la fine dell’EVIS, come formazione politica
separatista. D’ora in avanti, Salvatore Giuliano resterà solo, sulle montagne
di Partinico e la sua attività di bandito non sarà più coperta dalla maschera
indipendentista.
Dell’EVIS
non si sentirà più parlare.
Eppure,
per diverse settimane, nella primavera del 1945, mentre ancora si combatteva
nell’Italia del Nord, l’esercito dei separatisti siciliani era stato una vera
forza. Raggruppava nelle sue fila oltre 3mila armati, più infiniti
simpatizzanti. Marciavano sotto la bandiera gialla e rossa, gli antichi colori
della Sicilia e si salutavano militarmente levando ai bordi della coppola le
tre prime dita della mano destra, a simboleggiare la mitica Trinacria.
Avevano
armi, autocarri e danaro.
Alle
ore 23 dell’antecente 30 settembre, a Palermo, il separatismo siciliano aveva,
infatti, ricevuto il primo colpo. Quella notte, i principali esponenti del
movimento antiunitario, rinfocolatosi, in Sicilia, a seguito del marasma
guerra-dopoguerra, avevano tenuto una riunione presso lo studio dell’avvocato
Antonino Varvaro. Oltre a Varvaro, avevano partecipato a quell’incontro l’onorevole
Andrea Finocchiaro-Aprile, presidente del MIS [il Movimento Indipendentista
Siciliano, un vero e proprio partito, di cui l’EVIS era la forza armata], l’avvocato
Silvio Rossi e due o tre altri grossi esponenti. Uscita su via Cavour, la
compagnia aveva preso per via Ruggero Settimo, avviandosi verso piazza
Politeama. Non si erano accorti che una fila di vetture nere li seguiva passo
passo. Giunti all’altezza dell’Extra Bar,
i componenti del gruppo si salutarono e fu quello il momento che la polizia
scelse per agire.
Qualche
giorno prima, l’alto Commissario per la Sicilia, l’onorevole Salvatore Aldisio
[1890-1964],
aveva chiesto l’arresto dei capi separatisti per riportare l’ordine nell’isola
e stroncare la tendenza antiunitaria. Venti agenti di Pubblica Sicurezza, agli
ordini del questore Vincenzo Agnesina, balzarono dalle macchine e, pistola in
pugno, circondarono Varvaro e Finocchiaro-Aprile. In un attimo li spinsero
dentro le auto, che partirono a tutta velocità verso il porto. Una piccola
unità della Marina Militare era, già, pronta. I capi separatisti furono portati
a bordo e, immediatamente dopo, la unità prendeva il mare verso l’isola di
Ponza, dove Varvaro, Finocchiaro-Aprile e gli altri restarono confinati, per
molti anni.
In tale
modo, il Movimento Indipendentista Siciliano era stato decapitato dei suoi
dirigenti politici.
Il
29-30 dicembre successivo, come abbiamo visto, doveva perdere i suoi capi militari
e il fiore dei suoi combattenti.
Il 17
giugno era caduto il suo esponente più discusso e interessante, il professore
di diritto presso l’università di Catania, Salvatore Canepa. Era stato
crivellato dai colpi dei “Novantuno”, insieme con altri due giovani, mentre a
bordo di una motocarrozzetta, tentava di eludere un posto di blocco al bivio di
Cesarò, sulla strada Catania-Randazzo.
Quelli
che abbiamo narrato sono gli avvenimenti più clamorosi di una vicenda lunga,
sanguinosa e complessa quanto altre mai: la storia del Movimento Indipendentista
Siciliano. Si tratta di una storia ancora tutta da scrivere e i cui documenti
sono, ancora, sepolti negli archivi delle Prefetture e tra le carte degli
uomini politici italiani. Ma se è, oggi, difficile ricostruire con esattezza la
cronaca di quei giorni, non altrettanto impossibile è rinvenire i motivi
pratici e ideali che diedero luogo alla vampata separatista degli anni tra il
1943 e il 1947.
Fu un
fenomeno legato ai tempi difficili che l’Italia attraversava e non bisogna
dimenticare, mai, che, nello stesso periodo, anche altri moti centrifughi
affiorarono nel nostro Paese, seppure con minore virulenza di quello siciliano.
Bisogna
inevitabilmente rifarsi, per comprendere lo sfondo, sul quale operò il separatismo
siciliano, alle condizioni cui era ridotta l’isola, nella primavera-estate del
1943.
Da
almeno tre anni, la Sicilia era divenuta il centro strategico della guerra nel
Mediterraneo,
e da almeno diciotto mesi, conosceva una vera e propria occupazione tedesca,
compiuta dapprima dai soli reparti della Luftflotte 2, che teneva sotto
tiro Malta e il fronte egiziano, poi, da intere formazioni della Wehrmacht.
Quando
la guerra di Erwin Johannes Eugen Rommel
[1891-1944] si spostò prima a Tripoli, dopo, in Tunisia, l’isola conobbe, con
qualche mese di anticipo rispetto alle altre regioni d’Italia, i grandi
bombardamenti a tappeto, nei quali si stava specializzando l’aviazione
statunitense. Sconvolti tutti i porti, semidistrutte le città, praticamente
interrotti i traffici con il continente, la Sicilia apparve, subito, condannata
alla fame e alla miseria.
Il
sottofondo particolaristico dei siciliani fu, violentemente, portato alla luce
della critica alla condotta della guerra e ai responsabili di Roma. Non soltanto
una classe dirigente e una idea politica furono giudicati responsabili della
situazione; ma la intera Nazione, la stessa Italia. Il fatto era che, quando a
Milano, a Torino e nella stessa Roma ancora si poteva condurre una vita civile,
ancora si mangiava e ancora reggevano alcune delle strutture del vecchio Stato,
in Sicilia, sullo sfondo della eterna miseria dell’isola, già, imperversava il
mercato nero, mentre riaffiorava il fenomeno del banditismo e riprendevano
vigore le forze più antisociali.
Il Movimento
Indipendentista Siciliano si legò, allora, immediatamente alle forze più spurie
ed equivoche che agivano in quell’agitato periodo.
La “esplosione”
avvenne dopo lo sbarco alleato, ed è fin troppo chiaro quanto di essa fu dovuto
alla potente suggestione che l’arrivo degli anglo-americani dovette esercitare
sulla opinione pubblica locale.
Dopo la
miseria, ecco l’abbondanza, sebbene falsa, delle retrovie alleate, dopo il pane
di segatura, quello bianco di Charles Poletti
[http://www.storiaxxisecolo.it/secondaguerra/sgmcampagnaitalia5b.htm].
Non vi è dubbio che, almeno in un primo tempo, il separatismo siciliano sia
stato sostenuto e sollecitato da alcuni agenti alleati.
Alcuni
di essi erano sicuramente in buona fede e pensavano che fare leva sul
sottofondo antifascista degli indipendentisti potesse riuscire utile alla causa
alleata, mentre ancora si combatteva per liberare l’Italia occupata dai
tedeschi.
Altri
lo erano meno.
Sta di
fatto che i sindaci siciliani nominati dagli alleati, dopo il loro sbarco,
furono tutti tratti, al 90%, dalle fila del MIS.
Un’altra
deleteria alleanza del MIS fu quella con alcuni gruppi sociali indubbiamente
tra i più retrivi dell’isola. Si trattava degli strati agrari dell’interno e
dei “feudatari” più chiusi alla inevitabilità della nuova situazione sociale,
venutasi a creare con la sconfitta. Il separatismo di costoro aveva dichiarati
scopi di conservazione sociale.
Sullo
sfondo vi era la grande paura che la guerra e l’invasione portassero con sé la
rivoluzione.
Una
delle cause più potenti del passaggio di questi gruppi da un moderato
regionalismo al separatismo più acceso, furono, senza dubbio alcuno, le leggi
sugli ammassi, emanate da Roma nel 1944-45, in particolare quella che tendeva alla
creazione dei cosiddetti “granai del popolo”.
Vi
furono scontri sanguinosi, sulle aie siciliane, tra carabinieri, soldati e
sindacalisti che andavano a requisire il grano, e “campieri”, “curatoli” e “guardaspalle”,
legati alla Mafia agraria.
Appare
qui, per la prima volta, questo nome tanto celebre quanto ancora così poco
compreso.
La Mafia
siciliana ha, indubbiamente, una grossa parte di responsabilità nell’insorgere
del fenomeno “separatismo” come un fatto virulento e sanguinoso, negli anni a
cavallo della fine della guerra in Europa.
La Mafia
è presente nel momento separatista con tutte le sue caratteristiche principali.
In primo luogo con il suo aspetto di associazione di collegamento tra elementi
siciliani, da un lato, e americani, dall’altro. In secondo luogo, con la sua
attività a favore della conservazione agraria. In terzo, finalmente, come
organizzazione di protezione e di copertura del banditismo.
La
storia dei rapporti tra banditismo e separatismo è, oggi, perfettamente,
ricostruibile sulla scorta degli atti processuali e delle inchieste
giornalistiche.
Il
primo patto tra indipendentisti e fuorilegge fu stretto con la cosiddetta “banda
dei fratelli Avila”, che agiva nella zona di Caltagirone; mentre il secondo,
ben più gravido di risultati, prese il nome di “Accordo di Ponte Sagana” e fu
concluso con il sinistro e complesso personaggio, che aveva nome Turi Giuliano.
L’incontro
tra i dirigenti politici del movimento e il bandito fu organizzato in località
Ponte Sagana, a pochi chilometri da Montelepre, dall’“arruolatore” dell’EVIS,
Pasquale Sciortino.
Al
convegno giunsero per primi, a bordo di una vecchia Bianchi, Concetto Gallo e
due esponenti della reazione “baronale”. Giuliano apparve solo e disarmato,
mentre i suoi uomini sorvegliavano la scena dietro le siepi di fichi d’India,
con i mitra spianati.
Gli
accordi furono rapidi.
Le
forze del bandito dovevano passare sotto le bandiere dell’EVIS e costituire la
sezione occidentale dell’esercito separatista; mentre Concetto Gallo si sarebbe
occupato della Sicilia Orientale.
Salvatore
Giuliano chiese 10 milioni, ne ebbe promesso soltanto uno, e, immediatamente
dopo, diede inizio alla serie di attacchi alle caserme dei carabinieri.
Gli Avila,
da parte loro, irregimentati nell’esercito orientale, trucidarono gli 8 militi
della caserma del feudo “Nobile” in territorio di Gela. Li assalirono in più di
200.
Fu alla
strana confluenza di Mafia, banditismo e separatismo, sullo sfondo delle terribili
condizioni obiettive in cui era ridotta l’isola, che si dovettero anche le tre
giornate di sangue, iniziatesi, il 19 ottobre 1944, a Palermo. Anche
questa è una triste e quasi ignorata pagina della Storia d’Italia: la chiamano,
ancora, in Sicilia, la Strage del Pane [https://www.youtube.com/watch?v=nYwC36TCZ0I]..
Palermo
era, indubbiamente, ridotta agli estremi.
Da tre
giorni, i forni erano vuoti.
La
mattina del 19, un corteo di impiegati si formò in via Maqueda e si diresse
ordinatamente verso la Prefettura per chiedere aiuti di emergenza. La
manifestazione degenerò quando intervennero strane turbe composte, in parte di
noti mafiosi e uomini di mano. Intervenne l’esercito.
Ai
primi colpi in aria i dimostranti sgombrarono le strade; ma vi rimase un buon
numero di vere e proprie bande delinquenziali, perfettamente organizzate e
armate. Per tre giorni, Palermo fu teatro
di scontri improvvisi e sanguinosi: a piazza Marina, a piazza Politeama,
intorno alla stessa cattedrale.
Le
bande avevano obiettivi precisi e tra essi, in primo luogo, l’ufficio delle
imposte, quello del registro e la conservatoria delle ipoteche. In molti casi,
raggiunsero il loro scopo, che era quello di far scomparire i documenti
riguardanti i più noti mafiosi della Sicilia.
Fu in
quelle terribili giornate che il grido separatista si levò più alto.
La
repressione dei moti fornì nuova esca agli attacchi contro il Governo centrale
e ancora una volta, come già era avvenuto nel corso dei secoli, la volontà
autonomistica della Sicilia fu, artatamente, convogliata su una linea di
rivendicazioni estremistiche, anacronistiche e antistoriche.
Quanto
di buono e di accettabile vi era nella richiesta di una maggiore autonomia, nel
seno della Madre Patria comune, fu travolto dalla fiammata separatista.
Una
figura emerge dal passato, quella del battiloro palermitano Giuseppe D’Alesi,
che si era messo a capo della rivolta del 1647 per chiedere al re spagnolo la
restaurazione degli antichi privilegi regionali. Da Napoli era giunta la
notizia che il popolo era insorto sotto la guida di un pescivendolo,
Masaniello, e anche Palermo si muoveva.
Gli
spagnoli tentarono, dapprima, di corrompere il “capo-popolo”, poi, sparsero la
voce che anche lui fosse uno spagnolo e che agisse solo per ambizione
personale.
La
gente dei “cortili”, quelli della Kalsa e di Ballarò, si lasciò suggestionare e
massacrò D’Alesi come traditore.
Bande
di fuorilegge si dettero alla macchia e vi restarono per tutto il secolo,
taglieggiando i viaggiatori in nome della indipendenza della Sicilia.
Più
nettamente autonomistica la rivolta del 1773, che si concluse con la fuga del
vicerè Giovanni Fogliari d’Aragona, un protetto di Elisabetta Farnese. Fanno da
sfondo a questo episodio i casi che, in rapidissima successione, portano a
dominare, a Palermo, i piemontesi di Vittoro Amedeo II, gli austriaci e,
infine, gli spagnoli di don Carlo di Borbone. Sta di fatto che, nei brevi anni,
in cui il re sabaudo ebbe il dominio dell’isola, la Sicilia conobbe qualcosa di
simile a un decentramento amministrativo assai vicino all’autonomia. Fu la
stessa distanza di Palermo da Torino, nonché la relativa debolezza del re
piemontese, a favorire l’esperimento. Ma, nel 1733, Carlo di Borbone sbarcò in
Toscana con un esercito, entrò in Napoli, il 10 maggio dell’anno successivo, e
prese Palermo, alla fine di giugno del 1735.
Gli
imperiali di Austria, cui il trattato dell’Aja aveva donato il potere in
Sicilia, non opposero che fiacchissima resistenza.
Il 3
luglio 1735, don Carlo di Borbone divenne re di Sicilia e si incoronò nella
Cattedrale di Palermo con il vecchio cerchio di ferro che aveva cinto il capo
di Federico II. È nota la profonda azione riformatrice che il re di Borbone
intraprese nei suoi Stati italiani con il concorso e la guida del ministro
toscano Bernardo Tanucci. Questa azione si approfondì quando a Carlo successe
Ferdinando I, ancora minore di età, e sottoposto quindi a un consiglio di
reggenza. di cui Tanucci fu l’anima e lo sprone. Ma riforme moderne, tra Napoli
e Palermo, volevano dire essenzialmente creazione di uno Stato, di un potere
accentratore e livellatore, per ciò stesso nemico delle vecchie autonomia e
particolarità regionali, di cui anche la Sicilia aveva bisogno per vivere.
La
rivolta del 1773 divampò su questo sfondo. Fu, al solito, una esplosione
estremamente composita nelle finalità e nelle forze che si mobilitarono: una
fiammata, che presto si spense.
Ma un
nuovo ciclo storico era alle porte. Si avvicinava il momento in cui la volontà
autonomistica della Sicilia poteva inserirsi a buon diritto nella grande
politica europea. Nel febbraio del 1806, Ferdinando I di Borbone si imbarcava a
Napoli, ormai minacciato da presso dalle truppe napoleoniche e veniva a porre
la sua corte a Palermo. L’isola restava protetta dalla flotta inglese e il suo
destino si distaccava da quello dell’Europa continentale. Napoleone piantava le
sue insegne, da Madrid fino a Mosca; ma non riusciva a fare sua l’isola al
centro del Mediterraneo. Palermo diveniva capitale.In queste condizioni
favorevoli la secolare battaglia per l’autonomia siciliana toccò il suo
traguardo più alto. Lo scontro si svolse sul terreno parlamentare e fu condotto
con abilità dalla antica assemblea siciliana dei Tre Stati [nobili, clero e
militari], che il re aveva dovuto convocare per chiedere il mantenimento della
corte. La richiesta regale fu per un donativo di 360mila onze; ma ben presto il
contrasto finanziario sboccò in un dibattito costituzionale.
Infine,
venne approvata la Costituzione del 1812, che, da parte della aristocrazia più
illuminata dell’isola, segnò la volontaria rinuncia ai privilegi feudali e l’inizio
di una nuova politica di alleanze con la nascente borghesia contro il
centralismo napoletano. Per la prima volta, dopo i giorni dei Vespri, la
Sicilia ebbe un suo esercito e una sua bandiera. Il giorno 8 dicembre 1816, il
breve sogno ebbe termine. Quel giorno Ferdinando I di Borbone, che la sconfitta
di Napoleone aveva ricollocato sul trono di Napoli, metteva fine all’autonomia
dell’isola, sopprimeva la sua bandiera e il suo esercito, aboliva la
Costituzione del 1812 e, perfino, quella antica, che aveva permesso la riunione
del Parlamento, nel 1806. Iniziò, da quel giorno, la terza fase della lotta autonomistica
siciliana, durante la quale i motivi più propriamente regionalistici e
particolari riuscirono a fondersi, pressoché totalmente, nel generale moto di
risveglio e di indipendenza italiano, fino al plebiscito unitario del 1860.
Fortemente
colorato di motivi separatisti fu il moto patriottico di Palermo del luglio del
1820. A
Napoli, la sollevazione militare e popolare aveva facilmente imposto al re la
Costituzione spagnola. A Palermo, nobili e popolo si sollevarono, invece, per
la loro vecchia Costituzione del 1812. Il movimento, fuori Palermo, nel cuore
delle campagne riarse, affamate di pane e di Giustizia, non andò esente da
tumulti e saccheggi. La Sicilia si trovò sola, non solo contro il Borbone, ma
anche contro i liberali, che, a Napoli, avevano vinto sotto la guida di
Guglielmo Pepe e che consideravano come un tradimento alla causa comune l’ombreggiatura
particolaristica dei moti isolani. Il fratello di Guglielmo Pepe, Florestano,
fu inviato a Palermo con 7mila uomini e riuscì ad accordarsi con gli insorti
per la convocazione di una assemblea statuente. L’assemblea, il 22 settembre
seguente, decideva per l’unione con Napoli e per l’autonomia amministrativa.
Ancora una volta, fu una strana ed equivoca alleanza tra i centri sociali più
retrivi e la plebaglia più affamata a rendere nulli gli accordi per una
ordinata autonomia. Prima Florestano Pepe, poi, il generale Pietro Colletta,
dovettero reprimere le rivolte separatistiche della plebe e di certi gruppi
baronali. E lo fecero con mano pesante, sicché nuovi lutti e rancori si
aggiunsero agli antichi.
Se, nel
1848, si poté evitare tutto questo, bisogna, tuttavia, ricordare che anche la
rivoluzione siciliana di quell’anno fatidico fu, decisamente,
antiaccentratrice, federalista, regionalistica.
Fino
dall’inizio dei moti, il Parlamento siciliano guidato da Ruggero Settimo, mise
l’accento sulla necessità di creare, in Italia, una Lega di Stati Federati, di
cui ogni membro fosse, per conto suo, “libero e indipendente”. Il nuovo patto
unitario tra gli italiani non poteva prescindere, per i siciliani, da una
costituzione di tipo confederativo, che lasciasse a ogni regione le sue
caratteristiche, la sua fisionomia e le sue leggi. Fu, del resto, con questo
spirito che la classe dirigente siciliana del 1860 accettò l’impresa
garibaldina e diede la sua entusiastica adesione all’unità del Paese. Su questa
linea erano Mariano Stabile, Emerico Amari, Michele Amari, Giuseppe La Farina.
È cosa certa, d’altro canto, che anche i più avvertiti uomini politici
piemontesi, lombardi e toscani fossero altrettanto convinti che un certo
decentramento fosse necessario per l’isola. Purtroppo tutte le speranze
andarono deluse di fronte all’azione della minoranza reazionaria. Il sorgere
del banditismo, la rete degli intrighi borbonici, il passaggio del clero fino
ad allora risorgimentale alla difesa dello statu
quo ante, convinsero il Settentrione alla necessità di un ferreo
accentramento.
Ancora
una volta, l’autonomismo siciliano divenne separatismo.
La
nuova “vampata” separatista prese nome dalle “sette giornate di Palermo” del
settembre 1866. Furono giorni duri e bui, assai simili nei motivi e fino nella
cronaca alle giornate dell’estate del 1944. La repressione fu sanguinosa. Di
fatto, in quelle giornate, solo la borghesia grande e piccola, restò fedele
allo Stato unitario; non la grande aristocrazia, ribellatasi alla tassazione
piemontese e alle nuove misure antifeudali, non gli strati popolari, avversi
alla leva, da cui la Sicilia era stata, per secoli esente, e delusi dalla mancata
riforma sociale che avrebbe dovuto seguire il moto risorgimentale.
Quando
il giusto sentimento autonomistico siciliano si tinge di separatismo, l’isola
conosce i suoi giorni più oscuri.
È stata
grande saggezza della Repubblica Italiana rinvenire le forme costituzionali
mediante le quali convogliare l’antico e giustificato sentimento autonomista
della Sicilia entro l’ambito del moderno decentramento amministrativo.
Ma le
ombreggiature di separatismo hanno giovato alla causa dell’isola?
Daniela
Zini
Copyright
© 21 luglio 2015 ADZ
L’era di Nikolaj Ezov [1895-1940],
capo del Narodnyj
Komissariat Vnutrennich Del
[NKVD], dal 1936 al 1938, è stato il periodo più
sanguinoso del Terrore staliniano. Nessuno, tranne Stalin, era al di sopra dei
sospetti dei funzionari del NKVD.
Alla fine del 1938, Stalin proclamò la fine delle “purghe” ed Ezov scomparve
misteriosamente.
President
John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April
27, 1961
Mr.
Chairman, ladies and gentlemen:
I
appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You
bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago
reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear
upon your profession.
You
may remember that in 1851 the New York Herald
Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its
London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are
told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But
when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means
of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the
Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the
world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If
only this capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have
selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some
may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the
Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is
true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded
recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his
colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible
for the press, for the press had already made it clear that it was not
responsible for this Administration.
Nevertheless,
my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called
one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor,
finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy
which the press should allow to any President and his family.
If in
the last few months your White House reporters and photographers have been
attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the
other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be
complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf
courses that they once did.
It is
true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing
skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret
Service man.
My
topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want
to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The
events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some;
but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many
years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or
living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This
deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern
both to the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The
very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a
people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths
and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive
and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which
are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the
threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today,
there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions
do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need
for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I
do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to
reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s
peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in
an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures
to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that
even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s
need for national security.
Today
no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never
be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those
who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of
our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have
been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the
press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of
combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat
to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,”
then I can only say that the danger has never been more clear and its presence
has never been more imminent.
It
requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by
the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by
every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and
ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its
sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion
instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by
night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human
and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its
preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not
headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is
questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold
War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish
to match.
Nevertheless,
every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and
the question remains whether those restraints need to be more strictly observed
if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For
the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of
acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents
to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s
covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been
available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the
strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans
and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other
news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at
least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism
whereby satellites were followed required its alteration at the expense of
considerable time and money.
The
newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The
question is for you alone to answer. No public official should answer it for
you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I
would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities
that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities,
if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful
consideration.
On
many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said
- that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have
no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow
of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of
security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have
posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the
members of the newspaper profession and the industry in this country to
re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of
the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger
imposes upon us all.
Every
newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I
suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national
security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen
and public officials at every level - will ask the same question of their
endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And
should the press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps
there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma
faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace,
any discussion of this subject, and any action that results, are both painful
and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is
the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No
President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny
comes understanding; and from that understanding comes support or opposition.
And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the response
and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not
only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This
Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once
said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We
intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point
them out when we miss them.
Without
debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and
no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This
means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer
far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to
improved understanding of the news as well as improved transmission. And it
means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to
provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits
of national security - and we intend to do it.
III
It was
early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent
inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the
printing press. Now the links between the nations first forged by the compass
have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming
the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together,
the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the
terrible consequences of failure.
And so
it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his
conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance,
confident that with your help man will be what he was born to be: free and
independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
Secondo la sorella del giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa
aveva incontrato il fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il
generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso
Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti.
Secondo il collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla
Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro di Aldo Moro, che
infastidivano Andreotti. Buscetta, inoltre, affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
“[Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a
Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che
potesse giustificare questo grande odio contro di lui.”
All’inizio del mese di aprile del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
aveva scritto al presidente del consiglio Giovanni Spadolini:
“La corrente democristiana siciliana
facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da
contaminazioni mafiose.”
Un
mese dopo, veniva, improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo
per contrastare l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A
Palermo, lamentò, più volte, la carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica
e carica di amarezza rimane la sua frase:
“Mi mandano in una realtà come Palermo,
con gli stessi poteri del prefetto di Forlì.”
Chiese
di incontrare Giorgio Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo
Stato. Nell’intervista del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento
dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle
complicità che hanno consentito alla Mafia di agire indisturbat, per anni. Di
fatto la pubblicazione dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna
reazione da parte dello Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel
mirino il generale.
Per
i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di
Cosa Nostra: Totò Riina, Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò,
Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il
generale Dalla Chiesa aveva svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del
giornalista Mauro De Mauro, nel 1970, il quale poco prima aveva contattato il
regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere
scottante, sul caso Mattei.
Le carte relative al
sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, dopo
la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se sono state
sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.
Secondo la testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979,
Pietro Scaglione“fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i
mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”.
Il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, comandante del Nucleo
Investigativo di Palermo, stava indagando sul caso Mattei. La sera del 20 agosto 1977, l’uomo di
fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, perse la vita davanti a un bar di Ficuzza, frazione di
Corleone.
Così
ricordò, quella tragica sera del 1977, il giornalista Mario Francese, su Il Giornale
di Sicilia,
all’indomani dell’omicidio:
“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese
fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello
stesso momento vi fu chi si accorse di una “128” verde che procedeva
lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di
Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della
piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò proprio davanti
all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina
degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò
fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni
una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima
sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a
viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38.
Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito
di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro
lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò
immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla
testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione
fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il
secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli
occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di
mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata
abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25
luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia
uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor
Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione
spettacolare ed esemplare”
“È
nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla
sua radio…
Negli
occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a
lottare…
Aveva
un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco
onorato…
Si
sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste
sono alcune delle parole, con cui i Modena City Ramblers descrivono
Peppino Impastato nella loro canzone I
cento passi, ispirata all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.
Giorgio Boris Giuliano fu ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette
colpi di pistola alle spalle.
Precedentemente al suo assassinio, aveva condotto alcune indagini
sull’uccisione di Giorgio Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto
l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare
Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto
al giudice Paolo Borsellino.
Tre
anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario
D’Aleo, che aveva preso il posto di Basile, quale comandante della Compagnia
dei Carabinieri di Monreale, sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e
all’appuntato Giuseppe Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche
l’ex-autista di Basile, il carabiniere Pietro Morici.
Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una
chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che
portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria sui “delitti
politici” siciliani che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto
investigativo di Giovanni Falcone. Questi puntava fermamente sulla colpevolezza
dei terroristi di estema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto
Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un
contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la
morte di Falcone, l’uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come
delitto di mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare
Mutolo.
Nel
1993, Buscetta, in particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma
non potevano dire a Riina [o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare]
che non si doveva ammazzarlo [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio
voluto dalla Commissione.”
Pierre Michel scoprì che i marsigliesi erano in affari con la ‘ndrangheta calabres, in particolare, per quanto
riguardava gli investimenti di droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso,
Michel stava collaborando con alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache
dell’epoca si apprende che, solo poche settimane prima dell’omicidio, il
giudice aveva ricevuto, a Marsiglia, tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori
solo due nomi di magistrati italiani che mantenevano rapporti di collaborazione
con Michel: Giovanni Barrille e Giusto Sciacchitano.
E
il terzo chi era?
Bisognerà
aspettare il quinto anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione,
infatti, appare Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa
intuire ai cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice
assassinato nel 1981.
Paolo Giaccone è assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo.
Aveva ricevuto l’incarico di esaminare impronte digitali, lasciate dai killers, che, nel dicembre del 1981,
avevano scatenato una sparatoria tra le vie di Bagheria.
Nel 1893, il marchese
Emanuele Notarbartolo di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre
della mafia
[http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/].
Già sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo
in Sicilia ma in tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27
colpi di pugnale, da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo
buttato giù da un treno, nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito,
emergono forti sospetti che legano l’accaduto alla passata esperienza
dell’ucciso alla direzione del Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare,
di una sua “agenda rossa”, di un dossier
accusatorio delle attività illecite di alcuni membri del consiglio di
amministrazione, inviato al Governo e, prontamente, fatto scomparire. E,
ancora, da subito, si individuano anche i possibili esecutori materiali e,
soprattutto, il probabile mandante: il deputato di Destra, Raffaele Palizzolo
[1845-1910].
Come
è facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in
modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in
passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo
Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa
volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi,
chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo.
Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni
di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza
per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della
assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati
istituiti per difendere il “buon nome dei
siciliani” dalle calunnie, di cui erano stati oggetto nel processo. Questa
sentenza significa per loro un fatto chiaro:
“LA
GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato,
dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari,
Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A proposito del recente ed ormai celebre
processo, che si è svolto a Milano, molto si è parlato e si è scritto della
mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse
nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro
che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in
quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed
esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare.
Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di
stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario
nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie
della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia,
riesce cosí familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il
bisogno di una dettagliata spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i
vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga
consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare
questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i
Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due
fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure
sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o
meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia,
come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di
condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien
indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante
piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre
sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale
e qualche volta sono veramente delittuosi.”
E
ancora:
“Sono arrivato quasi alla fine del mio
dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione
qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della
mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione
che una tale organizzazione non esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né
riconosce ordinariamente la superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al
di sopra di essa. Fra le cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e
ci sono, rapporti di amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si
rispettano o si combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa
libertà che hanno è appunto una conseguenza della mancanza di un legame
federale che ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I membri di due cosche lontana l’una dall’altra,
per esempio di due provincie diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e
di persona e raramente hanno dei rapporti fra di loro.
È superfluo dopo di ciò dire che in
Sicilia non esiste alcun consiglio generale, alcun duce supremo di tutta la
mafia. Quindi l’espressione spesso usata: «il tale è un capo della mafia»,
significa soltanto che egli è in buoni rapporti con parecchie cosche di mafia,
le quali protegge assiduamente per averne l’appoggio nelle elezioni o anche per
altri fini meno confessabili.
E neanche esistono fra i mafiosi parole
d’ordine o segni misteriosi di riconoscimento ed aggiungo che essi non ne
sentono il bisogno.
Le persone fortemente imbevute di spirito
di mafia, e molto piú quelle che appartengono alle varie cosche, si riconoscono
facilmente fra di loro per quello stampo, quel non so che di comune, che la
medesimezza delle abitudini e dell’educazione morale ed intellettuale imprimono
nei diversi ceti e nelle diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in
borghese, il commesso viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone
ferroviario o in un battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa
il mafioso che va fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di
mafiosi, questo riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione,
essi sanno perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed
agire in identico modo.”
Per
circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i
Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che
questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione
mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si
triplicò.
Nei
primi anni del dopoguerra, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I
Paesi europei, invece, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte
dalla guerra e colpite dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione
Truman era consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e
stabilità politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di
qui la decisione di varare il Piano Marshall.
A
questo punto, iniziò una fase di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I
principali fattori che resero possibile il grande sviluppo dell’economia
occidentale furono:
-
la creazione di un ordine economico e
monetario stabile, imperniato sul dollaro, definito, già, nel luglio 1944, con
gli Accordi di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con
l’Asse;
-
il basso costo delle materie prime e
delle risorse energetiche;
-
la rapidissima diffusione delle
innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che consentì la diffusione di
beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-
l’esplosione dei consumi di massa,
favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a esempio: la
televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la vendita a rate]
e, infine, dalla crescita della occupazione e delle retribuzioni, che rese
disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del reddito nazionale;
-
il grande sviluppo dei trasporti, legato
alla diffusione della motorizzazione privata e all’utilizzo su larga scala
dell’aviazione civile.
Accanto
alla crescita economica, gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte
attenuazione del ciclo economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di
sviluppo con altre di stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato
l’economia capitalistica fino dal suo nascere.
In
questo periodo non si registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti
di rallentamento.
Ciò
fu dovuto, oltre che alla stabilità del sistema monetario internazionale, alla
adozione di politiche economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla
esperienza del New Deal e sul
principio che gli strumenti della politica economica, e, in particolare, la
spesa pubblica, debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale,
ossia l’insieme dei beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai
cittadini, dalle imprese e dallo Stato.
L’autorità
politica venne assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione
dell’economia. In molti Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre
principali forme:
-
l’impostazione della politica economica
in chiave espansiva;
-
l’ampliamento della funzione
imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese pubbliche [a
esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione di alcuni
settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo a creare
sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-
l’adozione generalizzata dello Stato
Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche rivolte a erogare a tutti i
cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa pubblica, servizi e
assistenza sociale.
Luciano Leggio,
meglio conosciuto come Liggio
dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al
maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.
Per l’omicidio dell’ispettore capo Giovanni Lizzio è stato condannato
all’ergastolo, con sentenza passata in giudicato, il capomafia Benedetto
“Nitto” Santapaola.
Nel suo diario, Pietro
Nenni, annotò:
“È un luogo circondato quasi di
venerazione perché lì parlò Nicola Barbato – politico e tra i fondatori dei
Fasci Siciliani dei Lavoratori – nel 1894, per festeggiare il Primo Maggio.
Cominciava a parlare il vecchio compagno Schirò quando dai monti si è aperto il
fuoco sulla pacifica folla contadina. Dapprima i manifestanti hanno creduto a
fuochi di gioia... Poi sono caduti i primi muli e i primi cristiani.”
Mario Scelba [1901-1991]
conosceva il suo concittadino Don Sturzo fino dalla più tenera età e ne divenne
segretario particolare nel 1921. Aderì così subito al Partito Popolare. Durante
il ventennio esercitò la professione di avvocato civilista, e divenne amico di
Alcide de Gasperi. Nel 1943, sbarcati gli alleati in Sicilia, contribuì a
scrivere il primo documento programmatico del partito, Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana.
Il
suo nome è legato alla Legge n. 645 del 1952, nota come Legge Scelba, che vieta
l’apologia del regime fascista e del Partito Nazionale Fascista, che è
classificata come reato.
Ostile
al centrosinistra, dopo l’avvento del primo governo Moro, nel quale, per la
prima volta, entravano a far parte i socialisti decise di assumere una
posizione defilata.
Nel
1966, fu invitato a far parte del terzo governo Moro, sempre di centrosinistra,
ma rifiutò l’offerta.
Secondo le indagini dei carabinieri dell’epoca, l’uccisione di Santo Fleres fu
un regolamento di conti tra la banda Giuliano e la Mafia per la mancata
spartizione di un riscatto proveniente da un sequestro di persona.
“Chi è stato a tradirlo? Dove
è stato ucciso? Come? E quando? La grande maggioranza dei siciliani non crede
alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte
Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo confessare di avere inutilmente
tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i
luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi
di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo dei dramma o è
stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse
cercare il pelo nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei
dubbi che inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato sul posto di
ricostruire la scena non cesserà per questo di essere interessante.
A Castelvetrano, alle 3 e
15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i
carabinieri Renzi e Giuffrida [dice la relazione ufficiale] hanno riconosciuto
da lontano il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini percorreva la via
Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni diverse e
il gregario è riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece è stato
inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco
ripetutamente, un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha
risposto a sua volta con la pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il
brigante ha sperato di trovare scampo entrando in un cortile e là, mentre
tentava di dare la scalata al muro di cinta oltre il quale c’è un piccolo orto
e poi la campagna, è stato freddato con una raffica di mitra dal capitano.
Dunque nessuno poteva immaginare in anticipo che Salvatore
Giuliano sarebbe entrato in quel cortile. Eppure parecchi civili delle
case confinanti affermano d’aver inteso fin dalla mezzanotte un rumore di
tegole smosse e un bisbigliare come se vi fosse gente sui tetti. Stettero un
poco in ascolto, ma quello strano trambusto dopo un quarto d’ora si chetò.
Nessuno diede peso alla cosa e di lì a poco in via Mannone tutti ripresero a
dormire, eccetto tre uomini che per le esigenze del loro mestiere dovevano già
essere a bottega: il proprietario e i due garzoni del forno Lo Bello, che è
sullo stesso lato della strada, a venti metri dall’ingresso del cortile. Era
una notte afosa, e nell’interno del panificio il caldo era insopportabile. I
due garzoni che avevano finito di impastare il pane e aspettavano che
lievitasse erano usciti sulla via e stavano chiacchierando accovacciati sul
marciapiede, con le schiene nude appoggiate agli stipiti. Ma la prima sigaretta
che essi avevano acceso non era ancora finita quando due carabinieri, spuntando
dall’ombra, si avvicinarono e intimarono loro di ritirarsi e di sprangare
porta. L’ingiunzione era stata fatta con il tono di chi non ammette repliche.
Ci furono invece discussioni e proteste, ma non valsero a nulla. Di fronte al
dilemma o chiusi in bottega o in guardina non era certo il caso di indugiare
troppo nella scelta. I garzoni obbedirono.
È molto probabile tuttavia che il mattino seguente le clienti del
fornaio Lo Bello abbiano trovato da ridire sulla confezione del pane. La curiosità di sapere quello
che stava per accadere sulla strada non poteva certo permettere al panettieri
di attendere con diligenza al consueto lavoro. Avevano lasciato i battenti un
pochino socchiusi e di tanto in tanto andavano ad origliare. Così non sarà
esagerato dire che l’aria lacerata dal primo sparo vibrava ancora quando gli
occhi dei fornai erano già incollati alla fessura. Sembrò loro che la via fosse
deserta. Questa impressione però è di scarsa importanza perché durante la notte
l’illuminazione della periferia di Castelvetrano viene ridotta e le poche e
fioche lampadine che restano accese riescono a proiettare solo un piccolo
cerchio di luce al centro della strada. Non videro dunque entrare nessuno nel
cortile. Scorsero invece un uomo che ne usciva, che passò correndo sotto un
lampione. Lo videro di spalle per un attimo e tutto quello che seppero dire di
lui è che si trattava di un uomo forse giovane, tarchiato, che camminava a
piedi nudi. Ma vedremo dopo quale parte attribuisca la fantasia popolare a
questo personaggio.
La via Mannone parte dalla piazza del mercato, taglia in linea
retta il rione orientale del paese e finisce nella campagna. Nel tratto che va dal mercato al cortile
non ci sono trasversali. Da che parte ci arrivò Giuliano fuggendo da via
Gagini? Dal mercato dopo aver attraversato la piazza della torre dove sono
ininterrottamente di fazione due agenti, dal corso dove a qualunque ora c’è
sempre gente scamiciata che passeggia, dal verziere dove c’è un grande negozio
di fruttivendolo che resta aperto tutta la notte con le luci accese e dove
attorno ai banchi e ai cumuli di ceste che non vengono mai rimossi passeggiano
continuamente i guardiani? Evidentemente no, perché nessuno ha visto né lui né
gli inseguitori. Allora è venuto dalla via Gioberti, che è dalla parte opposta,
e, giunto al crocicchio di dove poteva scorgere davanti a sé le prime siepi e i
primi alberi della campagna, ha piegato invece in via Mannone verso il centro
del paese. L’illogicità di questa decisione stupisce molti. Il lettore tuttavia
non ci faccia troppo caso perché sono tante le ragioni che possono avere spinto
il fuggitivo ad abbandonare la via più facile per quella più rischiosa. È, stato detto
piuttosto che la sparatoria era cominciata in via Gagini ed era continuata da
una parte e dall’altra lungo tutto il percorso. Ma per quanto si siano
interrogati molti abitanti di quella zona, non si è trovato nessuno che
ricordasse di aver udito un solo sparo. Eppure le finestre erano spalancate per
il caldo opprimente. La notte in quel rione è silenziosa. Una pistolettata o
una scarica di mitra avrebbero dovuto destare anche chi ha il sonno più duro.
Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza però è
in contrasto con la versione ufficiale. Questa dice che il brigante esplose 52
colpi col moschetto mitragliatore, che al cinquantatreesimo si inceppò.
Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile e impugnò la
pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso per
primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero dovuto
susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane [Giuliano
che spara sulla strada], altra raffica dopo una pausa di silenzio [Perenze che
fa fuoco all’ingresso del cortile]; subito dopo forse qualche colpo di pistola
[Giuliano che, prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa], forse il
Thompson che risponde ancora [Perenze che ha innestato il caricatore nuovo].
Invece gli abitanti di via Mannone [trascureremo i nomi della gente minuta
facile ad accettare ed a ripetere come esperienza propria il racconto altrui e
citeremo soltanto il pretore di Castelvetrano, avvocato Giovanni De Simone, e
il colonnello a riposo Santorre Vizzinisi] sono unanimi nel ripetere che si
sentirono prima cinque o sei colpi di pistola sparati sotto l’arco di ingresso
o nel cortile, poi due raffiche di mitra distanziate da un breve intervallo.
Subito dopo si udì la voce dei capitano che gridava a qualcuno di portare un
po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare col calcio del moschetto alla
porta dell’unica abitazione che si apre sul cortile. Parleremo in seguito
dell’interpretazione che la fantasia dei diffidenti siciliani dà a questo
particolare. Sarà bene tuttavia citare sin d’ora l’obiezione più comune: che i
feriti siano tormentati dalla sete è una di quelle nozioni elementari che anche
il più rozzo dei pastori possiede. È
tra l’altro un vecchio motivo della retorica
popolare. Ma questa arsura viene immediatamente, appena uno è colpito, oppure è
conseguenza del dissanguamento, della febbre provocata dalle ferite e
sopraggiunge dopo un certo periodo di tempo?
E perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice
canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva
l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una
bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato molti, era l’ultima cosa che si
togliesse coricandosi, la prima che cercasse al risveglio? C’erano poi altri
particolari che alimentavano il dubbio e, apparentemente, con maggior evidenza:
alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come
se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e
apparivano più fresche.
Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori
grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano
entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il
tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della
schiena, e sotto quella grossa macchia [aveva oltre due palmi di diametro] non
c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi
fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue
doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella e certamente era sceso, non
poteva essere andato in su. Da Trapani a Sciacca, a Santa Ninfa, a Partanna non
c’è uno che non sorrida quando gli si parla del famoso furgone sul quale gli
uomini del colonnello Luca travestiti da cinematografari percorrevano le
campagne e sostavano nei paesi fingendo di girare un documentario, perché Salvatore
Giuliano, tradito dall’ambizione e dalla smania di pubblicità, lasciasse le sue
montagne e cadesse nella trappola.
Per quanto avesse incollate su una fiancata due grosse strisce con
le scritte: Gazzetta dello Sport, Il Paese, e su una terza striscia di carta dipinta a mano che
attraversava di sbieco il lato opposto si leggesse: Le avventure di Paperino,
tutti, anche i ragazzini, sapevano che si trattava di una radiotrasmittente
mobile della polizia capace di collegare Trapani a Palermo. Cosa che tra l’altro
era dimostrata con evidenza dall’antenna molto alta che non si poteva certo né
sopprimere né camuffare. Proprio Giuliano avrebbe dovuto lasciarsi ingannare da
un trucco così grossolano? E allora? È
forse possibile rispondere alle domande che sono state
poste al principio del discorso? Si può tentare. Per un buon tratto di strada
anzi cammineremo su terreno sicuro e, quando usciremo dalla realtà della
cronaca per riferire le congetture che molti fanno, avvertiremo onestamente il
lettore.
È certo che non si manca affatto di rispetto al colonnello Luca né a chi sulla scala gerarchica sta più in alto o più in
basso di lui dicendo che la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore
Giuliano è camuffata, reticente su certi punti, su altri imprecisa. Poco o molto,
tutti i rapporti che la polizia rende noti al pubblico devono essere
necessariamente così. Vi sono circostanze che non possono essere rivelate,
promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna salvare dalla vendetta.
Perfino davanti al giudice e nei casi più gravi la legge concede al funzionario
di polizia il diritto di tacere la verità: quando gli si chiede il nome del
confidente, di chi lo ha messo sulle tracce, lo ha aiutato a formulare
l’accusa, ad arrestare il colpevole. Il furgone con l’etichetta Le avventure di
Paperino non ha nessuna parte nel dramma. Il più grande aiuto allo sterminio
della banda di Montelepre e del suo capo è venuto dalla mafia, ed è chiaro che
ciò non significa affatto che la polizia abbia sollecitato o anche soltanto incoraggiato
quell’aiuto. Un’alleanza tra Giuliano e i mafiosi era nata naturalmente al
principio della carriera del brigante. Turiddu aveva bisogno dell’appoggio
dell’onorata società e a quegli altri era comodo speculare sulla paura che il
nome del brigante incuteva. Ma poi i capimafia, che erano stati i primi
esattori della banda, esagerarono. Imposero riscatti che erano cinque volte
superiori a quelli che il bandito intendeva richiedere e intascarono la
differenza.
Cominciarono a molestare, sempre trincerandosi dietro quel
terribile nome, Calcuni che avevano resi grossi servigi a Giuliano e che ne
avevano avuto promesse di protezione. Il contrasto si aggravò al punto che
Turiddu, assieme a pochi dei suoi uomini, tra i più fedeli, scese sulla piana
di Partinico e in pieno giorno vi uccise a pistolettate i più alti capi
dell’associazione criminosa e segreta. Le vittime non avevano però un grosso
prestigio oltre l’ambito del loro paese, perché oggi non esiste più una mafia
unica che abbia giurisdizione su tutta l’isola, ma tante mafie locali autonome
e spesso nemiche. Il brigante sperava di giocare su queste rivalità
territoriali e in parte ci riuscì: infatti fu condannato a morte dalla sola
mafia di Partinico, mentre sembrò che continuassero ad essergli amiche; e
invece era soltanto una maniera di temporeggiare aspettando il momento
opportuno per liberarsi di lui. Per cinque anni i rapporti tra le due della
delinquenza siciliana seguirono così alterne vicende: Giuliano, per tenersi
buoni quei pericolosi vicini, si buttò talvolta in imprese rischiose dalle
quali non avrebbe potuto trarre un utile diretto [tra le altre si dice
l’eccidio Portella della Ginestra]; la mafia gli guardò le spalle, lo garantì
dalle delazioni. Ma è difficile che due galli nello stesso pollaio possano
vivere l’uno accanto all’altro senza cavarsi gli occhi. L’equilibrio era
mantenuto soltanto dalla straordinaria potenza di Giuliano. Il giorno che
questa decadde, la sentenza di Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte
le mafie.
Si voleva perdere Giuliano, ma era sempre rischioso mandargli un sicario secondo il classico
sistema. Per farlo cadere cominciarono a togliere la protezione ai suoi
rompendo la legge dell’omertà. Imposero che quelli della banda, ovunque
fossero, dovessero segnalati alla polizia. Così a uno a uno furono arrestati
molti dei fuorilegge, i più sicuri scherani della banda di Montelepre. Quasi
sempre chi si lasciava scappare una preziosa confidenza non era affiliato alla
mafia, ma era costretto dalla mafia ad ingoiare la paura e a farsi delatore. Il
27 giugno scorso, poco prima di mezzogiorno, un carrettiere mafioso che
percorreva la provinciale per Trapani con un carico di pomodori, giunto in
località Lozucco, a pochi chilometri da Partinico, vide sbucare da un cespuglio
due uomini che gli mossero incontro e gli intimarono di fermarsi. Erano Frank
Mannino e Nunzio Badalamenti, l’amministratore e il più spietato sicario della
banda Giuliano che ormai poteva disporre di non più di sette od otto gregari. I
tre si conoscevano da tempo, perché il carrettiere aveva avuto modo in passato
di rendere qualche servigio ai briganti. Mannino e Badalamenti erano usciti dal
nascondiglio avendo appunto ravvisato in lui un amico.
Domandarono: va verso Castelvetrano vossia?. L’uomo rispose di sì. I
briganti gli chiesero allora di nasconderli sul carro e di portarli fino alle
porte del paese. Così furono vuotate due ceste [quelle che si usano in Sicilia
per il trasporto dei pomodori sono molto grandi, a trono di cono, alte un metro
e cinquanta e larghe altrettanto].
I banditi vi si
accovacciarono dentro e furono coperti con pomodori. Là sotto è chiaro che
riuscivano a respirare ma non potevano certo vedere. E di lì a poco, quando
sentirono il cavallo fermarsi, accettarono per vere le rassicuranti spiegazioni
del carrettiere. Il veicolo invece si trovava in quel momento davanti alla
caserma dei carabinieri di Alcamo e non è necessario dire come finisse la
storia. La polizia tenne segreto l’accaduto. Giuliano non seppe che altri due
dei suoi uomini erano caduti in trappola.
Ora bisognerà passare sul terreno delle congetture. Mannino e Badalamenti
andavano a Castelvetrano. A fare che cosa? Conoscendo l’epilogo di questa
storia, è facile arguire che ci andassero convocati dal loro capo e quindi che
sapessero dove questi si teneva nascosto. In carcere possono essere stati
indotti a cantare. Uno dei due [Mannino?] può essersi lasciato convincere a
tradire il suo capo, a consegnarlo vivo o morto. Ecco chi era il compagno di
Giuliano la notte del 5 luglio; e che si sia parlato di quella sua misteriosa
scomparsa subito dopo l’avvistamento della pattuglia, è cosa ovvia. Può darsi
invece che la verità sia un’altra. Il traditore non si sarebbe affatto
allontanato dal suo capo, ma gli sarebbe stato al fianco facendogli da guida.
Lo ha portato in trappola nel luogo prestabilito, dove i carabinieri lo
attendevano in agguato. Giunti i due sulla soglia del cortile, la situazione si
faceva oltremodo difficile e pericolosa: se la guida continuava a stare vicino
al capo, c’era modo di finire sotto le pallottole degli agenti; se proprio in
quel momento tentava di sganciarsi da lui, c’era caso che, intuendo il
tradimento, Giuliano facesse fuoco su di lui. Il modo migliore di cavarsela per
un’anima perversa era di sparare a bruciapelo con la pistola sul capo.
Ecco così spiegata la
sequenza dei colpi, le ferite più grosse, slabbrate, al fianco, l’ombra che
esce di corsa dal cortile e si avvia verso la campagna, dove l’attende un’auto
della polizia: è comprensibile la sua fretta di tornare in carcere.
Ma la grossa macchia di sangue sulla schiena, la tumefazione di alcune
ferite e la freschezza di altre, l’essere Giuliano in maglietta, senza denaro e
senza orologio, sono circostanze che non si spiegano affatto con questa storia.
Allora facciamo un passo più in là e ascoltiamo le congetture di qualcuno a cui
non piace di mettere il morso alla propria fantasia. Mannino o Badalamenti, o
chiunque sia stato il traditore, entrò nella camera dove era nascosto Salvatore
Giuliano, ma gli mancò il coraggio di svegliarlo e di condurlo fuori. Preferì
sparargli a bruciapelo nel sonno. Poi, si sa: a nessuno poteva far piacere che
si venisse a conoscere un così brutto episodio.
Forse anche colui che ospitava il brigante era a parte del primitivo progetto, aveva
aderito a facilitare la cattura e non si poteva ripagarlo lasciandogli in casa
il cadavere [quel cadavere] fino al momento in cui sarebbero venuti il giudice,
i fotografi, i becchini. Allora lo portarono nel cortile di via Mannone. Spararono.
Il capitano andò a bussare alla porta e gridò che gli portassero acqua per un
ferito, perché tutti sentissero che Giuliano non era morto ancora. Queste
storie si sentono raccontare a ogni ora dei giorno e della notte per le strade
della Sicilia. È
difficile accettarle. Però uno che sia stato sul
luogo, che si sia chinato a guardare il corpo di Salvatore Giuliano steso
bocconi in mezzo al cortile, che abbia chiacchierato un poco con la gente di
via Mannone, è costretto, di tanto in tanto, a pensarci.”
Tommaso Besozzi, Di sicuro c’è solo che è morto, L’Europeo,
16 luglio 1950
Tommaso Besozzi si suicida, il 18 novembre 1964, a Roma.
Sia il Governo italiano sia la Mafia furono indicati come i mandanti della
uccisione di Gaspare Pisciotta, ma nessuno venne processato per la sua morte.
La madre di Gaspare, Rosalia, scrisse una lettera aperta alla stampa, il 18
marzo di quell’anno, denunciando il possibile coinvolgimento di politici
corrotti e della Mafia nella uccisione del figlio:
“Sì, è vero che mio figlio Gaspare non
potrà più parlare e molta gente è convinta di essere al sicuro; ma chissà,
forse qualche altra cosa può venir fuori.”
Si
suppone che Gaspare Pisciotta abbia potuto scrivere una autobiografia in
carcere, alla quale la madre probabilmente si riferiva, e che il fratello
Pietro provò a fare pubblicare. Questo documento è andato, tuttavia, smarrito e
il suo contenuto è rimasto un segreto.
Tommaso Buscetta, davanti ai giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista Mauro De Mauro, affermò
“De Mauro era un cadavere che camminava.
Cosa Nostra era stata costretta a “perdonare” il giornalista perché la sua
morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe
pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata
temporaneamente sospesa.”
Il
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il capo della Squadra Mobile di Palermo
Giorgio Boris Giuliano [succeduto a Bruno Incontrada e, a sua volta, succeduto
da Giuseppe Impallomeni, tessera numero 2213 della Loggia P2, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/12/30/contrada-nella-trappola-del-questore.html,
https://www.youtube.com/watch?v=RKXWS9SGjYo]
furono i principali investigatori, rispettivamente, per i carabinieri e per la
polizia, che si occuparono del caso De Mauro. Furono assassinati, entrambi,
dalla mafia, Giuliano, nel 1979, e Dalla Chiesa, nel 1982.
Se non vi disturbo e se il mio messaggio
non vi trova mal disposto, vogliate accettare l’umile appello di un giovane che
è molto lontano dall’America, per quanto sia assai noto, e vi chiedo aiuto per
la realizzazione di un sogno che fino ad oggi non è riuscito ad avverare.
Permettete che mi presenti. Il mio nome è
Salvatore Giuliano. I giornalisti han fatto di me o un eroe leggendario o un
delinquente comune. Suppongo che nemmeno voi abbiate un’idea chiara di quel che
io sono. Se voi me lo permettete, vi dirò in breve la mia storia nella sua vera
successione.
Quando avevo ventun anni – per la
precisione nel settembre 1943 – dopo una rissa che mi portò ad uccidere un
poliziotto italiano, il quale aveva cercato di ammazzarmi, diventai un
fuorilegge. Non mi restava altro che il mio sublime e sacro attaccamento alla
mia terra siciliana.
Sono stato annessionista fin dalla
fanciullezza, ma a causa della dittatura fascista, non ho potuto mostrare
palesemente i miei sentimenti. Per quanto fossi latitante, seguivo da vicino la
libertà politica portata dagli americani, e solo allora pensai di avverare
quello che per tanto tempo era stato il mio sogno. Per tradurrre in realtà il
mio ideale mi unii ai membri del Movimento per l’Indipendenza siciliana. Il
nostro sogno era di staccare la Sicilia dall’Italia e poi annetterla agli Stati
Uniti.
Nel 1944 i muri della maggior parte delle
città siciliane, compresa Palermo, furono coperti di manifesti in cui si vedeva
un uomo [io stesso] che taglia la catena che tiene la Sicilia legata
all’Italia, mentre un altro uomo, in America, tiene un’altra catena a cui è
unita la Sicilia. Quest’ultimo è il simbolo della mia speranza che la Sicilia
venga annessa agli Stati Uniti.
Ci occorre la cosa più essenziale; il
vostro appoggio morale. Voi potreste, ed a ragione, chiedere: “Qual è il
fattore più importante che vi spinge a questa lotta per la separazione
dall’Italia? Ed inoltre perché volete che la vostra splendida isola diventi la
49a stella americana?” Ecco la mia risposta:
1 - Perché con la guerra perduta, noi ci
troviamo in uno stato disastroso e cadremo facilmente preda degli stranieri,
specialmente dei russi, che ambiscono ad affacciarsi sul Mediterraneo. Se
questo dovesse accadere, ne deriverebbero conseguenze di enorme importanza,
come voi sapete.
2 - Perché in 87 anni di unità nazionale,
o, per esere esatti, in 87 anni di schiavitù all’Italia, siamo stati depredati
e trattati come una misera colonia. Come scrisse giustamente Alfredo Oriani in
uno dei suoi articoli, “il cancro legato al piede dell’Italia.”
Non vogliamo assolutamente rimanere uniti
a una nazione che considera la Sicilia una terra di cui ci si serve solo in
caso di bisogno, per poi abbandonarla come cosa cattiva e fastidiosa, quando
non serve più.
Per queste ragioni noi vogliamo unirci
agli Stati Uniti d’America. La nostra organizzazione è ormai interamente
compiuta; abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto, per eliminare
il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo tollerare più oltre il
dilagare della canea rossa. Il loro capo, Stalin, che come voi ben sapete manda
milioni su milioni per conquistare il cuore del nostro popolo – con il solito
sistema politico basato sulla falsità – ha in qualche misura incontrato i
favori della popolazione. Ma noi, fortunatamente, non crediamo nel paradiso che
Stalin ci ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo, scacciando il
comunismo dalla nostra nobile terra, che fu fatta per la democrazia.
Noi non permetteremo a questa gente
ignobile di toglierci la libertà, che per noi siciliani è il più essenziale e
più prezioso elemento di vita... Signore, vi preghiamo di ricordare che
centinaia di migliaia di uomini aspettano d’essere liberati. Permettete, caro
signore, che vi ossequi il vostro umilissimo e devoto servitore.
Giuliano
L’EVIS nacque nel febbraio 1945
a Catania, su impulso di Antonio Canepa, come gruppo di
lotta armata, ma anche primo nucleo di quello che sarebbe dovuto diventare
l’esercito regolare della Repubblica Siciliana.
Nel luglio del 1943, dopo lo sbarco alleato, Salvatore Aldisio, Giuseppe Alessi
e Bernardo Mattarella fondarono la Democrazia Cristiana siciliana.
Nel documento del National Security Council n. 1/1 del 15 settembre 1947, che
venne approvato, il 14 novembre 1947, si affermava:
“L’obiettivo basilare degli Stati Uniti
in Italia è quello di stabilire e conservare condizioni favorevoli alla nostra
sicurezza nazionale”, in quanto “la posizione dell’Italia nel Mediterraneo domina le linee di
comunicazione verso il Vicino Oriente e protegge il fianco dei paesi balcanici.
Dalle basi situate in Italia è possibile, per la potenza che le controlla,
dominare il traffico mediterraneo tra Gibilterra e Suez e rivolgere
consistenti forze aeree contro ogni punto dei Balcani o dell’area circostante”.
Il
primo aprile 1949, il consigliere dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a
Mosca, Foy Kohler, dichiara all’ambasciatore italiano Manlio Brosio:
“Non credo che il Patto atlantico possa
consentire all’Italia alcuna ipotesi di neutralità in caso di guerra. Questa
ipotesi è esclusa perché noi pensiamo che centro della guerra sarebbe, più
ancora che l’Europa, il Medio Oriente: e per condurre la guerra in Medio
Oriente noi abbiamo bisogno del completo dominio del Mediterraneo, Italia
compresa.”