1 Nel principio
era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio
con Dio. 3 Ogni
cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose
fatte è stata fatta. 4 In
lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle
tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.
6 Vi fu un uomo
mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere
testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli stesso non era la
luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. 9 La vera luce che
illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per
mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. 11 È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno
ricevuto; 12 ma
a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli
di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, 13 i quali non sono nati da sangue, né da
volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio.
14 E la Parola è
diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di
verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal
Padre.
15 Giovanni gli
ha reso testimonianza, esclamando: “Era di lui che io dicevo: – Colui che viene
dopo di me mi ha preceduto, perché era prima di me. 16 Infatti, dalla sua
pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. –” 17 Poiché la legge è stata
data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù
Cristo. 18 Nessuno
ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha
fatto conoscere.
Giovanni
1,1-18
“Non avessi conosciuto il
Cristo, Dio sarebbe stato un vocabolo vuoto di senso… il Dio dei filosofi non
avrebbe avuto alcun posto nella mia vita morale. Era necessario che Dio si
immergesse nell’Umanità, che in un preciso momento della Storia… un essere umano,
fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compisse certi atti,
perché io mi gettassi in ginocchio...”
François Mauriac
La
Storia che sto per raccontarvi è la più bella Storia mai raccontata: è la Storia
di Gesù di Nazareth.
Nessuno ha osato dire ciò che Lui ha detto,
nessuno ha avuto una Storia pari alla Sua. La Sua Persona e il Suo Messaggio
hanno influenzato le stesse grandi religioni del mondo.
Leggere
la Sua Parola diretta e incisiva, trasmessaci dai Vangeli, mi lascia, ancora,
senza parole, emozionata... mi spinge, ineluttabilmente, a viverla, mettendola
in pratica nel quotidiano...
Gesù
ha abbandonato la Croce possa scendere, di nuovo, tra noi…
Questo
è l’augurio, il mio augurio a Voi e alle Vostre Famiglie per questa Pasqua di Resurrezione.
La Basilica
del Santo Sepolcro a Gerusalemme.
La casa di Maria a Gerusalemme.
Sandro Botticelli, Natività Mistica.
National Galery, Londra.
La
storia più bella mai raccontata – quella di Gesù, detto il Cristo – è poco
conosciuta dai più. Circolano in proposito le più grossolane approssimazioni, e
quegli stessi che si dichiarano cattolici praticanti, sovente, non
conoscono del Vangelo altro che i brani
scelti legati al ciclo liturgico delle messe domenicali, né si sono, mai,
preoccupati di approfondirne il nesso logico o la cornice storica.
Gli
errori e le confusioni iniziano a proposito dell’epoca esatta in cui Gesù venne
al mondo. La stragrande maggioranza fa coincidere l’anno della sua nascita con
il 754 di Roma, mentre diversi studiosi hanno dimostrato che dovrebbe essere
retrodatata al 747 o, al più tardi, al 748 di Roma.
L’Era
Volgare, in base alla quale noi computiamo il nostro tempo, è dunque, in
ritardo di sei o sette anni.
L’errore
risale a Dionigi il Piccolo, monaco scita del VI secolo, il quale pose nel 754
la morte di Erode e circa nella medesima epoca la venuta al mondo di Nostro
Signore.
Ora,
noi sappiamo, invece, che Erode si spense a Gerico nella primavera dell’anno
750 di Roma. Esaminando, poi, il Vangelo di Matteo, risulta che la nascita di
Gesù dovette precedere di almeno un biennio la scomparsa di Erode, in quanto i
Magi lo trovarono, ancora, risiedente in Gerusalemme e, verosimilmente, in
buona salute, poiché si proponeva di recarsi in persona a “adorarlo a Betlemme”.
Un
biennio ci riporta, mese più mese meno, alla data del 748 di Roma. È, anche,
abbastanza significativo che, nel suo feroce decreto, Erode abbia ordinato lo
sterminio di tutti i bambini maschi di Betlemme e dintorni, “dai
due anni in giù” [Matteo II, 16]. Quanto al numero delle piccole
vittime, anche su questo punto si ha, generalmente, una idea sproporzionata.
Gli studiosi moderni propendono a credere che il totale dei bambini uccisi
oscillasse tra i 30 e i 40; il che non toglie nulla alla efferatezza della
decisione di Erode. Il suo gesto rivela non solo la gelosia del potere, ma
anche lo stato di allarme dovuto a una situazione politica particolarmente
complessa.
Il
Regno di Giudea, che comprendeva anche le regioni limitrofe della Galilea,
della Samaria, dell’Idumea e della Perea, era lungi dal potersi considerare
indipendente. Pompeo Magno lo aveva conquistato, nel 63 a.C., e reso tributario
di Roma, sotto il controllo del legato romano della Siria. Il governo locale
era stato lasciato nelle mani dell’Idumeo Antipatro, finché qualcuno dei
familiari, nell’anno 43, si incaricò di eliminarlo con il veleno. Quattro figli
rimasero a contendersi il Regno e tra questi Erode.
Lasciando
i suoi congiunti ad azzuffarsi in Oriente, Erode puntò diritto su Roma, dove
aveva delle aderenze in alto loco; e
riuscì a ottenere dal Senato il riconoscimento del titolo di Re dei Giudei, beninteso
per sé solo.
Tornato
in patria, Erode impiegò tre anni per far valere i suoi diritti e, una volta
raggiunto il trono, attraverso la violenza e l’intrigo, lo conservò in una
atmosfera di sospetto e di non mai rallentata vigilanza. Fece mettere a morte
suo cognato Aristobulo, i suoi suoceri, la prima moglie e, perfino, i due figli
che aveva avuto da lei.
Un
uomo simile non doveva, certo, farsi tanti scrupoli davanti ai poveri bimbi dei
contadini e dei pastori di Betlemme!
L’antica
profezia di Michea, confermata dalla improvvisa visita dei Magi, doveva
risuonare minacciosa nel suo cervello:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città
principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo
Israele.”
Raffaello Sanzio, Resurrezione di Cristo.
Museu de Arte, San Paolo del Brasile
Questo
misterioso principe, questo rivale potenziale, Erode si proponeva di sopprimerlo
a pochi mesi dalla nascita. Ma invano, perché Giuseppe, avvertito da un Angelo,
aveva, già, provveduto a mettere in salvo la sua sposa Maria e il Bambino.
La
Sacra Famiglia era in viaggio alla volta dell’Egitto.
Di
questo esilio i Vangeli non ci danno il minimo ragguaglio.
Non
si conosce né l’itinerario seguito dai tre pellegrini, né il luogo dove
fissarono la loro temporanea dimora. È probabile che discendessero da Hebron
per Bersabea nel deserto di Faran e di qui alla terra di Gessem, puntando poi
su Cades e Phiton; oppure, da Bersabea potrebbero avere piegato verso destra,
congiungendosi a Rafia con la carovaniera che costeggiava il Mediterraneo ed
entrava in Egitto. Il primo itinerario è, forse, il più probabile, in quanto
era il meno battuto dalle guardie regie. Quanto al soggiorno della Sacra
Famiglia in terra egizia, anche su questo punto siamo nel regno delle ipotesi,
con l’appoggio di qualche pia tradizione.
La
più probabile dimora sembra essere Tell el-Yahudiyeh, situata 25 chilometri a
Nord dell’antica Eliopoli. Il problema pratico di una sistemazione non dovette
presentarsi troppo spinoso per l’artigiano Giuseppe. La voce ebraica horesh, tradotta con il termine greco di
tecton nel Vangelo di Marco, significava, alquanto genericamente, “lavatore
del legno e della pietra”. I Padri sono incerti tra la qualifica di
fabbro e quella di falegname; quest’ultima ha finito con il prevalere. In ogni
caso, Giuseppe, nell’una o nell’altra abilità, non dovette stentare a
sistemarsi, tanto più che la colonia ebraica era fiorente in Egitto, come in
tutti i Paesi mediterranei e pronta ad aiutare i conterranei in difficoltà.
Il
soggiorno non deve essersi protratto a lungo. Alcuni studiosi parlano
addirittura di settimane.
La
via del ritorno, scongiurato, oramai, il timore di Erode, è probabile abbia
seguito l’itinerario lungo la costa.
Il
vecchio tiranno era morto.
Gli
ultimi giorni erano stati terribili: il suo corpo si disfaceva, preda della
corruzione.
Scomparso
lui, il Regno fu suddiviso tra i tre figli maschi: ad Archelao l’Idumea, la
Giudea e la Samaria; a Filippo la Batanea, la Gaulanitide e la Traconitide; a
Erode Antipa, infine, la Galilea e la Perea. I tre si fregiavano del titolo di
etnarchi.
L’ordinamento
doveva essere, nuovamente, modificato nell’anno 6 dell’Era Volgare, quando l’Imperatore
Augusto depose Archelao e fece passare i suoi domini sotto il governo diretto
di Roma, che vi esercitava il suo controllo per mezzo di un procuratore, di
stanza a Cesarea.
Frattanto
la Sacra Famiglia era tornata nel proprio paese, il villaggio galileo di Nazareth,
da dove Maria e Giuseppe erano partiti alla vigilia della nascita del Bambino.
Betlemme
non era la loro terra di origine, ma era la terra di origine del grande
capostipite del loro casato, il Re Davide, e Maria e Giuseppe vi si erano
recati all’epoca del censimento bandito dai Romani, proprio perché, a norma di
bando, le famiglie dovevano farsi registrare nel paese di origine.
Andrea Mantegna, Resurrezione.
Musée des Beaux-Arts, Tours.
L’ondulato
paese di Galilea si estendeva dalla catena del Carmelo e dalle falde dell’Hermon
fino al Giordano e al Lago di Genesareth, detto anche di Tiberiade o Mare di
Galilea. I suoi abitanti erano in maggioranza contadini, pescatori, pastori di
greggi. Il loro modo di parlare, con accento duro e difettoso, era
inconfondibile e li esponeva, talvolta, alle derisioni dei Giudei, più
raffinati e corretti nell’uso della lingua, che, è bene ricordarlo, non era più
l’ebraico dei testi sacri, caduto in disuso, oramai da secoli, e considerato
dalla stragrande maggioranza un idioma erudito e morto, scarsamente
comprensibile.
La
Palestina dei tempi di Gesù parlava l’aramaico, che era il linguaggio comune di
quell’area del Mediterraneo, usato in Siria come in Fenicia, e “ufficiale” nei
rapporti tra governo e sudditi fino dai tempi del dominio persiano. L’antico
ebraico veniva mantenuto in onore come lingua sacra, ma le lezioni scritturali,
per renderle accessibili al popolo, dovevano essere tradotte nell’idioma corrente.
Nelle
città costiere si parlava, anche, la lingua greca: Era familiare, nell’interno,
alle persone colte e all’aristocrazia, più o meno ellenizzante, senza contare la
corte, dove come testimoniano i nomi stessi dei principi – Erode, Archelao,
Filippo – l’uso aveva posto radici profonde.
L’infanzia
e la giovinezza di Gesù, dopo gli eventi singolari che avevano salutato la sua
venuta al mondo, sono avvolte da silenzio: un silenzio interrotto solo nel
dodicesimo anno.
Si
avvicinavano le solennità pasquali e la Sacra Famiglia, secondo un pio costume,
partì con la carovana dei parenti e dei conterranei alla volta di Gerusalemme,
per celebrare la festa entro le mura della Città Santa. Il tragitto, per la via
più breve, era di circa 140 chilometri e si copriva in quattro o cinque giorni,
a piedi o a dorso di mulo; i cavalli erano piuttosto rari, in Palestina, e
destinati unicamente a uso militare. Giunti attraverso la Samaria alle alture
del Monte Scopus, i pellegrini salutavano con il canto dei Salmi il primo
apparire della città santa.
Giotto, Resurrezione e Noli me tangere.
Cappella degli
Scrovegni, Padova.
Il
Tempio di Gerusalemme era il cuore stesso del paese. Unico in tutto il territorio
– nelle altre città non esistevano templi, ma semplici sinagoghe o luoghi di
adunanza e, talvolta, delle scuole rabbiniche – era stato costruito dal Re
Salomone, circa mille anni prima della nascita di Cristo, per riporvi l’Arca
dell’Alleanza, contenente le tavole della legge. Distrutto quasi quattro secoli
dopo per volere di Nabucodonosor, era stato riedificato al ritorno degli Ebrei
dall’esilio babilonese. Erode, poi, per ingraziarsi i sudditi e aggiungere
prestigio alla sua politica di illusoria grandezza, aveva posto mano a una
terza ricostruzione del Tempio, con imponenti lavori di ampliamento e di
abbellimento. Il progetto prevedeva l’impiego di diecimila operai.
Erode
vide l’inaugurazione del Tempio, ma non il suo compimento, che avvenne nell’anno
26 dell’Era Volgare.
La
massa del Tempio era imponente.
“Maestro,
guarda che pietre e che costruzione!” [Marco 13, 1],
doveva
dire un giorno uno dei discepoli a Gesù. Il perimetro delle sacre mura, di
circa 1380 metri, superava quello dell’Acropoli di Atene. Il vasto complesso
comunicava con l’esterno mediante otto porte. Un primo cortile era detto dei
Gentili, perché accessibile a tutti, anche ai pagani; il secondo, più interno,
era il cortile degli Israeliti, all’ingresso del quale una iscrizione bilingue
ammoniva, in greco e in latino, che qualunque straniero avesse oltrepassato
quei limiti sarebbe stato punito con la morte.
Nella
parte più interna era il santuario di Jahvè.
Nel
cosiddetto Portico di Salomone, a levante, pare abbia avuto luogo la disputa di
Gesù con i dottori della legge, proprio
in occasione di quella Pasqua, in cui contava dodici anni.
Manifestata
così, per la prima volta, la sua sapienza al cospetto degli uomini, Gesù
ritorna con Maria e Giuseppe nell’oscurità della casa di Nazareth e là vive
fino a circa trent’anni, semplice artigiano, lavorando a opere di falegnameria.
Agli
albori della vita pubblica di Gesù, grandeggia la figura di Giovanni il
Battista, l’ultimo dei Profeti. L’attività di questi uomini, ispirati da Dio,
era stata, particolarmente, vivida al tempo degli ultimi Re e durante l’esilio
babilonese. Figure maestose e selvagge a un tempo, tuonavano contro l’idolatria
e l’immoralità e proclamavano che l’elemento essenziale del culto doveva essere
l’obbedienza ai precetti divini, le pratiche esteriori non essendone che un
complemento. Dalle loro parole la personalità del Messia venturo usciva
delineata in una luce di altissime e vigorosa poesia. Questi lineamenti, comuni
a tutti i Profeti, si ritrovano nella figura del Battista. Temprato da una vita
di aspra penitenza – vestiva di pelli, si cibava di locuste e di miele
selvatico, passò lungo tempo in solitudine nel Deserto di Giuda –, diede inizio
alla sua predicazione in Perea, nella Tetrarchia di Erode Antipa. Parente
stretto di Gesù per parte di madre, Giovanni si proclamava indegno di
slacciargli i legacci dei calzari e non cessava di ammonire le turbe:
“Voce
di colui che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, raddrizzate i
suoi sentieri.” [Marco 1, 3]
Giovanni
e i suoi discepoli, per disporre l’animo delle genti alla venuta del Salvatore,
praticavano il “battesimo di penitenza” per immersione. È questo il battesimo
che Gesù stesso sollecita prima della sua vita pubblica.
Una
tradizione pone il luogo del battesimo di Cristo sulla sponda occidentale del
fiume, di fronte alla città di Gerico, a 6 chilometri circa dal Mar Morto. Fu
quella la località in cui, secondo il racconto evangelico, “gli si apersero i cieli e vide
lo Spirito di Dio scendere come colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce
dal cielo dire: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiacuto.”
[Matteo 3, 16-17]
Compiuta
la sacra cerimonia, Gesù si ritirò per quaranta giorni, in digiuno e preghiera,
nella regione desertica a Nord-Ovest di Gerico, dove, ancora oggi, il Monte
della Quarantena [Gebel Qarantal], a circa dodici chilometri dal luogo del
battesimo, viene indicato come sua dimora in quel periodo.
Gli
Evangelisti ci dicono che il monte era selvaggio e “popolato di fiere”, che
potevano essere sciacalli, lupi, volpi, forse, anche iene. Diverse grotte
offrivano rifugio a chi vi si ritirava in solitudine: in una di queste si
ravvisa la località dove avvenne la prima tentazione da parte del demonio.
Tiziano Vecellio, Salomè con la testa del Battista.
Galleria Doria
Pamphili, Roma.
Trascorso
questo periodo di penitenza, Gesù doveva incontrare Giovanni ancora una volta,
in Betania Trangiordanica, e, in quella occasione, il Battista avrebbe,
solennemente, proclamato la propria fede in lui:
“Ecco
l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo!” [Giovanni 1, 29]
Non
si sarebbero rivisti mai più.
La
predicazione di Giovanni aveva, oramai,
i giorni contati.
Nel
corso di quel medesimo anno, le sue violente requisitorie contro Erode Antipa,
che tratteneva indebitamente presso di sé, more
uxorio, la moglie del proprio fratello Filippo e aveva ripudiato per lei la
sposa legittima, gli causarono l’imprigionamento nella Fortezza di Macheronte.
In
quel luogo, Giovanni, l’araldo del
deserto, rimase prigioniero per circa dieci mesi, fino alla malaugurata
sera del festino di Erode, quando per compiacere la bella Salomè, figlia di
Erodiade, a domandò la testa di lui.
Frattanto
Gesù aveva dato inizio alla sua predicazione e scelto i suoi primi seguaci.
Alcuni di questi erano stati discepoli del Battista prima che del Cristo:
sicuramente, Andrea e Giovanni, il futuro Evangelista e, forse, anche i loro
rispettivi fratelli, Simon Pietro e
Giacomo. Così pure Filippo apparteneva al gruppo dei Galilei seguaci del
Battista, che, dopo essere stato conquistato da Gesù, conquistò, a sua volta,
Natanaele di Cana, che i più identificarono con l’Apostolo Bartolomeo.
Erano
povera gente.
Le
due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, erano pescatori e
lavoravano mettendo in comune reti, barca e braccia. Gesù promise loro di farli
“pescatori
di uomini” [Marco 1, 17] e loro lo seguirono immediatamente, sebbene,
come osserva, argutamente, San Giovanni Crisostomo, “e voi sapete quale occupazione appassionante
sia la pesca!”. Degli altri, successivamente, chiamati al seguito del
Cristo, vale a dire Tommaso, Giacomo d’Alfeo, suo fratello Giuda detto Taddeo,
Simone lo Zelota e Giuda Iscariota, non si conosce con certezza il mestiere. Si
conosce, invece, il lavoro di Levi detto Matteo, il quale esercitava una attività
particolarmente invisa agli Ebrei: quella di gabelliere o esattore delle
imposte. Simili personaggi erano detti pubblicani e rappresentavano, agli occhi
dei vari Israeliti, tenacemente ostili al governo di Roma, la parte dei
collaborazionisti. L’appalto delle tasse rendeva loro molto bene e la esosità
della intera categoria era proverbiale. Ma Gesù, in questa come in mille altre
occasioni, si dimostra incurante di ogni pregiudizio; e il suo “Vieni
e seguimi.” risuona, immediatamente accolto, davanti al banco dove il
gabelliere esercitava le sue funzioni.
Ecco,
dunque, la piccola frotta in marcia, lungo le strade della Palestina.
“Egli
viaggiava per le città e le borgate predicando e annunciando la buona novella
del Regno di Dio, e i dodici erano con lui.” [Luca 8, 1]
Ai
dodici, che formeranno più tardi il collegio apostolico, si affiancava un certo
numero di discepoli; vi erano, inoltre, delle pie donne, che “li
assistevano con i loro beni” [Luca 7, 3] e con varie prestazioni di indole
pratica, spinte da motivi di amore e di riconoscenza: alcune di loro, infatti,
erano state liberate da spiriti maligni e da malattie. Tesoriere del gruppo
intorno al Maestro era Giuda Iscariota, il quale portava la borsa e aveva la reputazione
di avaro.
Il
vestiario di Gesù e dei suoi seguaci comprendeva la sopravveste, quasi sempre a
forma di mantello, che di notte serviva anche da coperta; la sottoveste o
tonaca di lino o di lana, ampia e lunga fino alle caviglie, alcune volte cucita
sui fianchi, altre volte tessuta in un solo pezzo, da cima a fondo – di questa
seconda foggia era la veste di Gesù, che i soldati dovevano poi giocarsi ai
dadi, ai piedi della Croce –. La cintura era di lino o di lana anch’essa e così
lunga e larga da rigirarsi più volte intorno alla vita ed essere adoperata come
tasca o borsa. L’acconciatura del capo non doveva essere dissimile dalla kefiah dei beduini odierni, ossia una
pezza quadrata di lino o di cotone, ripiegata a triangolo e fermata da un
grosso cordone di lana, più volte rigirato intorno al capo.
Poco
diverso l’abbigliamento delle donne, salvo l’uso di veli più pesanti, a difesa
della testa e del volto. Sia gli uomini sia le donne, fuori di casa, portavano
sandali, allacciati con legacci. La piccola compagnia viaggiava a piedi e, a
volte, in barca. Il paesaggio che si presentava ai loro occhi era molto diverso
da quello della Palestina di oggi. Verde e ridente, ricca di coltivazioni e di
pascoli, appariva come la Terra Promessa di Mosè: “terra di rivi, di acque e di
fontane, dove nei piani e sui monti zampillano sorgenti di fiumi: terra da
grano, da orzo e da viti, dove prosperano i fichi, i melograni e gli uliveti ,
terra di odio e di miele.” [Deuteronomio VIII, 7-8]
La
costa si abbelliva di maestosi cedri, le palme dattifere ondeggiavano al vento
nelle città più calde, come Gerico. Ovunque erano pini e platani e querce;
tamarindi e oleadri; acacie e mimose. L’olivo, una delle ricchezze del paese,
rivestiva i molli declivi delle colline. L’olio migliore, quello destinato a
usi religiosi, si otteneva pestando le olive nel mortaio; per l’olio di uso
domestico si schiacciavano le olive nel torchio di cui ogni oliveto era
fornito. Questo sfondo campestre, agricolo e pastorale, offre innumerevoli
spunti alle parabole del Vangelo. Di proposito, Gesù sceglie immagini familiari
a quegli umili che lo seguono: seminatori che escono a seminare, padroni di
vigne in cerca di lavoratori a giornata, massaie che pongono il loro pane a
lievitare, pecore smarrite, uccelli spensierati che la Provvidenza nutre, gigli
del campo, vestiti meglio “del Re Salomone in tutta la sua gloria”.
Le
regioni dove il Cristo svolse la sua attività evangelizzatrice furono
principalmente la Galilea e la Giudea. Tre dei momenti più significativi della
sua vita pubblica hanno come sfondo le alture. Il digiuno, di cui, già, si è
detto, avviene sul Monte della Quarantena, in Giudea, a poca distanza da
Gerico.
Su
una collina della Galilea avviene la solenne proclamazione del nome dei Dodici,
che, da allora in poi, sarebbero stati chiamati Apostoli e subito dopo, disceso
dalla vetta a un luogo un poco più pianeggiante, Gesù pronuncia il discorso che
sarà detto “della Montagna” o “delle Beatitudini”. Questa altura, dove per la
prima volta risuonarono gli enunciati della più alta e rivoluzionaria tra le
filosofie, pare sia da identificarsi con una collina dei dintorni di Cafarnao,
al disopra di Tabgha. Nel Monte Tabor, in Galilea, poi, gli studiosi, fino dal
IV secolo, ravvisarono il luogo della Trasfigurazione di Cristo, operatasi alla
presenza dei tre Apostoli prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Questo monte,
nonostante la qualifica di eccelso che gli Evangelisti gli attribuiscono, non
si eleva più di 562 metri sul livello del mare, ma la sua posizione isolata,
all’estremo Nord-Est della pianura di Esdrelon, gli conferisce maestà.
Il
Lago di Genesareth, detto anche Mare di Galilea, è presente in infinite pagine
del Vangelo. Sulle sue rive avviene la scelta degli Apostoli: la pesca
miracolosa, la tempesta sedata, il cammino di Gesù e, poi, di Pietro, sulla
sommità delle onde sono tutti episodi legati a questo lago, nel quale andarono
a gettarsi i demoni di Gerasa, dopo essersi impossessati di un branco di
porci.
A
Gerusalemme, la città santa dei Giudei, Gesù si reca in occasione della prima e
della seconda Pasqua della sua vita pubblica; in occasione delle due grandi
feste ebraiche dei Tabernacoli e della Dedicazione, nel terzo anno della
predicazione e, frequentemente, durante la Settima Santa. In quei periodi estivi,
il Maestro alloggiava fuori città, sovente a Betania, nella casa dell’amico
Lazzaro.
I
luoghi preferiti per la sua predicazione erano le immediate adiacenze del
Tempio.
Il
Vangelo registra inoltre, dei viaggi nella Samaria, nella Perea, attraverso le
città della Decapoli, e nella terra dei gersani, sulla riva orientale del Lago
di Genesareth.
Una
sola volta Gesù si spinse oltre i confini della Palestina, quando, tra il
giugno e il luglio dell’anno 781 di Roma, terzo della sua vita pubblica, entrò
in Fenicia e giunse nelle vicinanze delle due celebri città pagane di Tiro e di
Sidone. In questa zona ebbe luogo uno dei più commoventi miracoli, quello
sollecitato dalla donna cananea – il termine equivaleva a siro-fenicia – a
sollievo di sua figlia tormentata da un demone. La prima replica di Gesù a
questa donna lascia sconcertati per la sua apparente durezza:
21 Partito
di là, Gesù si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidone. 22 Ed
ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: “Abbi
pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da
un demonio.” 23 Ma
egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano
dicendo: “Mandala via, perché ci grida dietro.” 24 Ma
egli rispose: “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele.”
25 Ella
però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: “Signore, aiutami!” 26 Gesù
rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini.” 27 Ma
ella disse: “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle
briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.” 28 Allora
Gesù le disse: “Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi.” E da quel
momento sua figlia fu guarita.
[Matteo
15, 21,28]
L’allusione
contenuta nella parola “cani”, che indicava anche gli infedeli, avrebbe dovuto
scoraggiare la povera supplice. Ed ecco, invece, la bellissima risposta di lei:
“Dici
bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono
dalla mensa dei padroni.”
E
il miracolo si compie.
Altre
figure di infedeli sul cammino di Gesù erano quelle dei dominatori romani:
soldati e funzionari. Uno dei più significativi incontri avviene a Cafarnao, la
“Città
di Gesù” [Matteo 9, 1] e il centro del suo ministero in Galilea. Questo
sobborgo, oggi interamente scomparso, potrebbe identificarsi con Tell-Hum,
sulla sponda nord-occidentale del Lago di Genesareth. Ai tempi di Gesù, vi era
un posto di dogana – dove aveva svolto le sue funzioni Levi-Matteo, prima della
chiamata – e, probabilmente, anche un porto di una certa rilevanza. Molte scene
del Vangelo hanno per sfondo Cafarnao e una di queste ci presenta la figura di
un centurione romano o, secondo un linguaggio moderno, di un capitano delle
truppe di occupazione. Questo straniero era, tuttavia, ben visto dagli stessi
Ebrei, a favore dei quali aveva fatto costruire una sinagoga. Nel sollecitare
da Gesù la guarigione di un servo, cui era molto affezionato, l’ufficiale
traccia un quadro vivacissimo della disciplina militare:
5 Quando
Gesù fu entrato in Capernaum, un centurione venne da lui, pregandolo e dicendo:
6 ”Signore,
il mio servo giace in casa paralitico e soffre moltissimo.” 7 Gesù
gli disse: “Io verrò e lo guarirò.” 8 Ma
il centurione rispose: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio
tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9 Perché
anche io sono uomo sottoposto ad altri e ho sotto di me dei soldati; e dico a
uno: – Va’ –, ed egli va; e a un altro: – Vieni –, ed egli viene; e al mio
servo: – Fa’ questo –, ed egli lo fa”. 10 Gesù,
udito questo, ne restò meravigliato, e disse a quelli che lo seguivano: “Io vi
dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande! 11 E
io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a
tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli, 12 ma
i figli del Regno saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e
stridor di denti.” 13 Gesù
disse al centurione: “Va’ e ti sia fatto come hai creduto.” E il servitore fu
guarito in quella stessa ora.
[Matteo
8, 5-13]
Il
buon “capitano” intendeva dire che Gesù non aveva che da ordinare alla malattia
di ritirarsi e l’uomo sarebbe guarito. La sua candida fede gli ottenne, oltre
al prodigio richiesto, una lode altissima:
“Io
vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande!”
Parzialmente
infedeli erano ritenuti anche i Samaritani, popolazione mista di discendenti
dei Giudei e di coloni Assiri, stabilitisi in Samaria dopo la loro vittoria nel
598 a.C. Gli Ebrei ortodossi li avevano in grande sospetto e anche in
dispregio, perché tra i libri della Bibbia accettavano solo il Pentateuco,
mescolandolo con superstizioni di vario genere, e perché avevano osato
fabbricare sul Monte Garizim un tempio antagonista a quello di Gerusalemme.
Gesù
fece di un Samaritano la figura di spicco di una parabola indimenticabile,
quella dell’amore fraterno tra gli uomini e, entrato in Samaria, durante una
sosta accanto al pozzo di Giacobbe, nei pressi della città di Sicar – forse, l’attuale
località di Al-’Askar – non sdegnò di conversare con una delle donne del luogo,
convertendola dalla sua vita di disordini.
I
paria della società trovavano grazia agli occhi del Maestro.
I
lebbrosi, infelicissimi tra tutti gli infermi del mondo antico, accorrevano a
lui con fiducia.
“Chi
come infetto da lebbra sarà stato separato a giudizio del sacerdote”,
sentenziava
il Levitico,
“avrà
le vesti scucite, il capo nudo e coprendosi la bocca con la veste, andrà
gridando che egli è contaminato e impuro. Per tutto il tempo che sarà lebbroso
e immondo, abiterà solo, fuori degli accampamenti.” [Levitico XIII, 44-46]
Gesù
li accoglieva e li risanava, poi, in ossequio alla legge, li esortava a
mostrarsi ai sacerdoti, perché fosse verificata la realtà della
guarigione.
Medesima
indulgenza verso i lebbrosi morali: l’adultera, le peccatrici pubbliche, i
collaborazionisti, i Samaritani, gli Infedeli. È chiaro che un simile
atteggiamento suscitò l’animosità di coloro che si ritenevano i depositari
della Verità e i custodi del buon costume: primi tra tutti i Farisei e i
Sadducei.
Annibale Carracci, Resurrezione di Cristo.
Musée
du Louvre, Parigi.
Caravaggio, Incredulità di san Tommaso.
Bildergalerie,
Potsdam.
I
Farisei – Perushim, dal verbo parasch, separare – erano staccati dai
rimanenti Ebrei per il fatto che basavano la loro condotta di vita non solo
sulla legge scritta, data da Dio a Mosè, ma anche sulla legge orale, ossia su una
quantità di precetti tradizionali, nella cui osservanza ponevano uno zelo e una
minuzia assolutamente sproporzionati. La religione di queste persone per bene,
così superbe della loro integrità morale, troppo spesso si esauriva in una
serie di pratiche esteriori, non vivificate dallo spirito. Provenienti da varie
classi sociali, ma soprattutto dalla borghesia ricca. Fortemente rappresentati
nel Sinedrio e nelle cariche pubbliche, i Farisei politicamente erano nazionalisti,
avversi alla dominazione romana: sognavano un Messia guerriero, che avrebbe
ridato a Israele l’antica libertà e umiliato i suoi nemici nella polvere.
Identificare questo sogno bellicoso nel Regno di Dio predicato dal rabbi di
Nazareth ripugnava alla loro mentalità non meno che ai loro immediati
interessi. Eppure, vi furono tra gli amici e simpatizzanti del Cristo anche dei
Farisei, devoti e sinceri.
I
Sadducei – dalla voce ebraica tsaddiq,
giusto, secondo alcuni, o dal nome di Sadoq, elevato al Sommo Sacerdozio da
Salomone – costituivano l’aristocrazia giudaica. Indifferenti alle tradizioni,
si attenevano alla sola legge scritta. Moltissimi sacerdoti uscivano dai loro
ranghi. In politica si mostravano opportunisti, non alieni dal corteggiare i
dominatori romani, che nell’intimo del loro spirito disprezzavano.
Né
si deve dimenticare la casta degli Scribi, spesso accomunati ai Farisei nelle
pagine del Vangelo: questi Scribi erano i conoscitori della legge, talmente
familiari con i testi sacri da saperli applicare alle più minute circostanze della
vita. La maggioranza di loro era costituita da laici di principi farisei; e, in
ogni caso, lo spirito era il medesimo.
Vi
era, infine, la casta ristretta e potente dei Sommi Sacerdoti o Principi dei
Sacerdoti, formata da coloro che avevano esercitato la massima dignità
sacerdotale e dalle loro famiglie.
Paolo Veronese, Resurrezione.
Chiesa di San
Francesco della Vigna, Venezia.
Pinturicchio, Resurrezione di Cristo con Papa Alessandro
VI inginocchiato.
Appartamento Borgia, Vaticano.
Il
Sommo Sacerdozio, che durava a vita nel tempo antico, dall’epoca di Erode in
poi era limitato a un certo numero di anni. Anche deposto, tuttavia, il Sommo
Sacerdote continuava a godere di una grandissima autorità. Tale era il caso di
Anna – abbreviazione di Anania – al momento della cattura e del processo di
Gesù. La somma autorità sacerdotale era passata a suo genero Caifa, ma il
prestigio del vecchio era tale che, per le decisioni di grave importanza, si ricorreva
a lui.
Sono
queste le classi che, offese nelle loro aspirazioni nazionalistiche, nei loro
sogni di supremazia religiosa ed etnica e nel loro orgoglio spirituale,
maturano la rovina del Nazareno. Sono loro rappresentanti quelli che si
radunano nel palazzo del pontefice Caifa, per tramare come impadronirsi di Gesù
e farlo morire. Né manca loro, al solito, una giustificazione morale:
“È
bene che un uomo muoia per il popolo.”
Ma del popolo hanno timore; qualcuno
raccomanda che l’arresto avvenga “non durante la festa, perché non nasca
tumulto fra il popolo”.
1 E
avvenne che, quando Gesù ebbe finito tutti questi discorsi, disse ai suoi
discepoli: 2 “Voi
sapete che fra due giorni è la Pasqua, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato
per esser crocifisso.” 3 Allora
i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani del popolo si riunirono nella
corte del sommo sacerdote di nome Caiafa. 4 E tennero consiglio per prendere Gesù con
inganno e farlo morire; 5 ma
dicevano: “Non durante la festa, perché non nasca tumulto fra il popolo.”
Matteo 26,1-5
1 Ora,
due giorni dopo era la Pasqua e la
festa degli Azzimi; e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il
modo di prendere Gesù con inganno e ucciderlo. 2 Ma dicevano: “Non durante la festa, perché
non succeda un tumulto di popolo.”
Marco 14,1-2
1 Si
avvicinava intanto la festa degli Azzimi, detta Pasqua. 2 Ed i capi dei sacerdoti
e gli scribi cercavano come farlo morire, poiché temevano il popolo.
Luca 22,1-2
45 Allora
molti dei Giudei, che erano venuti da Maria e avevano visto tutto quello che
Gesù aveva fatto, credettero in lui.
I
farisei deliberano di far morire Gesù 46 Ma alcuni di
loro andarono dai farisei e riferirono loro quanto Gesù aveva fatto. 47 Allora i capi dei
sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che facciamo? Quest’uomo
fa molti segni. 48 Se
lo lasciamo andare avanti così,
tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo e
la nostra nazione.” 49 Ma
uno di loro, Caiafa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi
non capite nulla; 50 e
non considerate che conviene per noi che un sol uomo muoia per il popolo e non
perisca tutta la nazione.” 51 Or
egli non disse questo da se stesso; ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno,
profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, 52 e non solo per la
nazione, ma anche per raccogliere in uno i figli di Dio dispersi. 53 Da quel giorno dunque
deliberarono di farlo morire.
Giovanni 11,45-53
Si
avvicinava, infatti, la quarta Pasqua dacché Gesù aveva iniziato la sua vita
pubblica: e Lui si preparava a festeggiarla a Gerusalemme, come le due prime,
alloggiando nel vicino borgo di Betania, dove era la casa di tre carissimi amici:
Lazzaro il risuscitato e le sue sorelle Marta e Maria.
Nella
cattura e nel processo di Gesù la figura meno abietta è, indiscutibilmente,
quella del procuratore romano, Ponzio Pilato. Questo funzionario, distaccato in
Giudea fino dall’anno 26 dell’Era Volgare e, quindi, oramai familiare con l’ambiente
religioso e politico del paese e con i suoi retroscena, fa quanto sta in lui
per salvare il prigioniero, nei limiti del possibile o meglio, nei limiti in
cui gli è dato di farlo senza compromettere la sua preziosa carriera.
Personalmente,
Pilato sembra convinto dell’innocenza di Gesù.
Sua
moglie, cui la tradizione attribuisce il nome di Claudia Procula, gli chiede di
non infierire su “quel giusto”, perché ha avuto dei sogni tormentosi e si
cruccia molto pensando al processo. Questa figura di donna pietosa, che appare,
fugacemente, in margine alla pagina più tragica del Vangelo, ha, sempre, appassionato
gli studiosi. Alcuni sostengono che si fosse convertita alle dottrine del giudaesimo.
Non dovrebbe fare meraviglia, se si pensa che quasi nella medesima epoca, a
Roma, molti personaggi in vista si interessavano alle dottrine degli immigrati
israeliti e ne seguivano le pratiche religiose. Aristio Fusco, l’amico del
poeta Orazio, era uno di questi.
Pilato,
che prevede una tempesta politica e, forse, anche una tempesta domestica, fa il
possibile per tirarsi fuori dall’impasse
con un minimo di danni.
La
sua prima reazione è quella tipica del burocrate: la questione non è di
competenza del suo ufficio. E rimanda il prigioniero, in quanto Galileo, al Tetrarca
di Galilea. Il primo interrogatorio lo aveva discretamente turbato e doveva avere
tirato un respiro di sollievo ed essersi congratulato con se stesso per avere
trovato la escamotage legale, che
poneva Gesù al di fuori della sua giurisdizione territoriale.
Ma
Pilato si confronta con gente più scaltra di lui.
I
successivi espedienti, dopo che Erode Antipa gli ha rimandato il prigioniero –
l’offerta di liberazione in alternativa con Barabba, la crudele flagellazione,
le ripetute asserzioni di “non trovare in lui alcuna colpa” –
cozzano contro la bieca volontà dei Farisei, degli Anziani e dei Principi dei
Sacerdoti.
Pilato
si affanna a mantenere la questione nei limiti di un incidente locale e di
interesse strettamente religioso, ma i nemici del Cristo la pongono in termini
politici, ben sapendo che soltanto a questi Pilato è sensibile.
L’uomo
si è detto Re, dunque, rifiuta obbedienza a Cesare, poiché i leali sudditi di
Palestina non riconoscono altro Sovrano che Cesare, l’Imperatore di Roma.
Vi
è di che sorridere amaramente, pensando a quali bocche di accesi nazionalisti
pronunciano queste sviscerate dichiarazioni di lealtà.
Ma
chapeau all’astuzia farisaica!
Volevano
chiudere la bocca al procuratore romano, e hanno trovato il modo.
A
Pilato non resta che un ultimo gesto di amara impotenza: lavarsi le mani nel
bacile, di fronte al popolo insensato che strepita sempre più forte.
Il
picchetto di soldati è pronto per accompagnare il condannato alla piccola
altura detta il “Teschio”, dove verrà rizzato il patibolo.
Anche
il patibolo è pronto.
Probabilmente
la croce romana a forma di T – crux
comissa – alta poco meno di tre metri e destinata al supplizio dei
malfattori e degli schiavi. Come i gladiatori ribelli dell’epoca di Spartaco,
come i pirati, schiuma del Mediterraneo, catturati da Pompeo… Un supremo
scherno è nel cartello, compilato dal procuratore romano, per indicare la causa
della condanna:
“Gesù
Nazareno, Re dei Giudei”
Invano,
gli alti dignitari del Sinedrio si affannano a protestare contro quella
scritta, che suona un insulto a tutto il paese.
Pilato
è irremovibile.
In
quel cartello è la sua unica, amara, miserabile rivincita su coloro che si sono
serviti della sua autorità per i propri fini.
L’ora
sta per scoccare!
Cristo
è risorto!
Sì,
Cristo è risorto!
Daniela
Zini
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