“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 30 aprile 2019

Pm Ingroia su riesumazione cadavere Giuliano - ESCLUSIVO

Salvatore Giuliano Documentary - 12.07.1950

Segreti di Stato - Strage di Portella della ginestra.

Speciale Riesumazione Salvatore Giuliano

Caso Giuliano, due infermieri; "per l'avvocaticchio il bandito scappò" -...

MISTERO SULLA MORTE DI SALVATORE GIULIANO, SPARITO IL FASCICOLO





Un giallo nel giallo. Il mistero della morte di Salvatore Giuliano si
arricchisce di un nuovo colpo di scena.Il fascicolo aperto subito dopo
l'omicidio del responsabile della strage di Portella della Ginestra,
avvenuto il 5 luglio del 1950, è sparito. A scoprire l'ammanco, i pm di
Palermo che hanno riaperto l'inchiesta sul delitto: hanno cercato invano
l'incartamento per esaminare il referto firmato dal medico legale dopo
il decesso. In questo delitto ormai sembra tutto messo in discussione: i
pubblici ministeri infatti ipotizzano che quello sepolto nel cimitero
di Montelepre non sia il cadavere del bandito e per fare luce su questo
mistero hanno cercato gli incartamenti dell'epoca. Ma delle conclusioni
dell'esame autoptico e del fascicolo non c'è traccia. Né in Procura, né
all'Archivio storico di Palermo dove tutti gli atti di inchieste penali
devono essere portati dopo 50 anni. Il mistero si infittisce, e a nulla
sono serviti il raffronto con i familiari in vita di Giuliano e neppure
il confronto sui resti organici trovati sui vestiti. La Procura ora
potrebbe decidere di riesumare i genitori di Giuliano e confrontarne il
dna con quello del cadavere sepolto a Montelepre.

Salvatore Giuliano INEDITO Piana degli Albanesi

venerdì 26 aprile 2019

Le massacre de Charlie Hebdo : Position de l'imam Khattabi

The Extraordinary Life of an Adventurer, Adviser to Kings, Ally of Lawre...

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Gertrude Bell: A Khatun Riding By

domenica 21 aprile 2019

... E ABITO' TRA NOI! di Daniela Zini



… e abitò tra noi!

1 Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. 2 Essa era nel principio con Dio. 3 Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. 4 In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. 5 La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta.
6 Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Egli stesso non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. 9 La vera luce che illumina ogni uomo stava venendo nel mondo. 10 Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. 11 È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto; 12 ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, 13 i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio.
14 E la Parola è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre.
15 Giovanni gli ha reso testimonianza, esclamando: “Era di lui che io dicevo: – Colui che viene dopo di me mi ha preceduto, perché era prima di me. 16 Infatti, dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. –” 17 Poiché la legge è stata data per mezzo di Mosè; la grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù Cristo. 18 Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere.
Giovanni 1,1-18



“Non avessi conosciuto il Cristo, Dio sarebbe stato un vocabolo vuoto di senso… il Dio dei filosofi non avrebbe avuto alcun posto nella mia vita morale. Era necessario che Dio si immergesse nell’Umanità, che in un preciso momento della Storia… un essere umano, fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compisse certi atti, perché io mi gettassi in ginocchio...”
François Mauriac




La Storia che sto per raccontarvi è la più bella Storia mai raccontata: è la Storia di Gesù di Nazareth.  
Nessuno ha osato dire ciò che Lui ha detto, nessuno ha avuto una Storia pari alla Sua. La Sua Persona e il Suo Messaggio hanno influenzato le stesse grandi religioni del mondo.
Leggere la Sua Parola diretta e incisiva, trasmessaci dai Vangeli, mi lascia, ancora, senza parole, emozionata... mi spinge, ineluttabilmente, a viverla, mettendola in pratica nel quotidiano...
Gesù ha abbandonato la Croce possa scendere, di nuovo, tra noi…
Questo è l’augurio, il mio augurio a Voi e alle Vostre Famiglie per questa Pasqua di Resurrezione.  
 




 
 

 







La Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.




























 La casa di Maria a Gerusalemme.




 
Sandro Botticelli, Natività Mistica.
National Galery, Londra.





La storia più bella mai raccontata – quella di Gesù, detto il Cristo – è poco conosciuta dai più. Circolano in proposito le più grossolane approssimazioni, e quegli stessi che si dichiarano cattolici praticanti, sovente, non conoscono  del Vangelo altro che i brani scelti legati al ciclo liturgico delle messe domenicali, né si sono, mai, preoccupati di approfondirne il nesso logico o la cornice storica.
Gli errori e le confusioni iniziano a proposito dell’epoca esatta in cui Gesù venne al mondo. La stragrande maggioranza fa coincidere l’anno della sua nascita con il 754 di Roma, mentre diversi studiosi hanno dimostrato che dovrebbe essere retrodatata al 747 o, al più tardi, al 748 di Roma.
L’Era Volgare, in base alla quale noi computiamo il nostro tempo, è dunque, in ritardo di sei o sette anni.
L’errore risale a Dionigi il Piccolo, monaco scita del VI secolo, il quale pose nel 754 la morte di Erode e circa nella medesima epoca la venuta al mondo di Nostro Signore.
Ora, noi sappiamo, invece, che Erode si spense a Gerico nella primavera dell’anno 750 di Roma. Esaminando, poi, il Vangelo di Matteo, risulta che la nascita di Gesù dovette precedere di almeno un biennio la scomparsa di Erode, in quanto i Magi lo trovarono, ancora, risiedente in Gerusalemme e, verosimilmente, in buona salute, poiché si proponeva di recarsi in persona a “adorarlo a Betlemme”.
Un biennio ci riporta, mese più mese meno, alla data del 748 di Roma. È, anche, abbastanza significativo che, nel suo feroce decreto, Erode abbia ordinato lo sterminio di tutti i bambini maschi di Betlemme e dintorni, “dai due anni in giù” [Matteo II, 16]. Quanto al numero delle piccole vittime, anche su questo punto si ha, generalmente, una idea sproporzionata. Gli studiosi moderni propendono a credere che il totale dei bambini uccisi oscillasse tra i 30 e i 40; il che non toglie nulla alla efferatezza della decisione di Erode. Il suo gesto rivela non solo la gelosia del potere, ma anche lo stato di allarme dovuto a una situazione politica particolarmente complessa.
Il Regno di Giudea, che comprendeva anche le regioni limitrofe della Galilea, della Samaria, dell’Idumea e della Perea, era lungi dal potersi considerare indipendente. Pompeo Magno lo aveva conquistato, nel 63 a.C., e reso tributario di Roma, sotto il controllo del legato romano della Siria. Il governo locale era stato lasciato nelle mani dell’Idumeo Antipatro, finché qualcuno dei familiari, nell’anno 43, si incaricò di eliminarlo con il veleno. Quattro figli rimasero a contendersi il Regno e tra questi Erode.
Lasciando i suoi congiunti ad azzuffarsi in Oriente, Erode puntò diritto su Roma, dove aveva delle aderenze in alto loco; e riuscì a ottenere dal Senato il riconoscimento del titolo di Re dei Giudei, beninteso per sé solo.
Tornato in patria, Erode impiegò tre anni per far valere i suoi diritti e, una volta raggiunto il trono, attraverso la violenza e l’intrigo, lo conservò in una atmosfera di sospetto e di non mai rallentata vigilanza. Fece mettere a morte suo cognato Aristobulo, i suoi suoceri, la prima moglie e, perfino, i due figli che aveva avuto da lei.
Un uomo simile non doveva, certo, farsi tanti scrupoli davanti ai poveri bimbi dei contadini e dei pastori di Betlemme!
L’antica profezia di Michea, confermata dalla improvvisa visita dei Magi, doveva risuonare minacciosa nel suo cervello:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un principe, che pascerà il mio popolo Israele.”
 
Raffaello Sanzio, Resurrezione di Cristo.
Museu de Arte, San Paolo del Brasile

Questo misterioso principe, questo rivale potenziale, Erode si proponeva di sopprimerlo a pochi mesi dalla nascita. Ma invano, perché Giuseppe, avvertito da un Angelo, aveva, già, provveduto a mettere in salvo la sua sposa Maria e il Bambino.
La Sacra Famiglia era in viaggio alla volta dell’Egitto.
Di questo esilio i Vangeli non ci danno il minimo ragguaglio.
Non si conosce né l’itinerario seguito dai tre pellegrini, né il luogo dove fissarono la loro temporanea dimora. È probabile che discendessero da Hebron per Bersabea nel deserto di Faran e di qui alla terra di Gessem, puntando poi su Cades e Phiton; oppure, da Bersabea potrebbero avere piegato verso destra, congiungendosi a Rafia con la carovaniera che costeggiava il Mediterraneo ed entrava in Egitto. Il primo itinerario è, forse, il più probabile, in quanto era il meno battuto dalle guardie regie. Quanto al soggiorno della Sacra Famiglia in terra egizia, anche su questo punto siamo nel regno delle ipotesi, con l’appoggio di qualche pia tradizione.
La più probabile dimora sembra essere Tell el-Yahudiyeh, situata 25 chilometri a Nord dell’antica Eliopoli. Il problema pratico di una sistemazione non dovette presentarsi troppo spinoso per l’artigiano Giuseppe. La voce ebraica horesh, tradotta con il termine greco di tecton nel Vangelo di Marco, significava, alquanto genericamente, “lavatore del legno e della pietra”. I Padri sono incerti tra la qualifica di fabbro e quella di falegname; quest’ultima ha finito con il prevalere. In ogni caso, Giuseppe, nell’una o nell’altra abilità, non dovette stentare a sistemarsi, tanto più che la colonia ebraica era fiorente in Egitto, come in tutti i Paesi mediterranei e pronta ad aiutare i conterranei in difficoltà.
Il soggiorno non deve essersi protratto a lungo. Alcuni studiosi parlano addirittura di settimane.
La via del ritorno, scongiurato, oramai, il timore di Erode, è probabile abbia seguito l’itinerario lungo la costa.
Il vecchio tiranno era morto.
Gli ultimi giorni erano stati terribili: il suo corpo si disfaceva, preda della corruzione.
Scomparso lui, il Regno fu suddiviso tra i tre figli maschi: ad Archelao l’Idumea, la Giudea e la Samaria; a Filippo la Batanea, la Gaulanitide e la Traconitide; a Erode Antipa, infine, la Galilea e la Perea. I tre si fregiavano del titolo di etnarchi.
L’ordinamento doveva essere, nuovamente, modificato nell’anno 6 dell’Era Volgare, quando l’Imperatore Augusto depose Archelao e fece passare i suoi domini sotto il governo diretto di Roma, che vi esercitava il suo controllo per mezzo di un procuratore, di stanza a Cesarea.   
Frattanto la Sacra Famiglia era tornata nel proprio paese, il villaggio galileo di Nazareth, da dove Maria e Giuseppe erano partiti alla vigilia della nascita del Bambino.
Betlemme non era la loro terra di origine, ma era la terra di origine del grande capostipite del loro casato, il Re Davide, e Maria e Giuseppe vi si erano recati all’epoca del censimento bandito dai Romani, proprio perché, a norma di bando, le famiglie dovevano farsi registrare nel paese di origine.


Andrea Mantegna, Resurrezione.
Musée des Beaux-Arts, Tours.

L’ondulato paese di Galilea si estendeva dalla catena del Carmelo e dalle falde dell’Hermon fino al Giordano e al Lago di Genesareth, detto anche di Tiberiade o Mare di Galilea. I suoi abitanti erano in maggioranza contadini, pescatori, pastori di greggi. Il loro modo di parlare, con accento duro e difettoso, era inconfondibile e li esponeva, talvolta, alle derisioni dei Giudei, più raffinati e corretti nell’uso della lingua, che, è bene ricordarlo, non era più l’ebraico dei testi sacri, caduto in disuso, oramai da secoli, e considerato dalla stragrande maggioranza un idioma erudito e morto, scarsamente comprensibile.
La Palestina dei tempi di Gesù parlava l’aramaico, che era il linguaggio comune di quell’area del Mediterraneo, usato in Siria come in Fenicia, e “ufficiale” nei rapporti tra governo e sudditi fino dai tempi del dominio persiano. L’antico ebraico veniva mantenuto in onore come lingua sacra, ma le lezioni scritturali, per renderle accessibili al popolo, dovevano essere tradotte nell’idioma corrente.
Nelle città costiere si parlava, anche, la lingua greca: Era familiare, nell’interno, alle persone colte e all’aristocrazia, più o meno ellenizzante, senza contare la corte, dove come testimoniano i nomi stessi dei principi – Erode, Archelao, Filippo – l’uso aveva posto radici profonde.
L’infanzia e la giovinezza di Gesù, dopo gli eventi singolari che avevano salutato la sua venuta al mondo, sono avvolte da silenzio: un silenzio interrotto solo nel dodicesimo anno.
Si avvicinavano le solennità pasquali e la Sacra Famiglia, secondo un pio costume, partì con la carovana dei parenti e dei conterranei alla volta di Gerusalemme, per celebrare la festa entro le mura della Città Santa. Il tragitto, per la via più breve, era di circa 140 chilometri e si copriva in quattro o cinque giorni, a piedi o a dorso di mulo; i cavalli erano piuttosto rari, in Palestina, e destinati unicamente a uso militare. Giunti attraverso la Samaria alle alture del Monte Scopus, i pellegrini salutavano con il canto dei Salmi il primo apparire della città santa.
 
Giotto, Resurrezione e Noli me tangere.
Cappella degli Scrovegni, Padova.

Il Tempio di Gerusalemme era il cuore stesso del paese. Unico in tutto il territorio – nelle altre città non esistevano templi, ma semplici sinagoghe o luoghi di adunanza e, talvolta, delle scuole rabbiniche – era stato costruito dal Re Salomone, circa mille anni prima della nascita di Cristo, per riporvi l’Arca dell’Alleanza, contenente le tavole della legge. Distrutto quasi quattro secoli dopo per volere di Nabucodonosor, era stato riedificato al ritorno degli Ebrei dall’esilio babilonese. Erode, poi, per ingraziarsi i sudditi e aggiungere prestigio alla sua politica di illusoria grandezza, aveva posto mano a una terza ricostruzione del Tempio, con imponenti lavori di ampliamento e di abbellimento. Il progetto prevedeva l’impiego di diecimila operai.
Erode vide l’inaugurazione del Tempio, ma non il suo compimento, che avvenne nell’anno 26 dell’Era Volgare.
La massa del Tempio era imponente.
“Maestro, guarda che pietre e che costruzione!” [Marco 13, 1],
doveva dire un giorno uno dei discepoli a Gesù. Il perimetro delle sacre mura, di circa 1380 metri, superava quello dell’Acropoli di Atene. Il vasto complesso comunicava con l’esterno mediante otto porte. Un primo cortile era detto dei Gentili, perché accessibile a tutti, anche ai pagani; il secondo, più interno, era il cortile degli Israeliti, all’ingresso del quale una iscrizione bilingue ammoniva, in greco e in latino, che qualunque straniero avesse oltrepassato quei limiti sarebbe stato punito con la morte.
Nella parte più interna era il santuario di Jahvè.
Nel cosiddetto Portico di Salomone, a levante, pare abbia avuto luogo la disputa di Gesù  con i dottori della legge, proprio in occasione di quella Pasqua, in cui contava dodici anni.
Manifestata così, per la prima volta, la sua sapienza al cospetto degli uomini, Gesù ritorna con Maria e Giuseppe nell’oscurità della casa di Nazareth e là vive fino a circa trent’anni, semplice artigiano, lavorando a opere di falegnameria.
Agli albori della vita pubblica di Gesù, grandeggia la figura di Giovanni il Battista, l’ultimo dei Profeti. L’attività di questi uomini, ispirati da Dio, era stata, particolarmente, vivida al tempo degli ultimi Re e durante l’esilio babilonese. Figure maestose e selvagge a un tempo, tuonavano contro l’idolatria e l’immoralità e proclamavano che l’elemento essenziale del culto doveva essere l’obbedienza ai precetti divini, le pratiche esteriori non essendone che un complemento. Dalle loro parole la personalità del Messia venturo usciva delineata in una luce di altissime e vigorosa poesia. Questi lineamenti, comuni a tutti i Profeti, si ritrovano nella figura del Battista. Temprato da una vita di aspra penitenza – vestiva di pelli, si cibava di locuste e di miele selvatico, passò lungo tempo in solitudine nel Deserto di Giuda –, diede inizio alla sua predicazione in Perea, nella Tetrarchia di Erode Antipa. Parente stretto di Gesù per parte di madre, Giovanni si proclamava indegno di slacciargli i legacci dei calzari e non cessava di ammonire le turbe:
“Voce di colui che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.”  [Marco 1, 3]
Giovanni e i suoi discepoli, per disporre l’animo delle genti alla venuta del Salvatore, praticavano il “battesimo di penitenza” per immersione. È questo il battesimo che Gesù stesso sollecita prima della sua vita pubblica.
Una tradizione pone il luogo del battesimo di Cristo sulla sponda occidentale del fiume, di fronte alla città di Gerico, a 6 chilometri circa dal Mar Morto. Fu quella la località in cui, secondo il racconto evangelico, “gli si apersero i cieli e vide lo Spirito di Dio scendere come colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo dire: “Questo è il mio Figlio diletto, nel quale mi sono compiacuto.” [Matteo 3, 16-17]
 

 

Compiuta la sacra cerimonia, Gesù si ritirò per quaranta giorni, in digiuno e preghiera, nella regione desertica a Nord-Ovest di Gerico, dove, ancora oggi, il Monte della Quarantena [Gebel Qarantal], a circa dodici chilometri dal luogo del battesimo, viene indicato come sua dimora in quel periodo.
Gli Evangelisti ci dicono che il monte era selvaggio e “popolato di fiere”, che potevano essere sciacalli, lupi, volpi, forse, anche iene. Diverse grotte offrivano rifugio a chi vi si ritirava in solitudine: in una di queste si ravvisa la località dove avvenne la prima tentazione da parte del demonio. 
 Tiziano Vecellio, Salomè con la testa del Battista.
Galleria Doria Pamphili, Roma.

Trascorso questo periodo di penitenza, Gesù doveva incontrare Giovanni ancora una volta, in Betania Trangiordanica, e, in quella occasione, il Battista avrebbe, solennemente, proclamato la propria fede in lui:
“Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo!” [Giovanni 1, 29]
Non si sarebbero rivisti mai più.
La predicazione di Giovanni  aveva, oramai, i giorni contati.
Nel corso di quel medesimo anno, le sue violente requisitorie contro Erode Antipa, che tratteneva indebitamente presso di sé, more uxorio, la moglie del proprio fratello Filippo e aveva ripudiato per lei la sposa legittima, gli causarono l’imprigionamento nella Fortezza di Macheronte.
In quel luogo, Giovanni, l’araldo del deserto, rimase prigioniero per circa dieci mesi, fino alla malaugurata sera del festino di Erode, quando per compiacere la bella Salomè, figlia di Erodiade, a domandò la testa di lui.
Frattanto Gesù aveva dato inizio alla sua predicazione e scelto i suoi primi seguaci. Alcuni di questi erano stati discepoli del Battista prima che del Cristo: sicuramente, Andrea e Giovanni, il futuro Evangelista e, forse, anche i loro rispettivi fratelli, Simon Pietro  e Giacomo. Così pure Filippo apparteneva al gruppo dei Galilei seguaci del Battista, che, dopo essere stato conquistato da Gesù, conquistò, a sua volta, Natanaele di Cana, che i più identificarono con l’Apostolo Bartolomeo.
Erano povera gente.
Le due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, erano pescatori e lavoravano mettendo in comune reti, barca e braccia. Gesù promise loro di farli “pescatori di uomini” [Marco 1, 17] e loro lo seguirono immediatamente, sebbene, come osserva, argutamente, San Giovanni Crisostomo, “e voi sapete quale occupazione appassionante sia la pesca!”. Degli altri, successivamente, chiamati al seguito del Cristo, vale a dire Tommaso, Giacomo d’Alfeo, suo fratello Giuda detto Taddeo, Simone lo Zelota e Giuda Iscariota, non si conosce con certezza il mestiere. Si conosce, invece, il lavoro di Levi detto Matteo, il quale esercitava una attività particolarmente invisa agli Ebrei: quella di gabelliere o esattore delle imposte. Simili personaggi erano detti pubblicani e rappresentavano, agli occhi dei vari Israeliti, tenacemente ostili al governo di Roma, la parte dei collaborazionisti. L’appalto delle tasse rendeva loro molto bene e la esosità della intera categoria era proverbiale. Ma Gesù, in questa come in mille altre occasioni, si dimostra incurante di ogni pregiudizio; e il suo “Vieni e seguimi.” risuona, immediatamente accolto, davanti al banco dove il gabelliere esercitava le sue funzioni.  
Ecco, dunque, la piccola frotta in marcia, lungo le strade della Palestina.
“Egli viaggiava per le città e le borgate predicando e annunciando la buona novella del Regno di Dio, e i dodici erano con lui.” [Luca 8, 1]
Ai dodici, che formeranno più tardi il collegio apostolico, si affiancava un certo numero di discepoli; vi erano, inoltre, delle pie donne, che “li assistevano con i loro beni” [Luca 7, 3] e con varie prestazioni di indole pratica, spinte da motivi di amore e di riconoscenza: alcune di loro, infatti, erano state liberate da spiriti maligni e da malattie. Tesoriere del gruppo intorno al Maestro era Giuda Iscariota, il quale portava la borsa e aveva la reputazione di avaro.
Il vestiario di Gesù e dei suoi seguaci comprendeva la sopravveste, quasi sempre a forma di mantello, che di notte serviva anche da coperta; la sottoveste o tonaca di lino o di lana, ampia e lunga fino alle caviglie, alcune volte cucita sui fianchi, altre volte tessuta in un solo pezzo, da cima a fondo – di questa seconda foggia era la veste di Gesù, che i soldati dovevano poi giocarsi ai dadi, ai piedi della Croce –. La cintura era di lino o di lana anch’essa e così lunga e larga da rigirarsi più volte intorno alla vita ed essere adoperata come tasca o borsa. L’acconciatura del capo non doveva essere dissimile dalla kefiah dei beduini odierni, ossia una pezza quadrata di lino o di cotone, ripiegata a triangolo e fermata da un grosso cordone di lana, più volte rigirato intorno al capo.
Poco diverso l’abbigliamento delle donne, salvo l’uso di veli più pesanti, a difesa della testa e del volto. Sia gli uomini sia le donne, fuori di casa, portavano sandali, allacciati con legacci. La piccola compagnia viaggiava a piedi e, a volte, in barca. Il paesaggio che si presentava ai loro occhi era molto diverso da quello della Palestina di oggi. Verde e ridente, ricca di coltivazioni e di pascoli, appariva come la Terra Promessa di Mosè: “terra di rivi, di acque e di fontane, dove nei piani e sui monti zampillano sorgenti di fiumi: terra da grano, da orzo e da viti, dove prosperano i fichi, i melograni e gli uliveti , terra di odio e di miele.” [Deuteronomio VIII, 7-8]
La costa si abbelliva di maestosi cedri, le palme dattifere ondeggiavano al vento nelle città più calde, come Gerico. Ovunque erano pini e platani e querce; tamarindi e oleadri; acacie e mimose. L’olivo, una delle ricchezze del paese, rivestiva i molli declivi delle colline. L’olio migliore, quello destinato a usi religiosi, si otteneva pestando le olive nel mortaio; per l’olio di uso domestico si schiacciavano le olive nel torchio di cui ogni oliveto era fornito. Questo sfondo campestre, agricolo e pastorale, offre innumerevoli spunti alle parabole del Vangelo. Di proposito, Gesù sceglie immagini familiari a quegli umili che lo seguono: seminatori che escono a seminare, padroni di vigne in cerca di lavoratori a giornata, massaie che pongono il loro pane a lievitare, pecore smarrite, uccelli spensierati che la Provvidenza nutre, gigli del campo, vestiti meglio “del Re Salomone in tutta la sua gloria”.
Le regioni dove il Cristo svolse la sua attività evangelizzatrice furono principalmente la Galilea e la Giudea. Tre dei momenti più significativi della sua vita pubblica hanno come sfondo le alture. Il digiuno, di cui, già, si è detto, avviene sul Monte della Quarantena, in Giudea, a poca distanza da Gerico.
Su una collina della Galilea avviene la solenne proclamazione del nome dei Dodici, che, da allora in poi, sarebbero stati chiamati Apostoli e subito dopo, disceso dalla vetta a un luogo un poco più pianeggiante, Gesù pronuncia il discorso che sarà detto “della Montagna” o “delle Beatitudini”. Questa altura, dove per la prima volta risuonarono gli enunciati della più alta e rivoluzionaria tra le filosofie, pare sia da identificarsi con una collina dei dintorni di Cafarnao, al disopra di Tabgha. Nel Monte Tabor, in Galilea, poi, gli studiosi, fino dal IV secolo, ravvisarono il luogo della Trasfigurazione di Cristo, operatasi alla presenza dei tre Apostoli prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Questo monte, nonostante la qualifica di eccelso che gli Evangelisti gli attribuiscono, non si eleva più di 562 metri sul livello del mare, ma la sua posizione isolata, all’estremo Nord-Est della pianura di Esdrelon, gli conferisce maestà.
Il Lago di Genesareth, detto anche Mare di Galilea, è presente in infinite pagine del Vangelo. Sulle sue rive avviene la scelta degli Apostoli: la pesca miracolosa, la tempesta sedata, il cammino di Gesù e, poi, di Pietro, sulla sommità delle onde sono tutti episodi legati a questo lago, nel quale andarono a gettarsi i demoni di Gerasa, dopo essersi impossessati di un branco di porci.      
A Gerusalemme, la città santa dei Giudei, Gesù si reca in occasione della prima e della seconda Pasqua della sua vita pubblica; in occasione delle due grandi feste ebraiche dei Tabernacoli e della Dedicazione, nel terzo anno della predicazione e, frequentemente, durante la Settima Santa. In quei periodi estivi, il Maestro alloggiava fuori città, sovente a Betania, nella casa dell’amico Lazzaro.
I luoghi preferiti per la sua predicazione erano le immediate adiacenze del Tempio.
Il Vangelo registra inoltre, dei viaggi nella Samaria, nella Perea, attraverso le città della Decapoli, e nella terra dei gersani, sulla riva orientale del Lago di Genesareth.
Una sola volta Gesù si spinse oltre i confini della Palestina, quando, tra il giugno e il luglio dell’anno 781 di Roma, terzo della sua vita pubblica, entrò in Fenicia e giunse nelle vicinanze delle due celebri città pagane di Tiro e di Sidone. In questa zona ebbe luogo uno dei più commoventi miracoli, quello sollecitato dalla donna cananea – il termine equivaleva a siro-fenicia – a sollievo di sua figlia tormentata da un demone. La prima replica di Gesù a questa donna lascia sconcertati per la sua apparente durezza: 

21 Partito di là, Gesù si ritirò nel territorio di Tiro e di Sidone. 22 Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: “Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio.” 23 Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: “Mandala via, perché ci grida dietro.” 24 Ma egli rispose: “Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele.” 25 Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: “Signore, aiutami!” 26 Gesù rispose: “Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini.” 27 Ma ella disse: “Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.” 28 Allora Gesù le disse: “Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi.” E da quel momento sua figlia fu guarita.
[Matteo 15, 21,28] 

L’allusione contenuta nella parola “cani”, che indicava anche gli infedeli, avrebbe dovuto scoraggiare la povera supplice. Ed ecco, invece, la bellissima risposta di lei:
“Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla mensa dei padroni.”
E il miracolo si compie.
Altre figure di infedeli sul cammino di Gesù erano quelle dei dominatori romani: soldati e funzionari. Uno dei più significativi incontri avviene a Cafarnao, la “Città di Gesù” [Matteo 9, 1] e il centro del suo ministero in Galilea. Questo sobborgo, oggi interamente scomparso, potrebbe identificarsi con Tell-Hum, sulla sponda nord-occidentale del Lago di Genesareth. Ai tempi di Gesù, vi era un posto di dogana – dove aveva svolto le sue funzioni Levi-Matteo, prima della chiamata – e, probabilmente, anche un porto di una certa rilevanza. Molte scene del Vangelo hanno per sfondo Cafarnao e una di queste ci presenta la figura di un centurione romano o, secondo un linguaggio moderno, di un capitano delle truppe di occupazione. Questo straniero era, tuttavia, ben visto dagli stessi Ebrei, a favore dei quali aveva fatto costruire una sinagoga. Nel sollecitare da Gesù la guarigione di un servo, cui era molto affezionato, l’ufficiale traccia un quadro vivacissimo della disciplina militare:

5 Quando Gesù fu entrato in Capernaum, un centurione venne da lui, pregandolo e dicendo: 6 ”Signore, il mio servo giace in casa paralitico e soffre moltissimo.” 7 Gesù gli disse: “Io verrò e lo guarirò.” 8 Ma il centurione rispose: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. 9 Perché anche io sono uomo sottoposto ad altri e ho sotto di me dei soldati; e dico a uno: – Va’ –, ed egli va; e a un altro: – Vieni –, ed egli viene; e al mio servo: – Fa’ questo –, ed egli lo fa”. 10 Gesù, udito questo, ne restò meravigliato, e disse a quelli che lo seguivano: “Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande! 11 E io vi dico che molti verranno da Oriente e da Occidente e si metteranno a tavola con Abraamo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli, 12 ma i figli del Regno saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e stridor di denti.” 13 Gesù disse al centurione: “Va’ e ti sia fatto come hai creduto.” E il servitore fu guarito in quella stessa ora.
[Matteo 8, 5-13]

Il buon “capitano” intendeva dire che Gesù non aveva che da ordinare alla malattia di ritirarsi e l’uomo sarebbe guarito. La sua candida fede gli ottenne, oltre al prodigio richiesto, una lode altissima:
“Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande!”
Parzialmente infedeli erano ritenuti anche i Samaritani, popolazione mista di discendenti dei Giudei e di coloni Assiri, stabilitisi in Samaria dopo la loro vittoria nel 598 a.C. Gli Ebrei ortodossi li avevano in grande sospetto e anche in dispregio, perché tra i libri della Bibbia accettavano solo il Pentateuco, mescolandolo con superstizioni di vario genere, e perché avevano osato fabbricare sul Monte Garizim un tempio antagonista a quello di Gerusalemme.
Gesù fece di un Samaritano la figura di spicco di una parabola indimenticabile, quella dell’amore fraterno tra gli uomini e, entrato in Samaria, durante una sosta accanto al pozzo di Giacobbe, nei pressi della città di Sicar – forse, l’attuale località di Al-’Askar – non sdegnò di conversare con una delle donne del luogo, convertendola dalla sua vita di disordini.
I paria della società trovavano grazia agli occhi del Maestro.
I lebbrosi, infelicissimi tra tutti gli infermi del mondo antico, accorrevano a lui con fiducia.
“Chi come infetto da lebbra sarà stato separato a giudizio del sacerdote”,
sentenziava il Levitico,
“avrà le vesti scucite, il capo nudo e coprendosi la bocca con la veste, andrà gridando che egli è contaminato e impuro. Per tutto il tempo che sarà lebbroso e immondo, abiterà solo, fuori degli accampamenti.” [Levitico XIII, 44-46]
Gesù li accoglieva e li risanava, poi, in ossequio alla legge, li esortava a mostrarsi ai sacerdoti, perché fosse verificata la realtà della guarigione. 
Medesima indulgenza verso i lebbrosi morali: l’adultera, le peccatrici pubbliche, i collaborazionisti, i Samaritani, gli Infedeli. È chiaro che un simile atteggiamento suscitò l’animosità di coloro che si ritenevano i depositari della Verità e i custodi del buon costume: primi tra tutti i Farisei e i Sadducei.
           
 
Annibale Carracci, Resurrezione di Cristo.
Musée du Louvre, Parigi.


 
Caravaggio, Incredulità di san Tommaso.
Bildergalerie, Potsdam.

I Farisei – Perushim, dal verbo parasch, separare – erano staccati dai rimanenti Ebrei per il fatto che basavano la loro condotta di vita non solo sulla legge scritta, data da Dio a Mosè, ma anche sulla legge orale, ossia su una quantità di precetti tradizionali, nella cui osservanza ponevano uno zelo e una minuzia assolutamente sproporzionati. La religione di queste persone per bene, così superbe della loro integrità morale, troppo spesso si esauriva in una serie di pratiche esteriori, non vivificate dallo spirito. Provenienti da varie classi sociali, ma soprattutto dalla borghesia ricca. Fortemente rappresentati nel Sinedrio e nelle cariche pubbliche, i Farisei politicamente erano nazionalisti, avversi alla dominazione romana: sognavano un Messia guerriero, che avrebbe ridato a Israele l’antica libertà e umiliato i suoi nemici nella polvere. Identificare questo sogno bellicoso nel Regno di Dio predicato dal rabbi di Nazareth ripugnava alla loro mentalità non meno che ai loro immediati interessi. Eppure, vi furono tra gli amici e simpatizzanti del Cristo anche dei Farisei, devoti e sinceri.
I Sadducei – dalla voce ebraica tsaddiq, giusto, secondo alcuni, o dal nome di Sadoq, elevato al Sommo Sacerdozio da Salomone – costituivano l’aristocrazia giudaica. Indifferenti alle tradizioni, si attenevano alla sola legge scritta. Moltissimi sacerdoti uscivano dai loro ranghi. In politica si mostravano opportunisti, non alieni dal corteggiare i dominatori romani, che nell’intimo del loro spirito disprezzavano.
Né si deve dimenticare la casta degli Scribi, spesso accomunati ai Farisei nelle pagine del Vangelo: questi Scribi erano i conoscitori della legge, talmente familiari con i testi sacri da saperli applicare alle più minute circostanze della vita. La maggioranza di loro era costituita da laici di principi farisei; e, in ogni caso, lo spirito era il medesimo.
Vi era, infine, la casta ristretta e potente dei Sommi Sacerdoti o Principi dei Sacerdoti, formata da coloro che avevano esercitato la massima dignità sacerdotale e dalle loro famiglie.
 
 
Paolo Veronese, Resurrezione.
Chiesa di San Francesco della Vigna, Venezia.

Pinturicchio, Resurrezione di Cristo con Papa Alessandro VI inginocchiato
Appartamento Borgia, Vaticano.

Il Sommo Sacerdozio, che durava a vita nel tempo antico, dall’epoca di Erode in poi era limitato a un certo numero di anni. Anche deposto, tuttavia, il Sommo Sacerdote continuava a godere di una grandissima autorità. Tale era il caso di Anna – abbreviazione di Anania – al momento della cattura e del processo di Gesù. La somma autorità sacerdotale era passata a suo genero Caifa, ma il prestigio del vecchio era tale che, per le decisioni di grave importanza, si ricorreva a lui.
Sono queste le classi che, offese nelle loro aspirazioni nazionalistiche, nei loro sogni di supremazia religiosa ed etnica e nel loro orgoglio spirituale, maturano la rovina del Nazareno. Sono loro rappresentanti quelli che si radunano nel palazzo del pontefice Caifa, per tramare come impadronirsi di Gesù e farlo morire. Né manca loro, al solito, una giustificazione morale:
“È bene che un uomo muoia per il popolo.”
Ma del popolo hanno timore; qualcuno raccomanda che l’arresto avvenga “non durante la festa, perché non nasca tumulto fra il popolo”.

1 E avvenne che, quando Gesù ebbe finito tutti questi discorsi, disse ai suoi discepoli: 2 “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per esser crocifisso.” 3 Allora i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani del popolo si riunirono nella corte del sommo sacerdote di nome Caiafa. 4 E tennero consiglio per prendere Gesù con inganno e farlo morire; 5 ma dicevano: “Non durante la festa, perché non nasca tumulto fra il popolo.”
Matteo 26,1-5

1 Ora, due giorni dopo era la Pasqua e la festa degli Azzimi; e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di prendere Gesù con inganno e ucciderlo. 2 Ma dicevano: “Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo.”
Marco 14,1-2

1 Si avvicinava intanto la festa degli Azzimi, detta Pasqua. 2 Ed i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano come farlo morire, poiché temevano il popolo.
Luca 22,1-2

45 Allora molti dei Giudei, che erano venuti da Maria e avevano visto tutto quello che Gesù aveva fatto, credettero in lui.
I farisei deliberano di far morire Gesù 46 Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono loro quanto Gesù aveva fatto. 47 Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che facciamo? Quest’uomo fa molti segni. 48 Se lo lasciamo andare avanti così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo e la nostra nazione.” 49 Ma uno di loro, Caiafa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla; 50 e non considerate che conviene per noi che un sol uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione.” 51 Or egli non disse questo da se stesso; ma, essendo sommo sacerdote in quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, 52 e non solo per la nazione, ma anche per raccogliere in uno i figli di Dio dispersi. 53 Da quel giorno dunque deliberarono di farlo morire.
Giovanni 11,45-53 

Si avvicinava, infatti, la quarta Pasqua dacché Gesù aveva iniziato la sua vita pubblica: e Lui si preparava a festeggiarla a Gerusalemme, come le due prime, alloggiando nel vicino borgo di Betania, dove era la casa di tre carissimi amici: Lazzaro il risuscitato e le sue sorelle Marta e Maria.
Nella cattura e nel processo di Gesù la figura meno abietta è, indiscutibilmente, quella del procuratore romano, Ponzio Pilato. Questo funzionario, distaccato in Giudea fino dall’anno 26 dell’Era Volgare e, quindi, oramai familiare con l’ambiente religioso e politico del paese e con i suoi retroscena, fa quanto sta in lui per salvare il prigioniero, nei limiti del possibile o meglio, nei limiti in cui gli è dato di farlo senza compromettere la sua preziosa carriera.
Personalmente, Pilato sembra convinto dell’innocenza di Gesù.
Sua moglie, cui la tradizione attribuisce il nome di Claudia Procula, gli chiede di non infierire su “quel giusto”, perché ha avuto dei sogni tormentosi e si cruccia molto pensando al processo. Questa figura di donna pietosa, che appare, fugacemente, in margine alla pagina più tragica del Vangelo, ha, sempre, appassionato gli studiosi. Alcuni sostengono che si fosse convertita alle dottrine del giudaesimo. Non dovrebbe fare meraviglia, se si pensa che quasi nella medesima epoca, a Roma, molti personaggi in vista si interessavano alle dottrine degli immigrati israeliti e ne seguivano le pratiche religiose. Aristio Fusco, l’amico del poeta Orazio, era uno di questi.
Pilato, che prevede una tempesta politica e, forse, anche una tempesta domestica, fa il possibile per tirarsi fuori dall’impasse con un minimo di danni.
La sua prima reazione è quella tipica del burocrate: la questione non è di competenza del suo ufficio. E rimanda il prigioniero, in quanto Galileo, al Tetrarca di Galilea. Il primo interrogatorio lo aveva discretamente turbato e doveva avere tirato un respiro di sollievo ed essersi congratulato con se stesso per avere trovato la escamotage legale, che poneva Gesù al di fuori della sua giurisdizione territoriale.
Ma Pilato si confronta con gente più scaltra di lui.
I successivi espedienti, dopo che Erode Antipa gli ha rimandato il prigioniero – l’offerta di liberazione in alternativa con Barabba, la crudele flagellazione, le ripetute asserzioni di “non trovare in lui alcuna colpa” – cozzano contro la bieca volontà dei Farisei, degli Anziani e dei Principi dei Sacerdoti.
Pilato si affanna a mantenere la questione nei limiti di un incidente locale e di interesse strettamente religioso, ma i nemici del Cristo la pongono in termini politici, ben sapendo che soltanto a questi Pilato è sensibile.
L’uomo si è detto Re, dunque, rifiuta obbedienza a Cesare, poiché i leali sudditi di Palestina non riconoscono altro Sovrano che Cesare, l’Imperatore di Roma.
Vi è di che sorridere amaramente, pensando a quali bocche di accesi nazionalisti pronunciano queste sviscerate dichiarazioni di lealtà.
Ma chapeau all’astuzia farisaica!
Volevano chiudere la bocca al procuratore romano, e hanno trovato il modo.
A Pilato non resta che un ultimo gesto di amara impotenza: lavarsi le mani nel bacile, di fronte al popolo insensato che strepita sempre più forte.
Il picchetto di soldati è pronto per accompagnare il condannato alla piccola altura detta il “Teschio”, dove verrà rizzato il patibolo.
Anche il patibolo è pronto.
Probabilmente la croce romana a forma di T – crux comissa – alta poco meno di tre metri e destinata al supplizio dei malfattori e degli schiavi. Come i gladiatori ribelli dell’epoca di Spartaco, come i pirati, schiuma del Mediterraneo, catturati da Pompeo… Un supremo scherno è nel cartello, compilato dal procuratore romano, per indicare la causa della condanna:
“Gesù Nazareno, Re dei Giudei”
Invano, gli alti dignitari del Sinedrio si affannano a protestare contro quella scritta, che suona un insulto a tutto il paese.
Pilato è irremovibile.
In quel cartello è la sua unica, amara, miserabile rivincita su coloro che si sono serviti della sua autorità per i propri fini.
L’ora sta per scoccare! 


Cristo è risorto!
Sì, Cristo è risorto!





Daniela Zini
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