“Tout crépuscule est double, aurore et soir. Cette formidable chrysalide que l’on appelle l’univers trésaille éternellement de sentir à la fois agoniser la chenille et s’éveiller le papillon.”
Victor Hugo
“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”
Nikos Kazantzakis
Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:
Bani adam a’za-ye yek peikarand, Ke dar afarinesh ze yek gouharand.
Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar, Degar ‘ozvha ra namanad qarar.
To kaz mehnat-e digaran bi ghammi, Nashayad ke namat nehand adami. I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo, Originate dalla stessa essenza.
Se il destino arreca dolore a una sola, Anche le altre ne risentono.
Tu, che del dolore altrui non ti curi, Tu non sei degno di essere chiamato Uomo. Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan
traduzione dal persiano di Daniela Zini
Dormire, dormire e sognare…
Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.
Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.
Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.
Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.
Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.
È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.
Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.
L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.
D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.
Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.
Quel tentativo fece completo fallimento.
Perché?
Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.
In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.
Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.
Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.
Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.
Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.
E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?
La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.
Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.
Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.
Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?
Tutte! La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.
Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.
La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:
“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”
Eccomi qui, il Natale è, oramai, alle porte – speriamo ricco di
Amore, di Pace e di Serenità per il Mondo intero! – ed è giunta per me l’ora di
scrivere la mia Letterina a Babbo Natale.
Le cose da preparare sono tante, ma Bea e io abbiamo, già, iniziato a
addobbare la casa e abbiamo aperto la Porticina Magica per accogliere Babbo
Natale nella nostra Casa.
La tanto cara Letterina…
Uno dei momenti più attesi e più magici del Natale, un’occasione per
tornare Bambina, per lasciare spazio ai Sogni e per condividere una Festa unica
con Bea e con Voi…
Per ringraziarvi tutti dell’affetto che ci dimostrate ogni giorno!
B&D
Carissimo Babbo Natale,
è da molto tempo che io non Ti scrivo…
Ed è da molto tempo che io non Ti chiedo nulla.
Ma, oggi, a venticinque giorni dal Natale, io mi sono decisa a
scriverTi, dopo molti anni.
Io so che Tu sei molto occupato a preparare con TUTTI i Tuoi
Folletti i Doni per TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo, che sono stati Buoni e, ogni tanto, anche per i Bambini che non
sono stati Buoni…
A volte, io credo che Tu sia,
perfino, molto indulgente…
Ma è la festa dei Bambini, non è
così?
Io so che Tu riceverai Lettere da
TUTTI i Bambini di TUTTO il Mondo.
È incredibile come TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo, a pochi giorni dal Natale, siano pronti a mettere nero su
bianco di essere stati buoni TUTTO l’Anno, non trovi?
Ma è la Festa dei Bambini, non è
così?
Io non sono sicura che Tu leggerai
me, una inguaribile Bambina che non vuole crescere, perché sta, ancora,
aspettando di vedere un Mondo Migliore… avrai talmente tanto da fare…
Io so, già, cosa Tu mi obietterai:
“Ma è la Festa dei Bambini!”
Non è così?
E, nonostante ciò, io voglio spedirti
la mia Lettera, con la Speranza che Tu possa realizzare TUTTI i miei Desideri.
Allora, cercherò di non dimenticare
proprio nulla nella lista dei miei Desideri.
Ecco:
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo non fossero più dimenticati.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo non dovessero più lavorare per guadagnarsi il loro tozzo di pane
quotidiano.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo, in Paesi colpiti dalla guerra, dalla carestia e dalla siccità, non patissero più la sofferenza, la fame e
la sete a casa loro, privati di cure mediche, cibo adeguato e acqua
potabile e perdessero, così, irrimediabilmente, la loro Infanzia, alla quale hanno
diritto.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo non conoscessero più la guerra. “Ogni guerra è una guerra
contro i Bambini!”, sono parole di Eglantyne Jebb, pronunciate 100 anni fa,
che, ancora oggi, risuonano con la stessa forza. Quanti Bambini uccisi,
mutilati, feriti, nati malformati?
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo non fossero più abusati da Orchi, protetti da un muro di omertà,
che rimangono impuniti a causa di un vuoto legislativo non ancora colmato. E,
se tu mi dai una mano, vedrai che insieme, Tu e io, picconata dopo picconata,
prima o poi, riusciremo ad abbattere questo muro di omertà, che protegge gli
autori di questi atti vergognosi!
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo non dovessero più rovistare, ogni giorno, nelle discariche in
cerca di un po’ di cibo.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di TUTTO
il Mondo non morissero di malnutrizione al seno senza latte delle loro Madri.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo avessero un tetto per ripararsi dal freddo che sta arrivando.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
tutto il Mondo vivessero nella spensieratezza la loro età.
Io vorrei che TUTTI i Bambini di
TUTTO il Mondo avessero piccole faville di Luce scintillante nei loro occhi,
come Notti in bianco, il Giorno di Natale.
È chiederTi troppo?
Sì, so, già, che Tu mi obietterai,
ancora una volta, che vi è un Dio per tutto ciò…
Ma, da molto tempo, Dio li ha
dimenticati, i Bambini…
TUTTI i Bambini di TUTTO il Mondo…
Allora, io mi rivolgo a Te.
Perché Tu sei sensibile e attento al Dolore e allaSofferenza di TUTTI i Bambini di TUTTO il
Mondo, che, in questo stesso momento, sono, in
strada, gli occhi impauriti, pieni di dolore, in cerca della loro Famiglia, di un segno di Vita e di un Senso di tutto ciò che accade loro.
Possa Tu esaudire tutti i miei
Desideri, al fine di rendere felici TUTTI i Bambini di TUTTO il Mondo, il
Giorno di Natale!
Io so che il Tuo compito è un compito
molto grande, per un Uomo solo, ma, forse, Tu potresti delegarlo a TUTTI i
Governanti di TUTTO il Mondo, non è così?
Natale è il Tempo dell’Attesa e del Miracolo, se non si può avere un
Grande Sogno, in questo periodo dell’Anno, quando si può, non è così?
Carissimo Babbo Natale, io spero che Tu possa leggere la mia Lettera
ed esaudire TUTTI i miei Desideri.
“Il fatto che l’uomo sappia distinguere tra il bene e
il male dimostra la sua superiorità intellettuale rispetto alle altre Creature;
ma il fatto che possa compiere azioni malvagie dimostra la sua inferiorità
morale rispetto a tutte le altre Creature che non sono in grado di compierle.”
mentre guardavo questo filmato ho pensato
a Voi Ragazzi, piccoli e grandi dei cinque Continenti, Voi, che siete pieni di
vita, che studiate, che giocate, che lavorate…
Voi siete gli animatori delle nostre Case,
delle nostre Scuole, nel Mondo intero…
Sì, ho pensato, subito, a Voi, perché Voi
siete sensibili e attenti al dolore e alla sofferenza di quei Ragazzi che, in
questo stesso momento, sono, gli occhi impauriti, pieni di dolore, in cerca della
loro Famiglia, di un segno di Vita e di un senso di ciò che accade loro.
La guerra in Ucraina ha riportato il tema
della Pace al centro del dibattito internazionale e ha rivelato, con più
chiarezza, come in tante aree del Mondo, vicine e lontane, siano aperti
conflitti. Secondo i dati dell’Upsala Conflit Data Program [UCDP], un programma
di ricerca sui conflitti, realizzato dall’Università svedese di Uppsala, nel Mondo
si conta che siano in atto 170 conflitti.
E in Yemen è in atto uno dei conflitti più
brutali al Mondo.
La crisi umanitaria più grave al Mondo.
Tra il marzo del 2015 e il settembre del
2021, nel Paese sono stati registrati circa 10 attacchi aerei al giorno, che
hanno causato l’uccisione o il ferimento di oltre 18mila civili.
Eppure non fa notizia!
Non è una “guerra dimenticata”.
È una guerra volutamente ignorata e
sottolineo volutamente.
Il 27 febbraio scorso, il Segretario
Generale dell’ONU Antonio Guterres ha chiesto ai donatori internazionali 4,3
miliardi di dollari per le operazioni umanitarie in Yemen. Più di 21 milioni di
persone, due terzi della popolazione del Paese, hanno bisogno di assistenza e
protezione.
La Commissione Europea
ha considerato finanziamenti per oltre 193 milioni di euro a favore delle
persone più vulnerabili nello Yemen a fronte degli oltre 77 miliardi di euro –
38,3 miliardi di euro in
assistenza economica, 17 miliardi di euro in sostegno ai rifugiati all’interno
dell’Unione Europa, 21,16 miliardi di euro in sostegno militare, 670
milioni di euro nel meccanismo di protezione civile dell’Unione Europea [https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-response-ukraine-invasion/eu-solidarity-ukraine/] – concessi, dall’inizio della guerra, dall’Unione
Europea e dagli Stati Membri all’Ucraina che, al pari dello Yemen, non è Stato
Membro né dell’Unione Europea né della NATO.
All’appello
mancano oltre due terzi dei finanziamenti: 3,1 miliardi sui 4,3 miliardi richiesti. Un baratro che rischia di
lasciare 17,3 milioni di yemeniti, circa due terzi della popolazione, senza
aiuti urgenti e salvavita.
Un disimpegno dei Governi che ha spinto le
organizzazioni umanitarie attive nel Paese, inclusa INTERSOS, a lanciare un
forte allarme.
Tutti i Bambini del Mondo hanno diritto
alla Pace.
Non esistono Bambini di serie B!
In Yemen, si contano 4 milioni e mezzo di
sfollati.
I Paesi europei, tra cui l’Italia, alimentano
il conflitto e traggono profitto da questa sofferenza, fornendo armi alla coalizione.
Il divario di impunità di cui beneficiano
tutti gli attori del conflitto – compresa l’industria europea delle armi
– deve essere colmato.
Come parte di un’ampia rete di
organizzazioni, Mwatana for Human Rights, Rete Pace e Disarmo ed ECCHR lavorano,
dal 2018, per chiedere conto agli attori europei del loro coinvolgimento in
potenziali crimini di guerra e violazioni dei diritti umani in Yemen.
Erano le 3 di notte dell’8 ottobre 2016
quando l’attacco aereo condotto dalla Coalizione guidata da Arabia Saudita ed
Emirati Arabi Uniti contro il villaggio yemenita di Deir Al-Hajari, nel Governatorato
di Al-Hudaydah, una delle aree più povere dello Yemen Nord-Occidentale, abitata
da contadini e pescatori, disintegrava la modesta casa della famiglia Husni,
uccidendo i suoi 6 abitanti: Husni Ali
Ahmed Jaber Al-Ahdal, sua moglie Qaboul Mohammed Hussain Mahdi, incinta al
quinto mese, le loro quattro bambine Taqia, Fatima, Sarah e il piccolo Mohammed.
I numeri di matricola sui resti degli
ordigni rinvenuti sul luogo confermarono che le bombe utilizzate nell’attacco
aereo illegale erano state prodotte da RWM Italia, una filiale della società
tedesca Rheinmetall AG, la cui esportazione era in evidente violazione della
Legge 9 luglio 1990, n. 185 sull’export bellico a Paesi in guerra.
Inoltre il prolungato periodo di licenza di esportazione, rilasciato dalle
autorità italiane e le successive esportazioni di armi da parte di RWM verso l’Arabia
Saudita e gli Emirati Arabi Uniti [EAU] configuravano una violazione
del Trattato sul Commercio delle Armi [ATT].
I funzionari dell’Autorità Nazionale per l’Esportazione
di Armamenti [UAMA] presso il Ministero degli Esteri, che decide sulle
richieste di esportazioni delle industrie belliche italiane, e l’amministratore
delegato della RWM Italia SPA non sono stati incriminati per il loro ruolo
nella fornitura di armi che hanno contribuito agli attacchi aerei illegali
nello Yemen.Il giudice per le indagini
preliminari Maria Gaspari non li ha ritenuti perseguibili in quanto non
considera dimostrabile che l’azienda abbia tratto profitto dall’abuso di
ufficio, un reato abrogato dallo stesso Governo Meloni.
Rifiutandosi di indagaresulle responsabilità delle
autorità e delle aziende i cui armamenti sono collegati a potenziali crimini di
guerra sotto la sua giurisdizione, l’Italia non solo ha legittimato
queste esportazioni di armi e ha limitato l’accesso alla Giustizia per le
vittime, ma ha anche violato i suoi stessi obblighi di proteggere il diritto
alla vita, come sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Che senso hanno le norme nazionali e internazionali
sull’esportazione di armi, con criteri e procedure trasparenti, se possono
essere ignorate senza
conseguenze?
L’Italia,
dunque, vende armi e chiude gli occhi di fronte alle conseguenze sui civili?
I
parenti delle vittime e l’unico sopravvissuto all’attacco aereo
hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [CEDU].
I tre ricorrenti sostengono che la magistratura italiana non ha ritenuto il
produttore di armi RWM Italia SPA e gli alti funzionari dell’Autorità nazionale
per l’esportazione di armamenti [UAMA] responsabili della violazione del
diritto alla vita, come stabilito dall’articolo 2 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo.
La
denuncia offre alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’opportunità senza
precedenti di garantire l’accesso alla Gustizia alle vittime di crimini di
guerra commessi con armi prodotte in Europa.
Nell’estate del 2019, il Governo Conte aveva
deciso di sospendere la vendita di bombe aeree e missili, oltre alla loro
componentistica, ad Abu Dhabi e a Riad a causa dei crimini di guerra commessi
contro la popolazione civile yemenita, una decisione sopravvenuta per la forte
pressione della società civile e la sottolineatura della chiara violazione delle
norme nazionali e internazionali che regolano il commercio di armi.
Il 31 maggio scorso, il Governo Meloni ha
approvato, con procedura d’urgenza, un disegno di legge volto all’introduzione
di disposizioni organiche per la valorizzazione, la promozione e la tutela del
Made in Italy [https://www.governo.it/it/articolo/consiglio-dei-ministri-n-37/22766], che revoca le limitazioni all’export di
bombe e missili verso l’Arabia Saudita, disposte dal Governo Conte I:
“Le limitazioni all’esportazione verso l’Arabia
Saudita di alcuni materiali di armamento per prevenirne l’utilizzo nella guerra
in Yemen sono state decretate tra il 2019 e il 2020, in conformità con atti di
indirizzo del Parlamento.
Le motivazioni alla base di tali
provvedimenti sono oggi venute meno. Il contesto regionale in Yemen è cambiato,
a cominciare dagli sviluppi sul terreno. Da aprile 2022, anche grazie alla
tregua convenuta tra le parti, le attività militari sono fortemente rallentate
e circoscritte. La significativa riduzione delle operazioni belliche comporta
un’attenuazione altrettanto significativa del rischio di uso improprio di bombe
d’aereo e missili, in particolare contro obiettivi civili. Riad ha portato
avanti una intensa attività diplomatica a sostegno della mediazione delle
Nazioni Unite e al contempo ha agito anche sul fronte economico e dell’assistenza
umanitaria in maniera determinante.
Su questo sfondo e alla luce della mutata
situazione del conflitto, in linea con la scelta fatta nell’aprile scorso nei
confronti degli Emirati Arabi Uniti, il Consiglio dei Ministri ha attestato che
l’esportazione di bombe e missili verso l’Arabia Saudita non ricade nei divieti
di esportazione stabiliti dall’articolo 1, commi 5 e 6, della legge 9 luglio
1990, n. 185, essendo conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia.”
Una
scelta pericolosa e insensata, che potrà avere impatti negativi in futuro, considerando che la
situazione attuale dello Yemen. A smuovere l’indirizzo politico di Palazzo
Chigi è la volontà di rafforzare le relazioni bilaterali con l’Arabia Saudita e
gli Emirati. Il Ministro della Difesa Guido Crosetto si è recato, nel mese di febbraio,
ad Abu Dhabi per rilanciare la “cooperazione bilaterale nei settori della
Difesa e della Sicurezza”, temi trattati anche durante il colloquio telefonico
tra la Presidente del Consiglio Meloni e il Principe Ereditario saudita,
Mohamed bin Salman, il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.
Seppure con il Cuore straziato per quanto
accade in Ucraina, più volte Papa Francesco, ricordando le guerre dimenticate
in Yemen, in Siria, in Etiopia… e ribadendo che “chi fa guerra dimentica l’Umanità”,
ha chiesto di porre fine ai conflitti e ha insistito perché si aprissero
corridoi umanitari per gli anziani, i più piccoli, tutte le Creature in cerca
di rifugio:
“Ripeto: tacciano le armi! Dio sta con gli
operatori di Pace, non con chi usa la violenza.”
Nel Mondo lacerato da guerre e violenze,
occorre “rimboccarsi le maniche per costruire la Pace”.
Io mi rivolgo a Voi Ragazzi perché Voi Ragazzi
siete generosi, capaci di gesti coraggiosi.
La gatta ama i suoi piccoli. Ma non li
distingue più, una volta che sono divenuti adulti. Invece, nel corso del suo
cammino, l’Uomo è, costantemente, obbligato a scegliere.
Può
decidere di far mangiare, prima di lui, Chi ama.
Mi
piace ripetere questa frase:
“L’Uomo
è l’immagine di Dio.”
Alcuni
ci scherzano su, rispondendo:
“Beh,
allora, Dio non è molto bello!”
Ma io
paragono l’Uomo a Dio come il “Sigillo” che viene impresso nella ceralacca.
Non
conosco il “Timbro”, forse, non lo vedrò mai, ma se osservo, con attenzione, me
stessa in profondità, scopro l’Infinito.
L’Uomo
è immagine di Dio in negativo, perché tutto ciò che grida in lui, tutto ciò che
tende a superare la legge naturale, che è soggetta a istinti brutali,
rappresenta una scelta.
Non
esiste la generosità istintiva.
Se non
esistesse nel Cosmo quella piccola nullità che è l’Uomo, dotato della Libertà
che gli permette o di raccogliere, da egoista, tutto ciò che trova, anche a
scapito degli Altri, o di sforzarsi di aiutare gli Altri a condurre una Vita
migliore; se non esistesse l’Uomo, ripeto, che non è altro che polvere
infinitesimale del cosmo, l’Universo nella sua totalità sarebbe assurdo.
E
questo cosa significa?
Se la Libertà
non fosse in grado di sprigionarsi in qualche momento cruciale – quel momento
che io chiamo “Attenzione” – la Vita sarebbe assurda…
Io Vi
domando di trasmettere questo messaggio alle Vostre Case, alle Vostre Scuole,
affinché la catena di solidarietà cresca nel Mondo intero e divenga un segno di
Speranza e di Amore concreti.
Io
sono sicura che il Vostro Cuore Vi suggerirà le parole per fare delle Vostre Case,
delle Vostre Scuole, luoghi di solidarietà.
Restiamo
uniti con tutti i Ragazzi del Mondo e tra noi: l’unione fa la forza!
“Vi sono momenti, nella vita,
in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile,
una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.”
Oriana Fallaci
Presidente
Giorgia Meloni,
Io
credo che ogni Donna dovrebbe avere il coraggio di sedersi a un tavolo e
scrivere una lettera a chi le ha usato violenza fisica, sessuale, psicologica,
ma, non sempre, gliene viene dato il tempo…
Così,
io ho deciso di scriverLe questa lettera aperta, Presidente, per condurre la mia modesta
lotta a viso scoperto, non nascosta dall’anonimato della tastiera.
Mi
chiamo Daniela Zini.
Noi
non ci conosciamo, tuttavia, dal 22 ottobre scorso, seguo attentamente il Suo operato
di governo e, grazie ai media, ho io una più vasta conoscenza del Suo status, che Lei del mio.
Io non
ho votato per Lei.
Io non
ho votato il Suo schieramento politico.
Io non
ho votato la coalizione di centro-sinistra.
Semplicemente,
io non ho votato.
Questa
scelta non è affatto ideologica, è circostanziale.
Io
non ho votato perché non sapevo a chi dare il mio voto.
Ne
ho solo uno.
E
ci tengo.
Non
posso, onestamente, dare il mio voto a chi non rappresenta i miei ideali
politici. E di ideali politici, io ne ho da vendere, ma devono essere
eccessivamente utopistici se non riesco a trovare, a tutt’oggi, “Qualcuno” in
grado di incarnarli.
Tutti
i partiti si equivalgono.
Io
so bene che, nel nostro sistema elettorale, l’astensione o l’annullamento del proprio
voto non ha valore.Contano
solo i voti di uno dei candidati. E non
votare equivale a lasciare ad Altri di decidere per me chi governerà il mio Paese.
Come
dire pilatescamente:
“Me ne lavo le mani!”
Non
è il mio caso, mi creda, Presidente, e credo che non sia neppure il caso degli
altri 16,5 milioni, più di un terzo degli Italiani,che, come me, hanno deciso di disertare le urne, il 25 settembre
scorso, e, stando alla matematica, avrebbero potuto cambiare il
risultato elettorale finale. Io
non ho votato l’invio di armi in Ucraina e la destinazione del 2% del PIL agli armamenti. Fino al 1992, gli
Stati Uniti avevano scelto di non toccare lo spazio post-sovietico. Il brusco
cambio di rotta del Presidente americano Bill Clinton ha gettato le basi per l’attuale
crisi tra Russia e Occidente. E parte di quella classe dirigente governa
ancora…
Secondo
i dati pubblicati dallo Stockholm
International Peace Research Institute [SIPRI], nel
2022, la spesa per le armi in Europa è arrivata a 345 miliardi di dollari,
con un incremento rispetto all’anno precedente del 13%. Non si registrava nel
continente europeo un aumento delle spese militari così significativo, dalla
caduta del Muro di Berlino. Più comprensibile, ma decisamente più preoccupante
l’aumento delle spese militari nel perimetro di tre potenze: Stati Uniti, Cina
e Russia, che, complessivamente, costituiscono, su scala globale, il 56% degli
investimenti militari, vale a dire 2.240 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti,
da sempre, considerati guerrafondai, hanno aumentato la spesa per le armi, nel
2022, dello 0,7%; la Cina del 4,2% [un aumento del 63% nell’ultimo decennio]; la
Russia del 640%, ovviamente per effetto dell’invasione dell’Ucraina. Questi
numeri ci dicono solo una cosa: intorno alla corsa agli armamenti si sta
consumando un conflitto tra potenze che mette a rischio la sicurezza nel Mondo.
E l’Italia?
In
occasione dell’approvazione della Legge di Bilancio del 2023 [https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2022/12/29/22G00211/sg], il
Parlamento italiano ha deciso di portare al 2% del PIL la spesa militare, vale a dire circa 38 miliardi di euro all’anno,
quasi il doppio dei 21,4 miliardi di euro stanziati, nel 2019, prima della pandemia.
“L’annuncio del Governo britannico, per
bocca della Viceministra della Difesa Annabel Goldie, della fornitura di
munizioni all’uranio impoverito alle forze armate ucraine è l’ennesima prova
del fatto che a Stati Uniti, NATO e cancellerie europee della sorte degli
ucraini non importa nulla.
L’uso del metallo pesante da parte di
Stati Uniti, Regno Unito e NATO in trent’anni di guerre illegali ma definite “umanitarie”
ha già causato una strage silenziosa e prolungata in tutti i territori
bombardati con queste armi. Dai Balcani, all’Iraq passando per l’Afghanistan le
patologie tumorali sono aumentate a dismisura come conseguenza diretta
dell’esposizione all’uranio impoverito rilasciato dalle munizioni. Ci troviamo
di fronte ad una epidemia da metallo pesante che appare come provocata
deliberatamente.
IN
ITALIA AD AMMALARSI gravemente e a morire per l’esposizione
al metallo pesante sono gli stessi soldati dell’esercito usati come carne da
cannone nelle missioni di “pace” all’estero e a cui ancora oggi il ministero
della Difesa, nonostante oltre trecento cause risarcitorie perse, continua a
negare verità e giustizia. Al momento parliamo di 8mila militari italiani
ammalati e di circa 400 deceduti a causa dell’uranio impoverito, una strage che
non ci stancheremo di denunciare. Nell’omertà imperante sulle vittime da Uranio
impoverito nei territori bombardati.
Un esempio? La NATO, chiamata in causa
dall’Alta Corte di Belgrado per le conseguenze devastanti dei bombardamenti
all’uranio impoverito effettuati nel 1999, ha risposto al tribunale esigendo
l’immunità. Grazie ad un memoriale che ci ha fornito l’avvocato Tartaglia,
legale rappresentante dei veterani italiani vittime del metallo pesante,
abbiamo appreso che la NATO non solo rivendica l’immunità per un ecocidio e per
ciò che si configura come un crimine di guerra ma intima al governo serbo di
intervenire presso l’Alta Corte di Belgrado per chiudere ogni procedimento a
suo carico.
Ecco la democrazia di cui si millanta l’“esportazione.”
Se la Corte Penale Internazionale, avesse un minimo di autorevole indipendenza
dovrebbe indagare anche su questi ed altri crimini di guerra commessi dal
blocco euro-atlantico.
ORA
ANCHE IN UCRAINA, dopo le devastazioni della guerra
convenzionale, sta per scatenarsi l’epidemia da uranio impoverito: dal 2019
anche la Federazione Russa ha deciso di dotarsi di questo tipo di armi
criminali giustificandosi col fatto che non sono vietate da nessuna convenzione
internazionale e soprattutto sono impiegate da tempo dal blocco atlantico. La
scelta altrettanto criminale del governo britannico ne innescherà credibilmente
l’uso.
“Credo che il governo italiano – dichiara
al manifesto Gian
Piero Scanu, ex-Presidente della Quarta Commissione Parlamentare d’Indagine
sull’Uranio Impoverito –, di propria iniziativa o a seguito di un provvedimento
parlamentare, dovrebbe chiedere a Londra di recedere dalla decisione di inviare
a Kiev “proiettili perforanti che contengono uranio impoverito”. Non ci sarebbe
alcuna ragione per non esercitare una convinta offensiva di persuasione in
ambito UE e NATO. Convincere i nostri partner della insostenibilità etica e
politica di una scelta che, ineluttabilmente, attiverebbe un pericoloso
innalzamento del livello di scontro bellico. Lo dice la tra realtà fattuale:
circa 400 militari morti – ma sono molti di più – e 8mila ammalati, in quasi
tre lustri, con gli immensi danni all’ambiente.”
“CI SI
AMMALA e si muore – prosegue Scanu – , come
ampiamente dimostrato dalla quarta Commissione Parlamentare d’inchiesta di cui
sono stato presidente, nella Relazione finale del febbraio 2018, dove sono
indicati dati e riferimenti oggettivamente riscontrati, e tali da condurre al
cosiddetto “nesso di causalità” esistente fra l’esposizione all’uranio
impoverito ed alcune gravi o letali patologie. A dispetto delle menzogne
spudorate che, con disumano cinismo, vengono ancora invocate, pur di non dover
rinunciare a questi strumenti di morte.”
Avvelenare il Popolo ucraino con l’uranio
impoverito non è un modo per aiutarlo.”
Vincenzo Accattatis, A che serve l’Alleanza atlantica, Strumento
imperialistico o «umanitario»? Il no di Calamandrei e lo stato dell’arte alla
luce della vicenda ucraina Il Manifesto, 25 aprile 2014
[https://ilmanifesto.it/a-che-serve-lalleanza-atlantica].
“Onorevoli
colleghi, dirò brevemente le ragioni per cui voteremo contro il Patto
Atlantico: cercherò di riassumere in sintesi quello che è già stato detto in
questa discussione ampia, profonda e serena. Noi siamo contro il Patto Atlantico, prima di tutto perché questo
Patto è uno strumento di guerra. Abbiamo ascoltato con
attenzione la replica del Presidente del Consiglio e speravamo che egli ci
dicesse qualche cosa di nuovo, ma tre quarti del suo discorso li ha dedicati
esclusivamente ad esaminare la eventualità di una nuova guerra. Quindi
maggiormente adesso, dopo la sua replica, onorevole Presidente del Consiglio,
noi siamo persuasi che il Patto Atlantico è uno strumento di guerra.
Basterebbe
leggere i giornali. Proprio su quelli di stamane ci si comunica che mai come
oggi in Inghilterra si è constatata, dopo il Patto Atlantico, una così diffusa
psicosi di guerra. Esso è quindi uno strumento di guerra per noi, ed abbiamo il
dovere, perciò, di votare contro.
Ha
ragione l’onesto amico Rocco di dire che, se oggi il vecchio Turati fosse qui
con noi, voterebbe contro il Patto Atlantico e farebbe sentire da questa Aula
ancora il suo grido pieno di passione e di angoscia: “Guerra al regno della guerra,
morte al regno della morte!”
Ma il
nostro voto è ispirato anche ad un’altra ragione. Questo Patto Atlantico in funzione
antisovietica varrà a dividere maggiormente l’Europa, scaverà
sempre più profondo il solco che già separa questo nostro tormentato
continente. Non si illudano i federalisti – mi rivolgo naturalmente ai
federalisti in buona fede – di poter costruire sulla Unione europea la
Federazione degli Stati uniti d’Europa; essi
costruiranno una Santa Alleanza in funzione antisovietica, un’associazione
di nazioni, quindi, che
porterà in sé le premesse di una nuova guerra e non le premesse
di una pace sicura e duratura. Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che
esso è in funzione antisovietica. Perché non
dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri
padroni di oltre Oceano, quello
che l’Unione Sovietica ha fatto durante l’ultima guerra. Essa è
la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue: 17 milioni di morti ha
avuto. Senza il suo sforzo eroico le
Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l’Europa dalla
dittatura nazifascista. Questo noi non dimentichiamo.
No,
soprattutto per lo sforzo eroico dell’Unione Sovietica: lo stesso Churchill lo
ha riconosciuto.
Siamo
contro questo Patto Atlantico in funzione antisovietica, perché ormai ci siamo
avveduti che la lotta di classe ha valicato i confini delle Nazioni per
trasferirsi in modo violento ed evidente sul terreno internazionale. Vi sono da
una parte le forze imperialistiche e plutocratiche, dall’altra le forze del
lavoro. Allora, noi prendiamo la stessa posizione che presero nel secolo scorso
i liberali. Quando la Santa Alleanza cercò di stroncare la rivoluzione
francese, i liberali di tutti i Paesi insorsero in difesa della Francia, perché
consideravano giustamente quella rivoluzione come la loro rivoluzione. E noi socialisti sentiamo che se domani,
per dannata ipotesi – soltanto per dannata ipotesi, non
illudetevi – dovesse crollare l’Unione
Sovietica sotto la prepotenza della nuova Santa Alleanza, con l’Unione
Sovietica crollerebbe il movimento operaio e crolleremmo noi socialisti.
Ma vi
è un’altra ragione che ci induce a votare contro questo Patto Atlantico: è l’aspetto
che questo Patto Atlantico ha in rapporto alla politica interna, come è già
stato detto ampiamente dai colleghi di questa parte. La prima conseguenza che
deriverà da questo Patto sarà una lotta più aspra – e lo sa, naturalmente, nel
suo intimo l’Onorevole Scelba – e più dura contro l’estrema sinistra del
proletariato. Io lo so quello che voi volete dirmi: noi non ce l’abbiamo con
voi socialisti; noi ce l’abbiamo soltanto col Partito Comunista. E l’eterna
storia che abbiamo sentito dire, adolescenti, nel 1919, ‘20 e ‘21 e allora, in
quell’epoca, il Partito comunista non esisteva. Si agitava, allora, lo
spauracchio del pericolo rosso. E parecchi han creduto al pericolo rosso ed
hanno assecondato il fascismo sul suo nascere: parecchi di voi, credendo a
questo pericolo, aprirono la strada alla dittatura fascista; parecchi di voi si
rallegrarono quando videro distrutto, per opera delle squadre d’azione
fasciste, tutto ciò che la classe operaia aveva costruito pazientemente in 50
anni di lotta. Parecchi di voi si
rallegrarono quando videro piegata sotto la dittatura fascista la classe
operaia italiana e costoro non compresero che, quando in una Nazione crolla la
classe operaia, o tosto o tardi, con la classe operaia, finisce per crollare la
Nazione intera.
In
proposito non vi devono essere esitazioni da parte di nessun socialista. Guai
se qualcuno tra noi avesse in questo momento delle riserve mentali, guai se
accettasse la discriminazione insidiosa quanto offensiva che ci offrono le
forze della conservazione, quando affermano che il loro bersaglio sono i
comunisti. Non dimenticate che le forze della reazione, con la stessa arma di
cui si serviranno per colpire i comunisti, finirebbero poi per colpire noi
socialisti e tutte le forze progressive del Paese!
D’altra
parte – e mi avvio alla fine – oggi, in Italia, appare chiaro a tutti come le
forze della reazione e della conservazione si vadano coalizzando contro le
forze del lavoro. I termini della lotta di classe, che oggi appaiono in tutta
la loro evidenza, erano stati offuscati in un primo tempo da quella
collaborazione leale e sincera che noi abbiamo dato nei Comitati di liberazione
nazionale e quando eravamo al Governo. Ormai questa lotta appare in modo
evidente a tutti e ne abbiamo avuto l’esempio anche qui questa sera in quest’Aula.
Abbiamo visto degli uomini, che noi, sin dalla nostra adolescenza, abbiamo
ammirato per il loro ingegno, abdicare al loro pensiero politico, umiliare la
loro mente, mutilare la propria coscienza, dare prova di una suprema incoerenza
politica e ideologica, pur di stringersi a fianco delle forze
clerico-conservatrici. Cattivo esempio della gioventù d’Italia voi avete dato
oggi! Comunque noi dobbiamo assumere la nostra posizione. L’assumete voi con
tanta decisione, perché non dovremmo fare altrettanto noi? Lo sappiamo,
onorevole De Gasperi, che la nostra sarà una posizione dura e difficile; ma voi
un po’ ci conoscete e sapete che noi, per il nostro temperamento, non siamo
adatti per le situazioni di ordinaria amministrazione. Le posizioni pericolose
ci seducono e le assumiamo con fermezza, come abbiamo fatto sotto il fascismo e
contro i tedeschi. Pagheremo, se sarà necessario, ma sappiate che noi preferiremmo sempre cadere con
la classe operaia piuttosto che trionfare con le forze clerico-conservatrici.
Mi
consenta, onorevole Presidente, di dire ancora una parola in nome dei
partigiani d’Italia – ne sono autorizzato quale uno dei Presidenti onorari dell’ANPI
– una parola in nome di questi partigiani, onorevole De Gasperi, che hanno
veramente riscattato l’onore d’Italia.
Non
escludo nessuno: parlo per l’ANPI, Onorevole Presidente del Consiglio, parlo di
quei partigiani che si sono veramente battuti per l’indipendenza dell’Italia.
Oggi noi abbiamo sentito gridare “Viva l’Italia” quando voi avete posto il
problema dell’indipendenza della Patria. Ma non so quanti di coloro che oggi
hanno alzato questo grido, sarebbero pronti domani veramente ad impugnare le
armi per difendere la Patria. Molti di costoro non le hanno sapute impugnare
contro i nazisti. Le hanno impugnate invece contadini e operai, i quali si sono
fatti ammazzare per la indipendenza della Patria!
Onorevole
Presidente del Consiglio, domenica scorsa a Venezia, in Piazza San Marco, sono
convenuti migliaia di partigiani da tutta l’Italia – donne e uomini – ed hanno
manifestata precisa la loro volontà contro la guerra, contro il Patto Atlantico
e per la pace. Questi partigiani hanno manifestato la loro decisione di
mettersi all’avanguardia della lotta per la pace, che è già iniziata in Italia;
essi sono decisi a costituire con le donne, con tutti i lavoratori una barriera
umana onde la guerra non passi. Questi partigiani anche un’altra volontà hanno
manifestato, ed è questa: saranno
pronti con la stessa tenacia, con la stessa passione con cui si sono battuti
contro i nazisti, a battersi contro le forze imperialistiche straniere qualora
domani queste tentassero di trasformare l’Italia in una base per le loro azioni
criminali di guerra.
Per
tutte queste ragioni noi voteremo contro il Patto Atlantico. Sentiamo che votando
contro questo Patto, votiamo contro la guerra e per la pace, serbando fede, in
questo modo, al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri elettori. Votando
contro il Patto sentiamo di compiere onestamente il nostro dovere di
rappresentanti del popolo, di socialisti e di italiani!”
La dichiarazione di voto di Piero Calamandrei nella
seduta della Camera dei Deputati del 18 marzo 1949, prima dell’appello nominale
sul Patto Atlantico, pubblicata sulla
rivista Il Ponte [n. 4, aprile 1949],
con il titolo Ragioni
di un no [https://www.ilponterivista.com/blog/2022/04/19/ragioni-di-un-no/],è un intervento di straordinaria attualità
da rileggere oggi:
“A nome dei socialisti indipendenti, dei
quali sono rimasto l’unico rappresentante nel gruppo di Unità socialista,
ritengo che sulla soglia di una decisione che ci turba e quasi ci schiaccia col
suo peso, e che noi dovremmo prendere qui ad occhi chiusi senza poter esaminare
il testo di un patto, che ormai tutti i cittadini italiani, fuori di qui, ma
non i deputati in quest’aula, hanno il diritto di discutere, non sia abbastanza
chiara, anche se motivata, l’astensione: e sia doveroso un voto esplicito e
netto. Dichiaro quindi serenamente che il mio voto sarà contrario.
Dopo che un numero così grande di
colleghi, mossi tutti dalla stessa ispirazione politica, hanno esposto i motivi
del loro voto contrario al patto atlantico, permettete a me, per evitare
equivoci e confusioni, di esprimere i motivi in parte diversi del voto
egualmente contrario che sto per dare; il quale soprattutto si distingue dal
loro per questa fondamentale diversità: che mentre essi muovono da una
concezione politica che logicamente li porta, nell’urto tra i due blocchi contrapposti,
ad opporsi a questa scelta che il patto propone perché essi hanno già fatto
potenzialmente la scelta contraria, io per mio conto sono contrario in questo
momento a qualsiasi scelta, e non sono favorevole al patto atlantico proprio perché
esso forza l’Italia a questa scelta preventiva, che io ritengo pericolosa e non
necessaria in questo momento.
Né d’altra parte potrei sentirmi solidale
con alcune delle dichiarazioni udite finora, le quali, mentre hanno espresso la
loro solidarietà col popolo russo, hanno in termini talvolta assai aspri
accentuato la loro ostilità contro l’America. Non posso pensare che gli
italiani della Resistenza abbiano già dimenticato che, se la libertà ci fu
restituita perché l’eroico popolo russo seppe compiere il miracolo di
Stalingrado, essa ci fu restituita anche perché nell’agosto del 1940 il popolo
inglese resisté eroicamente all’uragano di fuoco che infuriava sul cielo di
Londra, e perché l’America portò nella mischia lo schiacciante peso delle sue
armi formidabili. Né possiamo scordare che per molti di noi il ritorno della
libertà fu annunciato dall’apparire lungamente invocato, nel polverone di una
strada, del primo brillio di un carro armato americano.
E tuttavia io sono contrario a questo
patto. E i motivi, schematicamente, sono di tre ordini.
Primo: sotto l’aspetto della politica
europea, noi socialisti federalisti pensiamo che un patto militare, anche se
difensivo, che trasforma gli stati europei in satelliti di uno dei blocchi che
si fronteggiano, e dà al suolo europeo la funzione di un trinceramento di prima
linea di eserciti che stanno in riserva al di là dell’Atlantico, allontani la
nascita di quella Federazione occidentale europea, politicamente e militarmente
unita e indipendente, che noi auspichiamo, non alleata né ostile, ma mediatrice
tra i due blocchi opposti, e capace di conciliare in una sua sintesi di
democrazia socialista due esigenze per noi ugualmente preziose e
irrinunciabili, quella della libertà democratica e parlamentare, e quella della
giustizia sociale.
Secondo: sotto l’aspetto della politica
interna italiana, noi temiamo che l’adesione data dall’Italia a questo patto,
anche se esso non minaccerà la pace internazionale, costituirà però un ostacolo
immediato alla pacificazione interna e al funzionamento normale della nostra
democrazia; perché la contrapposizione militare di due schieramenti, che
difendono due contrapposte concezioni sociali, darà sempre maggiore asprezza
alla lotta interna dei corrispondenti partiti, e sempre piú ai dissensi
politici darà minacciosi aspetti di guerra civile. E questo potrà rimettere in
discussione le libertà costituzionali che sono scritte per il tempo di pace e
non per la vigilia di guerra, per gli avversari politici e non per supposte
quinte colonne; e darà sempre più ai provvedimenti di polizia il carattere di
repressioni di emergenza, che si vorranno giustificare colle rigorose esigenze
della preparazione militare. Auguriamoci che mentre la costituzione
repubblicana attende ancora il suo compimento, la firma di questo patto
atlantico non sia il primo colpo di piccone dato per smantellarla.
Ma soprattutto ciò che ci angustia è una
terza ragione: cioè le conseguenze di carattere militare. Se per tutti gli
altri stati europei la firma del patto sarà accompagnata da rischi ma anche da
vantaggi, c’è da temere che solo per l’Italia essa possa significare pericoli
senza corrispettivo. Diventare alleato militare di uno dei due blocchi in
conflitto significa assumere fin da ora la posizione di nemico potenziale dell’altro
blocco: firmando quel patto colle potenze occidentali noi ci saremo condannati
a non poter essere più amici degli Stati orientali, dei quali, per l’ipotesi di
guerra, saremo fin d’ora predestinati nemici. Anche se il patto è difensivo,
bisogna vedere se sembrerà difensivo a coloro da cui ci apprestiamo a
difenderci: e quali saranno le loro reazioni contro i firmatari del patto, e
soprattutto contro l’Italia che di tutti i firmatari è il più debole ed il più
esposto. All’Italia questo patto non solo non dà la garanzia di allontanare dal
nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà, anzi ad essa la certezza
della immediata invasione anche se il conflitto sarà provocato da urti
extraeuropei; se la nostra posizione geografica è tale che anche ad un’Italia
neutrale lascerebbe assai poche probabilità di rimaner fuori dal flagello, son
proprio queste pochissime superstiti probabilità di salvezza, poniamo anche una
su mille, che saranno perdute, quando l’Italia si sarà schierata tra i nemici
dei possibili invasori e avrà assunto la tragica missione di un avamposto
sperduto destinato a riceverne il primo urto. Ed anche se l’ammissione al patto
atlantico può dar l’illusione di aver così conseguito una prima revisione del
trattato di pace da alcune delle potenze firmatarie, troppo a caro prezzo si
pagherà questo vantaggio quando contemporaneamente il nostro riarmo, sospettato
anche se non vero, ci porrà, nei confronti delle altre potenze, nella
pericolosa condizione di ritenuti trasgressori degli obblighi da noi assunti
con quel trattato.
Ma più che argomenti logici e politici,
qui sono in giuoco motivi morali e religiosi. Questa è una scelta che impegna
la nostra anima. Il problema di coscienza che ciascuno di noi si pone, è lo
stesso: mentre su di noi si addensa l’ombra di un’altra catastrofe, che posso
fare io, quale contributo posso portare io, piccolo uomo, atomo effimero, per
allontanare dal mio paese questo flagello? Son certo, voglio esser certo, che
tutti gli uomini che seggono in quest’aula, e primi quelli che sono al banco
del governo, si pongono il problema in questi stessi termini: si tratta di fare
il bene dell’Italia e di salvare la pace.
Tutti su questo siamo d’accordo. Ma io
temo che quando si dice che con questo patto militare la guerra si allontana,
si ricada in quel tremendo equivoco del vecchio motto illusorio si vis pacem para bellum, che
gli uomini ciechi continuano a ripetere, senza accorgersi da cento tragiche
esperienze che per voler la pace non c’è altra via che quella di prepararla coi
trattati di commercio e di lavoro, che stringono tra gli uomini legami di
solidarietà; e che chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non
fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra.
Mi auguro di tutto cuore che le previsioni
che spingono il governo a questo patto siano esatte; e che sbagliate siano le
nostre. Ma queste son decisioni, in verità, che non si possono prendere con
criteri di politica elettorale e di cui si debba render conto alle direzioni
dei partiti o dei gruppi. Son decisioni solenni e gravi, delle quali ognuno di
noi risponde individualmente, per proprio conto, non solo di fronte al popolo,
ma di fronte alla memoria dei suoi morti, di fronte ai verdetti dell’avvenire e
soprattutto di fronte a quella voce segreta che è in fondo alla nostra
coscienza, e che i filosofi chiamano la storia e i credenti chiamano Dio.
Io so che qualcuno della maggioranza,
prima di decidersi a votare, si è raccolto lungamente in preghiera. Lo ricordo
con rispetto e con commozione: se egli voterà a favore, vuol dire che in tal
senso la risposta della sua intima voce avrà messo in pace la sua coscienza. Ma
per pregare non ci si raccoglie soltanto nelle chiese: anche noi, dopo essere
stati lungamente raccolti con noi stessi, abbiamo udito in fondo alla nostra
coscienza una voce che ci mette tranquilli.
Il 7 gennaio 1958, Walter Hallstein [17
novembre 1901 – 29 marzo 1982] fu nominato primo Presidente della Commissione Europea,
carica che ha detenuto per un intero decennio.
“Sappiamo
bene cos’è che ci spinge in avanti: esiste un orgoglio europeo indistruttibile.
Solo con un’Europa forte e unita gli europei – e il Mondo – potranno veramente
prosperare. Un’Europa smembrata si trasformerà nei Balcani del Mondo, invitando
costantemente gli altri Paesi a immischiarsi nei suoi affari. Per farsi
sentire, l’Europa deve parlare con un’unica voce. Non vi è pertanto nulla di
più inopportuno del drammatizzare l’attenzione posta di tanto in tanto sui
singoli processi di compensazione o l’occasionale accumulazione degli stessi.”
Il Rettore dell’Università di RostockRostock, 18 maggio 1936
In virtù dei poteri che mi sono stati
conferiti dal Signor Ministro dell’Educazione del Reich La nomino Decano della
Facoltà di Diritto ed Economia. La prego di comunicarmi il nome del Suo vice.
Heil Hitler!
Il Rettore
Ernst
Heinrich Brill
Walter Hallstein, a founder of Eupe’s
Common Market
Walter Hallstein, the West German lawyer and diplomat
considered one of the founding fathers of the European Economic Community, has
died in Stuttgart. He was 80 years old. The cause of death Monday was not
disclosed.
Dr. Hallstein, a professor of law at Frankfurt
University during the Nazi years, was interned for two years after World War
II. In 1950, he helped establish the European Coal and Steel Union, considered
a forerunner of the Common Market. He was president of the Commission of the
Common Market from 1959 to 1967.
In the 1950’s, he was influential in
molding West German foreign policy, and he gave his name to the so-called
Hallstein doctrine by which Bonn pressed its assertion that it represented all
Germans. It did this by severing relations with any country that offered
diplomatic recognition to East Germany. But the doctrine never applied to the
Soviet Union and was abandoned when Bonn moved toward warmer relations with the
Soviet bloc.
Flags at Half-Staff
Dr. Hallstein died as leaders of the 10 Common Market
countries gathered in Brussels to celebrate the market’s 25th
anniversary. Flags of all 10 countries flew at half-staff at Common Market
headquarters today.
West Germany’s President, Karl Carstens,
praised Dr. Hallstein as ‘‘a man whose public efforts were devoted
to the union of a free Europe.’’
‘‘Walter Hallstein will always carry an honorary title as
a European of the first hour,’’ he said. Walter Hallstein was born
Nov. 17, 1901, in Mainz. After studying law in Bonn, Munich and Berlin, he
became a professor of comparative law at Frankfurt University in 1941.
Captured by Americans
In World War II he was drafted into the army, and he
was captured by the Americans in 1944. As a prisoner of war in the United
States, he founded a ‘‘prison camp university’’ in which
he instructed other prisoners.
Dr. Hallstein earned a reputation as an astute
diplomat and politician after the West German state was founded in 1949,
serving as state secretary to Konrad Adenauer and working in the Foreign
Ministry. He held a seat in West Germany’s Parliament from 1969 to
1972, when he retired from active politics.
‘‘He was not only a great European but also played a
decisive role in rebuilding Germany after World War II,’’ Foreign
Minister Hans-Dietrich Genscher said.
Il 20 maggio 1964, il Presidente della
Commissione Economica Europea Walter Hallstein inviò ad Aldo Moro una lettera che
conteneva un ammonimento e alcune “raccomandazioni” al Governo sulle misure da
adottare:
“La
politica di stabilizzazione iniziata dalle autorità italiane nel corso del 1963
e rafforzata con diverse misure più recentemente, non è sufficiente a
ristabilire l’equilibrio
desiderato e a evitare il rischio che i progressi compiuti nella
realizzazione del Mercato Comune siano messi in forse.” [ACS – Fondazione
Nenni, serie governo, busta 110, fascicolo 2362].
Washington, 18 November 1996 [RFE/RL] – U.S. Secretary
of State Warren Christopher and NATO Secretary General Javier Solana met in
Washington Friday to review the next steps in NATO’s expansion program.
State Department spokesman Nicholas Burns said Christopher
and Solana had a long discussion about internal changes in NATO and other
issues connected to the enlargement process. He gave no other details.
At a separate meeting with Washington reporters and
political scholars today, Solana said an important step for NATO expansion will
be taken at a NATO summit scheduled for July 1997.
He said the Western alliance will announce at that
time, and not before, which countries it will invite to join NATO.
Solana said that by the time of the July summit, NATO
also hopes to have developed, what he called “a sound and solid bilateral
relationship with Russia”.
He noted Russia’s importance for stability in Europe
and said NATO does not want to isolate anybody and “very much hopes that Russia
will not want to isolate itself.” Russian officials have repeatedly voiced
their objection to NATO’s expansion plans.
Solana said a third major item on the July summit
agenda will be the next phase in NATO’s Partnership for Peace program with
former Communist countries.
Solana said NATO wants more consultations and closer
military and political ties with the Partnership countries, including their
participation in some NATO decision-making.
Sonia Winter, United States: Solana, Christopher
Discuss NATO Expansion, Radio Free Europe/Radio Liberty, 9 novembre 1996 [ https://www.rferl.org/a/1082475.html].
Washington,
24 July 1997 [RFE/RL] – NATO Secretary General Javier Solana says the cost of
NATO enlargement will be manageable, both for the Europeans and the Americans
as well as for the new members themselves.
In
remarks prepared for delivery at American University in Washington today,
Solana said there is no need for new members to “arm themselves to the teeth
with sophisticated weaponry.” He said NATO faces no current threat, and that
all the alliance expects is for new members over time to make a credible effort
to achieve an essential level of compatibility with current NATO forces.
He
also said that the new NATO-Russia council is no guarantee of perfect harmony.
Solana said Russia cannot expect to block NATO decisions, but he said it can
expect NATO to listen to Russia’s views and to take seriously legitimate
points.
Solana
said the decision to invite the Czech Republic, Hungary and Poland to join NATO
is the most visible sign that the new post-Cold War Atlantic community is
growing. He said that for him, enlargement is inevitable and a settled issue.
Solana
said the simple answer to those who have not been invited on the first round is
that there will be further rounds. He said the nine remaining applicants should
continue to advance their cases and continue reforms. No democratic country
will be excluded from consideration, he said.
Sonia
Winter, NATO: Solana Says Expansion Cost Is Manageable, Radio Free Europe/Radio
Liberty,9 luglio 1997 [https://www.rferl.org/a/1085964.html].
Il
Deputato socialista e futuro Segretario Generale della NATO Javier Solana tiene un discorso anti-NATO a Vallecas [Madrid],
nel 1981. Come si legge nella didascalia, uno dei suoi ascoltatori sta arrotolando uno
spinello.
Il Segretario
Generale della NATO Jens Stoltenberg e
la Premier Giorgia Meloni.
Camilla
Wernersen, Jens
om kontakten med KGB: – Jeg var “Steklov”, Jens Stoltenberg forteller i
sin nye bok om hvordan han jevnlig spiste rekesmørbrød med sovjetisk
etterretning på Stortorvets Gjæstgiveri i Oslo, NRK, 30 settembre 2016 [https://www.nrk.no/norge/stoltenberg-fikk-kodenavn-av-russerne-1.13157661].
In ogni tempo, vi sono stati Paesi
governati da uomini dai comportamenti criminali. Nella maggioranza delle 195
Nazioni del Mondo, l’utilizzo disonesto di danari pubblici e la “vendita” di
decisioni governative al migliore offerente sono moneta corrente.
La corruzione è divenuta la norma e noi ci
siamo assuefatti. Posto che questo fenomeno è, sempre, esistito e, sempre,
esisterà, è difficile accertare l’ascesa di questi nuovi attori sulla scena
internazionale: gli Stati mafiosi. Non sono solo Paesi, in cui regna la
corruzione o, in seno ai quali, importanti attività economiche e regioni intere
sono nelle mani del crimine organizzato. Si tratta di Stati che controllano e
utilizzano gruppi criminali per servire i loro interessi nazionali e gli
interessi dell’élite governante.
Questa pratica non ha, evidentemente,
niente di nuovo!
Quanti pirati e mercenari sono stati al
soldo di Monarchie e anche di Democrazie, a immagine degli Stati Uniti, che
sono ricorsi alla mafia per raggiungere i loro obiettivi?
Ma, in questi ultimi decenni, una serie di
mutazioni politiche ed economiche profonde, a livello internazionale, ha dato
vita a ciò che io chiamo gli Stati mafiosi. Paesi, nei quali le nozioni
tradizionali di corruzione, di crimine organizzato o di entità pubbliche,
infiltrate da gruppi criminali, non abbracciano il fenomeno in tutta la sua
ampiezza e complessità.
Là non è lo Stato che è vittima delle reti
criminali; è lo Stato che ha preso il controllo delle reti criminali. Non per
eradicarle, ma per metterle al servizio degli interessi economici dei
governanti, dei loro amici e dei loro partners.
In Paesi, quali la Bulgaria, la
Guinea-Bissau, il Montenegro, la Birmania, l’Ucraina, la Corea del Sud, l’Afghanistan
o il Venezuela, gli interessi nazionali e quelli del crimine organizzato sono,
inestricabilmente, collegati.
La
fine della Guerra Fredda ha favorito, da una parte, la comparsa di
pseudo-Stati, in seno ai quali si è istituzionalizzata la corruzione della
politica, dall’altra, ha permesso lo scoppio di nuovi conflitti locali. I loro
protagonisti, non ricevendo più sussidi da uno dei due grandi blocchi, hanno
dovuto cercare fonti di finanziamento nelle attività illegali, al primo posto
delle quali, il traffico di droghe. Dalla Colombia all’Afghanistan, passando
per l’Angola o il Kosovo, la droga è uno degli elementi del prolungamento di
questi conflitti. Infine, la lotta contro il commercio di droghe è “inquinata”
dagli interessi economici e geopolitici degli Stati, particolarmente dei Paesi
ricchi, che si pongono come leaders
della guerra alle droghe, inclini a dare prova di indulgenza nei confronti dei loro
alleati o clienti.
Non
essendo nessun altra attività illecita così lucrativa, il traffico di droghe ha
accresciuto la capacità di nocività delle
organizzazioni criminali che vi si dedicano, in particolare il loro potere di
penetrare le strutture economiche e politiche di alcuni Stati. Sul piano
economico, hanno seguito il movimento della mondializzazione, quando non lo
hanno anticipato. Tuttavia, confrontate a una offensiva degli Stati le grandi
organizzazioni – cartelli colombiani, mafie italiane e cinesi, padrini
pakistani e turchi, etc. – hanno, nella seconda metà degli Anni Novanta,
innanzitutto, decentralizzato le loro strutture, per essere meno vulnerabili
alla repressione. Simultaneamente, hanno diversificato le loro attività –
traffico di esseri umani, di diamanti, di specie protette, etc. – e le hanno
delocalizzate stringendo legami di affari con i loro omologhi, che intervengono
su altri continenti.
Cosa Nostra, che aveva subito colpi
durissimi da parte delle forze di repressione, nel corso degli Anni Novanta,
rafforza il suo insediamento internazionale, in particolare in Brasile, in
Canada, nell’Europa dell’Est e nell’Africa del Sud. Le sue attività vanno dal
riciclaggio – società “schermo”, acquisto di beni immobiliari – al traffico di
cocaina, in collaborazione con i gruppi colombiani, passando per il
favoreggiamento dell’immigrazione di criminali. Queste attività sono favorite
da legami consolidati tra organizzazioni criminali e poteri politici. Ciò è
vero non solo nelle “dittature delle banane”, – Birmania, Guinea-Bissau – o nei
non-Stati – Afghanistan, Paraguay, Liberia –, ma anche nei grandi Paesi, che
svolgono un ruolo geopolitico chiave nella loro regione come, a esempio, la
Turchia, in Europa, e il Messico, nell’America del Nord.
Con l’esplosione e la diversificazione
delle produzioni di droghe e la trasformazione delle narco-organizzazioni, il
terzo elemento costitutivo della situazione attuale sono gli effetti sulla
criminalità e il traffico di droghe con la moltiplicazione dei conflitti
locali, effetto perverso della fine dell’antagonismo dei blocchi e degli
scossoni provocati dal crollo dell’Unione Europea. Durante la Guerra Fredda, le
grandi potenze, che la dissuasione nucleare impediva di affrontarsi
direttamente, lo facevano attraverso i loro alleati nel Terzo Mondo. Il danaro
della droga utilizzato dai belligeranti evitava, così, ad alcuni Paesi di
dovere attingere a fondi segreti per finanziare i loro alleati. Ciò è stato, in
particolare, il caso per tutte le grandi potenze – Stati Uniti, Francia – e le
potenze regionali – Israele, Siria –, toccate dalla guerra civile libanese, e
per gli Stati Uniti in America Centrale. La fine della Guerra Fredda, lontano
dal mettere fine a quei conflitti locali, non ha fatto che rivelare la loro
assenza di motivi ideologici, sollevando scontri etnici, nazionali, religiosi,
etc. I belligeranti, non potendo, oramai, contare sul finanziamento dei loro
potenti protettori, hanno dovuto trovare nei traffici, quali quello di droghe,
risorse alternative. In una trentina di conflitti, aperti, latenti o in via di
risoluzione, la presenza della droga, a titoli e a livelli diversi è accertata:
in America Latina [Colombia, Perù, Messico]; in Asia [Afghanistan, Tajikistan,
India, Azerbaijan, Armenia, Cecenia, Georgia, Birmania, Filippine]; in Europa
[Jugoslavia, Turchia, Irlanda, Spagna] e in Africa [Algeria, Sudan, Egitto,
Senegal, Guinea-Bissau, Liberia, Sierra-Leone, RDC, Congo, Ciad, Uganda,
Angola, Somalia, Comore].
Alcuni di questi conflitti – in Colombia,
in Afghanistan o in Angola – esistevano prima della fine della Guerra Fredda.
Ma il ritiro di partiti fratelli o di potenti protettori ha fatto in modo che
prendessero un carattere nuovo: scivolamento progressivo verso attività di
predazione nel caso delle Forze Armate
Rivoluzionarie di Colombia [FARC]; antagonismi etnico-religiosi, manipolati
dalle potenze regionali, in quello delle guerre civili afghane e angolane.
Altrove, è la caduta dei regimi comunisti, che è all’origine dei conflitti
jugoslavi, ceceni, azero-armeni e delle guerre civili georgiane. I protagonisti
di questi scontri, nella loro ricerca di finanziamenti, utilizzano ogni mezzo:
traffico di petroli, di droghe, di metalli strategici. Uno degli esempi più
significativi dell’utilizzo della droga nello scoppio del conflitto, poi, negli
ostacoli messi alla sua risoluzione, è quello del Kosovo.
Dal 1991, l’Office of Generic Drugs [OGD] segnalava che i profitti della
vendita di eroina, in tutta l’Europa, in particolare in Svizzera, da residenti
albanesi di questa provincia serba, erano utilizzati per acquistare armi nella
prospettiva di un sollevamento contro l’oppressione serba. L’UCK, dopo aver fatto scattare operazioni
militari, alla fine del 1997, è stato cacciato, progressivamente, dai suoi
bastioni dall’esercito e dalla polizia jugoslava e non ha più operato che in
sacche lungo la frontiera albanese. Dopo la campagna di bombardamento della NATO in Serbia e in Kosovo – dal 24
marzo al 10 giugno 1999 – non restava al gruppo nazionalista che prepararsi a
un ritorno in forza nella reinstallazione dei rifugiati. È la ragione per cui
aveva cercato di acquistare il vero potenziale militare, che gli rifiutavano i
Paesi occidentali. Per ciò, aveva avuto, innanzitutto, come fonte di
finanziamento l’imposta pagata dai 700mila albanesi della diaspora in Europa
[3% dei salari e sovente di più]. Ma questo finanziamento legale si è rivelato
vulnerabile, in particolare, quando il Governo svizzero decise di gestire il
fondo dell’UCK, “La Patria chiama”. È allora che questa organizzazione, sembra,
abbia deciso di privilegiare una ricerca di finanziamento nel traffico delle
droghe, anche se ciò implicava legami con le mafie italiane, che gli fornivano
armi contro eroina, cocaina o derivati della cannabis. In certi affari, la presenza dell’UCK, in quanto tale, è stata chiaramente stabilita, in particolare,
dalla giustizia italiana; in altri l’identità dei finanziatori di traffici
albanesi è stata occultata, ma non lascia dubbi. Infatti, quando la polizia e
la giustizia di Paesi europei avevano prove dell’implicazione dell’UCK, era per loro difficile, a causa del
ruolo della NATO nel Kosovo, renderle
ufficialmente note. È la stampa che doveva trarre le conclusioni dalle
informazioni di cui disponeva o dalle fughe di cui beneficiava da parte di
certi magistrati.
Nel giugno del 1998, a esempio, un
centinaio di persone, di cui numerose kosovare, furono arrestate attraverso l’Italia
e altri Paesi europei per traffico di droghe e di armi. Secondo la Procura di
Milano, appartenevano a otto reti incaricate di introdurre armi nel Kosovo. 100 chilogrammi di
eroina e di cocaina, che sarebbero servite a pagare le armi, furono
sequestrati.
Il 12 marzo 1999, la polizia ceca annunciava
l’arresto, a Praga, del kosovaro Princ Dobroshi[https://www.youtube.com/watch?v=QWk2LbtYqKE],
evaso da una prigione norvegese e considerato uno dei più importanti
trafficanti di droga, in Europa. Documenti attestavano, senza ambiguità, che l’uomo
di 35 anni, utilizzava il prodotto del suo traffico per l’acquisto di armi.
Citando un membro dei servizi segreti cechi [BIS],
il giornale Lidove Noviny indicava
che queste armi erano state consegnate all’Esercito
di Liberazione del Kosovo [UCK].
Nell’aprile del 1999, il giornale
londinese The Times, indicava che
Europol preparava un rapporto per i Ministri europei dell’Interno e della Giustizia,
sottolineando le connessioni tra l’UCK
e i narco-trafficanti. Secondo il quotidiano, le polizie tedesca, svizzera e
svedese, avrebbero avuto le prove del finanziamento parziale dell’UCK dalla vendita di droghe.
I diversi tipi di compromissioni dei Paesi
ricchi con gli Stati trafficanti sono così diffusi, che le loro caratteristiche
possono essere modellizzate.
Il più diffuso ha per origine gli
interessi economici. Durante gli Anni Novanta, la Cina e la Polonia hanno
accettato, senza recalcitrare, che le armi, che vendevano alla Birmania,
fossero pagate con il danaro dell’eroina. Dal loro canto, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale non si sono, mai, posti tante
domande sull’origine dei fondi che permettono a certi Paesi – in particolare
alla Colombia, durante tutti gli Anni Ottanta – di pagare il loro debito
estero. Se certi Paesi europei e l’Unione Europea stessa chiudono gli occhi
sulle protezioni ufficiali, di cui beneficia la cultura di cannabis in Marocco, è perché contribuisce, largamente, all’equilibrio
economico del Paese e la loro sostituzione costerebbe estremamente cara.
Ma la droga può essere, così, utilizzata
come arma diplomatica per destabilizzare o discreditare un avversario politico.
Un esempio di questo atteggiamento è la politica degli Stati Uniti nei
confronti dell’Iran nel campo delle droghe. Durante tutti gli Anni Novanta, a
dispetto dei suoi sforzi nel campo della lotta contro il transito dell’eroina
afghana [l’Iran ha perso circa 3mila uomini, in venti anni, in questa lotta],
questo Paese è stato decertificato da Washington, vale a dire posto sulla lista
dei Paesi che sono considerati Stati trafficanti. Questa misura produce la
sospensione di ogni aiuto economico da parte degli Stati Uniti e, soprattutto,
il loro voto negativo in tutte le istanze internazionali, incaricate di
promuovere la coooperazione internazionale. Interrogato dall’OGD, un rappresentante del Dipartimento
di Stato aveva risposto a tale riguardo che l’Iran era stato posto sulla lista
dei Paesi “decertificati” in quanto Stato terrorista e non a causa della sua
partecipazione al traffico internazionale delle droghe. Nel dicembre del 1998,
il presidente Bill Clinton annunciò che avrebbe ritirato l’Iran dalla lista dei
Paesi “decertificati”.
La ragione?
“L’Iran
non è più un produttore significativo di oppio e di eroina e ha cessato di
essere un Paese di transito della droga destinata agli Stati Uniti.”
Tutti avevano compreso che si trattava di
un gesto di buona volontà che rispondeva alla politica di apertura manifestata
dal presidente Mohammad Khatami, con il suo insediamento, nel 1997.
L’ultimo elemento, che concerne le
manipolazioni di cui la droga è l’obiettivo, è di carattere diplomatico. Si
tratta questa volta per un Paese di tacere le implicazioni di un altro Stato
nel traffico di droghe, al fine di esercitare un ricatto, perché vi metta fine
o faccia una politica voluta dal primo in un altro campo. Gli Stati Uniti
hanno, simultaneamente, mirato a questi due obiettivi nel caso della Siria,
Paese le cui truppe erano, profondamente, implicate nel traffico di hashish e di eroina nel Libano: hanno,
così, ottenuto delle campagne di eradicazione delle culture illecite nella
piana della Bekaa e la partecipazione della Siria ai negoziati di pace nel
Medio Oriente. La stessa strategia è stata utilizzata da Washington nei
confronti del generale Hugo Banzer, presidente della Bolivia. La dittatura
militare di quest’ultimo [1971-1978] si è non solo consegnata a gravi
violazioni dei diritti umani e all’assassinio di oppositori all’estero, nel
quadro del Piano Condor, ma ha,
anche, contribuito alla specializzazione della Bolivia nella produzione di
cocaina.
Pablo Petrasso,
Il boss legato alla ‘ndrangheta che imbarazza Zelensky, Accuse dalla Bulgaria: “Il
Presidente protegge il “re della cocaina” Banev. Il patto di “Brendo” con il clan
Bellocco per portare la droga sulla rotta dei Balcani e i milioni trasferiti in
Svizzera, Corriere della Calabria, 8 maggio 2022 [https://www.corrieredellacalabria.it/2022/05/08/il-boss-legato-alla-ndrangheta-che-imbarazza-zelensky/].
“Un’organizzazione
bulgara, erede diretta della “vecchia” mafia di Sofia, e una ‘ndrina
trapiantata in Piemonte ma collegata alla cosca Bellocco di Rosarno
alleate nell’importazione via mare di cocaina dal Sud America e nella
successiva distribuzione sui principali mercati europei. È una inedita “multinazionale
del narcotraffico” quella scoperta e smantellata dai carabinieri del ROS che,
nell’ambito dell’operazione “Magna Charta”, hanno eseguito un’ordinanza di
custodia cautelare in carcere nei confronti di 30 indagati. Sette trafficanti
sono stati arrestati in Lombardia, Piemonte e Veneto, gli altri tra Bulgaria,
Spagna, Olanda, Slovenia, Romania, Croazia, Finlandia e Georgia.
Le
indagini – hanno spiegato in una conferenza stampa, nella sede del Comando
provinciale di Roma, i vertici del ROS, i generali Giampaolo Ganzer e Mario
Parente – sono partite nel 2005 proprio in Piemonte, da una “costola”
calabrese riconducibile a clan di Rosarno. Presto è emerso il
collegamento con i bulgari, che avevano sedi operative in Italia, Spagna e
Croazia, e bulgari sono stati i primi corrieri finiti in manette con singoli
carichi di droga intercettatati negli scali aerei di Milano e Amsterdam. Il
vero “salto di qualità” c’è stato però quando la droga ha cominciato ad
arrivare dal Sud America a bordo di grandi “navi madre”, nella tratta oceanica,
e di velieri opportunamente dotati di doppi fondi dirottati verso le Baleari e
l’Isola di Madeira: gli specialisti delle importazioni, secondo gli
investigatori, erano i fratelli italiani Fabio e Lucio Cattelan, che si
preoccupavano di reclutare anche gli skipper.
Dopo
il doppio sequestro – nel febbraio del 2007 – di sei tonnellate di cocaina
stivate sul
“Blaus VII” e sull’“Oct Challenger”, e l’arresto di sette membri
di equipaggio, il “cartello” ha provato a rifarsi delle perdite: il boss dei
bulgari, Evelin Nicolov Banev, detto “Brendo”, contattato dal
trafficante padovano Antonio Melato, ha noleggiato una barca a vela e una
motonave per importare altri 3mila chili di stupefacente, ma una grave fuga di
notizie sulle indagini in corso (responsabile un magistrato bulgaro, oggi non
più in servizio), ha convinto l’organizzazione a rimandare tutto a tempi
migliori. Al momento degli ultimi arresti, anche Antonio Melato e il figlio
Alessandro, “pizzicato” a Dubrovnik, stavano organizzando una nuova spedizione,
stavolta sulla rotta africana. Mentre due degli skipper italiani avrebbero
perso la vita durante una tempesta al largo delle coste portoghesi: di loro si
sono perse le tracce mentre andavano al “rendez vous” con una delle “navi
madre” cariche di cocaina.”
Edoardo
Anziano, Credit Suisse è stata condannata per riciclaggio dei capitali della
mafia bulgara, La banca di Zurigo ha ripulito centinaia di milioni provento del
traffico di droga. Il boss bulgaro Evelin Banev, in affari anche con la ‘ndrangheta,
ha 36 anni di carcere da scontare, ma resta a piede libero dopo aver ottenuto
la cittadinanza in Ucraina, IRPI MEDIA, 4 Luglio 2022 [https://irpimedia.irpi.eu/suissesecrets-credit-suisse-e-stata-condannata-per-riciclaggio-dei-capitali-della-mafia-bulgara/].
“Ritengo
le leggi sul segreto bancario svizzero immorali. Il pretesto di proteggere la
privacy finanziaria è semplicemente una foglia di fico che nasconde il
vergognoso ruolo delle banche svizzere quali collaboratrici degli evasori
fiscali. Questa situazione facilita la corruzione e affama i Paesi in via di
sviluppo che dovrebbero ricevere i proventi delle loro tasse. Sono i Paesi che
più hanno sofferto del ruolo di Robin Hood invertito della Svizzera.”
Politici
corrotti, impiegati pubblici che hanno sottratto milioni dalle casse pubbliche
di Paesi in via di sviluppo, narcotrafficanti e trafficanti di uomini, l’Obolo
del Papa destinato alle opere pie accanto a medi e grandi evasori italiani e
delinquenti, anche in odore di ‘ndrangheta. Sono alcuni degli oscuri personaggi
che hanno posseduto conti correnti in Credit Suisse, la seconda banca della
Svizzera. Da almeno vent’anni l’istituto bancario promette una stretta su
criminali e corrotti, prende tempo e patteggia con amministrazioni giudiziarie
di Europa e Stati Uniti per omessi controlli sui loro clienti.
Suisse
Secrets è un progetto di giornalismo collaborativo guidato dal Süddeutsche Zeitung e Occrp a cui partecipano 48 media
partner da tutto il mondo e 163 giornalisti. Nato da un leak, una segnalazione
anonima, contenente i dati di 18mila conti correnti e 30mila correntisti, Suisse Secrets
scardina i segreti di casseforti nascoste per decenni tra le Alpi.
E
rivela un aspetto inquietante: nonostante il segreto bancario sia formalmente
archiviato, la “cultura della segretezza” e la legge bancaria svizzera
difendono ancora i patrimoni di chi possiede un conto presso una banca
svizzera.
Il
lavoro di inchiesta di Suisse
Secrets è durato oltre un anno. I giornalisti
hanno analizzato migliaia di dati bancari e intervistato decine di banchieri,
legislatori, procuratori, esperti e accademici. Per arrivare a raccontare ciò
che i giornalisti svizzeri non possono, pena il carcere: anche per loro è reato
violare il segreto bancario nel loro Paese.
Keith Griffith,
Credit Suisse’s scandals: Bank lost $5.5B on hedge fund run by wire fraudster,
pleaded guilty in ‘tuna bond scam’ and was convicted in scheme to launder coke
money for pro wrestler
-Credit Suisse’s recent missteps are in the spotlight
following $54B bailout
-Scandals and multi-billion dollar losses have hit
the Swiss lender in recent years
-CEO vows ‘to move forward rapidly to deliver a simpler
and more focused bank’
Daily Mail, 16 marzo 2023 [https://www.dailymail.co.uk/news/article-11869227/Credit-Suisses-sandals-missteps-losses-turmoil-recent-years.html].
Miroslav
Pejko, Pal’o Rypal, due giornalisti svaniti nel nulla rispettivamente nel 2008
e nel 2015, e Jan Kuciak.
MA VA LÀ, VADALÀ! – IN
SLOVACCHIA 7 ITALIANI IN CELLA PER L'ASSASSINIO DEL REPORTER CHE AVEVA SCRITTO
DEI LORO RAPPORTI CON LA 'NDRANGHETA – ECCO CHI È NINO VADALÀ, IL CALABRESE IN
LAMBOGHINI CHE FA TREMARE IL PREMIER FICO - I NOMI DEGLI ITALIANI ERANO
STATI SEGNALATI DALLA PROCURA DI REGGIO CALABRIA MA BRATISLAVA NON SI ERA
MOSSA..., DAGOSPIA, 2 marzo 2018 [https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/ma-va-vadala-ndash-slovacchia-italiani-cella-168408.htm].
“Belgian police have raided an illegal lab producing
the rave drug ecstasy on an airbase that reportedly houses part of the US
nuclear arsenal in Europe.
Two suspects – not military personnel – were arrested
during the raid, according to a spokesperson for the prosecutor’s office in the
Belgian province of Limburg.
The
Kleine-Brogel base in northeast Belgium is best known for housing a stock of US
nuclear weapons.
Belgian officials are discreet about the deployment,
having briefly confirmed its role in the 1980s, but in 2019 a Green MP told
parliament that US forces held 10 to 20 warheads there.
Prosecutors said that local police had discovered the
drug lab on military land on 22 June and that it had been dismantled by
specialist federal officers.
The lab was found to produce MDMA, a synthetic
recreational drug most commonly known as ecstasy.
The Kleine-Brogel airbase is often a target of Belgian
anti-nuclear and anti-NATO protesters.
It is in a rural area between the port city of Antwerp
and the border with Germany’s industrial heartland, an area dotted by labs and
hideouts used by international drug gangs.”
E, per
fortuna, la Costituzione all’articolo 11 ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri Popoli e come mezzo
di risoluzione delle controversie internazionali”!
È possibile considerare tali preparativi militari senza concepire
le più grandi inquietudini?
Se non ci conducono alla guerra, è alla bancarotta e alla
rovina che ci condurranno e giorno verrà in cui gli Italiani saranno un Popolo
di mendicanti davanti a una fila di caserme!
è il
monito lanciato, il 4 marzo 2022, da Papa Francesco, durante l’udienza al
Centro Femminile Italiano, nelle stesse ore in cui il tema
dell’incremento dei budgets per la
difesa era uno dei temi sul tavolo del vertice della NATO a Bruxelles e dopo che la Germania aveva comunicato l’obiettivo
del 2% e l’Italia, il Belgio, l’Austria, i Paesi Baltici e la Finlandia
apparivano allineati nella stessa direzione:
“La vera risposta non
sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra
impostazione, un modo diverso di governare il Mondo, non facendo vedere i
denti, un modo ormai globalizzato, e di impostare le relazioni internazionali.”
Tutti gli Esseri Umani hanno il diritto di vivere
in un Mondo senza guerra e senza conflitto armato, senza occupazione straniera,
né base militare.
Nessuno
ha il diritto di morte sugli Esseri Umani e sui Popoli.
Ma l’ostacolo
che frena a favore della difesa comune europea è rappresentato dalla
potentissima lobby europea dei
produttori di armi e munizioni: migliaia di aziende con fatturati da imprese top nel Mondo. In Germania se ne contano
221, in Italia 157 e in Francia 122, con un interesse evidente a conservare lo status quo.
“La guerra piace a chi non sa cos’è.”,
si
apre così, assumendo a riferimento ideale il noto monito erasmiano, la più
recente ricerca del filosofo del diritto Mario G. Losano dedicata agli articoli
pacifisti delle Costituzioni di Giappone [articolo 9], Italia [articolo 11] e
Germania [articolo 26], i tre Stati dell’Asse che, usciti sconfitti dalla
Seconda Guerra Mondiale, riscrissero,
sotto pressione più o meno intensa degli Alleati vincitori, le proprie Carte
fondamentali, tra il 1947 e il 1949. Per l’Europa, gli ultimi anni della guerra
e i primi anni del Dopoguerra sono stati anni di anarchia, che la trasformarono
in un continente selvaggio. In Italia, ci furono ponti saltati, case senza
servizi, disoccupazione dilagante, inflazione alle stelle, reduci che faticavano
a inserirsi nella società, borsa nera, prostituzione e sciuscià disposti a
tutto.
Non sono né i missili, né le bombe, né i carri di assalto,
né gli impieghi militari, né tutto il resto della macchina di morte che daranno
ai Popoli del Mondo servizi sociali, scuole, case, lavori decenti e utili.
Italia-Germania,
Meloni: “Convergenze su Piano Mattei in Africa” “Esistono convergenze con la
Germania sulla necessità di avviare nuove forme di cooperazione coi Paesi del
Nord Africa sull’energia. Sul Piano Mattei ci sono importanti convergenze. L’Europa
oggi ha un problema di approvvigionamento energetico e la cooperazione con le
nazioni africane può affrontare insieme diversi problemi”. Lo ha detto il
presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nelle dichiarazioni alla stampa
insieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz [https://www.youtube.com/watch?v=c2v9j9_1SVQ].
Lo
sbarco in Sicilia nel 1943 garantì alle forze alleate il pieno controllo delle
rotte mediterranee che furono così riaperte alle unità navali preposte al
rifornimento dei reparti di stanza nell’Isola. Un’abbondante letteratura ha
ricostruito i legami intercorsi tra il Governo statunitense e i principali
gruppi mafiosi siciliani.
Consapevoli
del ruolo strategico assunto dalla Sicilia nel corso del conflitto mondiale, gli
Alleati imposero all’Italia, attraverso il Trattato
di Pace, una serie di limitazioni alle installazioni militari da attuare
nell’Isola. L’articolo 50 prevedeva che “in
Sicilia e in Sardegna, tutte le installazioni permanenti e il materiale per la
manutenzione e il magazzinaggio delle torpedini, delle mine marine e delle
bombe” fossero “demolite o trasferite
nell’Italia continentale”, entro un anno dall’entrata in vigore del trattato
e che non sarebbe stato “permesso alcun miglioramento
o ricostruzione o estensione delle installazioni esistenti o delle fortificazioni
permanenti”. L’articolo 59 prevedeva che le isole di Pantelleria, Lampedusa,
Lampione e Linosa restassero “smilitarizzate”,
mentre l’articolo 73 faceva divieto a forze militari straniere di “stazionare sul territorio, nei porti, o
nelle acque territoriali italiane”. Le clausole furono, tuttavia, presto
eluse dagli stessi Stati Uniti che, a meno di dieci giorni dalla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
del trattato, il 4 gennaio 1948, inviarono, per decisione del Segretario agli Esteri,
il generale Harry S. Marshall, un distaccamento di fucilieri della US Navy per tenere le navi americane il
più vicino possibile agli obiettivi di guerra. Contemporaneamente l’1 febbraio
1948, lo Stato Maggiore dell’Esercito italiano disponeva la ricostituzione in
Sicilia della Divisione di Fanteria Aosta sciolta a fine conflitto,
assegnandone il comando a Palermo. La ricostituzione dell’Aosta e lo sbarco dei
fucilieri americani costituivano i primi passi con cui prendeva il via il
processo di militarizzazione della Sicilia nel Dopoguerra.
La
posizione geografica dell’Italia – Paese di confine tra Est e Ovest – e la
presenza al suo interno di un forte partito comunista e di un grande partito
socialista, non potevano non suscitare paura per la tenuta dell’Italia nella NATO. Troppi erano i fattori di rischio,
e un’apertura di credito all’Unione Sovietica avrebbe potuto rivelarsi
pericolosa. L’ambizioso piano di ricostruzione economica varato nel dopoguerra
in Europa dagli Stati Uniti e la rapida crescita industriale del Paese furono
paradossalmente i fattori che contribuirono all’avvicinamento tra Roma e Mosca.
I primi contatti, infatti, ancorché politici, furono stabiliti tra l’Unione
Sovietica e l’Italia proprio per questioni commerciali. L’apporto dato dall’ENI di Mattei, dalla FIAT di Vittorio Giuseppe Valletta e da
numerose altre piccole e grandi imprese che iniziarono a tessere relazioni
economiche con l’URSS, favorì il nuovo corso di politica estera.
In una
relazione segreta firmata dal Ministro degli Esteri Andrej Andreevic Gromyko per i membri del Presidium del PCUS
qualche giorno prima della partenza di Giovanni Gronchi per l’URSS23 si legge:
“Gronchi è uno dei leader della corrente ‘di sinistra’
della Democrazia cristiana. Nelle questioni di politica estera egli mantiene
uno sguardo molto più moderato rispetto alla dirigenza del partito. In molti
casi Gronchi si è espresso a favore di una politica più indipendente dell’Italia
e degli altri paesi dell’Europa occidentale, ma anche a favore della
distensione della tensione
internazionale. Non ha mai esternato dichiarazioni di inimicizia nei confronti
dell’Unione Sovietica”.
Notevole fu
l’influenza del presidente dell’ENI
Enrico Mattei nella formulazione delle nuove linee di politica estera di alcuni
esponenti della Democrazia Cristiana. In effetti il suo peso su decisioni
fondamentali e il suo potere di condizionamento della politica estera italiana attraverso
trattative di affari con forti implicazioni di carattere geopolitico, furono
piuttosto rilevanti. Mattei giocò un ruolo importante nel riavvicinamento tra
Italia e Unione Sovietica quando le condizioni politiche non sembravano ancora
mature. Per questo era diffusa l’impressione che il presidente dell’ENI attuasse una propria politica estera
senza concordarla con il ministero o, comunque, realizzasse progetti spesso non
aderenti alla linea ufficiale della diplomazia italiana. Tale fu l’importanza
geopolitica della “linea imprenditoriale” di Mattei che le diplomazie di tutto
il mondo seguirono con apprensione e spesso con differenti reazioni le trattative
dell’ENI in molteplici zone del
mondo. Il Governo sovietico vide in Mattei un interlocutore privilegiato non
solo per le implicazioni economiche che ebbe l’espansione dell’ENI in Unione Sovietica, ma per la
posizione preminente che Mattei ricopriva nel settore dell’industria italiana. Il
presidente dell’ENI, infatti, rappresentava
il trait d’union tra la classe
politica democristiana e i circoli economici del Paese che, da tempo, erano
interessati a uno sbocco a Est e, con differenti modalità, premevano sulla classe
dirigente perché fossero sancite nuove linee politiche nei confronti dell’URSS.
A Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, nella Democrazia Cristiana si
aggiungevano altri esponenti che molto o poco, con riserve, opposizioni e
lacerazioni sostenevano la necessità di modificare il carattere della
partecipazione italiana all’Alleanza atlantica, giudicata troppo “appiattita”
sulle scelte degli Stati Uniti. Tra di essi Rinaldo Del Bo, verso il quale i
sovietici nutrivano una certa stima e che, tra l’altro, in qualità di Ministro
del Commercio Estero fu il primo esponente del Governo italiano a recarsi in
visita ufficiale in Unione Sovietica, nell’ottobre del 1959. In un rapporto
sovietico del giugno 1959 si legge:
“Rinaldo Del Bo è legato al Vaticano e
ai circoli vicini a Gronchi. Può considerarsi davvero “di sinistra”. Quando era
viceministro degli Esteri manifestò il proprio disaccordo a Martino,
dichiarandosi a favore di “una propria politica estera italiana”. Si è anche
espresso per l’allargamento dei rapporti commerciali con i Paesi dell’Europa
Orientale e con la Repubblica Popolare Cinese. All’inizio del 1958, durante la
discussione governativa circa la proposta sovietica di distensione internazionale
e di disarmo, egli fu l’unico Ministro che giudicò utile valutare tale proposta
e sostenere una politica più elastica. Per questa presa di posizione è stato oggetto
di un’aspra critica da parte delle correnti di destra e del Vaticano”.
Nel
luglio del 1958 il presidente della FIAT
Valletta, analizzando i cambiamenti in corso nel contesto internazionale, aveva
dichiarato:
“Si allontanano sempre di più i
pericoli di una guerra totale sotto la garanzia della reciproca paura dei due
blocchi e dei neutrali circa l’uso delle atomiche e gli sviluppi di una sempre
maggiore efficienza. […] Il signor Chruscev sarà indotto a cambiare tattica e
politica sia interna che estera. Si impone, a lato delle produzioni in
armamenti, anche a costo di ridurli, la pronta e intensa produzione di beni di
consumo e di appoggio per le popolazioni civili”.
La
stessa percezione era stata avvertita da Enrico Mattei, la cui ENI, nel 1958, era riuscita a concludere
alcuni accordi in URSS e ed era interessata a piazzare in Unione Sovietica
50.000 tonnellate di gomma sintetica in cambio di olii combustibili. Nel
dicembre del 1958, di ritorno da un viaggio in
Cina, Mattei si era fermato per colloqui riservati in Unione Sovietica nei
quali aveva ribadito che:
“[…] L’Occidente europeo è una cosa diversa dall’America.
Un Paese occidentale con popolazione densa e con produzioni industriali di alta
qualità, come l’Italia, ha bisogno di importare materie prime e semi lavorate
per le sue industrie, ha un suo volto ben distinto e può trovare punti di
incontro di carattere economico con l’Unione Sovietica. L’Italia in
particolare, col suo presente Governo [Fanfani] si trova in condizioni
singolarmente favorevoli.”
Mattei era
stimato dalla dirigenza sovietica un interlocutore privilegiato per tre motivi
di fondo: per la convinzione della necessità di allargare il mercato italiano
in Unione Sovietica; per la posizione di non asservimento alle politiche degli
Stati Uniti e alle indicazioni del cartello petrolifero americano e, infine,
per essere un trait d’union tra il
mondo politico e quello economico in Italia. Gli attacchi che Mattei riceveva
in Italia da vari settori della Democrazia Cristiana e dai partiti della destra
venivano considerati da Mosca con inquietudine. Un eventuale calo di prestigio
di Mattei in Italia avrebbe significato anche un rallentamento del processo di avvicinamento
tra i due Paesi. Un tentativo in tal senso fu fatto nel marzo del 1959, quando sembrò
che per un accordo tra Antonio Segni, Giovanni Malagodi e Alighiero De Micheli
si puntasse a destituire Mattei dalla presidenza dell’ENI, proprio per l’imbarazzo internazionale che avevano creato le
sue azioni e per il suo crescente orientamento verso il mercato sovietico. A
Mosca si utilizzò il canale degli scambi commerciali per lasciare una porta
aperta all’Italia anche nei periodi più tesi delle relazioni bilaterali e
internazionali.
Sotto il Governo
Fanfani, ancor più durante il Gabinetto Segni, nel corso del 1959, i sovietici
portarono avanti una linea di intense relazioni con il mondo imprenditoriale
italiano, prediligendo spesso contatti riservati rispetto a quelli ufficiali
dei canali politici.
Caso
Mattei: omicidio – Nuove rivelazioni di Benito Li Vigni
Benito Li Vigni,
con le sue dichiarazioni, apre lo scenario della cospirazione internazionale per uno degli
innumerevoli misteri italiani: l’omicidio di Enrico Mattei, ancora oggi
denominato sula stampa nazionale, sempre pronta a compiacere i potentati, come
“Caso Mattei” per alimentare il dubbio che si tratti di incidente e non, come
già accertato dalla magistratura, di attentato. Inoltre, collega l’omicidio di
Mattei all’omicidio del Presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy [https://www.youtube.com/watch?v=x3p2LDuQRJg].
Enrico
Mattei e lo Shah Mohammad Reza
Pahlavi.
Enrico
Mattei e Gamal ‘Abd
al-Nasir Husayn.
Enrico
Mattei e Aleksej Kosygin.
Enrico Mattei e il Re del Marocco Mohammed V.
“Tenuta nascosta per decenni e scoperta
nella seconda metà degli anni Novanta da Vincenzo Calia, il sostituto
procuratore di Pavia che riaprì le indagini sulla morte di Enrico Mattei, la
perizia dell’aeronautica è una delle prove più lampanti dell’occultamento dei
fatti e del depistaggio avvenuti intorno all’assassinio del fondatore dell’Eni.
Perché di assassinio si tratta, con buona pace dei negazionisti di ieri e di
oggi. Come ha accertato la Procura di Pavia nel 2003, al termine delle
indagini, il Morane Saulnier 760 precipitato a Bascapè era stato sabotato poche
ore prima della partenza con una piccola carica di esplosivo, mentre era
parcheggiato nell’aeroporto di Fontanarossa, a Catania. Mattei era stato
convinto a recarsi in Sicilia dove pernottò la notte tra il 26 e 27 ottobre
1962 e dove scattò la trappola della sua eliminazione. Cosa Nostra, attraverso
Stefano Bontate e il boss di Riesi Giuseppe Di Cristina, fece solo un lavoro di
fiancheggiamento.”
CHI ERA DAVVERO EUGENIO CEFIS? – LA STORIA DI UNO DEGLI UOMINI PIÙ POTENTI,
TEMUTI E OSCURI D’ITALIA NEL LIBRO DI PAOLO MORANDO – I RAPPORTI CON I SERVIZI
ANGLO-AMERICANI, IL SOSPETTO [ANCHE DI PASOLINI] CHE CI FOSSE LA SUA MANO
DIETRO LA MORTE DI ENRICO MATTEI, LA MONTEDISON, LA LOGGIA P2 E LA MASSONERIA –
IL METODO DEI DOSSIERAGGI E DELLE INTERCETTAZIONI TELEFONICHE, GLI
INVESTIGATORI PRIVATI SGUINZAGLIATI DIETRO I SUOI NEMICI…, DAGOSPIA, 7 maggio 2021 [https://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/chi-era-davvero-eugenio-cefis-storia-uomini-piu-rsquo-269375.htm].
Tre
giorni prima di lasciare la Casa Bianca, il 17 gennaio 1961, dopo due mandati,
Dwight David Eisenhower, trentaquattresimo Presidente degli Stati Uniti, aveva
ammonito la popolazione del suo Paese di fare attenzione al complesso militare-industriale,
che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in
vita e potenziarsi, di portare il Paese nuovamente in guerra. Le ripropongo qui,
Presidente, uno dei passaggi più significativi del discorso di commiato alla Nazione:
”[…]
Ora questa combinazione tra un grande apparato militare e una vasta industria
bellica è un fatto nuovo nell’esperienza americana. La totale influenza –
economica, politica, perfino spirituale – viene sentita in ogni città, in ogni
organismo statale, in ogni ufficio del Governo Federale. Riconosciamo il
bisogno ineluttabile di questo sviluppo, ma non dobbiamo esimerci dal
comprendere le sue gravi implicazioni. Ne sono, inevitabilmente, coinvolti il
nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro stile di vita. La stessa struttura
portante della nostra società.
Nei consigli
di governo, dobbiamo vigilare per impedire il conseguimento di un’influenza
ingiustificata, più o meno ricercata, da parte del complesso militare-industriale.
L’eventualità dell’ascesa disastrosa di un potere mal riposto esiste e
persisterà.
Non dobbiamo,
mai, permettere che la pressione di questa combinazione metta in pericolo le
nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per
scontato. Solo una cittadinanza vigile e accorta è in grado di esigere una
corretta integrazione della gigantesca macchina militare-industriale di difesa
con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo tale che la sicurezza e la
libertà possano prosperare insieme. […]”
A quel
tempo, erano più di settecento gli ex-generali e gli ex-colonnelli che prestavano
servizio nelle industrie belliche, mettendo a disposizione, oltre alle loro
conoscenze specifiche, anche le loro relazioni personali con il Pentagono. Prima
di divenire Presidente e di fare il suo ingresso alla Casa Bianca, il 20
gennaio 1953, Eisenhower aveva condotto una brillante carriera militare, che
aveva fatto di lui il soldato di più alto grado nella gerarchia militare
americana: generale a cinque stelle. La posizione centrale, che occupava in
questa gerarchia, faceva di lui un osservatore privilegiato delle pratiche poco
ortodosse del complesso militare-industriale. E gli otto anni passati alla Casa
Bianca avevano finito per convincerlo della pericolosità di questa potente lobby, che, senza la presenza di una “cittadinanza
vigile e accorta”, rischiava di fare man bassa dei meccanismi decisionali
della strategia militare e della politica estera degli Stati Uniti. Il monito
di Eisenhower è stato ignorato, perché non vi è stata negli Stati Uniti una “cittadinanza
vigile e accorta” a impedire le derive militari e politiche che, da
decenni, non cessano di minare lo statuto, la reputazione e le finanze della
superpotenza americana. Trattandosi di grandi scelte di strategia militare e di
politica estera del Paese, la cittadinanza americana, nella sua maggioranza,
non è né “vigile” né “accorta”nel senso auspicato da Eisenhower, vale a dire nel senso di una
forza capace di controllare, strettamente, le decisioni governative e di
opporvisi, eventualmente, nel caso in cui vadano contro l’interesse generale.
La sua assoluta indifferenza a quanto accade fuori delle sue frontiere la
predispone a fare affidamento nei propri leaders e a prendere per oro
colato tutto quello che questi dicono. L’esempio più sbalorditivo è la
convergenza della maggioranza degli americani con l’ex-presidente George Walker
Bush Jr. Non è un segreto per nessuno che questi sia stato la marionetta comune
del complesso militare-industriale e della lobby
petrolifera, che lo hanno utilizzato e manipolato. Per servire gli interessi
dei fabbricanti di armi e delle compagnie petrolifere, Bush e il suo staff hanno utilizzato e manipolato, a
loro volta, il Popolo americano, facendogli ingoiare la menzogna delle armi di
distruzione di massa e del pericolo rappresentato da Saddam Hussein per il Mondo,
in generale, e per gli Stati Uniti, in particolare. E nonostante la menzogna di
Bush fosse venuta alla luce, nonostante la sua invasione dell’Iraq si fosse
rivelata un disastro, i cittadini americani lo rieleggevano, nel novembre del
2004, per un secondo mandato. La Costituzione
americana prevede che “il Presidente, il Vice presidente e tutti i
funzionari civili degli Stati Uniti potranno essere rimossi dai loro uffici su
accusa e verdetto di colpevolezza di tradimento, corruzione o altri gravi crimini
e misfatti.” [art. 2, sec.4, http://www.dircost.unito.it/cs/docs/stati%20uniti%201787.htm].
Non
devo, certo, ricordare io, qui, l’Affaire Watergate e l’Affaire Monica Lewinsky!
Nel 2002, nell’ambito delle indagini su un presunto
arsenale di armi di distruzione di massa del regime di Saddam Hussein, la CIA aveva inviato in missione in Niger l’ex-diplomatico
Joseph Wilson per stabilire se Baghdad avesse tentato di acquistare uranio. Wilson
accertò che non c’era nulla a sostegno di un tale sospetto, ma, il 29 gennaio
2003, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione,
passato alla Storia come il Discorso sull’Asse
del Male, Bush affermò il contrario. Il 6 luglio, con un editoriale sul New
York Times, Wilson accusò l’Amministrazione Bush di avere mentito,
affermando che Saddam Hussein aveva tentato di acquistare uranio dal Niger, per
giustificare l’invasione dell’Iraq, nel marzo del 2003.
“President Bush is right to be
concerned about Saddam Hussein’s relentless pursuit of weapons of mass
destruction. It is true that other regimes hostile to the United States and our allies
have, or seek to acquire, chemical, biological and nuclear weapons. What makes
Mr Hussein unique is that he has actually used them – against his own People and
against his Iranians neighbours." [Senatore Joseph Robinette Biden e Richard
G. Lugar, New York Times, 31 luglio 2002, https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/nsc/nss/2002/nss5.html, https://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/shows/truth/why/said.html]
Venti
anni fa, il 5 febbraio 2003, il Segretario di Stato degli Stati Uniti Colin
Powell, parlando al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – morto di
Covid-19 a ottantaquattro anni, nel 2021 – aveva pronunciato l’ormai celebre
discorso dell’antrace. Ritenuto uno dei più moderati consiglieri del Presidente
George Walker Bush Jr, Powell aveva accusato l’Iraq di possedere armi
batteriologiche e mostrato, con un gesto teatrale, una provetta in cui era
contenuta una polvere bianca. Nel frattempo, su un grande schermo alle sue
spalle, scorrevano immagini satellitari, grafici e foto che “provavano” l’esistenza
di un grande programma di produzione di armi chimiche e batteriologiche. Nulla
di tutto ciò era vero. La grande messinscena architettata dai servizi di intellingence americano e britannico
permise, nonostante il Consiglio di Sicurezza non avesse dato il suo benestare,
di aprire ai marines la strada verso
Baghdad. Già alla fine dell’estate del 2003, infatti, si scoprì che gran parte
delle informazioni e delle ricostruzioni presentate da Powell all’ONU era falsa. I laboratori mobili e gli
enormi arsenali di armi di distruzione di massa erano un’invenzione. Pura
propaganda. Due anni dopo, nel febbraio del 2005, lo stesso Powell definì il
discorso pronunciato al Consiglio di Sicurezza e l’esposizione degli argomenti
forniti dai servizi segreti di Washington e di Londra una “macchia” sulla sua
carriera. Quella
messinscena, che non è, mai, stata condannata dalla comunità internazionale per
quel consolidato doppiopesismo che la contraddistingue, è costata 584mila morti.
“Our inability, unwillingness, to put the hammer down in terms of security
in the country allowed chaos to ensue, which gave rise to ISIS.”,
dichiarava,
lo scorso 17 marzo, alla Reuters Richard Armitage, Vicesegretario di
Stato degli Stati Uniti al tempo dell’invasione americana dell’Iraq. Invasione che “might be as big a strategic error”quanto l’invasione dell’Unione Sovietica
da parte di Hitler nel 1941, che contribuì alla disfatta della Germania nella
Seconda Guerra mondiale [Arshad Mohammed e Jonathan Landay, U.S. grapples with
forces unleashed by Iraq invasion 20 years later, Reuters, 17 marzo 2023, https://www.reuters.com/world/us-grapples-with-forces-unleashed-by-iraq-invasion-20-years-later-2023-03-16/].
Washington, 8 marzo 2003: migliaia di persone in marcia verso la Casa Bianca per protesta
contro il piano di guerra dell’Amministrazione Bush contro l’Iraq.
Il 19 marzo
2003, il Presidente degli Stati Uniti George Walker Bush Jr annunciava al Paese
dalla Casa Bianca l’inizio dell’attacco
contro l'Iraq:
‘‘Concittadini, in questo momento le forze
americane della coalizione sono impegnate nelle prime fasi delle operazioni
militari per disarmare l’Iraq, per liberare il suo Popolo e per difendere il Mondo
da un grande pericolo. Su mio ordine, le forze della coalizione hanno iniziato
a colpire obbiettivi selezionati di rilevanza militare per minare il potenziale
bellico di Saddam Hussein. Queste sono le fasi iniziali di quella che sarà un’ampia
campagna concertata. Oltre 35 Paesi stanno dando un cruciale appoggio, che va
dall’uso di basi navali e aeree alla messa a disposizione di informazioni o di
supporto logistico, allo spiegamento di unità da combattimento. Ogni Paese che
fa parte di questa coalizione ha scelto di farsi carico del dovere e di
condividere l’onore di essersi messo al servizio della nostra difesa comune. A
tutti gli uomini e a tutte le donne delle Forze Armate degli Stati Uniti attualmente in
Medio Oriente [voglio dire che] la pace di un mondo turbolento e le speranze di
un Popolo oppresso ora dipendono da voi. Questa fiducia è ben riposta. Il
nemico che fronteggiate si accorgerà della vostra capacità e del vostro
coraggio. Il Popolo che liberate sarà testimone dello spirito onorevole e
amabile del militare americano. In questo conflitto l’America deve fronteggiare
un nemico che non ha nessun riguardo per le convenzioni di guerra o per le
regole della morale. Saddam Hussein ha collocato truppe e mezzi militari tra la
popolazione civile nel tentativo di utilizzare uomini, donne e bambini
innocenti come scudi per i suoi militari; è un’ultima atrocità contro il suo Popolo.
Voglio che gli americani e che il Mondo sappiano che le forze americane faranno
ogni sforzo per risparmiare qualsiasi danno ai civili innocenti. Una campagna sull’impervio
territorio di un Paese grande quanto la California potrebbe rivelarsi più lunga
e difficile di alcune previsioni. E aiutare gli iracheni a costruire un Paese
unito, stabile e libero richiederà un nostro prolungato impegno. Noi siamo
venuti in Iraq con rispetto per i suoi cittadini, per la sua grande civiltà e
per le fedi religiose che praticano. In Iraq noi non abbiamo ambizioni, salvo
quella di scongiurare una minaccia e di restituire il Paese al controllo del
suo Popolo. So che i familiari dei nostri soldati stanno pregando affinché
tutti tornino presto a casa sani e salvi. Milioni di americani stanno pregando
con voi per l’incolumità dei vostri cari e per la protezione degli innocenti.
Per il vostro sacrificio, avete la gratitudine e il rispetto del Popolo
americano e vi comunico che le nostre forze torneranno a casa non appena avremo
completato il nostro compito. Il nostro Paese è entrato in questo conflitto a
malincuore ma il nostro fine è certo. Il Popolo degli Stati Uniti e i nostri
alleati e amici non vivranno alla mercé di un regime fuorilegge che minaccia la
pace con armi di distruzione di massa. Ora faremo fronte a questa minaccia con
il nostro esercito, la nostra marina, l’aeronautica, la guardia costiera e i
marines, in modo da non doverci ritrovare in seguito a fronteggiarla con un esercito
di vigili del fuoco, di poliziotti e di medici nelle strade delle nostre città.
Ora che il conflitto è arrivato, il solo modo di limitare la sua durata è
quello di esercitare la forza con decisione. E vi assicuro che questa non sarà
una campagna di mezze misure, il solo risultato che ci andrà bene sarà la
vittoria. Concittadini, i pericoli cui sono esposti il nostro Paese e il Mondo
saranno scongiurati. Supereremo questo periodo di pericolo e lavoreremo per la
pace. Difenderemo la nostra libertà. Porteremo la libertà ad altri. E
vinceremo. Che Dio protegga il nostro Paese e tutti coloro che lo difendono.” [[https://www.youtube.com/watch?v=yEHuek0w5e4,
https://www.vita.it/it/article/2003/03/20/iraq-lintervento-di-bush-e-la-risposta-di-saddam/22821/]
Il 3 giugno 2013, tre anni dopo il suo arresto, il venticinquenne Army
PFCBradley
Edward Manning, arrestato, il 26 maggio 2010, a Baghdad, in Iraq,
con l’accusa di aver fornito a WikiLeaks
centinaia di migliaia di documenti militari americani riservati sulla guerra in
Iraq e in Afghanistan, tra il novembre del 2009 e il maggio del 2010, compare
davanti a una corte marziale, nel quartier generale della National Security Agency [NSA],
a Fort George G. Meade, nel Maryland, a un’ora di strada dalla Casa Bianca.
Il
processo è aperto alla stampa, ma i giornalisti debbono lasciare il cellulare
all’esterno della base.
Nell’aula, il governo ha allestito meno di
20 posti per il pubblico e ha distribuito appena una decina di accrediti alla
stampa. La maggioranza dei giornali basa, dunque, i propri resoconti sui
comunicati ufficiali. Un tale livello di segretezza testimonia delle
inquietudini del Governo e dell’Esercito americani per un procedimento
profondamente anti-democratico e dei timori per una possibile discussione
pubblica dei misfatti rivelati dal soldato Bradley Edward Manning.
Come
era riuscito Bradley Edward Manning ad avere quelle notizie?
48
chili di peso, 1,57 di altezza, Bradley è un vero peso piuma!
Bradley,
inviato, nell’ottobre del 2009,
in Iraq
con la 2nd Brigade Combat Team, 10th
Mountain Division, ha accesso a due reti segrete, che il Dipartimento della
Difesa e il Dipartimento di Stato americani utilizzano per trasmettere dati
riservati. In questo modo, ottiene una copia del video, che riprende l’uccisione
di 12 civili, conosciuto, oggi, come Collateral
Murder, e diffuso da WikiLeaks, il 5 aprile 2010.
Bradley tenta di contattare The Washington Post, The New York Times e Politico, ma senza successo.
Il
26 maggio 2010, Bradley, accusato di avere scaricato dati confidenziali nel suo
computer e di avere rivelato
informazioni utili al nemico, viene arrestato e, quattro giorni più tardi,viene trasferito in una cella “buia e senza aria condizionata” di Camp Arifjan, in Kuwait.
Il suo avvocato, David Coombs ha parlato
di moqueries all’interno della
prigione sulla nudità imposta a Bradley, citando una poesia scritta da una guardia carcerariana, ispirata a Green Eggs and Ham del Dr. Seuss:
Tra il mese di giugno e il mese di
novembre del 2010, WikiLeaks rendeva
pubblici 700mila documenti segreti, in cui si parla di civili, in Afghanistan,
morti per mano della NATO, di 15mila
civili iracheni uccisi e non contati tra le vittime, di ordini di non indagare
sugli abusi commessi dalle forze irachene, addestrate e supervisionate da
quelle americane, documenti che suggeriscono che il Governo e l’Esercito degli
Stati Uniti hanno mentito sulle operazioni di guerra da loro condotte.
In marzo, le dichiarazioni di Philip J.
Crowley, che definisce il trattamento di Bradley “ridicolo, controproducente e stupido”, inducono il portavoce del Dipartimento
di Stato americano a dimettersi dall’incarico [http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/13/pj-crowley-resigns-bradley-manning-remarks],
ma costringono, anche, uno sconcertato Obama, in piena campagna
elettorale, a prendere le difese del Pentagono, in una conferenza stampa della
Casa Bianca.
Nell’aprile del 2011, The New York Review of Books pubblica un documento redatto da due
esperti di diritto Bruce Arnold Ackerman [Yale
Law School] e Yochai Benkler [Harvard Law School], firmato da circa
300 accademici statunitensi in favore di Bradley, [http://www.nybooks.com/articles/archives/2011/apr/28/private-mannings-humiliation/],
che definisce il trattamento carcerario di Bradley una
violazione della Costituzione degli Stati Uniti, all’Ottavo Emendamento:
“Non si
dovranno esigere cauzioni eccessivamente onerose, né imporre ammende
altrettanto onerose, né infliggere pene crudeli e inconsuete.”
e al Quinto Emendamento:
“Nessuno sarà tenuto a rispondere di un reato che
comporti la pena capitale, o comunque infamante, se non per denuncia o accusa
fatta da una grande giuria, a meno che il reato non sia compiuto da individui
appartenenti alle forze di terra o di mare, o alla milizia, quando questa si
trovi in servizio attivo, in tempo di guerra o di pericolo pubblico; né alcuno
potrà essere sottoposto due volte, per un medesimo delitto, a un procedimento
che comprometta la vita o la sua integrità fisica; né potrà essere obbligato,
in una qualsiasi causa penale, a deporre contro se medesimo, né potrà essere
privato della vita, della libertà o della proprietà, se non in seguito a
regolare procedimento legale; e nessuna proprietà potrà essere destinata a un
uso pubblico, senza un giusto indennizzo.”
Il documento ricorda che Barack Obama è
stato professore di diritto costituzionale alla Law School di Chicago e ha adottato una posizione morale sulla
scena politica, che è contraddetta dal suo comportamento come comandante in
capo dell’esercito.
“La
questione ora è se la sua condotta di comandante in capo sia conforme alle
norme fondamentali della decenza.”
WikiLeaks protegge l’anonimato della fonte, ma
Bradley, facendo uso di un handle, bradass87, ha confidato, in chat, a un hacker, una star negli ambienti dei pirati informatici, Adrian
Lamo, anch’egli attivista della causa omosessuale, di essere stato lui a
passare le informazioni riservate. Un traditore per la comunità dei pirati
informatici, che non hanno digerito il fatto che abbia consegnato Bradley alle
autorità americane.
“Had I done nothing, I would always have been left
wondering whether the hundreds of thousands of documents that had been leaked
to unknown third parties would end up costing lives, either directly or
indirectly.”,
Nel marzo del 2012, il Relatore Speciale
dell’ONU sulla tortura, l’argentino
Juan E. Méndez, accusa, formalmente, gli Stati Uniti di trattamento crudele,
disumano e degradante per la forma di detenzione inflitta a Bradley [http://www.lapresse.it/mondo/europa/wikileaks-onu-usa-hanno-violato-leggi-tortura-con-soldato-manning-1.20916].
Secondo Juan E. Méndez, che ha subito la tortura, durante la dittatura militare
di Jorge Rafael Videla Ridondo, e ha dedicato buona parte della sua vita a
combattere questo flagello, si può parlare di tortura, quando vi è l’intenzione
esplicita di provocare sofferenza e dolore acuto, compresi i trattamenti
disumani, come condizioni di detenzione degradanti.
Per la prima volta, dal suo arresto, si
sente la sua voce!
In questa testimonianza, Bradley Edward Manning sostiene
di avere fatto uscire i cablogrammi diplomatici per “aprire un dibattito sul ruolo dell’esercito” e
sulle guerre in Iraq e in Afghanistan. Spiega, inoltre, di essere rimasto,
profondamente, sconvolto da un video del luglio del 2007, che mostra un attacco
da parte di un elicottero Apache
contro dei civili non armati a Baghdad. Il video mostra anche che,
contrariamente ai dinieghi dell’esercito, un fotografo della Reuters e il suo autista erano stati,
scientemente, uccisi nell’attacco [http://www.youtube.com/watch?v=5rXPrfnU3G0].
Accusa l’esercito americano di non dare
valore alla vita umana e paragona i soldati a “un bambino che tortura le formiche con la lente di ingrandimento”
[http://rt.com/usa/manning-trial-recording-leak-177/].
Bradley riconosce di aver trasmesso
informazioni riservate a WikiLeaks,
ma solo dal gennaio del 2010, contrariamente a quanto asserito dall’accusa, e,
per questo reato, il massimo della pena prevista è 10 anni di carcere. Riconosce,
anche, la propria responsabilità per altri 9 capi di accusa su 22 che gli sono imputati.
Per questi 10 reati potrebbe incorrere in 20 anni di carcere [http://www.guardian.co.uk/world/2013/feb/28/bradley-manning-pleads-aiding-enemy-trial].
Ma l’accusa vuole che Bradley sia condannato anche per “collusione conil nemico”,
vale a dire Al-Qaida.
E, in questo caso, la pena prevista è l’ergastolo.
I procuratori militari chiamano a
testimoniare 141 persone, che sfilano fino alla fine di agosto, e tentano di
provare che Bradley ha agito in complicità con Julian Assange. È questa pretesa
collaborazione con WikiLeaks, che
potrebbe valere a Bradley l’accusa di “collusione
con il nemico” e la condanna all’ergastolo. Secondo il procuratore militare
Ashden Fein, Bradley avrebbe, “sistematicamente
e indiscriminatamente”, raccolto documenti riservati per metterli in rete,
con la consapevolezza di favorire “il
nostro nemico”, Al-Qaida, che utilizzava quel sito.
Nella prima giornata di dibattimento, l’accusa,
rappresentata dal capitano Joe Morrow, in poco meno di un’ora cerca,
deliberatamente, di screditare Bradley. Il capitano Morrow sostiene che Bradley
sarebbe entrato in contatto con WikiLeaks,
poco dopo il suo arrivo a Bagdad, nel novembre del 2009, fornendo materiale
classificato, nonostante avesse letto un rapporto della CIA, nel quale si riferiva che “i
nemici degli Stati Uniti” avrebbero potuto trarre vantaggio dall’attività
di WikiLeaks. Morrow asserisce che i
documenti pubblicati da WikiLeaks sarebbero
stati esaminati dai vertici di Al-Qaeda, tra cui lo stesso Osama bin Laden, il
quale era in possesso di una copia in formato digitale. Questa affermazione
sarebbe basata sui rilevamenti effettuati dai componenti del commando americano che liquidò il leader di Al-Qaeda, nel suo bunker di Abbottabad, in Pakistan, il 2
maggio 2011, alcuni dei quali dovrebbero testimoniare al processo contro
Bradley, senza rivelare la propria identità e senza essere controinterrogati
dalla difesa. Nel corso di una udienza preliminare, il colonnello e giudice
Denise Lind apre, infatti, all’accusa la possibilità di presentare tra i
testimoni anche uno dei membri del commando,
per confermare in aula che, nella cache
del computer dello Sceicco del
terrore, erano state trovate informazioni, tratte, proprio, dai documenti
trafugati da Bradley. Si concretizza, così, il peggiore incubo della difesa di
Bradley, che ha, sempre, contestato e ostacolato la testimonianza di “John Doe”,
il classico pseudonimo, sotto il quale si cela l’identità del militare.
Il
secondo giorno di processo inizia con la testimonianza del trentaduenne hacker
Adrian Lamo, il suo delatore, che dichiara che Bradley “voleva che la gente
vedesse la verità”. Anche se i due uomini non si sono, mai, incontrati, Bradley
si era aperto con lui, perché aveva bisogno “dell’aiuto di qualcuno di fiducia”
in quella base americana, in Iraq, dove “si sentiva disperato”, come “un’anima
spezzata” in balia “di una lotta interiore a causa del suo problema di identità
sessuale”. Le loro conversazioni in chat avvengono tra il 20 e il 26 maggio del
2010, giorno dell’arresto di Bradley. Il procuratore militare Ashden Fein riesce
a far confessare a Lamo che Bradley asseriva di conoscere Julian Assange. Ma aggiunge,
anche, che Bradley non ha, mai, “detto
una parola contro gli Stati Uniti” né sul suo “desiderio di aiutare il nemico”.
Il 21 agosto
2013, il giudice Denise Lind, condanna Manning a 35 anni di prigione per 20 dei
22 capi di accusa di cui è imputata ma l’assolve dall’accusa più grave, di
connivenza con il nemico.
Il 17
gennaio 2017, in uno dei suoi ultimi giorni alla Casa Bianca, Barack Obama le
concede una riduzione della pena e, il 17 maggio 2017, Manning esce di
prigione.
Dopo
aver presentato la sua candidatura come democratica al Senato del Maryland,
Chelsea Manning riprende la vita nelle sue mani, come ha detto alla conferenza
hacker HOPE che si è tenuta a New York nel luglio dello stesso anno.
Per
poco!
L’8
marzo 2019, un Giudice Distrettuale degli Stati Uniti la rimanda in prigione in
quanto non vuole testimoniare contro Julian Assange nel processo a WikiLeaks, sostenendo che quello che
sapeva l’ha, già, detto nel 2013.
Dopo
essere stata scarcerata per via della scadenza del termine dell’inchiesta del Gran
Giurì, il 16 maggio 2019, un nuovo Giudice Distrettuale le ordina di tornare in
prigione fino a quando non accetterà di testimoniare o scadrà il mandato del Gran
Giurì. Oltre a ciò se Manning dovesse continuare a rifiutarsi di testimoniare,
dopo 30 giorni dovrà pagare una multa di 500 dollari al giorno e di mille al
giorno dopo i 60 giorni.
Il
processo a carico di Manning è stato utilizzato dal Governo americano per
impartire una lezione inequivocabile a chiunque intenda mettere in piazza “i panni sporchi di famiglia”,
ricorrendo a una serie di misure pseudo-legali per ottenere una condanna
esemplare.
Ma, se
il Governo americano si accanisce, con tanta determinazione, contro i
cosiddetti whistleblowers, come
Bradley Edward Manning, perché non si accanisce, con altrettanta
determinazione, contro il Premio Pulitzer
Robert Woodward, che è stato una delle firme di punta del quotidiano
statunitense The Washington Post e
che ha svelato, a più riprese, informazioni ben più segrete e sensibili?
È l’interrogativo
che si è posto Glenn Greenwald, sul quotidiano inglese The Guardian, in un appassionato e appassionante articolo sulle
possibili implicazioni del processo militare di Manning. Greenwald spiega il
problema che pone questo genere di processo contro le fonti di WikiLeaks:
“Se qualcuno può essere perseguito per aver
“cooperato” o aver “comunicato” con il nemico, perché ha passato informazioni a
WikiLeaks, allora per quale ragione una persona che fornisce informazioni ad
altri media, come The New York Times, The Guardian o ABC News non incorre nello
stesso reato?”
I media
erano, evidentemente, al cuore del caso dei cablogrammi diplomatici, perché WikiLeaks si era associato a cinque
giornali, Le Monde, The New York Times, The Guardian, El País, e Der
Spiegel, per pubblicare i documenti segreti.
Il 5
dicembre 2012, il quotidiano statunitense The
New York Times era stato, giustamente, additato da Eliza Gray, sul sito di The New Republic, per non avere inviato
neppure un giornalista a coprire le audizioni preliminari, iniziate nel maggio
del 2012, dopo che il giornale aveva beneficiato delle informazioni, per le
quali Manning rischiava l’ergastolo:
“Se il Governo manterrà il capo di accusa
più mostruoso contro Manning e lo condannerà all’ergastolo, il suo caso ridurrà
al silenzio i delatori federali di ogni genere, senza i quali giornali,
comeThe New York Times, vedrebbero,
improvvisamente, prosciugarsi la fonte di molte informazioni, che possono, potenzialmente,
assicurare dei Premi Pulitzer. Per i giornalisti, i lettori e gli innamorati
della democrazia, è un pensiero inquietante.” [http://newsle.com/article/0/54563825/]
La
situazione è tanto più intollerabile in quanto i divulgatori di informazioni
classificate non sono eguali di fronte alla legge americana. Perché, se l’Amministrazione
Obama ha condotto una guerra aperta contro le “talpe” dal basso della gerarchia
politica e militare, come Manning, il noto giornalista investigativo Bob Woodward,
continua a diffondere segreti forniti dai più alti responsabili dell’Amministrazione,
indisturbatamente, come sottolineava Michael Isikoff, su NBC News, il 18 ottobre 2010, [http://www.nbcnews.com/id/39693850/ns/us_news-security/#.UdHDXKx42ec].
Il
libro di Woodward, Obama’s Wars,
pubblicato nel 2010, rivela, infatti, segreti e dispute al vertice della
gerarchia americana di una tale rilevanza strategica che lo stesso Osama ben
Laden ne aveva consigliato la lettura agli americani, in un video del 13
settembre 2011, nel decimo anniversario dell’attentato al World Trade Center.
“Non è la rivelazione di informazioni
classificate in generale che vuole punire l’amministrazione Obama. Vuole punire
e scoraggiare le fughe che danno una cattiva immagine del Governo americano,
riportando le sue cattive azioni. Bob Woodward è un giornalista-servitore dei
responsabili del Governo americano, e le sue continue fughee non autorizzate di informazioni altamente
segrete e sensibili servono questi responsabili e non sono, dunque, mal viste,
anche se sono senza dubbio altrettanto criminali, anche di più.”
Seymour Hersh discusses his recent book Chain of Command: The Road from 9/11 to Abu
Ghraib as well as the Bush Administration’s “war on terror”, its intelligence failures, and what he describes
as the lies and obsession that led America into Iraq.
FIRENZE – Duello tra neocon USA e Massimo D’Alema,
ieri in Palazzo Vecchio. I due americani sono un consigliere di Bush, Richard
Perle, e lo studioso di politica internazionale Michael Ledeen, ambedue
convinti ispiratori della guerra in Iraq. Con quest’ultimo che arriva a
sostenere che “l’ONU è la più grossa organizzazione criminale al mondo,
rafforzare l’ONU è come dire rafforzare la mafia.” Il dibattito è innanzitutto
sull’Iraq. “Spero che Italia e Europa si muovano con gli USA. Ma per ora non ho
visto molti aiuti da parte dell’Europa.”, dice Perle. A D’Alema che concorda
sull’obiettivo di esportare la democrazia nel mondo ma sostiene che non lo si
fa con le armi e che “l’uso della forza può essere legittimo solo in alcune
circostanze, come in caso di genocidi o massacri, ma non lo è stato in Iraq
dove ha prodotto un solo beneficio, la cacciata di Saddam, e molti costi in
termini di perdita di vite umane, di estensione del terrorismo, di perdita di
autorità morale da parte dei Governi occidentali che hanno mentito all’opinione
pubblica.”, Ledeen ribatte: “Prima di dire che la politica estera USA è
aggressiva, ricordatevi che il fascismo è nato in Europa e che, se i giapponesi
non ci avessero attaccato, oggi in questo salone si parlerebbe tedesco.” Niente
critiche alla politica di Bush. Quelle sulle armi di distruzione di massa e sui
rapporti dell’Iraq con Al Queda “non erano bugie come dice D’Alema, ma solo
intelligence e giudizi non accurati.”, spiega Perle. Gli USA si muovono secondo
il loro arbitrio di grande potenza? Colpa degli altri che non agiscono. Inutile
che D’Alema lanci una possibilità: “Europa e USA hanno un interesse comune a
rafforzare le istituzioni internazionali: la governance globale non consiste
solo nella lotta al terrorismo che è tanto più efficace quanto più si
affrontano le altre sfide globali, la povertà, le differenze tra Nord e Sud del
Mondo, lo sfruttamento delle risorse del pianeta.” Ed è qui che Leeden ribatte:
“L’ONU è la più grande organizzazione criminale di oggi, rafforzarla
equivarrebbe a rafforzare la mafia.” Il Presidente dei DS perde la pazienza: “Non
l’accetto. L’ONU, che ha anche fatto errori e conosciuto scandali. Ma il suo
ruolo è stato prezioso per la costruzione della pace e della democrazia. Far
funzionare le Nazioni Unite dovrebbe essere il primo tema nell’agenda delle
relazioni Europa-USA”. [Ilaria Ciuti, ONU, organizzazione criminale,
A Firenze neo-con USA all’attacco, la Repubblica, 12 novembre 2005, [https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/11/12/onu-organizzazione-criminale-firenze-neo-con-usa-all.html]
Il 12 novembre 2005, l’attacco mosso alle
Nazioni Unite dai neoconservatori americani Michael Leeden e Richard Perle –
per i quali l’Italia e l’Europa si dovevano allineare agli Stati Uniti d’America
senza discutere – diviene il titolo di un articolo apparso su la Repubblica, lo stesso giorno: ONU, organizzazione criminale.
Questa definizione sprezzante è il
preludio di una nuova guerra preventiva che George W. Bush, su imput di Dick Cheney, intende scatenare
contro un altro dei Paesi inclusi nell’Asse del Male: l’Iran.
Il peana viene intonato, nel corso del Convegno su Globalizzazione, lotta al
terrorismo, una diversa concezione per il ripristino della democrazia a livello
internazionale tra Europa e Stati Uniti [http://www.regioni.it/dalleregioni/2005/11/11/toscana-europa-usa-martinisforzo-comune-per-capire-il-mondo-198600/], organizzato dall’Associazione Eunomia etenuto,
a Firenze, nel Salone de’ Cinquecento a Palazzo Vecchio nell’ambito del master in alta formazione
politico-istituzionale, cui partecipano, il Presidente della Regione Toscana,
Claudio Martini; Massimo D’Alema, Presidente dei DS; Richard Perle, consigliere di George W. Bush per la politica
estera e la difesa; Michael Ledeen, esperto di politica internazionale;
Alessandro Pizzorno, studioso di fama internazionale e docente dell’Istituto Universitario Europeo di
Fiesole; il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici e il Presidente della
Provincia di Firenze, Matteo Renzi.
Agli interventi di Perle e Leeden – i due
uomini più influenti della politica americana, compartecipi della congiura del Nigergate, l’inganno che aveva preparato
la guerra contro l’Iraq, e sostenitori della necessità della guerra all’Iran
–viene dato un notevole risalto.
Scarso rilievo riscuote, invece, la
critica di D’Alema.
Come ha scritto
Chalmers Johnson, occorre fabbricare nuovi nemici, classificando alcuni Paesi
come sostenitori di terrorismo o come ironizzava Gore Vidal occorre “creare un club del nemico del mese”.
Ma chi sono Michael Ledeen e Richard
Perle?
Michael Ledeen è noto, anche in Italia,
per i contatti con la P2.
Il 17
marzo 2003, Seymour Hersh, in un articolo pubblicato su The New Yorker, Lunch With the Chairman [https://www.newyorker.com/magazine/2003/03/17/lunch-with-the-chairman], mette luce sul fatto che Perle sia
coinvolto in questioni di interesse che trarrebbero profitto da una eventuale
guerra in Iraq. L’inchiesta di Hersh, descrive il ruolo di Perle, come uno dei
più importanti soci di un azienda specializzata in capitali di rischio, la Trireme Partners LP. Compito principale
di questa ditta è investire in aziende riguardanti tecnologie, beni e servizi
importanti per la sicurezza nazionale e la difesa. Poche settimane dopo la
pubblicazione dell’articolo firmato da Hersh, Perle rassegna le sue dimissioni
dal Defense Policy Board.
Tre giorni dopo, sul New York Times, Stephen Labaton fornisce le prove della
partecipazione di Perle alla Global
Crossing [https://www.nytimes.com/2003/03/25/business/inquiry-is-urged-into-role-played-by-adviser-to-us.html], il gigante delle comunicazioni
attraverso fibra ottica che ha dichiarato bancarotta. Secondo il cronista,
Perle stava vendendo le sue partecipazioni in tutta fretta, prima del crollo
della Global alla Hutchison Whampoa Ltd: una vendita che
avrebbe fruttato 725mila dollari, 600mila dei quali dipendenti dal ruolo di
Perle al Pentagono.
Il 7 marzo 2006, in una intervista al Corriere della Sera, in risposta allo
sforzo dell’ONU, per un’intesa con l’Iran,
Perle afferma:
WASHINGTON
— La linea morbida con Teheran è perdente, e probabilmente nei prossimi tempi l’America
e alcuni alleati dovranno bombardare gli impianti nucleari iraniani, solo un
colpo di scena potrà evitarlo. L’interrogativo è: quanto attenderà l’Occidente,
e come impiegherà al meglio l’attesa? Per adesso, ha un percorso obbligato, l’ONU,
ma è difficile che il Consiglio di Sicurezza riesca a piegare Teheran.
Così
dice Richard Perle, l’ex-Sottosegretario alla Difesa del Presidente Ronald
Reagan, architetto del disarmo atomico delle superpotenze. Perle, uno degli ideologi della guerra dell’Iraq, oggi
consulente del Pentagono, è scettico sulle prospettive di successo della
diplomazia, “a causa dell’intransigenza iraniana”. “L’unica consolazione —
rileva — è che non dobbiamo decidere subito se ricorrere a mezzi drastici. Ma
non dobbiamo procrastinare troppo.”
Sfiducia
nell’ONU? E nella Russia?
“La
mediazione russa è impossibile da valutare. Riservo il mio giudizio, ma bisogna
che dia risultati tangibili. La rinuncia a trattare il materiale nucleare non basta,
Teheran dovrà anche smantellare le sue centrifughe. Inoltre, occorreranno
rigide ispezioni sia in Russia, sia in Iran. Come diceva Reagan della riduzione
degli arsenali nucleari: fidati, ma controlla.”
Ma
la Russia non è un alleato?
“C’è
un’involuzione in Russia, il potere è nelle mani di ex-agenti del KGB, la
polizia segreta sovietica, che non si sono rassegnati alla sconfitta nella
Guerra Fredda. Siamo realisti: quella russa potrebbe essere la carta vincente,
ma è gente che non sempre fa una politica a noi favorevole.”
Non
crede che Mosca appoggerebbe sanzioni contro l’Iran?
“All’ONU?
Ne dubito, anche se non si può mai dire. E in ogni caso, non penso che l’Iran
cederebbe alle sanzioni. Il regime iraniano vuole l’atomica, ma l’Occidente non
glielo può consentire, perché, come dice il Presidente Ahmadinejad, ambisce
alla distruzione di Israele e a un mondo senza gli Stati Uniti, è cioè una
minaccia per tutti.”
Quale
è l’opzione militare americana?
“Tutti
sperano ancora di non usarla, tutti auspicano che la situazione cambi. Ma
potremmo eliminare gli impianti nucleari iraniani in una sola notte, con una
pioggia di missili e con un bombardamento a tappeto dei B2, gli aerei
cosiddetti invisibili perché sfuggono ai radar. Teheran non sarebbe in grado di
difendersi, e scoprirebbe il blitz solo a cose fatte. Conosciamo bene i
bersagli e abbiamo le armi necessarie per ridurli in cenere.”
Ma
non spacchereste in due l’Occidente, non allontanereste definitivamente il
mondo musulmano?
“Sia
in Occidente sia tra i Paesi arabi la maggioranza ha paura dell’Iran, e
starebbe dalla nostra parte, chi di nascosto per ragioni politiche, chi
apertamente. Ritengo anzi che qualche Paese dotato di B2 come noi
parteciperebbe al blitz, mentre altri ci fornirebbero supporto logistico.
Teniamo presente che molti collaborano già all’intelligence sull’Iran, il
consenso è molto vasto.”
Pensa
che Israele potrebbe attaccare Teheran?
“Sono
convinto che se Israele arrivasse alla conclusione che non c’è più alternativa
all’azione militare, ci arriveremmo anche noi. Israele non compirà passi falsi.
Ripeto, nessuno prepara ancora il ricorso alla forza, e sarebbe una fortuna se,
avvicinandosene il momento, l’Iran cedesse.”
Il
Pakistan ha l’atomica: cosa accadrebbe se i radicali islamici andassero al
potere?
“La
situazione in Pakistan è molto pericolosa, ma non si possono fare ipotesi. Il Presidente
Musharraf è appoggiato dai militari ma non da tutti. Però non è l’unico in
grado di mantenere l’ordine. Esistono troppi scenari possibili, preghiamo che
emergano quelli positivi.” [Ennio Caretto, La via
diplomatica fallirà, Siamo già pronti all’attacco, Corriere della Sera, 7 marzo 2006, http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=2&sez=120&id=15699&print=preview].
Dall’alto a sinistra: Paul Wolfovitz, William Kristol,
Richard Perle, Douglas Feith, Scooter Libby, John Bolton e Michael Ledeen.
“The neoconservatives were the driving force in the
George W. Bush administration’s war on Iraq… Not by happenstance, the
targeted regimes were staunch enemies of Israel, and included Iraq, Iran,
Syria, and even Saudi Arabia…”
Nel
1974, lo Shah Mohammad Reza Pahlavi
aveva contrattato con gli Stati Uniti e la Francia un ambizioso programma
nucleare e l’Iran era entrato con il 10% di capitale nel Consorzio Eurodif di arricchimento dell’uranio, ma le pretese
egemoniche avevano reso lo Shah
scomodo a Washington, che, insieme a Parigi, ne preparò il rovesciamento.
Fu,
allora, che la CIA scelse di giocare
la carta dell’Islamismo radicale dei Mollah
contro il comunismo e le correnti laiche alleate dell’Unione Sovietica.
Subito
dopo la firma degli Accordi di Camp David,
Ruhollah Mostafavi Mosavi Khomeyni,
allora un oscuro personaggio, fu portato a Parigi per venire formato e lanciato
politicamente, ma l’illusione di Jimmy Carter di poterlo controllare e
manovrare durò poco: si aprì, così, uno dei decenni più convulsi e intricati
del dopoguerra.
Dalla
vicenda degli ostaggi americani del 1979, come pressione di Tehran per la
ripresa delle forniture militari e del programma nucleare, alla disastrosa
operazione per liberarli, che segnò la fine di Carter, all’Irangate, alla Guerra Iran-Iraq voluta da Washington, alla
terribile serie di attentati della Jihad,
che, dal 1984 al 1990, ebbe come retroscena il rispetto da parte della Francia
dei precedenti accordi nucleari, la questione nucleare rivestì un ruolo
centrale.
Come
aveva giocato Ronald Reagan contro Carter, Khomeyni giocò, poi, Jacques Chirac
contro François Mitterand, finché, nel 1991, la Francia sottoscrisse l’accordo
che confermava l’azionariato dell’Iran in Eurodif
e il diritto di ritirare la quota corrispondente di uranio arricchito.
Quello
che vale la pena di rilevare è come la Casa Bianca abbia voluto la prosecuzione
del programma nucleare di un Paese che, al tempo stesso, denuncia come
appartenente all’Asse del Male. La versione ufficiale, secondo la quale, dal
1979, gli Stati Uniti hanno interrotto ogni commercio nucleare con l’Iran, non
è che una grande impostura.
Washington
non poteva, certo, proseguirlo alla luce del sole, e, oramai, anche la Francia
era nel mirino, così, lo fece attraverso la Cina – che, come la Francia, aveva
aderito, nel 1992, al National Toxicology Program [NTP] – e Mosca.
Riprendendo
la costruzione della Centrale di Busher, la Russia, sostituitasi alla Germania,
prima di nascondersi dietro l’Argentina e, poi, di tentare di passare
attraverso la Repubblica Ceca, aveva operato per conto degli Stati Uniti, che
si fingevano preoccupati per la collaborazione nucleare di Mosca con Tehran.
Nel
1990, Chirac eseguì dei tests anche
per conto degli Stati Uniti, con i quali aveva appena stipulato un accordo
riservato di scambio di dati per sperimentare una carica nucleare a potenza
variabile.
Alcuni
tests dell’India, nel 1998, vennero
eseguiti per conto di Israele e alcuni tests
del Pakistan, che, in realtà, possedeva la bomba, già, dalla fine degli Anni Settanta,
erano fatti per conto dell’Iran.
Appare
veramente complesso sbrogliare l’intricatissima matassa dei reali interessi
economici, strategici e geopolitici, dietro la cortina fumogena abilmente
sollevata e mantenuta, con innumerevoli complicità, sull’opinione pubblica.
Baghdad, 14
dicembre 2008: Man Throws Shoes At Bush
“CBS News RAW:” At a press conference in Baghdad with Prime Minister
Nouri al-Maliki, President Bush got a reminder of the fervent opposition to his
policies when a man threw two shoes at his head [https://www.youtube.com/watch?v=_RFH7C3vkK4].
Ora, io mi domando, ma necessariamente difetto della sensibilità
americana, se un “revival” dell’uso
del termine “patriottico” non sia stato scelto proprio per mascherare la
reintroduzione di una buona dose di nazionalismo nel dibattito statunitense. In
Italia, vi è una grande differenza tra patriottismo e nazionalismo. Ebbene,
sappiamo per esperienza dolorosa, e ancora più dolorosa per alcuni, che la
nascita o la rinascita del nazionalismo è, sempre, adornata dalle virtù del
patriottismo.
Una
così grande mancanza di vigilanza e di coscienza farebbe rivoltare Eisenhower
nella tomba!
Il Popolo
americano, che conta 331,9 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della
popolazione mondiale, non si è mai posto la domanda perché si spenda per il suo
esercito e per la sua sicurezza quanto se non di più del resto del mondo?
Ironia
della Storia, il cinquantesimo anniversario del celebre monito di Eisenhower ha
coinciso con l’adozione da parte dei rappresentanti del Popolo americano di un budget
militare record: 735 miliardi di dollari, il cui principale beneficiario non è stato
altri che il complesso militare-industriale. Se si aggiungono a questo budgetdel Pentagono quelli dei Dipartimenti
della Sicurezza Interna, dell’Energia e degli Affari dei Veterani, il budget
totale per la difesa e la sicurezza sale a 861 miliardi di dollari, per l’anno
fiscale 2011, superando di gran lunga quello che spendeva il resto del Mondo in
questi settori.
Il Popolo
americano, che conta 331,9 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della
popolazione mondiale,non si è, mai,
posto neppure la domanda perché occorrano 642 basi militari, disseminate in 76
Paesi, dal momento che l’America è il Paese meglio protetto del Mondo, e non
solo da un potente esercito e da una competitiva difesa antiaerea, ma
soprattutto da due immensi oceani, capaci di scoraggiare, da soli, qualsiasi
nemico tentasse di attraversarli per invaderlo?
Anche
in questo caso, il principale beneficiario della disseminazione e della
moltiplicazione delle basi americane attraverso il mondo è il complesso militare-industriale,
da cui aveva messo in guardia Eisenhower, sessantadue anni fa. La corsa all’armamento
nucleare e convenzionale, imposto dagli Stati Uniti ai loro rivali della Guerra
Fredda, le politiche aggressive condotte da Washington in Vietnam, in Medio
Oriente e in America Latina e la “guerra
globale contro il terrorismo” possono essere comprese solo attraverso l’“influenza ingiustificata” del
complesso militare-industriale, il cui unico interesse si limita al numero di
contratti ottenuti e al calcolo della percentuale relativa all’incremento
annuale del numero di affari.
Fino a
quando continuerà?
Fino
alla levazione di quella “cittadinanza vigile e accorta”?
Se mai
si leverà, un giorno!
Gli
ultimi anni del Diciannovesimo Secolo sono stati illuminati da una proposta
meravigliosa che, poi, fu lasciata cadere completamente in oblio.
Il 29 agosto
1898, lo Zar Nicola II invitò gli Stati Uniti a incontrarsi per una conferenza
destinata a garantire la pace tra le Nazioni e a mettere fine all’incessante
aumento degli armamenti che impoverivano l’Europa. Il messaggio del sovrano
iniziava così:
“Il mantenimento della pace generale e una
eventuale riduzione degli armamenti eccessivi, il cui peso grava tutto sui
Popoli, sono evidentemente, nelle attuali condizioni del mondo intero, l’ideale
verso il quale tutti i Governi dovrebbero tendere i loro sforzi.”
La
giovane Regina olandese Guglielmina propose l’Aia come sede e mise a
disposizione della conferenza la residenza estiva della famiglia reale, Huis
ten Bosh [Casa nei Boschi]. I lavori della conferenza, alla quale parteciparono
i delegati di ventisei Stati e Imperi, che governavano la grande maggioranza
del territorio mondiale, si aprirono, il 18 maggio 1899, giorno del compleanno
dello Zar, sotto la presidenza del barone russo Egor Egorovic Staal. Grandissime,
certo, le difficoltà per giungere a un accordo, ma non insuperabili a prima
vista. Una piccola discussione tra il Primo Ministro britannico Lord Salisbury
e il Segretario di Stato americano Richard Olney mise in luce quale sarebbe stato
il punto nevralgico della discussione.
Che
cosa sarebbe accaduto se, nonostante la riprovazione da parte del congresso di
questa o di quella guerra, una o più Nazioni avessero aperto le ostilità?
Come
dare al congresso il potere di far rispettare le sue deliberazioni?
Il
dibattito durò più di due mesi e si concluse il 29 luglio 1899, ma l’accordo
sul disarmo, principale obiettivo della riunione, non venne raggiunto. Quel
programma di pace universale e l’iniziativa di quella conferenza fanno vedere,
sotto una luce orrenda, il massacro dello Zar e della sua famiglia, compiuto,
più tardi, dai suoi sudditi in rivolta.
Presidente Giorgia Meloni,
Papa Francesco, nella sua lettera
Enciclica Fratelli tutti [2020], ha
espresso la sua preoccupazione per la
sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza, riportando al centro del dibattito culturale
il significato e il senso dell’economia, parola che cita quindici volte,
attraverso uno stile diretto e senza troppe circonlocuzioni:
“[…] La politica non deve sottomettersi
all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma
efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno
in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano
decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il
salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla
popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema,
riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo
generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi
finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più
attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria
speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia
portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il Mondo. […]”
[Stefania Falasca, Enciclica. “Fratelli tutti”: la
chiave di volta della fraternità universale/TESTO, Avvenire,
domenica 4 ottobre 2020,https://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html]
La
rinuncia alla politica di fronte alle esigenze dell’economia e del mercato è uno
dei mali politici attuali per Papa Francesco, che, il 6 maggio 2016, in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno “per l’incoraggiamento e i
messaggi pieni di speranza per la pace e una convivenza pacifica in un’Europa
forte”, confidava il suo sogno per l’Europa:
“[…] Sogno un’Europa che si prende cura
del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di
accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che
ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a
improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è
delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere
umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà,
amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli
infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una
responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un
lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche
veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei
figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i
diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di
cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua
ultima utopia. Grazie.” [Conferimento del Premio Carlo Magno, Discorso del Santo
Padre Francesco, Sala Regia, venerdì 6 maggio 2016, https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/may/documents/papa-francesco_20160506_premio-carlo-magno.html]
Ma
sto divagando...
Non
sono qui per tediarLa sui miei sentimenti nei confronti del panorama politico.
Probabilmente,
Lei lo conosce anche meglio di me.
Presidente Giorgia
Meloni,
Il 20 dicembre 1993, l’Assemblea
Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, “riconoscendo
il bisogno urgente di una universale applicazione alle donne dei diritti e dei
principi con riguardo all’uguaglianza, alla sicurezza, alla libertà, all’integrità
e alla dignità di tutte le persone umane”, ha adottato la Risoluzione 48/104 sull’eliminazione
della violenza contro le donne [https://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiarazione-sulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne-1993/27] e, per la prima volta, forniva una
definizione ampia della violenza contro le donne:
Intervenendo,
l’8 marzo scorso, al
Policlinico Tor Vergata per la presentazione di una rete interistituzionale, NetWork- Insieme contro ogni forma di
violenza, in occasione della
Giornata Internazionale della Donna, il Ministro della Salute Orazio
Schillaci rimarcava:
“In Italia i dati ISTAT dimostrano che il
31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni nel corso della sua vita ha subito una
forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono
esercitate da partner, parenti o amici. Secondo i dati relativi agli accessi in
Pronto Soccorso, con diagnosi di violenza, rilevati dal sistema informativo per
il monitoraggio dell’assistenza in Emergenza-Urgenza [Emur], negli anni si è
registrato un numero crescente di accessi di donne che avevano subito violenza
che andavano da 3.300 circa nel 2014 a oltre 7.600 nel 2010. E in seguito,
malgrado l’impatto dell’emergenza pandemica sull’accessibilità ai servizi
ospedalieri, compresi quelli di emergenza-urgenza, l’incidenza degli accessi di
donne con diagnosi di violenza è continuato a crescere, passando da 9,1 per 10mila
accessi totali nel 2020 a 9,3 nel 2021.” [https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=111832, https://www.istat.it/it/archivio/violenza]
“Solo
qualche giorno fa Matteo Piantedosi asseriva che a Milano non c’era nessuna
emergenza. E ciò mi aveva rassicurato. Tuttavia, nel frattempo a Milano si
sarebbe consumata l’ennesima violenza sessuale a danno di una donna sola e
indifesa. Pare che un cittadino – inizialmente identificato come del Gambia,
poi si è scoperto essere un statunitense – è stato arrestato a Milano per
violenza sessuale. Il soggetto avrebbe aggredito violentemente una quarantenne
che stava facendo rientro a casa: l’avrebbe colpita con pugni strappandole
persino i vestiti. Per fortuna le urla della donna e l’aiuto di un vicino di
casa hanno portato al fermo dell’energumeno.
L’altro
giorno a Milano e l’altra notte ad Anzio, dove una 19enne è stata violentata da
uno sconosciuto mentre rientrava a piedi a casa. E oggi si scopre l’autore di
una brutale aggressione – avvenuta a marzo – a Genova, ove lo stupratore ha
usato immane violenza a tal punto da far temere per la vita della giovane donna
ucraina aggredita. E domani, dove avverrà l’ennesimo stupro di una donna?
Ministro
Piantedosi, per favore non dica che a Milano e nell’intero Paese non esiste
emergenza criminale verso le donne. Il problema esiste, eccome se esiste, ma
lei evidentemente per certificare l’emergenza usa un metro di misura diverso dal
mio: un metro – il mio – usato da chi è stato per “strada” e che non ha mai
occupato stanze ovattate. Negli ultimi anni – mi duole dirlo – è mancata la
prevenzione sul territorio. La prevenzione era il dogma di ogni pattuglia delle
Forze dell’Ordine ed era il fiore all’occhiello dei compiti istituzionali.
Ormai è risaputo che quando si tenta di sminuire fatti criminosi, non si fa
altro che incancrenire il problema, come sta accadendo, appunto, con le
violenze sulle donne.
E a
tal proposito, come esempio, vorrei qui ricordare un periodo bruttissimo di Palermo.
All’inizio degli Anni Ottanta, la classe politica, compreso il Viminale,
negavano qualsiasi emergenza in ordine al fenomeno mafioso. Infatti stranamente
mafiosi, magistrati, poliziotti e carabinieri morivano solo di freddo. È altresì
bizzarro quando si strombazza che non esiste emergenza per le morti [di
giovanissimi] di incidenti stradali, quando l’Asaps [Associazione Sostenitori e
Amici della Polizia Stradale] da anni lancia il grido d’allarme, soprattutto
per la scarsa vigilanza dovuta alla carenza di pattuglie, nonostante l’aumento
del traffico veicolare. Non vi è dubbio alcuno che il problema è di natura
sociale e, quindi, occorre intervenire con azioni mirate per salvaguardare la
sicurezza delle donne.
Vi è
anche l’urgenza – e questo il ministro Piantedosi lo sa benissimo – di colmare
il vuoto di organico a causa dei pensionamenti del personale. Io spesso
registro lo “sfogo” di ex-miei colleghi, e mi duole davvero constatare quanta frustrazione
emerge dai loro racconti. E per favore non si giustifichi il malessere generale
delle FF.OO., dando la colpa esclusivamente ai carichi di lavoro. Sarà anche
vero, però sono stati commessi degli errore per non essere stati lungimiranti
nel prevedere e predisporre il turnover. Io sognavo una polizia organizzata
diversamente, capace di rispondere adeguatamente ai bisogni dei cittadini. Nel
1975, con notevoli sacrifici e pericoli, ci riunivamo come carbonari nelle
nostre case, per promuovere la smilitarizzazione della Pubblica Sicurezza:
volevamo applicare in toto il motto: “La Polizia tra la gente”: ci credevamo
davvero.
Penso
che quel motto ancora oggi non sia del tutto compiuto. Anzi, la Ministra
Cartabia, disponendo la querela di parte per reati contro il patrimonio, non ha
fatto altro che allontanare la polizia dalla gente, atteso che per paura o per
non avere “noie” le vittime rinunciano a un loro diritto. Signor Ministro
Piantedosi, disponga una più ampia prevenzione del territorio, al fine di
stroncare le violenze sessuali verso le donne. Le nostre forze di polizia hanno
le potenzialità per incidere sul fenomeno e quindi raggiungere il primario
obiettivo di garantire sicurezza non solo alle donne ma a tutti i cittadini.
Ministro, nel caso faccia degli arruolamenti straordinari di agenti e
carabinieri. La prevenzione del territorio è una assoluta priorità: non ha
prezzo. Intanto, esamini l’opportunità di rivedere la posizione di centinaia e
centinaia di agenti adibiti in inutili scorte a personaggi che a ben vedere non
avrebbero più diritto ad essere scortati: li faccia rientrare in organico. Ogni
donna di questo Paese ha il diritto di uscire in libertà a qualsiasi ora; ha
diritto di indossare gli abiti che più le piacciano senza essere accusata di
essere “provocatrice”. Argomentazione risibile, meschina e miserevole, come
quando la Cassazione assolse il violentatore adducendo che: “non poteva
compiere lo stupro perché la ragazza indossava i jeans”.
Infine,
devo dire al Ministro Piantedosi – per quanto vale il ricordo di un ex operaio
delle investigazioni – che a intervenire in un delitto odioso come lo stupro ci
si sente disarmati: spesso non si trovano le parole per rincuorare la donna
aggredita e stuprata. Un conto è leggerlo dalle fredde carte giudiziarie e un
conto è assistere ed ascoltare la vittima. Come cenno, non ho nessuna ricetta
per intervenire, ma invito il Ministro di voler esaminare l’opportunità di
consentire il monitoraggio capillare delle strade e, quindi, permettere alle
donne di muoversi in libertà.
Lei, Signor
Ministro, è stato rapido nel far editare il decreto “rave party”, poi
convertito in legge, ebbene faccia altrettanto in modo rapido: usi una corsia
preferenziale per dare un forte segnale alle donne, dicendo che lo Stato c’è!
Chiedo troppo?
Uno strappo al vestito si può ricucire,
all’Anima no!
Dal 9 luglio scorso, Presidente, io
sono una di loro.
Io
sono una del 31,5% delle 16-70enni [6 milioni 788 mila], che ha subito, nel
corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale.
Io
sono una del 20,2% [4 milioni 353 mila] che ha subito violenza fisica.
Io
sono una del 13,2% che ha subìto violenza fisica da parte di estranei e in una
delle forme più gravi seppure meno frequenti come il tentato strangolamento a
scopo di rapina.
Io canto le Donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro ‘non follia’
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei Salmi, delle anime ‘mangiate’
il canto di Giulia aperto portava catene pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.
Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia.
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il ‘delitto’
la sfera di cristallo per una bocca ‘magata’.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile a un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido di amore come in qualsiasi donna.
Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatria,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva ad un porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violente degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo
unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di
ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.
Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le Donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore di esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.
Canto delle Donne, Alda Merini [Testamento, 1988]
Presidente
Giorgia Meloni,
In
Europa si osserva un clima di crescente preoccupazione per l’ondata di flussi
migratori provenienti dall’Est Europeo, dall’Asia e dall’Africa. Questo
fenomeno, dagli Anni Ottanta, coinvolge in modo massiccio anche l’Italia in
quanto meta ambita sia per la sua collocazione geografica nel
Mediterraneo, sia per le caratteristiche dei confini nazionali che ne rendono
complessa una corretta e costante supervisione. In forza di ciò, la criminalità
organizzata autoctona ha deciso di investire molto in questo mercato
strutturandosi come una vera e propria società di servizi in grado di garantire
il viaggio verso il Paese desiderato. Ma non solo, la criminalità organizzata
locale per aumentare i proventi derivanti da queste attività illecite ha
tessuto un rete di collegamenti con le principali criminalità organizzate
straniere.
Per la
“cupola” di Roma l’emergenza immigrati è stata una miniera d’oro!
Lei,
Presidente, si dice soddisfatta dei progressi che sul tema dell’accoglienza è
riuscita a far compiere all’Unione Europea.
Il 20 giugno scorso, si è celebrata la Giornata
Mondiale del Rifugiato, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il
4 dicembre 2000, con la Risoluzione n.
55/76, in occasione del cinquantennale della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 [https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf],
la quale all’articolo 1 stabilisce la seguente definizione del termine
rifugiato:
“Chi
temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue
opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o
non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese.”
Il principio fondamentale su cui si basa è
espresso all’articolo 33, Divieto di espulsione e di rinvio al confine:
“1.
Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un
rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà
sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua
cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni
politiche.
2. La
presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se
per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del
Paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per
un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività
di detto Paese.”
Attualmente sono 144 gli Stati contraenti della
Convenzione di Ginevra, inclusa l’Italia, che si impegnano a non rifiutare o
espellere uno straniero verso un Paese in cui la sua incolumità non può essere
garantita senza aver prima esaminato la sua richiesta di protezione
internazionale. Questo tipo di
protezione, tuttavia, non può essere
concessa qualora il richiedente sia coinvolto in una o più delle
seguenti condizioni:
- sia, già,
stata riconosciuta questa forma di tutela in un altro Stato;
- provenienza
da uno Stato che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, diverso da quello
di appartenenza, nel quale abbia soggiornato per un significativo lasso di
tempo senza mai richiedere lo status
di rifugiato;
- abbia
commesso reati di crimini di guerra, contro la pace o contro l’Umanità;
- abbia
commesso, fuori dal territorio italiano, un grave reato prima dell’ammissione
in qualità di richiedente protezione internazionale;
- sia colpevole
di atti e comportamenti incompatibili con le finalità ed i principi delle
Nazioni Unite;
- sia stato
condannato in Italia per reati contro la personalità e la sicurezza dello
Stato, contro l’incolumità pubblica, reati quali furto, rapina, devastazione,
saccheggio, vendita e traffico di sostanze stupefacenti, appartenenza a
organizzazioni terroristiche o associazione mafiosa.
Si può
riassumere, quindi, che questa forma di protezione internazionale non può
essere concessa in assenza dei requisiti
stabiliti dalla legge e, più in generale, ogni qualvolta vi siano
concreti motivi per considerare lo straniero come una minaccia o un reale
pericolo per la sicurezza pubblica.
Proprio
in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, la Commissaria per i
Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic non ha mancato di
ammonire l’Italia:
“Sono colpita dall’allarmante livello di
tolleranza nei confronti delle gravi violazioni dei diritti umani contro i
rifugiati, i richiedenti asilo e i migranti che si è sviluppato in tutta Europa.”
“Il naufragio della scorsa settimana al
largo delle coste greche è l’ennesimo avviso del fatto che, nonostante i
numerosi avvertimenti, le vite delle persone in mare rimangono a rischio a
causa dell’insufficiente capacità di salvataggio e coordinamento, della
mancanza di rotte sicure e legali e di solidarietà e della criminalizzazione
delle ONG che cercano di fornire assistenza per salvare vite.”
E, il
26 giugno scorso, al termine della sua visita in Italia, ha ribadito:
“È
responsabilità dell’Italia e della nostra comune Europa fermare la tragedia
umana in corso nel Mediterraneo. È giunto il momento di intraprendere azioni
collettive per porre fine alla perdita di vite umane in mare, anche attraverso
la condivisione delle responsabilità per un’adeguata capacità di salvataggio e
il trasferimento delle persone soccorse.”
“L’Italia
deve smettere di mettere in pericolo la vita e la sicurezza di rifugiati,
richiedenti asilo e migranti facilitando la loro intercettazione e il loro
ritorno in Libia, dove subiscono diffuse e gravi violazioni dei diritti umani.
Qualsiasi attività di cooperazione con Paesi Terzi, inclusa la Tunisia, deve
essere subordinata a salvaguardie complete ed efficaci dei diritti umani. In
assenza di tali tutele, queste attività portano solo a maggiori sofferenze
umane.” [Dunja Mijatovic, attacco all’Italia sui migranti. Fitto: “Rabbia
e incredulità”, Libero Quotidiano, 26 giugno 2023, https://www.liberoquotidiano.it/news/politica/36213701/dunja-mijatovic-attacco-italia-migranti-fitto-rabbia-incredulita-.html]
La Commissaria Mijatovic – già rappresentante dell’Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione Europea [OSCE] per la libertà dei media, tra il 2010 e il 2017
– è la prima donna a ricoprire questo incarico, succedendo a Nils Muiznieks,
Thomas Hammarberg e Alvaro Gil-Robles.
Come lei stessa scrive, il 23 novembre
2021,in un editoriale sull’Avvenire dal titolo L’allarme. “Disinneschiamo” la Bosnia prima che sia troppo
tardi,
è cittadina della Federazione di Bosnia-Erzegovina:
“[…] Il
riemergere di certi discorsi dovrebbe far scattare l’allarme e ricordarci la
brutalità e le gravi violazioni dei diritti umani che persone indottrinate da
una propaganda odiosa possono infliggere ai loro simili. Per chi ha vissuto le
atrocità delle guerre jugoslave negli Anni Novanta del Novecento, il quadro è
chiaro e fin troppo familiare. Io sono una di loro. Nata a Sarajevo, sono stata
testimone dei modi subdoli dell’indottrinamento nazionalista.
Le
guerre degli Anni Novanta sono state una diretta conseguenza di quel discorso
pubblico, che ha introdotto una narrativa del “noi contro loro”, e ha portato
alla disumanizzazione dell’altro e alla marginalizzazione delle voci contrarie
alla guerra. Purtroppo, però, sembra che non abbiamo imparato dal passato. […]”
[https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/disinneschiamo-la-bosnia-prima-che-sia-troppo-tardi]
Un anno prima, il 7 dicembre 2020, in una dura
lettera al Presidente del Consiglio Zoran Tegeltija e al Ministro della Sicurezza
Selmo Cikotic della Federazione di Bosnia-Erzegovina scriveva:
“[…]Vorrei
richiamare la vostra attenzione su una serie di questioni relative alla
migrazione e al diritto di asilo in Bosnia-Erzegovina che devono essere
affrontate con urgenza. Se nei mesi recenti la pandemia da Covid-19 ha
aggravato le sfide per il sistema di accoglienza, credo che queste possano
essere affrontate nel rispetto dei diritti umani, risolvendo alcune carenze
strutturali nel trattamento dei migranti e dei richiedenti asilo e migliorando
la collaborazione tra le diverse autorità di Bosnia-Erzegovina. […]
Risulta
che, alla data di ottobre 2020, siano 6770 i richiedenti asilo e migranti
accolti in campi situati nella Federazione di Bosnia-Erzegovina. Si stima che
il numero di coloro che dormono all’addiaccio o in palazzi abbandonati nel
Cantone di Una Sana e altrove nel paese va da 2000 a 3500 persone.
La Federazione di Bosnia-Erzegovina è retta da tre Presidenti
perché il Paese è diviso in tre principali gruppi etnico-linguistico-religiosi:
i bosgnacchi [musulmani], i croati [cattolici] e i serbi [ortodossi]. Ognuna di
queste tre componenti elegge un Presidente che a turno, per otto mesi, esercita
il suo mandato, nel corso di quattro anni. I presidenti nominano insieme il
Primo Ministro, che deve ricevere la fiducia della Camera Bassa.nI
cittadini non registrati come appartenenti a tali gruppi etnici [tra i quali
ebrei, rom e albanesi] sono esclusi dalla possibilità di essere eletti alla
presidenza: una discriminazione che la Corte Europea dei Diritti Umani ha
condannato, sulla base di ricorsi individuali, con sentenze del 2009, del 2014
e del 2016, senza però ottenere alcuna modifica costituzionale nonostante le
successive raccomandazioni in proposito da parte del Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa.
Altro
elemento che esercita un ruolo di rilievo nella politica di Bosnia-Erzegovina è
il Consiglio di Attuazione della Pace, costituito da 55 fra Stati e organismi
internazionali, 11 dei quali – compresa l’Italia, che è anche il secondo
partner commerciale del Paese dopo la Germania – formano un Consiglio Direttivo
che si riunisce ogni due settimane a Sarajevo, a livello di ambasciatori, con
l’Alto Rappresentante.
La
posizione dell’Unione Europea circa la domanda di adesione della Federazione di Bosnia-Erzegovina, presentata nel febbraio 2016, è ferma alle conclusioni del
Consiglio Europeo del dicembre 2019. Non meno ostacoli incontra il percorso di
un’eventuale adesione della Federazione di Bosnia-Erzegovina alla NATO, che mantiene un quartier generale
militare a Sarajevo, anche dopo avere trasferito, nel dicembre del 2004, la
responsabilità del mantenimento della pace all’Unione Europea, che conduce, da
allora, l’operazione militare denominata EUFOR
Althea, su mandato esecutivo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Conoscere
la Storia dei Balcani significa scoprire un pezzo di Europa che, troppo spesso,
si tende a considerare lontano ed estraneo, nonostante la regione sia, sempre,
stata tra le pagine dei nostri libri di Storia.
“I Balcani sono un crogiolo di
particolarità che non cessano di confondersi e contrapporsi. Un luogo dove la
Storia sfida la geografia e la Storia sfida persino la psicologia. Vogliamo
partire dalla follia? Ebbene, là forse c’è davvero anche un rapporto
particolare tra geopolitica e tare genetiche. Il padre di Milosevic, che era un
pope ortodosso, si è suicidato. La madre si era impiccata. Anche un suo zio si
era impiccato. Il padre del Presidente croato Tudjman si era suicidato dopo
aver ucciso la moglie. Il generale Mladic, il criminale di guerra massacratore
dei bosniaci ha avuto una figlia suicida come Ofelia, perché non reggeva all’onta
delle scelleratezze del padre. L’ideologo, consigliere di Karadzic a Pale,
Koljevic, si è sparato un colpo in testa, venticinque anni prima si era
suicidata sua madre, gettandosi nel fiume. Il padre di Mladic era stato ucciso
dagli ustascia. Il padre del Ministro croato Sushak era stato ucciso dai
partigiani. Credo che se si considera la profondità shakespeariana delle
tragedie balcaniche, le cose assumono un rilievo particolare. Non saprei come
altrimenti spiegare un elemento particolarmente atroce dei conflitti più
recenti. Nelle guerre europee sinora, anche nell’ultima Guerra Mondiale, si
ammazzavano soprattutto soldati. Ora si ammazzano molto di più i civili.” [Milosevic?
Non gli resta che il suicidio, Predrag Matvejevic intervistato da Siegmund
Ginzberg, http://www.caffeeuropa.it/attualita/27matvejevic.html]
Predrag
Matvejevic, uno dei più importanti e tradotti scrittori balcanici, scomparso il
2 febbraio 2017, non veniva da una storia facile. Quale esponente del dissenso
jugoslavo si era battuto contro le degenerazioni autoritarie del socialismo
centralizzato, ma, alla crisi di quest’ultimo, aveva visto succedere non una
moltiplicazione delle libertà e nuove forme di solidarietà, bensì quella spirale
nazionalistica che aveva trascinato il suo Paese nella guerra civile. Questa
costante condizione di opposizione lo aveva, così, costretto alla condizione di
esule, a cercare rifugio, prima, in Francia e, poi, in Italia. Nato a Mostar da
padre russo e da madre bosniaca, Matvejevic aveva dentro di sé quella
trasversalità, quell’amore per un universalismo plurale, capace di chiedere
agli Esseri Umani il meglio di se stessi.
Nel 1990, festeggiammo in anticipo la fine del Ventesimo
Secolo, una specie di mattatoio e inaugurammo il nuovo Millennio. A Berlino,
epicentro del terremoto che stava per scuotere il mondo, nella notte tra il 2 e
il 3 ottobre, la bandiera della Germania riunificata fu issata sul pennone del
Reichstag. Nel crescendo di entusiasmo della folla, accalcata sul prato davanti
al palazzo, alla tredicesima salva di cannone arrivò in cima.
Bandiere che salgono, bandiere che scendono!
Bandiere che scandiscono i tempi!
Lunghi drappi neri fradici che sbattono contro le
facciate degli edifici quando muore la Primavera di Praga. Effimere bandierine
di carta a stelle e strisce sostituite, il giorno seguente, da quelle abituali,
rosse e di stoffa consunta, in occasione di uno degli scarti troppo rapidi di Nicolae
Ceausescu. E, poi, il vessillo pantedesco che sventola alto sull’ex-Muro di
Berlino: preludio alla scomparsa della pesante bandiera sovietica di velluto,
che viene ammainata sulla guglia del Cremlino per cedere il posto al nuovo
tricolore russo, di nylon leggero e danzante, che non ha più bisogno dei
giganteschi ventilatori del regime.
E tante altre ancora!
Sembrava che, nel domani postcomunista, la partita si
sarebbe giocata tra il bene e il meglio e che il male, se non definitivamente
scomparso, si sarebbe acquattato negli anfratti. Non si è tenuto conto di
debiti insoluti, tragedie congelate, antiche questioni accantonate, che con il
primo inverno si sarebbero ridestati, per dare inizio a un domino di rivincite.
Per cui, oggi, il futuro appare tutto sommato così così.
È difficile trovare una regola generale.
L’Asia Centrale ex-sovietica si era chiusa in se
stesssa, aveva manifestato un vero plebiscito di consensi per gli ex-segretari
comunisti travestiti da democratici o musulmani o ambedue le cose insieme,
eletti nuovi leaders e insediati fino
al Duemila e oltre. Stavano seduti sul proprio petrolio. Le compagnie
occidentali perforavano il terreno per vedere cosa nascondesse; ma prevaleva l’idea
che, una volta esaurite le riserve in Medio Oriente, da un Uzbekistan, fino ad
allora dedito alla coltivazione del cotone, potessero zampillare fiumi di oro
nero. Per il secolo a venire, le multinazionali petrolifere chiedevano solo che
fossero praticabili i corridoi degli oleodotti. Comandasse chi volesse in
Afghanistan e in Cecenia, purché a qualcuno non venisse in mente di danneggiare
le condutture.
Durante la Guerra Fredda, I’Europa aveva dimenticatoi
Balcani e ciò aveva provocato una divisione all’interno della penisola: la
Grecia e la Turchia europea, da un lato, e gli altri Paesi, dall’altro. Questa separazione
politica, economica, culturale, tra Est e Ovest, contribuì non poco a
diversificare le mentalità e gli atteggiamenti. Da un punto di vista
geografico, si divise, erroneamente, I’Europa in due blocchi: quello
mediterraneo [il Portogallo, la Spagna, l’Italia e la Grecia] e quello
orientale [la Jugoslavia, l’Albania, la Bulgaria, la Romania, la Polonia, l’Ungheria
e la Cecoslovacchia] e la realtà balcanica venne del tutto annullata.
Con la caduta del Muro di Berlino [9 novembre 1989], i
Balcani ritornarono sulla scena internazionale e si assistette a una ripresa di
rapporti economici con i Paesi vicini e, quindi, a una rinascita degli antichi
problemi geopolitici.
Nel
novembre del 2017, il suicidio in mondovisione dell’ex-generale croato Slobodan
Praljak, Presidente della Repubblica di Bosnia-Erzegovina, dal 1991 al 1994, e
condannato per crimini di guerra, rinfocolò le rivendicazioni del nazionalismo
croato, facendo parlare l’inquilino del Banski Dvori [il palazzo del Governo di
Zagabria], Andrej Plenkovic, di “profonda
ingiustizia morale”. Poco tempo dopo quella sentenza, in occasione del
Carnevale di Livno, nel febbraio del 2018, fu bruciato un fantoccio con le
fattezze di Carmel Agius, Presidente del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia,
dal novembre del 2015 al dicembre del 2017, [http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Criminale-ex-Jugoslavia-si-uccide-bevendo-il-veleno-in-aula-al-momento-della-sentenza-b8bd9330-4138-4662-8e29-0eb3438527de.html].
Stessa sorte toccò al pupazzo di Agius a Capljina, la cittadina che diede i
natali a Praljak, nell’Erzegovina Meridionale.
Praljak
era al comando delle forze croato-bosniache che attaccarono Mostar, il cui
ponte, distrutto nel 1993, è divenuto il simbolo dell’odio etnico, della
violenza dei nazionalismi, e dei più crudeli massacri avvenuti sotto gli occhi
dell’Europa, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, di cui Srebrenica
rappresenta il tragico culmine. Eletto Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, quel ponte di origine ottomana
abbattuto e ricostruito, voleva simboleggiare ilMAI PIÙ
dell’Unione Europea che, in occasione del centenario della Grande Guerra, il 28
giugno 2014, celebrava la pace con un concerto dell’Orchestra Filarmonica di
Vienna, a Sarajevo[https://www.youtube.com/watch?v=LbkNMetAmWU].
“Si tratta di un incredibile cinismo.”,
commentava
il giornalista Zlatko Dizdarevic,
“Se vi è un luogo dove i principi europei
vengono abbandonati, questo è Sarajevo.”
Nel
novembre del 1995 gli Accordi di Dayton hanno fermato la guerra in Bosnia-Erzegovina,
ma non hanno costruito la pace.
Tra il
1990 e il 1995, l’Europa ha vissuto il primo conflitto armato dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale sul proprio territorio, che vide contrapposte
soprattutto Serbia e Croazia, con Bosnia-Erzegovina come terreno di scontro
privilegiato. Anche se non direttamente coinvolto dal conflitto, anche il
Kosovo, allora provincia serba, ha vissuto in quegli anni una fase fondamentale
della sua Storia recente.
Proclamatasi
indipendente dalla Jugoslavia, a seguito del referendum
del 1° marzo 1992, votato a larga maggioranza dai cittadini di etnia bosgnacca,
allora definita musulmana, e croata, ma boicottato da quelli di etnia serba, l’area
di Bosnia-Erzegovina fu per circa quattro anni il campo di uno dei conflitti
più sanguinosi avvenuti in Europa dopo il 1945, con più di 100mila morti e 2 milioni
di profughi.
Anche
per i rom il periodo bellico rappresentò una catastrofe che ha finito per
modificare profondamente la stessa composizione di questo Popolo. La
maggioranza di loro viveva nell’Est del Paese, in località corrispondenti alla
attuale Republika Srpska, mentre oggi per lo più i rom abitano nella
Federazione, soprattutto nel Nord-Est, nel Cantone di Tuzla, o nella Bosnia
centrale, nei Cantoni di Zenica e Sarajevo. Molte migliaia di loro, fuggiti
all’estero durante la guerra, non hanno fatto ritorno. Secondo dati dell’ERRC, le comunità rom più colpite furono
quelle che vivevano a Prijedor e nei villaggi vicini di Kozarac, Hambarine,
Tukovi e Rizvanovici. Atrocità sono state commesse nei confronti dei rom di
Vlasenica, Rogatica e Zvornik e dei villaggi circostanti e, almeno 70, sono
stati i rom uccisi nella Strage di Srebrenica. In base al censimento del 1991,
quello ancora jugoslavo e prima delle guerre etniche, il numero dei rom in
Bosnia-Erzegovina era inferiore a 9mila, ma a quel tempo molti cittadini di
nazionalità rom si erano significativamente identificati come jugoslavi.
L’assedio
della capitale Sarajevo, la pulizia etnica, gli stupri sistematici e il
genocidio di più di 8mila musulmani a Srebrenica, nel luglio del 1995, portarono
all’Operazione Deliberate Force,
condotta dalla NATO, con tre
settimane di bombardamenti aerei sulle postazioni serbe.
L’assetto
istituzionale, basato sulla vittoria dei nazionalisti dei tre gruppi
affrontatisi in armi nel corso della guerra – creato a Dayton e firmato a
Parigi, il 14 dicembre 1995 dai presidenti di Serbia, Croazia e
Bosnia-Erzegovina, alla presenza dei capi di Stato o di governo di Francia,
Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Federazione Russa – consegnava, di fatto,
il Paese alle comunità nazionali e alla comunità internazionale, perdendo di
vista i diritti di cittadinanza, che dovrebbero appartenere a tutti
indipendentemente dal gruppo etnico di riferimento. Nel tentativo di
rappresentare burocraticamente gli equilibri etnici del Paese, creando organi a
rotazione e seguendo la regola aurea della divisione per tre delle poltrone
nelle varie istituzioni, si è così dato vita a un sistema escludente che
presenta elementi di vero e proprio razzismo istituzionale. In democrazia ogni cittadino
dovrebbe essere titolare degli stessi diritti e doveri, indipendentemente dalla
propria appartenenza religiosa o nazionale.
E, in
Bosnia-Erzegovina, non avviene.
Purtroppo,
la Federazione di Bosnia-Erzegovina non rappresenta un caso isolato.
Nei
Paesi dell’Est si diffonde nascostamente il virus invisibile che declina in
maniera diversa i diritti dei cittadini, non più persone con eguali diritti ma
razze, religioni e nazionalità con maggiori o minori tutele. Prendiamo in
considerazione, a esempio, la vicenda dei cosiddetti “cancellati”, persone –
prevalentemente di altri Paesi della ex-Jugoslavia – che vivevano in Slovenia e
che, dal momento della proclamazione dell’indipendenza, hanno progressivamente
perso ogni diritto entrando in una sorta di limbo giuridico non essendo di
nazionalità slovena.
La stessa Ucraina!
Il 21 luglio 2021 il presidente Volodymyr
Zelensky ha promulgato la Legge sui
Popoli Autoctoni, secondo cui soltanto gli ucraini di origine scandinava, i
tatari e i karaiti, hanno “il diritto di
godere pienamente di tutti i Diritti umani e di tutte le libertà fondamentali”.
Ne consegue che gli ucraini di origine slava non possono beneficiarne [https://www.axl.cefan.ulaval.ca/europe/ukraine-loi-lng-2021-autok.htm,
https://www.voltairenet.org/article216828.html].
Legge sui popoli autoctoni
[2021].
ЗАКОН Про корінні народи України [2021].
Uno dei più bei ponti al mondo. Una sola
arcata, esile, molto elegante. Collega tra loro due fortificazioni che
campeggiano, massicce, sulle due sponde della Neretva, il fiume che attraversa
la città bosniaca di Mostar. Il ponte ne è il simbolo. Sta a Mostar come il
Golden Gate Bridge a San Francisco, volendo azzardare un parallelo.
Lo Stari Most – vecchio ponte nella lingua
locale – fu costruito nel XVI secolo e restò in piedi per più di quattrocento
anni, finché, il 9 novembre 1993, esattamente venticinque anni fa, non fu preso
di mira dall’artiglieria croato-bosniaca [https://www.youtube.com/watch?v=kMSnskKpPpk]. E venne giù, tristemente. Quella fu una
delle immagini più devastanti della Guerra di Bosnia, scoppiata nel 1992. Una
guerra in cui i tre popoli del Paese, bosniaci musulmani, serbi ortodossi e
croati cattolici, si combatterono senza sconti.
Lo Stari Most è stato ricostruito con i
fondi della comunità internazionale, seguendo il progetto architettonico
originale. L’ultima pietra è stata posata nel 2004. E si disse, allora, che il
nuovo, vecchio ponte avrebbe ricongiunto le due anime litigiose della città.
In realtà, il ponte non ha, mai,
riconciliato croati e bosniaci.
Nessuna pace e nessuna ferita del passato
è stata, pienamente, cicatrizzata.
Nella zona serba della città bosniaca veniva
inaugurata,lo stesso giorno del
concerto, patrocinato dalla Unione Europea, una statua a Gavrilo Princip, la
cui mano, un secolo prima, aveva premuto il grilletto contro l’Arciduca
Francesco Ferdinando, trascinando il Vecchio Continente e il mondo nell’apocalisse
della modernità.
“Un
dolore che dopo 27 anni non si placa
innanzitutto per le mogli, le figlie e i figli che ormai sono donne e uomini
cresciuti nel ricordo di Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D'Angelo,
inviati della Rai in Bosnia per un servizio sui bambini della ex Jugoslavia”,
scrive
il presidente dell’Assostampa Fvg, Carlo Muscatello, alla vigilia
dell'anniversario.
Gli
eventi bellici nel resto della Jugoslavia avevano fatto calare un velo di
silenzio sulle vicende kosovare. Dal 1995, aveva iniziato a organizzarsi un
gruppo armato noto come UCK [Ushtria
Clirimtare e Kosoves] – infiltrato da veterani musulmani e croati – che
operava attraverso attentati nei confronti della popolazione e della polizia
serba e mirava all’indipendenza completa del Kosovo.
Dopo
l’abolizione dell’autonomia del Kosovo nel 1989, il governo serbo guidato da
Slobodan Milosevic, aveva dato avvio a un ampio processo di “serbizzazione” che
riguardò la toponomastica, con il cambio del nome delle strade di Pristina
prima intitolati a eroi albanesi, e la pubblica amministrazione, con il
licenziamento di oltre 150mila kosovari albanesi tra il 1990 e il 1995. In
risposta all’azione unilaterale di Belgrado, i Deputati albanesi del Parlamento
del Kosovo convocarono un Referendum
che portò, il 19 ottobre 1991, alla prima dichiarazione di indipendenza,
seppure priva di qualsiasi effetto pratico. L’Europa stessa non sostenne tali
rivendicazioni.
Alla
fine del 1998, l’UCK poteva contare
su oltre 40mila uomini e il controllo di circa il 40% di tutto il territorio
kosovaro. Nello stesso anno, l’ONU
inseriva l’UCK nella lista delle
organizzazioni terroristiche.
All’inizio
del 1999, gli scontri tra esercito serbo e UCK
sempre più aspri spinsero la NATO, ma
soprattutto il Segretario di Stato degli Stati Uniti Madeleine Albright e il
Premier inglese Tony Blair a minacciare un intervento armato per porre fine al
conflitto. Davanti alleminacce,
Milosevic decise di partecipare ai negoziati di pace convocati a Rambouillet,
nel gennaio del 1999. Pochi giorni prima, il leader serbo aveva rilasciato un’intervista al Washington Post, in cui accusava i politici albanesi di essere
nazisti “con l’obiettivo dichiarato di
creare uno Stato etnicamente puro”.
A
Rambouillet furono invitati per il Kosovo il Premier Ibrahim Rugova e l’allora leader dell’UCK Hashim Thaci, il cui coinvolgimento al tavolo delle trattative
rappresentava il definitivo riconoscimento del gruppo armato non più come
un’organizzazione terroristica ma come una delle parti in causa. Questa scelta
fu uno dei motivi del mancato sostegno di Belgrado agli accordi di pace. Il
piano proposto prevedeva la presenza di una missione militare guidata dalla NATO, la KFOR, per il mantenimento della pace, la possibilità per i militari
dell’Alleanza di muoversi liberamente in tutto il territorio della Federazione
Jugoslava, la loro immunità e il ritiro dell’esercito federale dal Kosovo.
Per
Belgrado erano proposte inaccettabili: non avrebbe mai potuto acconsentire la
presenza di truppe NATO sul proprio
territorio. Anche l’ex-segretario di Stato degli Stati Henry Kissinger
riconobbe che la proposta rappresentava una vera e propria “provocazione, una scusa per dare inizio ai bombardamenti”. Il
rifiuto serbo alle richieste della comunità internazionale aprì la strada a un
intervento diretto della NATO.
Il 24
marzo 1999, il segretario generale della NATO,
il socialista spagnolo Javier Solana, diede il via libera all’operazione Allied Force. Quel fatidico 24 marzo
1999 segnò l’inizio di una delle pagine più buie della Storia recente
dell’Europa. L’operazione Allied Force
è stata la seconda azione militare della NATO
in Europa e senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite. I bombardamenti, che coinvolsero la Serbia ma anche alcune aree del
Kosovo, andarono avanti per ben 78 giorni, provocando centinaia di vittime
anche tra i civili, considerati, in termine tecnico, “danni collaterali”.
Le
bombe della NATO, giustificate come
“intervento umanitario”, danneggiarono oltre 300 scuole e ospedali, distrussero
più di 60 ponti e misero in ginocchio il sistema infrastrutturale e industriale
della Serbia causando danni per oltre 30 miliardi di euro. I bersagli
principali delle operazioni furono infatti le industrie chimiche, come quelle
di Pancevo alle porte di Belgrado, quella automobilistica come la Zastava, le
centrali elettriche, le arterie di collegamento come le strade e i ponti.
L’obiettivo
della missione era quello di paralizzare il Paese e spingere il Popolo serbo a
ribellarsi contro Milosevic.
Ma, sulla
carta l’intervento deciso dalla NATO
era teso a riportare la delegazione serba al tavolo delle trattative politiche.
Fu
immediato l’afflusso dei primi profughi kosovari presso le frontiere albanese e
macedone.
Messo
alle strette dalle bombe occidentali, il primo giugno, il presidente Milosevic
accettò le decisioni del G8 e, il 9 giugno, firmò l’Accordo di Kumanovo che
prevedeva il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo.
L’indomani,
il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite emanò la Risoluzione 1244, con la
quale venivano istituite due missioni: l’una militare, KFOR, l’altra civile, UNMIK,
che riconosceva all’Unione Europea la gestione della ricostruzione del Kosovo.
In questo modo l’Unione Europea diveniva la protagonista nelle scelte
politiche, economiche e finanziarie del Paese.
L’imposizione
del marco tedesco, e non del dollaro, quale moneta ufficiale rivelava il nuovo
ruolo europeo.
Le
guerra fratricide sono combattute su diversi livelli paralleli, di cui uno
simbolico, combattuto sul corpo femminile: ogni conquista territoriale è innanzitutto
un “utero” da prendere ed espugnare.
I Balcani sembravano una Brutta Addormentata,
nell’attesa che il Principe tornasse dai giochi della guerra e la baciasse o che
la svegliassero le trombe e i fischietti degli studenti di Belgrado e di Sofia.
A quanto pare, l’operazione non è riuscita.
Ora, la bruttina malvestita, talvolta affamata, abituata
a tristi vicende – le tre M del transito faticoso: Mafia, Miseria e Malessere –
cerca una cosa chiamata Europa.
Il 20 giugno 1997, nel suo discorso al Consiglio Atlantico,il
Presidente statunitense Joe Biden, allora Senatore del Delaware, che non
aveva, mai, nascosto le sue intenzioni di “allargare” la NATO e si era espresso favorevole all’ingresso nella NATO di Ungheria, Polonia e Repubblica
Ceca – che, in effetti, vi entreranno due anni più tardi – dichiarava, che l’annessione
dei Paesi Baltici alla NATO avrebbe
potuto spostare gli equilibri e provocare “una
riposta vigorosa e ostile da parte della Russia”.
“I think the one place, where the greatest
consternation will be caused in the short term, for admission, having nothing
to do with the merit, the preparedness of the country to come in, would be to
admit the Baltic States now in terms of NATO-Russian, US-Russian relations. And
if there was ever anything that was going to tip the balance were it to be
tipped, in terms of a vigorous and a hostile reaction, I don’t mean military,
in Russia, it would be that.”
“So, the way I look at the calculus here, sides now
are as follows: I believe, and I was once told that to be in this business, you
have to be an optimist. I believe time, time meaning the next several years,
will solve this. To the degree to which Russia becomes comfortable with, and it
is demonstrated that the enlargement of NATO is not only not in their interest
but ultimately in their interest in expanding stability is the degree to which
the accession of the Baltics into NATO becomes a reality. I think there is a
correlation between the two. And so it is my expectation, as well as my hope,
that in the near term, meaning by the end of this century or be thereafter, the
Balts will be admitted to NATO, If they still are seeking admission to NATO.” [https://geopoliticaleconomy.com/2022/03/08/biden-nato-expansion-russia-hostile-reaction/, https://www.youtube.com/watch?v=42O1OAkNVL0]
Nel filmato risalente al 1998, il Presidente
Joe Biden afferma:
Dal
1991, gli Stati Uniti e i loro partners
militari hanno ingaggiato guerre, utilizzando sporche armi nei Paesi dove si
trovano risorse che hanno bisogno di controllare per stabilire e mantenere il
loro primato.
La NATO dice:
“L’uranio impoverito non è illegale. È un’arma
di guerra legale. Fine della storia. Noi l’abbiamo utilizzata, è legale.”
Infatti,
non esiste, a oggi, alcuna convenzione internazionale che vieti, in modo
espresso, l’uso dell’uranio impoverito e neppure alcun consenso, come dimostra,
ampiamente, la pratica degli Stati.
Dopo Hiroshima e Nagasaki, avevamo sperato che la
lezione fosse stata appresa e che gli Stati Uniti e i loro partners non avrebbero più impegnato armi nucleari. Un tabù
internazionale aveva impedito la loro utilizzazione fino al 1991, quando gli
Stati Uniti lo infransero, per la prima volta, sui campi di battaglia dell’Iraq
e del Kuwait.Le armi all’uranio impoverito sono state
fornite dagli Stati Uniti, per primi, a Israele, sotto la loro supervisione,
nella Guerra dello Yom Kippur, nel 1973. Da quel momento, gli Stati Uniti hanno
testato, prodotto e venduto sistemi d’arma all’uranio impoverito a 29 Paesi.
Descritto
come il Cavallo di Troia della guerra nucleare, l’uranio impoverito è l’arma
che continua a distruggere. Sotto forma di aerosol
l’uranio impoverito contaminerà, in modo permanente, vaste regioni e
distruggerà,gradualmente, il futuro
genetico delle popolazioni che vivono in quelle regioni. L’emivita dell’uranio
238 è di 4,5 miliardi di anni, l’Età della Terra e, poiché l’uranio 238
degenera in sottoprodotti radioattivi, in quattro fasi prima di trasformarsi in
grafite, continua a emettere più radiazioni a ogni fase. Non vi è modo per
arrestarlo e non vi è modo per ripulirlo. Si accorda con la definizione del Governo
americano delle armi di distruzione di massa:
“Weapons
that are capable of a high order of destruction and/or of being used in such a
manner as to destroy large numbers of people. Weapons of mass destruction can
be high explosives or nuclear, biological, chemical, and radiological weapons,
but exclude the means of transporting or propelling the weapon where such means
is a separable and divisible part of the weapon.”
[https://www.militaryfactory.com/dictionary/military-terms-defined.asp?term_id=5781]
Secondo il diritto internazionale relativo al
controllo degli armamenti, le armi all’uranio impoverito sono illegali:
-Convenzione dell’Aia del 29 luglio 1899, concernente le leggi e gli usi della guerra
terrestre
[https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/ISSMI/Corsi/Corso_Consigliere_Giuridico/Documents/81521_Aja1899.pdf];
-Convenzione delle Nazioni Unite del 10 ottobre 1980
detta Convenzione delle armi inumane, sul divieto o
la limitazione dell’impiego di talune armi classiche che possono
essere ritenute capaci di causare effetti traumatici eccessivi o di colpire in
modo indiscriminato [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19800274/199809240000/0.515.091.pdf].
Benché
ristretta ai campi di battaglia dell’Iraq e del Kuwait, la Guerra del Golfo del
1991 è stata una delle più tossiche e devastanti per l’ambiente della Storia
del Mondo. Incendi di pozzi di petrolio, bombardamenti di petroliere e di pozzi
che hanno sparso milioni di litri di petrolio nel Golfo e il deserto e la
devastazione delle cisterne e dei grandi impianti hanno distrutto l’ecosistema
del deserto.
Gli
effetti a lungo termine e su vasta scala e la dispersionedi almeno 340 tonnellate di armi all’uranio
impoverito hanno avuto un effetto ambientale mondiale.
Il
fumo dei fuochi di petrolio è stato trovato più tardi sotto forma di depositi
in America del Sud, nell’Himalaya e nelle Hawai.
Dopo la fine ufficiale della Guerra del Golfo, l’Esercito
americano ha sparato circa 1 milione di proiettili all’uranio impoverito, in 3
giorni, sulle migliaia di rifugiati e di soldati iracheni che battevano in
ritirata, sulla strada per Bassora, – in violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Ginevra del 12 agosto
1949 :
Nel caso in cui
un conflitto armato privo di carattere internazionale scoppiasse sul territorio
di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle Parti belligeranti è tenuta
ad applicare almeno le disposizioni seguenti:
1. Le persone
che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze
armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da
malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni
circostanza, con umanità, senza alcuna distinzione di carattere sfavorevole che
si riferisca alla razza, al colore, alla religione o alla credenza, al sesso,
alla nascita o al censo, o fondata su qualsiasi altro criterio analogo.
A questo scopo,
sono e rimangono vietate, in ogni tempo e luogo, nei confronti delle persone
sopra indicate:
a. le violenze
contro la vita e l’integrità corporale, specialmente l’assassinio in tutte le
sue forme, le mutilazioni, i trattamenti crudeli, le torture e i supplizi;
b. la cattura
di ostaggi;
c. gli oltraggi
alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;
d. le condanne
pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale
regolarmente costituito, che offra le garanzie giudiziarie riconosciute
indispensabili dai Popoli civili.
2. I feriti e i
malati saranno raccolti o curati.
Un ente
umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce Rossa, potrà
offrire i suoi servigi alle Parti belligeranti.
Le Parti
belligeranti si sforzeranno, d’altro lato, di mettere in vigore, mediante
accordi speciali, tutte o parte delle altre disposizioni della presente
Convenzione.
L’applicazione
delle disposizioni che precedono non avrà effetto sullo statuto giuridico delle
Parti belligeranti.
Ironicamente, la Risoluzione n. 661, riguardante la situazione dei rapporti tra Iraq
e Kuwait, era stata adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il giorno anniversario di Hiroshima,
il 6 agosto 1990.
I
grandi venti di sabbia annuali che partono dall’Africa del Nord, dal Medio
Oriente e dall’Asia Centrale spandono, rapidamente, la contaminazione
radioattiva intorno al mondo e l’alternarsi delle stagioni sulle vecchie
munizioni all’uranio impoverito dei campi di battaglia e altre regioni produce
nuove fonti di contaminazione radioattiva negli anni a venire.
La
scoperta, nel 1999, che, nell’ex-Jugoslavia, crateri di bombe erano radioattivi
e che un missile inesploso conteneva una testata di uranio impoverito, indicava
che la quantità totale di uranio impoverito, utilizzata dal 1991, era stata,
grandemente, sottostimata. Ciò che è ancora più inquietante è che il 100% dell’uranio
impoverito delle bombe e dei missili è vaporizzato all’impatto e immediatamente
liberato nell’atmosfera.Questa quantità
può arrivare fino a 1,5 tonnellate per le grosse bombe. Per i proiettili e le
granate, la quantità vaporizzata è del 40-70%, lasciando frammenti e granate
inesplose nell’ambiente, che saranno nuove fonti di polvere radioattiva e di
contaminazione delle acque sotterranee per la concentrazione disciolta di
uranio impoverito, per lungo tempo, dopo la fine dei conflitti, come riferito
nel rapporto The Kosovo conflit
consequences for the environment and human settlements dell’UNEP/UNCHS
[Habitat] Balkans task Force [BTF]
[http://wedocs.unep.org/handle/20.500.11822/8433, https://wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/8433/-The%20Kosovo%20Conflict%20Consequences%20for%20the%20Environment%20%26%20Human%20Settlements-1999378.pdf?sequence=3&isAllowed=y].
Considerato
che gli Stati Uniti hanno ammesso di avere utilizzato 34 tonnellate di uranio
impoverito sotto forma di proiettili e di granate nell’ex-Jugoslavia e che
35mila missioni di bombardamenti della NATO
hanno avuto luogo, nel 1999, la quantità potenziale di uranio che contamina l’ex-Jugoslavia
e la sua deriva frontaliera nei Paesi limitrofi è imponente.
Le
donne dell’ex-Jugoslavia, della Somalia, dell’Afghanistan, dell’Iraq e della
Siria hanno, ora, paura di avere bambini e quando partoriscono anziché chiedere
se è un maschio o una femmina, chiedono:
“È normale?”
Le
conseguenze sanitarie dell’uso di armi all’uranio impoverito era, già, emersa,
negli Anni Novanta, a seguito della prima Guerra del Golfo. Le varie patologie,
spesso mortali, che colpirono i reduci statunitensi [leucemie, cancri alla
tiroide e ai polmoni, malformazioni di neonati, aborti spontanei nelle donne]
vengono riassunte sotto il termine di Sindrome del Golfo.
In
Italia, la questione si riaffaccia, con prepotenza, nel 2000, quando l’Osservatorio per la Tutela del Personale
Civile e Militare, per iniziativa dell’ex-maresciallo Domenico Leggiero,
denuncia, pubblicamente, casi di decesso e di malattia di soldati italiani che
avevano prestato servizio nei Balcani.
Le
conseguenze ambientali della guerra contro la Repubblica Federale Jugoslava e
le raccomandazioni in proposito erano, già, state oggetto, nel giugno del 1999,
di un rapporto, redatto dal Centro
Ambientale Regionale per l’Europa Centrale e Orientale, su incarico della
Commissione Europea, nel quale, già, si poneva il problema degli “effetti a lungo termine di sostanze tossico
cancerogene e di radiazioni”. Si menzionava come dato acquisito che “i rapporti indicano che la NATO abbia
utilizzato, durante il conflitto, esplosivi contenenti uranio esaurito”
[pag.18]. Dal rapporto emergeva, inoltre, una rilevante presenza di metalli
pesanti entrati nel ciclo bioalimentare e nel suolo.
“Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo
fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo,
inventerà un esplosivo incomparabile. Ed un altro uomo, fatto anche lui come
tutti gli altri, ma di tutti gli altri un po’ più ammalato, ruberà tale
esplosivo e s’arrampicherà al centro della Terra per porlo nel punto dove il
suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà
e la terra, ritornata alla forma di nebulosa, errerà nei cieli privati di parassiti e di malattie.”,
sono le parole profetiche che chiudono il romanzo
di Italo Svevo, pubblicato nel 1923, La
coscienza di Zeno. Svevo non sentì mai parlare di bomba atomica, eppure la
sua sensibilità gli fece presagire l’immane catastrofe che doveva avvenire di
là a una ventina di anni.
BALLAMAN – Al Ministro della difesa. – Per sapere
– premesso che:
hanno ripreso a circolare sulla stampa nazionale voci secondo le quali alcuni
militari italiani, impegnati nelle
Pag. 58
missioni di peace-keeping in atto in Bosnia e
Kosovo, avrebbero contratto la leucemia, con esiti letali in qualche caso, e
comunque provocando il rimpatrio immediato e segreto di tutti i soggetti
colpiti;
dette voci sarebbero state
raccolte da fonte statunitense;
è noto come sui teatri di
guerra in Bosnia e Kosovo, anche e soprattutto nelle zone dove sono attualmente
rischierati i militari italiani, le forze aeree dell’alleanza atlantica abbiano
scagliato circa 31 mila proiettili anticarro all’uranio impoverito;
si ricorda come sugli effetti
ultimi dell’uranio impoverito è ormai stata comprovata la tesi dell’assoluta
nocività per la salute umana e sussista una folta casistica al riguardo;
si sottolinea, infine, come le
medesime fonti giornalistiche sostengano che la difesa italiana non ha adottato
alcuna precauzione per proteggere l’incolumità dei soldati italiani, mentre, ad
esempio, le forze armate olandesi stanno addirittura diminuendo drasticamente
le dimensioni del loro contingente in Kosovo a causa degli ultimi rilevamenti
sulla radioattività –:
quali iniziative il Governo
abbia adottato e voglia adottare immediatamente a tutela della salute degli
uomini ed al fine di far considerare le armi contenenti uranio impoverito come
non convenzionali e quindi da proibire.
Signor
Ministro, hanno ripreso a circolare sulla stampa nazionale voci secondo le
quali alcuni militari italiani impegnati nelle missioni di pace in Bosnia e in
Kosovo avrebbero contratto la leucemia con esiti in qualche caso letali;
comunque, in taluni casi ciò ha provocato il rimpatrio immediato e segreto di
altri soggetti colpiti.
È noto
che sui teatri di guerra in Bosnia e Kosovo sono stati utilizzati armamenti ad
uranio impoverito. Per ammissione stessa della NATO solo in Kosovo sono stati
scagliati 31 mila proiettili anticarro ad uranio impoverito dagli aerei A10, per circa 9 tonnellate.
Naturalmente tutto ciò è estremamente grave. Gli effetti dell’uranio impoverito
sono ormai noti.
Si
chiede di conoscere quali iniziative il Governo intenda adottare [e voglia
adottare immediatamente] a tutela della salute degli uomini e al fine di far
considerare le armi contenenti uranio impoverito come armi non convenzionali e
quindi come armi da proibire.
PRESIDENTE. Il Ministro della Difesa ha
facoltà di rispondere.
Va escluso anche che siano
collegabili all’uranio impoverito i due casi letali di leucemia acuta che si
sono verificati nelle Forze Armate, il primo sei anni fa, il secondo l’anno
passato. Nel primo caso, il giovane vittima della malattia non era stato mai
impiegato all’estero; nel secondo caso, il giovane militare era stato impiegato
in Bosnia, precisamente a Sarajevo, dove non vi è mai stato uso di uranio
impoverito.
Sul piano generale, desidero
ricordare quanto ho già fatto presente in Parlamento nei mesi scorsi; fin dall’ingresso
dei nostri soldati in Kosovo, si sono adottate misure di protezione:
monitoraggio ambientale, ampia attività informativa, bonifica con reparti
specializzati nella protezione e decontaminazione di persone e di materiali.
Sono stati svolti controlli ulteriori approfonditi da parte di esperti in
fisica del Centro interforze di studi. Tutte queste misure, come ho già detto l’altra
volta in Parlamento, hanno permesso di confermare che i livelli di inquinamento
radioattivo nelle aree dove operano i nostri soldati sono al di sotto dei
limiti di sicurezza previsti dalle norme italiane per il nostro territorio.
Naturalmente, l’attività di
controllo continua e continuerà fino a quando i nostri soldati saranno in
Kosovo. Inoltre, i militari italiani che prestano servizio all’estero, in
contingenti di pace, dovunque prestino servizio, al rientro in patria vengono,
per precauzione, sottoposti a verifiche mediche di controllo. Desidero
ricordare, inoltre, che l’Italia in questi anni si è costantemente impegnata, e
si è impegnato il Governo italiano, per bandire l’uso delle armi inumane, dando
a questa
Pag. 88
definizione un’interpretazione
estensiva. Quanto alla riduzione del contingente olandese, a cui accenna l’Onorevole
Ballaman nella sua interrogazione, collegandola al pericolo di inquinamento da
uranio impoverito, posso affermare che quella riduzione è collegata ad esigenze
operative di quel paese ed al suo strumento militare, pianificate da tempo, e
non ha riferimento alla questione dell’uranio impoverito.
Per
quanto riguarda gli studi del centro interforze, sappiamo perfettamente che ha
la possibilità di rilevare la radioattività, ma non i tipi di materiale di
uranio che sono utilizzati, in quanto studi specifici possono essere effettuati
solo dall’ENEA e dall’Università di Urbino. Il 15 agosto vi chiesi perché avete
abbandonato il valico di Morini [almeno a noi risulta che lo avete abbandonato],
lasciando persino lì i moduli abitativi, dopo che erano stati effettuati i
controlli sulle radioattività, ma sto ancora aspettando una risposta. Sempre il
25 agosto, vi chiesi perché per i militari di ritorno si consigliasse una serie
di esami tipici per la leucemia, ma sto ancora aspettando una risposta.
Abbiamo
chiesto l’istituzione di una Commissione Parlamentare, che riteniamo sia
necessaria, anche perché ormai persino la Procura Militare di Roma si sta
muovendo. Penso che, se 300 tonnellate di uranio nel Golfo hanno dato come
risultato la sindrome del Golfo, ormai si possa parlare anche di sindrome
balcanica, visto che solo nel Kosovo ne sono state lanciate 9 tonnellate. Per
quanto riguarda Sarajevo, non abbiamo notizie che sia stato l’uranio, certo, ma
purtroppo la NATO non ha mai smentito che a Sarajevo e nelle altre regioni
della Bosnia sia stato utilizzato uranio. Sicuramente, in altre zone è stato
utilizzato uranio [Applausi dei
deputati del gruppo della Lega nord Padania]!
PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento
delle interrogazioni a risposta immediata.
Sospendo brevemente la seduta.
Ringrazio tutti i numerosi colleghi intervenuti ed il Ministro
Mattarella per la sua sollecita presenza in questa sede. Avverto che il Sottosegretario
di Stato per l’ambiente, Valerio Calzolaio, ci ha fatto pervenire materiale
relativo alle osservazioni dell’UNEP e delle altre autorità ambientali per il
settore dei Balcani: tale materiale è disponibile per chi volesse consultarlo.
Nei due giorni scorsi ho partecipato ad una riunione
dei presidenti delle Commissioni difesa dei Parlamenti nazionali dei paesi aderenti
all’Unione europea. In incontri separati, e non in sessione plenaria, ho
chiesto ai colleghi che, qualora avessero conoscenza di episodi analoghi a
quelli che interessano il nostro paese, me lo facessero sapere. In occasione
della guerra del Golfo una commissione francese svolse un’indagine specifica in
materia; la risposta comunque è stata che a tutt’oggi non risultano episodi
simili.
Avverto inoltre che con le comunicazioni di oggi devono intendersi svolte le
interrogazioni assegnate alla Commissione difesa n. 5-08652 Ruffino e n.
5-08659 Olivieri, relative all’argomento trattato.
Infine, nel ribadire il mio ringraziamento per la
partecipazione così numerosa dei colleghi, colgo l’occasione per formulare a
tutti i migliori auguri di buon Natale e di felice anno nuovo.
Abbiamo scelto questa giornata per svolgere l’audizione
perché abbiamo tempo, teoricamente fino alle 19. La nostra ferma opinione, come
sapete, è che i problemi devono essere sollevati in Parlamento ed in Parlamento
devono trovare una risposta, soprattutto quando si tratta di questioni come
quella oggi in discussione, per ottenere soluzioni adeguate alla loro
importanza.
Do la parola al ministro Mattarella.
poligono
di Capo Teulada di cui si è parlato in questi giorni sui giornali. In quel
poligono nessuna forza armata italiana o straniera ha mai utilizzato
munizionamento ad uranio impoverito, così come è stato dichiarato ieri dal
comandante militare della Sardegna, che ha anche fatto presente – rendendola ostensibile
alla magistratura – che nella documentazione del poligono sono registrati,
esercitazione per esercitazione, il tipo e la quantità di munizioni adoperate.
Del resto, le caratteristiche del poligono sono estranee all’uso di quei
proiettili.
Della vicenda di cui stiamo parlando nulla va sottovalutato: lo ripeto con
convinzione, anche per la primaria importanza che va dedicata alla salvaguardia
della salute degli uomini delle forze armate, siano essi in Italia o all’estero.
Come annunziato due giorni fa, ho istituito una commissione scientifica per
accertare tutti gli aspetti della questione; essa è presieduta dal professor
Franco Mandelli, autorità scientifica di altissima qualificazione
internazionale, e ne fanno parte il professor Martino Grandolfo, direttore del
laboratorio di fisica dell’Istituto Superiore di Sanità; il dottor Alfonso
Mele, direttore del reparto di epidemiologia clinica dell’Istituto Superiore di
Sanità; il dottor Giuseppe Onufrio, dell’Agenzia Nazionale per la Protezione
dell’Ambiente [ANPA], che ha lavorato nell’ambito delle attività di
accertamento e di verifica del Ministero dell’Ambiente in Kosovo; il dottor
Vittorio Sabbatini, capo dell’ufficio nucleare del CISAM ed il generale medico
Antonio Tricarico, direttore generale della sanità militare.
Compito
della commissione è di accertare tutti gli aspetti medico-scientifici della
vicenda. Potrebbe infatti trattarsi di singoli casi non collegati tra di loro;
potrebbero rivelarsi casi collegati da una causa comune come l’uranio
impoverito, anche se allo stato non sono emersi elementi di riscontro; ovvero,
laddove essi fossero legati da una causa comune, questa potrebbe essere comunque
un’altra, diversa dall’uranio impoverito. Tale commissione ha il compito di
operare in tutte le direzioni possibili e per tutti gli aspetti legati alla
questione.
Ripeto ancora che non si è sottovalutata, né s’intende sottovalutare, alcuna
delle ipotesi, nemmeno la più remota: né quelle che possano in qualche modo
correlarsi con i rischi da inquinamento ambientale connessi con l’utilizzazione
di munizionamento all’uranio impoverito nell’area balcanica, né qualunque altra
ipotesi diversa che possa essere collegata ai casi di malattia verificatisi.
Entrando più in concreto nei problemi, occorre distinguere tra questioni,
notizie o ipotesi di notizie che non vanno confuse tra loro, sia perché non
hanno nulla in comune sia per non alterare la corretta analisi delle questioni
e dei fatti.
Prima
di affrontare il tema relativo alla presenza nei Balcani, vorrei parlare dell’argomento
apparso sui giornali a proposito degli elicotteristi.
Si è
detto e scritto che ben 12 elicotteristi militari italiani si sarebbero
ammalati di cancro negli ultimi mesi e che quattro di loro sarebbero morti. La
notizia non risulta alla difesa, ed appare scarsamente verosimile che un
fenomeno di tale gravità e dimensioni sia sfuggito alle autorità militari sia
di comando sia sanitarie.
Risulta il caso di un sottufficiale in servizio a Pisa, che durante i controlli
annuali è stato riscontrato affetto da una forma di leucemia; è un
sottufficiale elicotterista che non è mai stato in servizio all’estero. Il
fenomeno di ben 12 ammalati negli ultimi mesi, quattro dei quali morti – ripeto
– non risulta.
Potrei
fermarmi qui e dire che non è vero. Avrei potuto farlo anche nei giorni scorsi,
ma ho preferito e preferisco spingere lo scrupolo oltre, ammettere, al di là
delle verifiche fatte, l’eventualità che un pur così rilevante fenomeno sia
sfuggito. Per questo ho chiesto pubblicamente che si indicassero i nomi o
quantomeno i reparti in cui questi casi si sarebbero verificati.
Se un
fenomeno così grave fosse vero, pur essendo del tutto indipendente dai
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Balcani
[perché, secondo quanto affermato, si tratterebbe di elicotteristi mai stati in
quella zona] sarebbe mio dovere disporre, oltre i controlli e agli accertamenti
che già vengono svolti, nuove immediate iniziative per fronteggiarlo ed
accertarne le cause. Sarebbero inoltre necessario adottare provvedimenti per
evitare che un simile fenomeno si diffonda o si ripeta.
Se non
fosse vero, sarebbe mio dovere, e non soltanto mio, dare serenità agli
elicotteristi delle forze armate e ai loro famigliari rispetto ad un allarme
molto grave. Per questo ho fatto quella richiesta: per andare con lo scrupolo
al di là delle verifiche effettuate dai comandi militari.
Si è
risposto che non si possono fornire questi elementi a motivo della privacy. Mi chiedo anzitutto, con
molta misura, se questa valga di fronte all’affermazione di ben quattro
elicotteristi morti. In ogni caso, la privacy
non verrebbe violata se questi dati venissero forniti in forma riservata all’autorità
militare di comando o sanitaria.
Vorrei sottolineare la responsabilità che si assume chi, dichiarando di essere
in possesso di notizie così gravi, rifiuta o omette di fornire elementi che
consentirebbero di affrontare e contrastare una condizione che, se vera,
andrebbe affrontata immediatamente, perché sarebbe allarmante.
Il
Governo vuole che nulla rimanga in ombra ed è consapevole del dovere
istituzionale e morale di accertare fino in fondo la fondatezza di ogni notizia
e di ogni ipotesi. È altrettanto convinto che a questo dovere si affianchi
quello di garantire la serenità di migliaia di persone e delle loro famiglie,
se non vi è motivo di metterla in discussione: questo comporta, per il Governo,
l’esigenza di vagliare rigorosamente la fondatezza o infondatezza delle
notizie, per le quali vi è il rischio di una moltiplicazione ingiustificata.
Per
questo vi è l’intendimento e la volontà che nulla rimanga in ombra, sapendo che
questi due doveri si affiancano: non lasciare nulla in ombra e non minare, se
non ve ne è motivo, la serenità di migliaia di persone.
Per
quanto riguarda i Balcani, va fatta qualche considerazione rispetto alla
Bosnia. In ambito ONU, in questi anni, non è stato mai sollevato il problema
del rischio d’inquinamento da uranio impoverito in tale zona. Ricordo, al
riguardo, che l’ONU aveva autorizzato gli interventi aerei in Bosnia ed era
codecisore delle operazioni, tanto che si è definita quella condizione come di
«doppia chiave» ONU-NATO. È quindi significativo che in ambito ONU,
protagonista degli avvenimenti, non sia stato sollevato in questi anni il
problema.
Del
resto in Bosnia, ed in particolare nell’area di Sarajevo, hanno operato ed
operano migliaia di civili e di funzionari delle organizzazioni internazionali
e non governative. A Sarajevo risiede il comando USA della SFOR ed un ampio
contingente di quel paese. Vi operano anche una forte componente francese e
quelle di molti altri Paesi, oltre a numerose rappresentanze diplomatiche – per
non citare ovviamente la popolazione locale, che non va assolutamente
dimenticata.
Eppure nella comunità internazionale non si è posto, in questi anni, un
problema d’inquinamento da uranio impoverito in quell’area. Tuttavia, come ho
già dichiarato altrove nei giorni scorsi, ritenevo possibile che vi fosse stato
uso di questi proiettili in Bosnia, anche sulla base dei documenti pubblici
raccolti in via informale; parte di questo materiale mi è stata fatta pervenire
anche da associazioni private. Tutti gli elementi sono stati accuratamente
valutati, pur nella loro incertezza.
Per
questo, il 27 novembre scorso, ancor prima che si manifestasse l’attuale acuta
attenzione al problema, ho richiesto alla NATO di comunicarci formalmente se
fosse stato impiegato in Bosnia armamento all’uranio impoverito, essendovi
necessità di assoluta chiarezza in argomento.
Sono
in grado di comunicare alla Camera, tramite questa Commissione, che è pervenuta
oggi la risposta da parte
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dell’Alleanza
atlantica: in tre tornate, rispettivamente il 5 agosto 1994, il 22 settembre
1994 e nel periodo fra il 29 agosto e il 14 settembre 1995, nelle operazioni
effettuate dagli aerei A-10
sono stati utilizzati in attacchi alle forze serbo-bosniache circa 10.800
proiettili all’uranio impoverito, a tutela della zona di esclusione attorno a
Sarajevo stabilita dall’ONU, in un raggio di 20 chilometri dalla città.
Avendo
ottenuto oggi chiarezza dalla NATO su quanto accaduto in Bosnia, il Governo ha
chiesto di far pervenire, come avvenuto per il Kosovo, la mappa puntuale dei
siti in cui sono stati lanciati i proiettili.
Devo
manifestare rammarico per il fatto che le organizzazioni internazionali
interessate forniscano solo ora, e per nostra richiesta esplicita, un’informazione
sicuramente importante per la comunità bosniaca e per quella internazionale,
considerando che la tutela dei militari nelle missioni di pace e delle
popolazioni civili interessate è compito ineludibile della comunità
internazionale. Rimane naturalmente impregiudicato – lo ripeto perché è
necessario farlo, ed aderente alla realtà – il problema della portata effettiva
di pericolosità dell’uranio impoverito, questione di cui l’UNEP si è già
occupata in Kosovo.
L’esigenza
di prevedere in seno all’Alleanza atlantica procedure più adeguate di
condivisione delle informazioni e di approntamento di misure comuni su materie
così delicate, appare quindi necessario. Aggiungo, inoltre, che il Governo
italiano intende invitare l’UNEP a svolgere anche in Bosnia una missione
analoga a quella tenutasi in Kosovo. Per quanto riguarda la competenza della
difesa, ho disposto l’immediato invio di una missione di esperti del CISAM in
Bosnia per procedere opportunamente a misurazioni e monitoraggi.
In
Kosovo si è fatto, come è noto, un uso consistente dei proiettili ad uranio
impoverito. La NATO ha comunicato nel maggio 1999 di averne fatto uso. Nell’ottobre
1999 l’ONU ha fatto richiesta di conoscere i siti bombardati, che sono stati
comunicati il 7 febbraio 2000.
Come è
noto i nostri militari entrati in Kosovo nel giugno 1999, si sono attestati a
Pec, mentre gli inglesi si sono insediati a Pristina e nella regione centrale
circostante, essendo titolari del primo comando di KFOR localizzato in quella
città. Il contingente USA si è insediato nel settore sud-est, lungo la fascia
più critica, quella accanto alla valle di Presevo, a contatto con il
contingente russo.
Il
nostro contingente si è insediato a nord-ovest nel settore che confina con l’Albania,
considerato che già esisteva una missione di militari italiani in Albania,
presenti anche sul confine verso il Kosovo, in coerenza con l’opportunità di
affidare all’Italia il controllo di entrambe le parti del confine.
Desidero
ricordare quanto ho fatto presente nei mesi scorsi. Fin dall’ingresso dei
nostri militari in quel territorio si sono adottate misure di protezione:
monitoraggio ambientale, ampia attività informativa, bonifica del territorio
con reparti militari NBC specializzati nella protezione e decontaminazione di
persone e di materiali. Ogni unità militare dispone di nucleo specializzati NBC
per tali operazioni. Questi nuclei, che operano in modo preventivo nelle aree
in cui si dispiegano i nostri reparti, sin dai primi di luglio 1999 sono stati
rinforzati da un’ulteriore compagnia specializzata.
Come
misura aggiuntiva di cautela sono stati successivamente inviati esperti fisici
del Centro interforze studi per le applicazioni militari [CISAM], che hanno
verificato, in diversi periodi, con sofisticate metodiche di laboratorio, i
risultati delle attività svolte dal personale dei nuclei operativi NBC.
I
primi controlli sono stati effettuati negli alloggi destinati ad ospitare i
nostri soldati, per verificare che fossero sicuri: controlli di aria, suolo,
acqua e pareti. I controlli sono stati effettuati usando strumenti molto
sofisticati ed affidabili, come
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il
Rotem, che è un rilevatore di radiazioni, realizzato in Israele, di gran lunga
più sensibile di un contatore Geiger.
L’insieme
di queste misure e controlli, come ho già detto in Parlamento, ha permesso di
confermare che i livelli di inquinamento nelle aree dove operano i nostri
soldati sono al di sotto dei limiti di sicurezza previsti dalla normativa
italiana [decreto legislativo n. 230 del 1995] per il nostro territorio.
Gli specialisti hanno potuto compiere gli accertamenti con estrema precisione, grazie
alle mappe fornite all’ONU dalla NATO; dove erano segnate le zone di probabile
caduta dei colpi. In tutto, sono stati ritrovati 800 grammi di uranio e circa
due chili di metallo degli involucri esterni dei proiettili. Questi materiali
sono custoditi, in attesa che la NATO decida il loro stoccaggio, in appositi
recipienti con una protezione di piombo e una di plastica speciale. Nella terra
dei campi in cui sono stati trovati i frammenti, non si è rilevata
contaminazione.
Va
fatto riferimento ad un’iniziativa particolarmente autorevole: un gruppo di
scienziati è stato inviato in Kosovo, un mese addietro, dal programma per l’ambiente
dell’ONU. Si tratta di 14 esperti d’istituzioni scientifiche di diversi paesi
incaricati di studiare e raccogliere prove sul terreno, i cui risultati
definitivi saranno divulgati a febbraio prossimo. In base ai primi rilievi essi
hanno anticipato che le radiazioni da uranio impoverito, rimasto a seguito dei
bombardamenti della NATO, non appaiono pericolose per l’ambiente. In questo è
stato particolarmente esplicito il capo dell’équipe di esperti, finlandese. A questa attività partecipano
rappresentanti dell’ANPA come ha ricordato, nei giorni scorsi, il
sottosegretario per l’ambiente Calzolaio.
È
stata misurata la radioattività in 11 dei 112 siti dove durante la campagna
aerea è stato usato uranio impoverito. I risultati hanno indicato che in
Kosovo, in quei luoghi, il livello non è superiore a quello considerato normale
in alcuni paesi, tra cui l’Italia. Questo è quello che emerge dall’attività
dell’UNEP.
Indipendentemente
dal basso rischio, comunque hanno opportunamente affermato che occorre in ogni
caso proseguire nell’attuazione di idonee misure di prevenzione. Presidente, in
questi giorni sono stati citati alcuni casi che vorrei esporre alla Commissione
senza rivelare l’identità degli interessati, anche se di quasi tutti si è molto
parlato in questi giorni.
Si
tratta di un soldato della Sardegna, che non ha mai prestato servizio nei
Balcani, deceduto nel 1994 per leucemia linfoblastica acuta; di un graduato di
truppa della Sardegna che è stato in Albania per due mesi nel 1997 e poi a
Sarajevo da metà novembre 1998 a metà aprile 1999, deceduto per leucemia
linfoblastica acuta; di un sottufficiale della Puglia, che è stato a Sarajevo e
a Pale da fine agosto 1998 ai primi di aprile 1999, deceduto per linfoma
non-Hodgkin; di un maresciallo della Croce rossa italiana del Lazio, che è
stato impiegato per trasporto di aiuti umanitari nei territori della ex-Jugoslavia
per 17 giorni con un tragitto Spalato-Dubrovnik-Sarajevo-Zenica: quindi egli
non ha prestato servizio in Bosnia, ma vi ha solo trascorso alcuni giorni; è
stato successivamente nei campi profughi di Kukes in Albania per 19 giorni nell’aprile
del 1999 e di Kavaje in Albania per un mese nel luglio 1999; è deceduto per una
forma ematologica acuta proliferativa. Si tratta ancora di un graduato di
truppa della Sardegna che è stato a Dakovica, in Kosovo, dalla fine di giugno a
metà ottobre del 1999; è tornato a Dakovica da metà giugno ai primi di agosto
del 2000; a fine 1999 ha avuto diagnosticato uno pseudo linfoma cutaneo che è
stato asportato e successivamente, rientrato in servizio, è stato, nel novembre
2000, destinatario di una diagnosi di un linfoma non-Hodgkin e che è da
ricontrollare.
Si
tratta poi di un graduato di truppa della Sardegna che è stato a Sarajevo da
fine settembre 1996 a fine gennaio 1997, a Dakovica dalla fine di luglio 1999
alla fine di ottobre 1999 e ancora a Dakovica
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da
fine giugno 2000 a metà novembre 2000; è stato ricoverato per sospetto linfoma
ed è tuttora in osservazione.
C’è
poi un graduato di truppa della Sardegna che è stato in Albania per un mese nel
1997 e a Skopije in Macedonia per due mesi e mezzi nel 1999, tra la fine di
marzo e i primi di giugno; non si è mai trovato nel teatro in cui si sono
svolte azioni belliche in Bosnia o in Kosovo, ma in Albania e in Macedonia.
Egli ha avuto diagnosticato un linfoma di Hodgkin ed è in cura.
Si
tratta poi di un sardo che è stato in servizio in Somalia per quattro mesi tra
la fine del 1993 e i primi mesi del 1994, cui è stato diagnosticato un tumore;
si tratta poi di un soldato del Veneto che non è stato nei Balcani in nessuna
occasione, che ha avuto diagnosticato un linfoma di Hodgkin; di un sottufficiale
del Lazio che non è mai stato nei Balcani e che ha avuto diagnosticata una
leucemia mieloide cronica: è comunque in servizio, anche se in terapia.
Si tratta poi di un sottufficiale pugliese che è stato in Bosnia dalla fine di
gennaio alla fine di giugno del 1997 e da metà luglio a metà febbraio 1998, che
è stato ricoverato con un referto di linfoma di Hodgkin.
Da
questo elenco escludo il caso di un militare di truppa della Sardegna cui nei
giorni scorsi è stata diagnosticata una sindrome di astenia di uranio
impoverito, ed i cui esami hanno nei giorni scorsi dato esito negativo sia sul
piano ematochimico, sia dopo ecografia tiroidea e controllo spirometrico; egli
è quindi in servizio, essendo stato riconosciuto esente da qualsiasi patologia.
Ad esclusione di quest’ultimo, si tratta, come si vede [compresa la situazione
del sottufficiale della Croce rossa, che ha trascorso pochi giorni in Bosnia
senza prestarvi servizio], di dieci casi.
Naturalmente
vale la pena ricordare che vi sono certamente altri casi che, nel corso di
questi anni, possono e avranno certamente interessato la popolazione militare
italiana oggi composta di 260 mila uomini [negli anni passati è stata anche più
numerosa], che non sono emersi a fronte di quelli da me citati e conosciuti. È
verosimile che per le persone che sono state nei Balcani siano emersi dei casi,
ma questo fa parte di un accertamento che viene rigorosamente svolto.
Ai 10 casi da me citati si aggiunge quello dell’elicotterista che non ha mai
prestato servizio all’estero. Pertanto solo 5 degli 11 casi riguardano
personale militare che ha prestato servizio in Kosovo o in Bosnia. Inoltre, tra
essi si sono manifestate patologie diverse.
Rimane
il problema d’identificare se vi sia un effettivo collegamento tra queste
patologie e l’uranio impoverito, collegamento che – come vi ho detto – allo tato
attuale non risulta avvalorato da riscontri oggettivi, ma che comunque è giusto
verificare ed accertare con il massimo scrupolo. È per questo che lavorerà la
commissione istituita, ossia per valutare – come ho detto inizialmente – quali siano
le cause dei decessi e delle malattie e per verificare se siano riconducibili a
vicende individuali o collegabili all’uranio impoverito, oppure se siano
riconducibili ad una causa comune diversa dall’uranio impoverito.
Credo infatti che accanto alla doverosa esigenza di accertare se queste
malattie siano collegabili all’uranio impoverito vi è anche quella di non
concentrarsi esclusivamente su questa ipotesi, rischiando di precludersi l’accertamento
di altre possibili cause.
Signor
presidente, mi permetta altre due considerazioni. Ho letto in questi giorni che
altri paesi avrebbero lamentato decessi per la presenza in Kosovo, in
particolare il Portogallo e il Belgio. Per quanto riguarda il Belgio gli
accertamenti eseguiti presso le autorità belghe hanno fatto emergere che non
sono stati denunziati decessi di militari in Kosovo; il generale capo della
sanità militare, Van Hoof, ha parlato complessivamente delle malattie presenti
e delle patologie riscontrate nei militari belgi.
Si è
detto che il Portogallo starebbe protestando per i rischi, ma questo viene
smentito dai contatti avuti con le autorità
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portoghesi.
Non vi è alcuna intenzione del genere, mentre è annunziata da tempo dal
Portogallo l’esigenza di un avvicendamento per rinforzare il proprio
contingente a Timor Est.
L’ultima
considerazione sarà forse estranea all’argomento, ma è giusto formularla perché
questa Commissione ha la responsabilità politica degli orientamenti della
difesa.
Come
ho detto, vi è l’esigenza di approfondire con scrupolo ogni aspetto perché
nulla rimanga in ombra: questa avverrà! Per questo è stata costituita un’apposita
commissione; per questo ho richiesto formalmente alla NATO delle notizie; per questo
le sto divulgando; per questo sto chiedendo ulteriori notizie precise alla
stessa NATO. Vorrei però che l’odierno dibattito, in tutti i suoi contorni
anche i più accesi, non innescasse un clima tale da mettere in discussione la
nostra presenza nei Balcani. Durante i mesi scorsi, specie da parte degli
organi di stampa, è stata formulata un’ipotesi circa il ritiro degli americani
dai Balcani a seguito della nuova presidenza: se oggi, con le prospettive per
la prima volta positive ma difficili che si delineano nella ex-Jugoslavia, si
addivenisse al ritiro dei contingenti multinazionali dal Kosovo e dalla Bosnia,
quelle zone ripiomberebbero nella violenza e nel vuoto politico che dà spazio a
tutti i movimenti ed i traffici illegali di cui noi subiamo le conseguenze. Non
soltanto si perderebbe un’occasione importante per pacificare quella regione
così travagliata, il che è interesse dell’Europa e del nostro paese, ma si
offrirebbe anche uno spazio amplissimo ai traffici di cui l’Italia subisce le
conseguenze più di chiunque altro. È una preoccupazione che intendevo
rassegnare alla Commissione, ringraziandovi ancora per l’attenzione e
dichiarando la massima disponibilità per qualunque approfondimento.
Il
caporalmaggiore Salvatore Vacca del 151° reggimento della Brigata Sassari, originario
di Nuxis, è morto, nel 1999, a soli 23 anni, a causa di una leucemia contratta
dopo l’esposizione a munizioni all’uranio impoverito durante la missione in
Bosnia.
E il Ministero
della Difesa è responsabile di condotta omissiva per non averlo protetto
adeguatamente.
Il 4
febbraio 2004, moriva Valery Melis, dopo una lunga malattia che lo aveva
colpito quattro anni prima, di ritorno da una missione in Kosovo.
“Non
fu dovuta all’uranio impoverito la malattia. Non esistono dati sulla
cancerogenità delle nanoparticelle, quindi non può essere questa la causa della
morte del soldato stroncato dal linfoma di Hodgkin”,
ha
sentenziato, nel 2015, il TAR Della Sardegna, respingendo, così, la richiesta
di risarcimento avanzata dai genitori, Dante e Marie Claude Melis.
Nel
2011, il Tribunale Civile di Cagliari aveva, invece, condannato il Ministero
della Difesa a risarcire con 584mila euro i familiari di Valery.
Mauro Pili, Strage all’uranio impoverito, la NATO invoca l’immunità, Centinaia
i militari morti per i bombardamenti nella ex-Jugoslavia, ecco il documento con
il quale l’organizzazione militare vorrebbe “salvarsi”. E poi c’è il caso
“Torio” di Teulada e Quirra, anche qui la NATO invocherà l’immunità?, Unione Sarda, 4 giugno 2022 [https://www.unionesarda.it/news/mondo/strage-alluranio-impoverito-la-nato-invoca-limmunita-a5tep2a9].
“Nella primavera del 2008 ho attirato l’attenzione
su racconti credibili fatti alla Procura del TPIJ circa sequestri e sparizioni
di persone in Kosovo nel 1999, e su indizi che alcune vittime di tali rapimenti
erano state uccise nell’ambito di un traffico organizzato per procurarsi e
commerciare organi umani.
Queste affermazioni indignate riportate
nel mio libro di memorie, La Caccia, erano corroborate da indizi fisici
credibili e verificabili, ottenuti durante una missione nel territorio della
Repubblica d’Albania da investigatori del TPIJ e della Missione delle Nazioni
Unite in Kosovo [UNMIK] in presenza di un pubblico ministero del Governo dell’Albania.”
Lei disse che prigionieri serbi erano
stati rapiti dall’Esercito di Liberazione
del Kosovo [UCK],alla fine della
Guerra in Kosovo, tra il 1998 e il 1999.
Lei disse che prigionieri serbi erano
stati deportati in Albania, dove erano stati assassinati.
Lei disse che da prigionieri serbi erano
stati espiantati organi per essere venduti.
Lei è Carla Del Ponte, procuratore del Tribunale Penale Internazionale
per l’ex-Jugoslavia [TPIJ], dal 1999 al 2007, la prima a dire che “l’uccisione intenzionale di prigionieri al
preciso scopo di prelevare e vendere i loro organi per lucro sia stata
organizzata da membri di alto livello dell’UCK, comprese persone che, oggi,
hanno alte cariche nel Governo di quel Paese”.
Grazie a una buona dose di caparbietà,
Carla Del Ponte si crea, molto presto, una fama di giudice temibile e scomodo,
tanto da essere soprannominata Carlina la peste. Va ricordata la
proficua collaborazione con Giovanni Falcone, che consente, tra l’altro, di
provare il legame tra il riciclaggio di danaro, effettuato in Svizzera e la
Mafia siciliana nel quadro dell’indagine, avviata già nel 1979, sul traffico di
droga tra l’Italia e gli Stati Uniti, denominata Pizza Connection.
Il 21 giugno 1989, mentre queste indagini
sono in corso, sfugge, con il collega svizzero Claudio Lehmann, – grazie a una
provvidenziale serie di circostanze – a un attentato dinamitardo nella
spiaggetta antistante la villa affittata da Falcone, in località Addaura.
Nel 1999, Carla Del Ponte diviene Procuratore
del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia
[ICTY], sostituendo Louise Arbour, e, contemporaneamente, viene incaricata
di seguire il dossier sul genocidio
in Ruanda nel Tribunale Penale
Internazionale per il Ruanda.
Dal gennaio del 2008 al febbraio del 2011,
ricopre la carica di Ambasciatore della Svizzera in Argentina.
Nel 2013, entra nella Commissione Indipendente Internazionale d’Inchiesta sulla Siria delle
Nazioni Unite, ma, il 6 agosto 2017, Carla Del Ponte annuncia le sue
dimissioni, dal Festival del Cinema
di Locarno, con un duro atto di accusa.
“È una
Commissione inutile”,
dice.
“La
Giustizia Internazionale non funziona in Siria perché non c’è una volontà
politica. Servirebbe il sostegno degli Stati e, in particolare, in questo caso,
del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: quest’ultimo viene bloccato dai veti della
Russi e della Cina e, quindi, non si prende la decisione di ottenere Giustizia
per le vittime.”
Così, Carla Del Ponte sbatte la porta e se
ne va:
“Perché
non ci sto più a stare in questa Commissione che non riesce a ottenere
giustizia per le vittime, in questa commissione che non ha nessun futuro perché
non vi è volontà politica, perché gli Stati non vogliono Giustizia per le
vittime in Siria. Non posso rimanere in questa Commissione che in fondo non fa
niente.”
Del Ponte rivela che questa decisione è
maturata da tempo:
“Sono
sette anni che in Siria vi è la guerra e la Commissione non fa nulla. Il
Consiglio di Sicurezza deve istituire o una Corte permanente, o ancora meglio
un Tribunale ad hoc, come per la ex-Jugoslavia, visto l’elevato numero di
crimini commessi. Ma si tratta di un futuro che per ora non vedo. Abbandono la
Commissione, non le vittime, sarei pronta domani ad assumere il ruolo di
procuratrice se fosse creato un Tribunale Internazionale per la Siria.”
Sono affermazioni gravi, che si commentano
da sole, alle quali non seguono significative reazioni.
Ricordiamo
la risata a piena gola di Bernard Kouchner – Alto Rappresentante del Segretario
Generale dell’ONU inKosovo, nel periodo dal luglio del 1999 al
gennaio del 2001 –, quando, nel marzo del 2010, un giornalista serbo lo
interrogò sulla “Casa Gialla”.
Il primo marzo del 2010, in visitaufficiale in Kosovo, Bernard Kouchner è intervistato
da un giornalista serbo, circa le voci secondo cui sarebbe coinvolto nel traffico
di organi. Diversi media serbi avevano accusato Kouchner di avere coperto tali
azioni, quando era Alto Rappresentante delle Nazioni Unite nella regione
[1999-2001].
La “Casa Gialla”, dove furono espiantati organi
a più di 300 civili serbi prigionieri, prima di essere assassinati, è attestata
dall’ex-Procuratrice Carla del Ponte, nel suo libro La Caccia. Io e i
criminali di guerra.
Gli investigatori individuarono la “Casa Gialla”
a Burrell, in Albania.
Nel rispondere alla stampa, Bernard
Kouchner non mostra alcuna compassione per le vittime e le loro famiglie. Assai
stranamente, ha scelto di negare la complicità passiva a lui imputata,
contestando l’esistenza del reato. Inoltre definisce “bastardi assassini”
coloro che hanno diffuso questa voce; dichiarazioni che includono anche Carla
Del Ponte.
Sempre nel 2010, intervistato dal canale
televisivo BBC riguardo al rapporto
che Dick Marty aveva presentato al Consiglio d’Europa sul traffico di organi
durante la guerra nella ex-Jugoslavia, Kouchner si era detto scettico, ma
comunque a favore di una inchiesta internazionale.
L’ex-Alto Rappresentante riteneva falsa l’accusa
di Dick Marty che servizi segreti e leaders
occidentali fossero a conoscenza del traffico di organi alla fine degli Anni
Novanta:
“Anche
io sono stato accusato di esserne al corrente ma non ne sapevo nulla. Se avessi
saputo avrei premuto perché fossero avviate delle indagini. Ho sentito parlare
del traffico di organi, per la prima volta, nel 2008, quando l’ex-procuratrice
Carla Del Ponte ne aveva scritto nel suo libro e ne ero rimasto molto sorpreso.”
“Dick
Marty è un pover’uomo. Nei Balcani ci siamo sempre battuti contro il crimine
organizzato, abbiamo sempre operato nel nome della giustizia. Non mi devo
difendere da alcuna accusa. Chi è Dick Marty? Non lo conosco. Fa parte del
Consiglio d’Europa e come tale va rispettato. Lo rispetto, ho letto il suo
rapporto ma sono scettico. E devo dire di non aver mai incontrato Marty in
Kosovo.”
Riguardo all’ex-Premier del Kosovo Hashim Thaci, Kouchner era stato prudente:
“Non
sono in grado di giudicare il suo operato. È un politico che rispetto. Il
fattore importante è che la pace venga mantenuta in una regione dove la
Comunità Internazionale ha investito sforzi e denaro. Ritengo che i leaders
occidentali non debbano sentirsi a disagio all’idea di incontrare Thaci, perché
lui non è un ostacolo. Neppure le accuse che pesano su di lui devono essere un
ostacolo.”
In
questa famosa fotografia, cinque personalità giurano, nel mese di settembre del
1999, di portare il Kosovo verso l’indipendenza. A sinistra, si riconosce
Hashim Thachi [allora leader dell’UCK], Bernard Kouchner [allora Alto
Rappresentante delle Nazioni Unite in Kosovo], Sir Mike Jackson [ex-comandante
delle truppe britanniche nel massacro del Bloody
Sunday, in Irlanda, allora comandante delle forze di occupazione della NATO], Agim Ceku [comandante dell’UCK, accusato di crimini di guerra dall’esercito
canadese e dalla Serbia] e a destra, il generale Wesley Clark [allora
comandante supremo della NATO].
Una
foto nell’album di famiglia della NATO
che qualcuno a Bruxelles, oggi, pensa sarebbe stato meglio non venisse, mai,
scattata.
Prima
dell’inizio della guerra Hashim Thaci, nome di battaglia Gjarper, che in
albanese significa serpente, parlava, già, dell’UCK come della fanteria della NATO.
Fino a sostenere che la NATO era “l’aviazione dell’UCK”. Dietro le sue
parole non vi era solo la protervia del capo di un approssimativo esercito che
per tutti i 78 giorni dei bombardamenti aerei sulla Jugoslavia, scacciato dal
Kosovo, è rimasto, timidamente, arroccato in territorio albanese, riuscendo a
penetrare di neppure due chilometri in territorio kosovaro e che quando lo ha
fatto, si è visto bombardare da “fuoco amico”, da quella che considerava la
propria aviazione, i caccia della NATO.
Thaci
non è stato solo il leader di una
formazione terroristica musulmana che ha scatenato la guerriglia contro un
potere costituito, giustiziando centinaia di kosovari-albanesi considerati “collaborazionisti”»
e non è stato neppure solo il fiduciario di una ben collaudata organizzazione
di narcotrafficanti, Thaci è stato, soprattutto, la pedina mediatica di un
abile gioco internazionale, che ha visto il mondo intero intervenire in suo
favore ma con la convinzione di promuovere una “guerra umanitaria” in favore
del suo Popolo. E per dieci anni, pur di mantenere il suo potere, Thaci è stato
disposto ad accettare un pur blando protettorato della NATO, ricevendone in cambio la possibilità di continuare a essere
il padrone assoluto di un Paese, il Kosovo, e divenendo, al contempo, il
principale alimentatore dei valori più retrivi: l’odio, il razzismo, la
protervia, la violenza elevata a unica componente della politica.
Dove finiscono le armi quando finiscono le guerre?
Tutto ha origine quando l’Unione Sovietica inizia a
dismettere gli arsenali e la preoccupazione di una Terza Guerra Mondiale viene
meno.
I Balcani costituiscono, da sempre, un’area molto
appetibile per i mercanti di armi: guerre continue, sia pure di portata
regionale, a causa della forte compresenza di diverse etnie e religioni.
Il 23 Dicembre 1990 – data dell’esito positivo del Referendum popolare sull’indipendenza
della Slovenia – inizia la disgregazione della Repubblica Socialista Federale
di Jugoslavia [Socijalistička Federativna
Republika Jugoslavija, SFRJ].
Da quel momento, i maggiori Stati produttori e
venditori di armi iniziano a “farsi i loro affari”, anche se favorevoli alla Risoluzione 713
[http://www.un.org/fr/documents/view_doc.asp?symbol=S/RES/713[1991]],
adottata, il 25 settembre 1991, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che decretava l’embargo generale
sulle armi e sull’equipaggiamento militare contro l’intera Federazione
Jugoslava e invitava il Segretario Generale Javier Pérez de Cuéllar a offrire
la propria assistenza per sostenere lo sforzo negoziale condotto dalla Comunità
Europea nell’ambito della Conferenza dell’Aia.
La Serbia ha il triste primato di tumori in Europa.
E la NATO
potrebbe andare a processo per le bombe all’Uranio
Impoverito.
Se vi è proprio una cosa che non comprendo è il
clima di indifferenza di fronte a questa distruzione irreversibile di ogni vita
sulla Terra!
E in quale sofferenza!
Ehemalige Anführer der kosovarischen Miliz UÇK müssen
sich in Den Haag verantworten
Alte Garde vor Gericht
In Den Haag hat der Kriegsverbrecherprozess gegen den
2020 zurückgetretenen Präsidenten des Kosovo, Hashim Thaçi, und weitere
ehemalige Führungsmitglieder der Guerilla UÇK begonnen. Diese wurde zur Tatzeit
von der Nato unterstützt. [https://jungle.world/artikel/2023/15/alte-garde-vor-gericht].
Pristina, 2016: il Vicepresidente americano
Joe Biden e Hashim Thaci.
Pristina
2013: il Presidente americano Barack Obama, Hashim Thaci e Michelle Obama.
Unione Europea 2019: Hashim Thaçi e il Vicepresidente
della Commissione Europea Federica Mogherini.
Città
del Vaticano, 2017: Papa Francesco e Hashim Thaci.
Pristina, 2019: Bill Clinton, Madeleine Albright e Hashim
Thaci.
Nel rapporto, redatto per il Consiglio d’Europa, nel dicembre del
2010, Dick Marty accusò Hashim Thaci, ex-leader
dell’Esercito di liberazione del Kosovo
[UCK] ed ex-Primo Ministro del Kosovo, di essere stato alla testa di una
rete mafiosa di traffico di organi. Il rapporto stabilisce un legame tra questo
traffico, organizzato dai combattenti dell’UCK
su prigionieri serbi, e il Caso Medicus,
sopravvenuto anni più tardi e che ha visto la condanna, nell’aprile del 2013,
di cinque medici per traffico internazionale di organi [https://www.youtube.com/watch?v=qFboznsjfas].
Furono le accuse mosse da Carla Del Ponte
nel suo libro, La Caccia, che condussero a una inchiesta del Consiglio d’Europa, di cui fu incaricato
Dick Marty. Nel suo libro, Carla Del Ponte cita, infatti, i testimoni che
denunciarono l’espianto di organi su 300 serbi, deportati dal Kosovo nel Nord
dell’Albania.
Secondo Marty, il traffico sarebbe, prima,
avvenuto con prigionieri catturati e uccisi dall’UCK e, poi, continuato nella Clinica Medicus con donatori viventi
provenienti da Paesi poveri europei e asiatici.
Al termine della guerra, erano stati i
soldati tedeschi della KFOR, la
missione NATO in Kosovo, a
controllare l’area di Hashim Thaci. E proprio due eurodeputati tedeschi, Bernd
Posselt e Doris Pack, attaccarono il rapporto del Consiglio d’Europa, in cui
Dick Marty denunciava un traffico di organi in Kosovo.
I ricercatori di Key Rockefeller e Johns
Hopkins, coinvolti negli esperimenti in Guatemala, erano anche dietro gli
esperimenti di Tuskegee, in cui 600 mezzadri afroamericani impoveriti non
furono, mai, informati di avere la sifilide e ricevettero placebo anziché cure.
Nel 1997,
quando, tra l’altro, venne trasmesso il primo e unico film sulla vicenda [https://www.imdb.com/title/tt0119679/?ref_=ttpl_pl_tt] il Governo
statunitense, nella persona del Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, si è
scusato formalmente con le vittime, durante una cerimonia alla Casa Bianca,
dove erano presenti 5 delle 8 persone ancora in vita:
“Uomini poveri e afroamericani, senza risorse e con
poche alternative, credevano di aver trovato speranza quando gli era stata
offerta assistenza medica gratuita dal Servizio Sanitario Pubblico degli Stati
Uniti. Sono stati traditi.”
Nella prima metà del secolo scorso la
sifilide era la malattia sessualmente trasmissibile che preoccupava di
più. Non esistevano ancora cure molto efficaci contro l’infezione, e i
pochi trattamenti disponibili avevano, spesso, pesanti effetti collaterali.
Nel 1932, l’US Public Health Service [PHS] decise di condurre uno studio per
monitorare l’evoluzione della malattia nei maschi che non avevano, mai,
ricevuto trattamenti, e la scelta cadde, automaticamente, sulle comunità rurali
afroamericane presenti nel Sud del Paese, dove non solo la prevalenza della
sifilide era più alta, ma la povertà e la segregazioneimpedivano
che le persone ricevessero una normale assistenza sanitaria. Collaborava alla ricerca la Tuskegee University, un college
dell’Alabama riservato ai neri. Erano gli anni della Grande Depressione, e
nella Contea di Macon erano molti i mezzadri neri fortemente impoveriti. Dalla città di Tuskegee furono, quindi,
reclutati, con l’aiuto di un’infermiera di colore, Eunice Verdell Rivers Laurie, 399 maschi con una forma latente della
malattia e 201 sani come controllo. A
questi uomini non fu spiegato che facevano parte di un esperimento sulla
sifilide né in cosa consistesse la malattia, sapevano solo che sarebbero stati
curati gratuitamente dal bad blood, espressione
che, nel gergo locale, comprendeva non solo la sifilide, ma anche l’anemia
e l’affaticamento. Probabilmente,
a loro non parve vero di poter ricevere cure mediche gratuite da parte del
Governo, e per questo accettarono di partecipare allo studio. Non sapevano che
sarebbero divenute le “cavie” per quello che è stato definito “senza dubbio lo studio più infame della
ricerca biomedica nella Storia degli Stati Uniti”. Nel corso della durata
dell’esperimento, 40 lunghissimi anni, le “cavie” erano state invogliate a
proseguirlo perché ricevevano visite mediche gratuite, così come gli
spostamenti da casa alla clinica e viceversa e le terapie per i disturbi
collaterali. Avevano, anche, diritto a un pasto caldo nei giorni in cui erano
sottoposti a esami. I medici spacciavano come “ultima possibilità di un trattamento gratuito speciale” una
puntura lombare che, in realtà, serviva a prelevare un campione di fluido
spinale per cercare i segni della neurosifilide. Tutte le cure fornite ai
malati erano, in realtà, dei placebo,
e la morte era l’unico destino che aspettava quei pazienti curabili
semplicemente con un antibiotico. Nel corso degli anni, molti medici dello staff si dimisero dal loro incarico,
qualcuno avanzò considerazioni di carattere etico. Quella ricerca avrebbe
dovuto, inizialmente, osservare gli effetti della sifilide non curata, su
uomini afroamericani, per un periodo dai 6 ai 12 mesi. Dopo, i malati avrebbero
dovuto ricevere cure adeguate, quelle conosciute all’epoca per la lue, a base
di arsenico e mercurio. Peccato che, dopo pochi mesi di sperimentazione, i
fondi destinati allo studio venissero cancellati e le cure previste non
potessero più venire erogate. Nonostante questo il direttore del PHS, Taliaferro Clark, decise di
proseguire con l’esperimento, che avrebbe dovuto determinare gli effetti della
sifilide negli uomini afroamericani rispetto a quelli riscontrati in uomini di
razza bianca, che si basavano su dati di uno studio condotto in Norvegia, che
analizzava la storia clinica pregressa di pazienti in trattamento. Clark si dimise
prima dello scadere dei 12 mesi dall’inizio dell’esperimento, ma l’intero staff fu pronto a farsi carico di quella
responsabilità: nascondere la diagnosi, impedire alle “cavie” di accedere ai
programmi di cura comunque presenti in quel territorio e osservare la
progressione della lue fino alla morte in soggetti umani non curati. Quegli
esseri umani andarono incontro a un destino orribile perché la sifilide porta
cecità, sordità, malattie cardiache e mentali, deterioramento osseo fino al
collasso del sistema nervoso e, quindi, la morte. Ma non solo, tutti quei
malati, non informati del loro stato di salute, infettarono le mogli [in 40
casi] e misero al mondo dei figli con sifilide congenita [in 19 casi].
Nel 1941, l’Esercito aveva arruolato e,
quindi, visitato, alcuni uomini di Tuskegee, ordinando loro di iniziare i
trattamenti antisifilide il prima possibile. Per non compromettere lo studio,
il PHS comunicò all’Esercito i nomi
dei 256 uomini perché non ricevessero terapie e l’Esercito acconsentì [https://www.jstor.org/stable/3561468?seq=1#page_scan_tab_contents].
Nel 1943, era stata, anche,
scoperta la Penicillina: il primo [e più famoso] antibiotico è anche oggi
il principale farmaco con cui è possibile curare la sifilide.
Con la fine della guerra era cominciata
la sua produzione in massa e gli uomini di Tuskgee avrebbero potuto essere
curati, ma si decise che l’esperimento dovesse continuare come stabilito.
Il dottor Thomas Parran Jr. scriveva nel suo rapporto
annuale al PHS, che quello studio
diveniva “più significativo ora che è stata introdotta una serie di metodi
rapidi e programmi di terapia per la sifilide”. Insomma quell’esperimento rappresentava l’ultima occasione per
studiare come la sifilide uccidesse un uomo non sottoposto a cure.
“I am utterly astounded by the fact that physicians
allow patients with a potentially fatal disease to remain untreatedwhen
effective therapy is available. If this is the case, then i suggest that the
united states public health service and those physicians associated with it
need to reevaluate their moral judgments in this regard.”
Il dottor Schatz non ricevette nessuna
risposta e la sua lettera fu archiviata negli schedari del Center
for Disease Control and Prevention [CDC],
con una nota della dottoressa Anne Q. Yobs, coautrice del report, che riportava questa spiegazione:
“This is the first letter of this type we have
received. I do not plan to answer this letter.”
L’anno seguente, il dottor Peter Buxtun
presentò i suoi dubbi al CDC, che
ribadì, con l’approvazione
delle diverse associazioni nazionali di medici, comprese quelle che
rappresentavano i medici afroamericani, la
necessità di ultimare lo studio, ovvero
fino alla morte di tutte le “cavie”.
Nel 1972, il dottor Buxtun,
che, per anni aveva tentato, invano, di cambiare le cose dall’interno,
decise, infine, di rivolgersi alla stampa.
Il 25 luglio 1972, la storia dell’esperimento
uscì sul Washington Star e, il giorno
dopo, era in prima pagina sul New York
Times. Dopo 40 anni, l’esperimento terminò, iniziarono le cause legali e il
lungo percorso per cercare di riparare l’enorme danno. Il bilancio finale
dell’esperimento è drammatico: 28 uomini morti di sifilide, ai quali si
devono aggiungere 100 decessi per complicazioni della malattia. Almeno 40
furono le donne infettate e 19 ibambini
già malati alla nascita. Non stupisce, quindi, che, nel 2006, sia stato
definito “senza
dubbio lo studio più infame della ricerca biomedica nella Storia degli Stati
Uniti” [https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1780164/]. Lo
studio è stato, anche, un fallimento dal punto di vista scientifico. Dopo
la guerra, molti dei soggetti sifilitici avevano ricevuto dosi di
penicillina e altri antibiotici nel corso di trattamenti per altre infezioni. Anche se non avevano ricevuto
un’appropriata terapia, questo bastava per invalidare l’esperimento.
Due anni prima che la storia diventasse
pubblica il dottor James B. Lucas del CDC
aveva dichiarato:
Il Governo degli Stati Uniti, attraverso le sue
organizzazioni di sanità pubblica, ha infranto le sue stesse leggi e condotto
esperimenti medici su cittadini ignari. Le firme e i timbri di molti dirigenti
sono là a dimostrare che tutti sapevano e approvavano.
Dei 399 malati ne rimasero in vita solo 74.
Il PHS non
si è, mai, scusato né con i sopravvissuti né con le famiglie delle “cavie”.
Non lo ha fatto neppure l’infermiera di colore Eunice Verdell
Rivers Laurie, l’unica dello staff a
partecipare all’esperimento per tutta la sua durata. Il suo ruolo era stato
fondamentale per mantenere i contatti con la comunità nera e per carpire la
fiducia degli afroamericani coinvolti. Nel 1975, ricevette, perfino, un
riconoscimento dal Tuskegee Institute
per i suoi “vari e straordinari contributi alla professione infermieristica,
che hanno dato lustro al Tuskegee Institute”.
“Bad
Blood”: Nurse Eunice Rivers & The Tuskegee Experiment
“Centinaia
di persone infettate con la sifilide e la gonorrea. Bambini presi dagli
orfanatrofi e usati come cavie. Prostitute accoppiate ai detenuti per
trasmettere il virus. Malati di mente infettati senza saperlo. Uno “studio”
pagato dal servizio sanitario degli Stati Uniti e condotto naturalmente a
migliaia di chilometri da casa: nel Guatemala allora posseduto e controllato
dalla potentissima United Fruit Company, la multinazionale USA che verrà
ribattezzata Chiquita, e quindi perfetta “repubblica delle banane” dove avviare
in gran segreto gli esperimenti. La pagina più vergognosa nella storia della
medicina americana è stata svelata da Susan M. Reverby, una ricercatrice del
Wellesley College. Un racconto dell’orrore che ha costretto il Segretario di
Stato, Hillary Clinton, e il Ministro della Sanità, Kathleen Sebelius, a
chiedere “profondamente scusa per queste pratiche abominevoli: lo studio della
trasmissione delle malattie sessuali condotto in Guatemala dal 1946 al 1948 è
eticamente inaccettabile. […] Fu proprio Cutler a coordinare gli esperimenti
che, riconosceva lui stesso, “non si potrebbero mai condurre in America,
scegliendo – scrive Reverby “il solito quartetto di pazienti disponibili e
sotto costrizione: prigionieri del penitenziario nazionale, detenuti dell’unico
ospedale mentale del Guatemala, bambini dell’orfanotrofio pubblico e soldati
nelle caserme della capitale”. Tutti ovviamente ignari degli esperimenti,
spacciati per cure ordinarie. In cambio, gli USA ripagarono l’ospedale
criminale guatemalteco “con medicinali, un frigorifero, un proiettore per l’unica
sala ricreativa per i detenuti, tazze di metallo, piatti e forchette”: come ai
tempi dei nativi, comprati dai Conquistadores con le perline. L’infezione fu
programmata in due tempi. Prima si tentò con le prostitute [infettando anche
quelle sane]. Ma la trasmissione via sessuale era troppo lenta e così si passò
all’infezione diretta: anche nel pene. Gli esperimenti non portarono neppure a
una conclusione e furono abbandonati dopo 2 anni. Le 700 cavie furono lasciate
al loro destino: una su 3 senza cure.” [Cavie umane per la sifilide 60 anni
dopo l’America si scusa, la Repubblica, 2 ottobre 2010, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/10/02/cavie-umane-per-la-sifilide-60-anni.html]
Negli
Anni Quaranta, 750 vittime intentarono una causa da 1 miliardo di dollari
contro la Rockefeller Foundation, il Johns Hopkins Hospital, la Johns Hopkins University, la Johns Hopkins University School of Medicine,
la Johns Hopkins Bloomberg School of
Public Health, e la Johns Hopkins
Health System Corporation, sostenendo di essere stati la forza trainante
degli esperimenti umani di quegli anni, in cui esseri umani vulnerabili erano
stati, intenzionalmente, esposti alla sifilide, alla gonorrea e ad altre
malattie veneree, senza il loro consenso informato. Gli esperimenti erano
rivolti a bambini in età scolare, orfani, pazienti di ospedali psichiatrici,
detenuti e militari di leva. Fu la professoressa Susan Mokotoff Reverby del Wellesley College a scoprire la
documentazione di questi esperimenti, nel 2005, mentre svolgeva ricerche sullo
studio di Tuskegee sulla sifilide, all’interno degli archivi di Cutler, e a
condividere la scoperta con i funzionari del Governo degli Stati Uniti.
“Il
filo che lega i due esperimenti si chiama John C. Cutler, un luminare del suo
campo, l’esperto di malattie sessuali che fino alla sua morte, nel 2003, ha
strenuamente giustificato, nel nome della scienza, gli orrori di Tuskegee.”
John Charles Cutler, medico dell’United States Public Health Service,
guidò gli esperimenti per, poi, partecipare anche alle fasi finali dello studio
sulla sifilide di Tuskegee.
L’ex-direttore
del National Institutes of Health,
Francis Collins, ha definito gli esperimenti “un nero capitolo della Storia
della Medicina” e ha rilevato che le regole attuali proibiscono la
sperimentazione su soggetti umani senza il consenso informato. Come risulta
dagli archivi, Thomas Parran Jr., il dirigente del Surgeon Generalall’epoca dei fatti, riferiva che molti
dei dettagli degli esperimenti erano stati tenuti nascosti alle autorità
guatemalteche, ma che vi era stata cooperazione e consenso da parte di alcuni
livelli del Governo del Guatemala. Gli esperimenti furono finanziati dal National Institutes of Health attraverso
il Pan American Sanitary Bureau. Circa 1500 “cavie” furono coinvolte
negli esperimenti, ma i risultati non furono mai pubblicati.
Il primo ottobre 2010, l’allora Presidente
statunitense Barack Obama doveva ripetere scuse simili a quelle presentate alle
vittime afroamericane di Tuskegee [https://www.reuters.com/article/us-usa-guatemala-experiment-idUSTRE6903RZ20101001]
dall’ex-Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, al Presidente guatemalteco
Alvaro Colom per l’esperimento altrettanto inumano condotto, tra
il 1946 e il 1948, sempre dall’US
Public Health Service. E, in una dichiarazione congiunta, si scusarono anche
l’allora Segretario di Stato Hillary Rodham Clinton e l’allora Segretario dei
Servizi Umani Kathleen Sebelius:
“Nonostante
questi eventi siano accaduti più di 64 anni fa, siamo indignate che queste
biasimevoli ricerche siano state condotte sotto le spoglie della sanità
pubblica. Ci rammarichiamo profondamente che questo sia successo, e ci scusiamo
con tutti coloro che sono stati colpiti da tali aberranti ricerche. La condotta
mostrata durante tali ricerche non rappresenta i valori degli Stati Uniti, o i
nostri sforzi per la promozione della dignità umana e il grande rispetto verso
il Popolo del Guatemala.”
Anche in questo caso sofferenza, morte ed
esseri umani consapevolmente abbandonati al loro destino in nome di un
improbabile esperimento senza logica né vantaggi per la popolazione.
A questo punto viene da
chiedersi: quante volte deve sbagliare l’uomo prima di fermarsi?
Come viene condotta una sperimentazione
medica lo spiega il testamento morale dell’omonimo processo: il Codice di Norimberga del 1947,
considerato il documento più importante nella storia dell’etica della ricerca
che detta le regole e i confini etici della sperimentazione sull’essere umano.
Il Codice di Norimberga scaturì,
infatti, dal
primo dei 12 processi secondari che, a Norimberga, seguirono il dibattimento
principale del 1945 ai 24 più importanti criminali nazisti, da Göring a Hess, a
Ribbentrop: il Doctor Trial [1946-1947].
Al termine del processo ai medici nazisti [https://www.youtube.com/watch?v=RUszcgHBW8Y], i giudici incorporarono nella sentenza,
a garanzia dei diritti delle persone sottoposte a sperimentazione clinica, un
codice, che prese il nome di Codice di
Norimberga e rappresentava il primo strumento giuridico internazionale di
regolamentazione sulla sperimentazione umana. Nel codice si stabilisce che la
persona sottoposta a ricerca clinica debba essere informata sulle modalità, gli
scopi e i rischi prevedibili. Si stabilisce, altresì, che sia “assolutamente essenziale” il consenso
libero e volontario di chi è sottoposto a sperimentazione [articolo 1], che “l’esperimento dovrà essere condotto in modo
tale da evitare ogni sofferenza o lesione fisica e mentale che non sia
necessaria [articolo 4]” e “dovrà
essere tale da fornire risultati utili al bene della società [articolo 2]” [http://bioetica.unicam.it/documenti.asp].
Dei 23 nazisti a processo tra dottori e
amministratori tutti, incredibilmente, si dichiararono “non colpevoli”. Dopo
avere esaminato 1.471 documenti e ascoltato 85 testimoni, il processo vide la
sua conclusione il 20 agosto 1947.
La maggior parte degli imputati fu
condannata all’ergastolo o all’impiccagione.
Al processo vi era un grande assente:
Josef Mengele, “il dottor Morte”, “l’Angelo della Morte”, epiteti quanto mai
appropriati. Le sue vittime preferite erano i gemelli, l’ultima dei quali, Eva
Mozes Kor, è morta il 4 luglio 2019.
Nel 1999, Eva Mozes Kor [Una vittima dei
nazisti contro la Bayer, la Repubblica, 20 febbraio 1999,https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/02/20/una-vittima-dei-nazisti-contro-la-bayer.html], sopravvissuta agli esperimenti condotti
su 1500 coppie di gemelli ad Auschwitz da Joseph Mengele, aveva intentato causa
al colosso farmaceutico tedesco Bayer,
che, durante il nazismo, faceva parte del complesso industriale chimico
farmaceutico nazista Ig Farben.
“Dopo
54 anni, è arrivato per la Bayer il momento di assumersi le responsabilità
delle sue azioni.”
Dai suoi racconti emerge l’orrore di
questi bambini, letteralmente strappati ai propri genitori e sottoposti a
esperimenti di ogni sorta, spesso causa di morte. Eva Mozes Kor aveva 9 anni
quando insieme alla sorella gemella Miriam fu internata ad Auschwitz. Vi rimase
9 mesi fino alla liberazione da parte dei sovietici, nel gennaio del 1945.
Quel campo, quel pezzo d’Europa
fu, infatti, liberato dai sovietici, ma un Oscar val bene una revisione storica
della Seconda Guerra Mondiale!
Eva Mozes Kor accusava di essere stata,
volutamente, contagiata con varie malattie per provare l’efficacia di
medicinali della Bayer.
La società ammise di avere approfittato
della sperimentazione “gratuita”, fornita dai prigionieri di guerra dei
tedeschi, e contribuì a un fondo per i risarcimenti alle vittime pari a 3mila
miliardi di vecchie lire, voluto dal Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.
Nel 2003, un’altra sopravvissuta, Zoe
Polanska Pagner intentò causa alla Bayer,
in risarcimento dei gravi danni alla salute subiti a causa degli esperimenti
condotti su di lei da 2 medici, il dottor Victor Capesius e il dottor Helmut
Vetter, che, all’epoca, lavoravano per la Bayer.
“Le grandi
aziende farmaceutiche tedesche usarono gli esperimenti criminali del famigerato
dottor Mengele sui detenuti di Auschwitz per la loro ricerca scientifica.
L’accusa viene da una anziana sopravvissuta, Zoe Polanska Pagner, che oggi vive
ultrasettantenne in Scozia, ed è stata intervistata ieri dalla BBC. La signora
Pagner ha fatto causa alla Bayer, la casa produttrice dell’aspirina, per
chiedere un risarcimento dei gravi danni alla salute subiti a causa degli
esperimenti condotti su di lei. I presunti colpevoli sono due medici, il dottor
Victor Capesius e il dottor Helmut Vetter. Entrambi lavoravano allora per la
Bayer, che durante il nazismo faceva parte del complesso Ig Farben, l’azienda
che sviluppò e produsse il Zyklone-B, cioè il gas usato dai nazisti per l’Olocausto.”
[Accuse alla
Bayer usò le vittime di Mengele, la Repubblica, 22 agosto 2003, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/08/22/accuse-alla-bayer-uso-le-vittime-di.html].
Miriam
Ziegler, Paula Lebovics, Gabor Hirsch, ed Eva Mozes Kor.
“[…] Nel 1959 alcuni studi europei evidenziarono
possibili effetti neuropatologici correlati all’uso di Talidomide, nello stesso
anno la dottoressa Frances Kelsey, farmacologa in servizio presso il Food and
Drug Administration [FDA] responsabile per la sicurezza dei farmaci, sulla base
di quei primi studi e nonostante le pressioni della casa farmaceutica diniegò
la licenza di commercializzazione del farmaco negli USA.
Questo fu il primo campanello di allarme e anche il
primo effetto collaterale individuato nel farmaco, nonostante questo la
campagna di marketing proseguì a ritmi sostenuti, e per placare i dubbi di
ricercatori e scienziati la Chemie Grünenthal commissionò uno studio ai suoi
collaboratori Kunz e Blasiu, che con ricerche malcondotte e scarsamente
dettagliate non evidenziarono effetti collaterali degni di nota.
Inutile sottolineare che la Chemie Grünenthal, non
analizzò tutti i possibili effetti collaterali, nonostante già a partire dagli
Anni Cinquanta un illustre embriopatologo, il dottor Willis allertasse nei suoi
scritti sull’impiego di farmaci in gravidanza e ponesse in evidenza la
correlazione tra l’uso di alcuni farmaci durante la gravidanza e possibili
danni sull’embrione. Il “principio di precauzione” invocato da Willis fu
completamente disatteso.
Intanto nel 1960 per la prima volta venne
documentata la registrazione di 2 casi clinici con difetti congeniti agli arti,
i 2 casi furono presentati al Congresso Pediatrico Nazionale in Germania che si
tenne nel 1961. Fu in quella sede che il professor [Widukind] Lenz suggerì che
tali malformazioni erano ascrivibili all’uso di Talidomide in gravidanza ed
iniziò i suoi studi.
Nel 1961, 2 rapporti indipendenti, uno del dottor
Lenz che documentò i casi in Germania e l’altro del dottor [William] McBride in
Australia, trassero analoghe conclusioni, confermando che l’assunzione di
Talidomide in gravidanza, commercializzato come farmaco antiemetico efficace
per la cura del morning sickness [nausea in gravidanza] era la causa delle
molteplici anomalie congenite osservate negli studi.
Nel maggio del 1961, la Chemie Grünenthal modificò
le scritte sulla confezione del farmaco introducendo tra i possibili effetti
collaterali, in caso di uso prolungato, l’insorgenza di neuropatie.
Nel novembre del 1961, il talidomide venne infine
ritirato dal mercato tedesco e da allora il numero di nascite con anomaile
congenite diminuì drasticamente anche se in alcuni Paesi, purtroppo per scarsa
informazione e/o per dolo, le scorte di farmaco furono vendute ancora per alcuni
anni, nonostante gli annunci ed i ritiri da parte delle Autorità Sanitarie.
Le intuizioni della dottor Kelsey vennero così
tristemente confermate e lei, premiata nel 1962 dal Presidente John F. Kennedy
per il merito di avere evitato che la tragedia del talidomide si potesse
verificare negli Stati Uniti, anche se a un gruppo esiguo di medici nonostante
non era approvato dalla FDA lo utilizzò ugualmente. La farmacologa ricoprì da
allora un ruolo strategico nella definizione di emendamenti di legge e nella
nascita della riforma sui farmaci. […]” [https://www.vittimetalidomideitalia.it/la-nostra-storia/]
Commercializzato
fin dal 1957 questo principio attivo si dimostrò responsabile di gravissime
malformazioni in migliaia di neonati. La Chemie
Grunenthal, pur informata da rapporti medici interni piuttosto negativi,
commercializzò, in varie forme, medicinali contenenti talidomide, tra il
novembre 1956 e l’ottobre 1957. Con l’ampliarsi dell’uso, come sedativo e
contro la nausea delle gestanti, cominciarono a essere noti “effetti
collaterali” negativi, in particolare nevriti e malformazioni nei neonati. Ma
la campagna pubblicitaria della Chemie
Grünenthal fu martellante, sia sui medici sia sui farmacisti. Il successo
presso i medici fu tale che altre imprese farmaceutiche chiesero e ottennero la
licenza per la produzione di medicinali con il talidomide. I rapporti
sfavorevoli e preoccupati dei medici crebbero di numero nel 1959 e 1960, con un
costante atteggiamento negativo da parte dell’impresa produttrice – cosa “comprensibile”
in termini di profitto, dato che, nel maggio del 1960, circa la metà del
fatturato era collegato a prodotti con talidomide.
Mancavano, in
particolare, i dati che indicavano se il farmaco potesse attraversare la
placenta, che fornisce nutrimento al feto. Fu solo nel novembre del 1961, a un
congresso di pediatria a Düsseldorf, che si iniziò a collegare l’uso del talidomide
con la crescita esplosiva dei casi di focomelia. Anche di fronte a queste nuove
prove la Chemie Grünenthal si rifiutò
di ritirare il prodotto, ma, il 26 novembre 1961, nell’edizione domenicale il
diffusissimo giornale conservatore Welt
am Sonntag con un articolo dal titolo: Malformazioni
causate da pillole – allarmante sospetto di un medico nei confronti di un
farmaco distribuito in tutto il Mondo, cui seguiva una puntualizzazione e
una richiesta, rompeva il muro di silenzio:
Il 27 novembre
1961, il medicinale incriminato veniva ritirato dal commercio sul mercato
tedesco; seguirono prima della fine dell’anno Gran Bretagna e Svezia. In
Italia, il Ministro della Sanità, il democristiano Angelo Raffaele Jervolino,
padre del pluriministro democristiano Rosa Russo Jervolino, si mosse con 10
mesi di colpevole ritardo, nel settembre del 1962.
“Il farmaco, disponibile senza obbligo di ricetta,
ufficialmente iniziò a circolare e ad essere prodotto anche in Italia nel 1958
ma, nel 1961, il pediatra tedesco Lenz e l’ostetrico australiano McBride
dimostrarono un legame fra gravi difetti alla nascita e l’assunzione in
gravidanza del talidomide. Per tale ragione, nel dicembre 1961, il farmaco
venne ritirato con urgenza dalle farmacie. In Italia il Ministero della Sanità
ne ordinò il divieto di produzione e commercio soltanto nel 1962 [Gazzetta Ufficiale n. 186/1962], con
6 mesi di ritardo rispetto agli altri Paesi; l’assunzione di talidomide in
gravidanza causò un enorme aumento di difetti alla nascita come riduzione degli
arti, spesso bilaterali e quasi sempre con asimmetrie anche molto evidenti.
Stando a quanto si apprende, sarebbero più di 20mila i bambini in oltre 50
Paesi nati con gravi deformità. In Italia è mancato un censimento dei casi, ma sembrerebbe
che fra il maggio 1959 e il settembre 1962, nei reparti di ostetricia dei
principali ospedali milanesi sia stata accertata una frequenza di 4 nati ogni
10mila per i casi di focomelia o analoghi, a fronte di nessun caso paragonabile
negli anni precedenti.” [http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=18&id=1084419].
Negli anni
successivi, tuttavia, tali farmaci continuarono a circolare. Nella pubblicità
se ne sottolineava la “completa atossicità”, basata sostanzialmente sull’osservazione
che le cavie di laboratorio sopravvivevano anche a elevate quantità di farmaco
iniettate loro con una sola dose. In una circolare inviata a tutti i medici
professionisti, nella primavera del 1959, si poteva leggere:
“Anche con dosi eccessive e un consumo prolungato l’efficacia
del farmaco non è ridotta da effetti collaterali indesiderati.”
Soltanto dopo
la sciagura le sperimentazioni sugli animali registrarono parti focomelici in
una delle centinaia di razze di coniglio sottoposte a dosi tra 25 e 300 volte
superiori a quella per l’uomo. L’asserzione del pediatra tedesco, basata su un
riscontro con centinaia di casi, era rimasta ignorata per 5 anni. A quel punto,
nel 1962, erano nati complessivamente oltre 10mila bambini focomelici.
Dal 1962 fino
al 2009, le nostre istituzioni sono state in silenzio. Solo il 5 ottobre 2009,
lo Stato italiano ha riconosciuto una indennità mensile alle vittime del Talidomide
nate tra il 1959 e il 1965 [https://www.salute.gov.it/portale/ministro/p4_8_0.jsp?label=servizionline&idMat=ASS&idAmb=IND&idSrv=L244T&flag=P] e, il 5
novembre 2009, circa 50 anni dopo il ritiro del farmaco, il Ministero del
Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali emanava una circolare contenente
le linee guida per l’istruttoria delle domande di indennizzo dei soggetti affetti
da sindrome da talidomide nati dal 1959 al 1965 [G.U. Serie Generale n. 265 del
13 novembre 2009].
Sul sito-web
dell’AIFA si legge:
“Il Talidomide è un farmaco con proprietà
ipnotico-sedative commercializzato per la prima volta in Germania nel 1956 per
la terapia dell’influenza, e successivamente, in 46 Paesi, per la terapia dell’insonnia.
Fu inoltre ampiamente utilizzato in donne in gravidanza nella terapia delle
nausee mattutine grazie anche a una pubblicità che sottolineava la “sicurezza”
del prodotto. I test preclinici su roditori ed i trial clinici non avevano
infatti evidenziato effetti collaterali. La vendita di talidomide incrementò
drasticamente in pochi anni e, entro il 1960, solo in Germania vennero prodotte
circa 15 tonnellate di farmaco. In USA il talidomide non ottenne l’autorizzazione
all’immissione in commercio per una presunta associazione tra il farmaco e lo
sviluppo di neuropatie periferiche. Fin dall’inizio degli Anni Sessanta si
osservò un incremento di neonati con malformazioni congenite degli arti e fu
ipotizzata una correlazione con l’assunzione materna di talidomide in corso di
gravidanza. Il farmaco venne pertanto ritirato dal commercio nel 1961; l’incidenza
di malformazioni degli arti è ritornata nei limiti dopo il ritiro dal commercio,
confermando l’effetto teratogeno del talidomide.
Questa vicenda favorì negli Stati Uniti prima, e in
Europa e in Giappone poi, la nascita di leggi che promossero la corretta
sperimentazione dei medicinali. A questo episodio si deve inoltre nella pratica
la nascita della Farmacovigilanza, l’insieme delle attività volte all’individuazione,
valutazione e prevenzione di effetti avversi o altri problemi correlati all’utilizzo
dei farmaci. La Farmacovigilanza ha l’obiettivo di monitorare costantemente il
farmaco durante il suo impiego nella pratica clinica, con lo scopo di
individuare la comparsa di reazioni avverse e verificare gli effetti
terapeutici osservati nella sperimentazione clinica, confermandoli e/o
individuandone di nuovi.
La storia del talidomide ha dimostrato quanto sia
importante che ci sia un investimento della sanità pubblica sulla sicurezza dei
farmaci e che non basta l’autoregolamentazione del mercato. Insegna inoltre a
chi lavora nella valutazione dell’efficacia e della sicurezza dei farmaci che l’indipendenza
e lo spirito critico possono essere di enorme utilità per la salute delle
persone.” [https://www.aifa.gov.it/en/-/aifa-indice-un-concorso-di-idee-sul-caso-talidomide-e-sul-valore-della-farmacovigilanza].
Nel maggio del
1968, la Chemie Grünenthal aveva
dovuto comparire in un processo, il più lungo dopo quello di Norimberga ai
criminali nazisti, del quale tentò, in ogni modo, di evitare la conclusione e
la sentenza. Una così orrenda catastrofe si sarebbe compiuta e celata nel
pianto di migliaia di madri, ciascuna convinta di una propria singolare
sventura, se alcuni medici e legali non l’avessero portata a evidenza,
dimostrandone le cause e denunciandone le responsabilità.
A
Henning Sjoström e Robert Nilsson, autori del libro Thalidomide and the Power of the Drug Companies, e alla parte
migliore della Stampa straniera si deve se la tragedia del talidomide ha avuto
fine e dovrebbe insegnare a evitarne di analoghe. Ma contro di loro si
schierarono, a suo tempo, l’establishment
medico, abituato a compiacere l’industria farmaceutica e il potere di questa.
La Chemie Grünenthal non lasciò nulla di
intentato per nascondere la verità, acquisire il silenzio di chi la conosceva,
intimidire l’onestà di chi la dichiarava. Il suo ufficio legale arrivò ad
assumere un detective per indagare
sulla vita privata e le inclinazioni politiche dei medici che avevano criticato
gli effetti tossici del talidomide.
“Il padre del dottor B. è un ex-comunista.”,
è scritto in
uno dei rapporti di questo detective.
È giusto ricordare tutto ciò per dire subito che gli autori di questo libro
sono anche valorosi protagonisti di quella vicenda.
I capi di
accusa erano omicidio plurimo colposo nei casi di decesso per le gravissime
malformazioni fatali; negligenza nei tests
clinici, lesioni e danni fisici plurimi e aggravati. Tra i primi imputati l’ex-medico
nazista Heinrich Muckter e il titolare della Chemie Grünenthal, Hermann Wirtz. Hermann Wirtz usò la scusa dell’età
avanzata e della salute precaria per non presentarsi in aula, generando
profondo sdegno nell’opinione pubblica e mondiale che seguiva il caso dalla
televisione e dai giornali. Ancora più scandalosi furono gli esiti dell’iter
processuale, terminato, nel 1970, con un compromesso tra la Corte tedesca e la
casa farmaceutica. La Chemie Grünenthal
avrebbe pagato risarcimenti per 100 milioni di marchi, meno di 30 milioni di
dollari, mentre ai responsabili non fu inflitto neppure un giorno di carcere.
Di fronte alla tragica massa di dolore creata dal talidomide non si può non
ritenere indecente il fatto che la Chemie
Grünenthal si presenti in rete come “esperta
di medicinali per la cura del dolore e in ginecologia”.
Nel 2009, nuovi
fatti vennero alla luce, tingendo la storia di un alone ancora più inquietante.
Martin Johnson, direttore del Thalidomide
Trust, aveva scoperto che la molecola era stata sviluppata da un team di
scienziati del Drittes Reich, guidato
da Otto Ambros, come antidoto al gas Sarin e sperimentata sui prigionieri dei
campi di concentramento nazisti.
“E ora appare sempre più probabile che il talidomide
è stato l’ultimo crimine di guerra dei nazisti [da qui il titolo del
documentario del 2014 diretto da David e Jacqui Morris: Attacking the Devil:
Harold Evans and the Last Nazi War Crime].”,
aveva
commentato Johnson.
L’argentino
Carlos De Napoli, autore di diversi libri sul nazismo, poté supportare tale
affermazione grazie al ritrovamento di una nota del 1944 di un dirigente della IG Farben
al medico personale di Adolf Hitler, che faceva riferimento allo sviluppo di
una sostanza chimica con la stessa formula del talidomide.
Nel settembre
del 2012, a Stolberg, nella regione della Renania Settentrionale-Vestfalia,
Harald Stock, Direttore Esecutivo del Grünenthal Group, ha chiesto,
pubblicamente, scusa alle vittime e alle loro famiglie, nel corso di una
cerimonia commemorativa dei bambini che avevano subito gli effetti collaterali
del Talidomide. Stock si era rivolto alle vittime e alle loro famiglie,
precisando anche di essere consapevole che le scuse arrivassero con troppo
ritardo.
“Ci scusiamo per il fatto che non abbiamo
trovato modo di venire a scusarci con voi, uno per uno, per quasi 50 anni.
Siamo stati in silenzio, e ci scusiamo per questo. In parte questo silenzio è
dovuto allo shock che tutta la questione ha causato anche in noi.”,
aveva
commentato, aggiungendo, poi, che prima di mettere in commercio la sostanza erano
stati fatti tutti i tests possibili,
date le conoscenze scientifiche degli Anni Cinquanta.
Il tono più duro era venuto da Sir Harold Matthew Evans,
scomparso il 23 settembre 2020, che, dagli Anni Sessanta, aveva avviato una
vasta campagna dalle pagine del Sunday Times per far risarcire le
vittime del talidomide:
“Justice delayed is justice
denied. We know that too well. But how do you wrestle with your conscience when
the injustice you have perpetrated has destroyed the lives of children and left
thousands of thalidomide victims still enduring pain and suffering, without
adequate compensation? The German company Chemie Grünenthal, having denied
justice for 50 long years, has now unveiled a bronze statue of a child born
without limbs, and its chief executive, Harald Stock, says: “We ask for
forgiveness that for nearly 50 years we didn’t find a way of reaching to you
from human being to human being. Instead we remained silent.”
Actually, Chemie Grünenthal
remains silent still on adjusting compensation for inflation and the dreadful
effects on the victims – the men and women in adulthood, many now without
parental support.
CG did not just remain
silent. It brought forth the drug thalidomide on 1 October 1957, from very
murky origins indeed. It licensed its manufacture worldwide as a safe sleeping
drug for mothers in pregnancy. One of the licensees was the British whisky
company, Distillers, which put “Distaval” on the market as a tranquilliser in
April 1958 and marketed it until 1962. Chemie Grünenthal was reckless. It had
not tested the effect on pregnant women or animals to see if it could cross the
placental barrier. It ignored early warnings. The wife of one of its own
employees had given birth to a baby without ears 10 months before it puts its
poison on the market. It made no difference. Nor did warning signs of deformed
births and nerve damage from Australia.
It produced sales leaflets
for doctors stressing the drug’s safety. It engaged – bribed might be a better
word – compliant doctors who vouched for it though they did not know how it
worked. A testimonial appeared in the American Journal of Obstetrics and
Gynecology signed by Dr Ray Nulson Cincinnati, Ohio.
Eventually, he gave
evidence in Germany that he had not tested the drug on pregnant women at all
and was not even the author of the article. It had been written for him by an employee
of the renowned American company, Richardson-Merrell in Cincinnati, a CG
licensee. And the employee, like others around the world, had relied on Chemie
Grünenthal which had itself done no tests on the effect on a foetus.
And to crown this pyramid of
infamy none of the public authorities was curious enough to know how it all
happened. In Britain, thanks to Chemie Grünenthal’s connections with the
Ministry of Health, and a lazy press, fed pap by the ministry, the truth did
not come out. It would never have come out either had it been left to the legal
profession who dealt with the litigation the desperate families were forced to
start.
I well remember the
astonishment in the Sunday Times when the Insight team began opening three
suitcases containing CG’s own documents. They showed a reckless get-rich-quick
mentality yet the parents’ lawyers had allowed themselves to be convinced they
could not win 100% damages in court.
I have described some of
this in My Paper Chase, but what is new to me is the depth of iniquity exposed
by investigative work since, primarily by Jonathan Stone, a former solicitor
with Lord Goodman’s firm, Goodman Derrick, working with Roger Williams. Stone
has been a special adviser to the victims in various countries. He and Williams
trace the origins of thalidomide to murderous experiments in second world war
concentration camps and they name names. There is the Wirtz family, esteemed as
philanthropists in the German town of Stolberg, the sole owners of the company,
notorious for its pro-Nazi sympathies.
There is Heinrich Mückter
[1914-1987], responsible for the deaths of hundreds of prisoners in typhoid
experiments; there’s Otto Ambros [1901-1990], chairman of the supervisory
committee when thalidomide was developed; there’s Martin Staemmler [1890-1974],
who played a role in Nazi racial hygiene programmes; there’s the SS doctor
Ernst-Günther Schenck, who experimented with medicinal plants; there are the US
companies ready to forgive and forget in their postwar haste to get their hands
on the chemical expertise.
But decency requires me to
identify some heroes in the struggle for justice – the thalidomide victims, now
in middle age, who continue to fight for others: Freddie Astbury, president of Thalidomide UK, who describes the CG apology
without compensation as a disgrace; the Lords Jack Ashley and Alf Morris, who
fought so hard for the victims in their lifetimes, and Labour’s minister of
health, Mike O’Brien.
On 14 January 2010 O’Brien
made a dramatic announcement in parliament. He apologised to the victims and
their parents but he also committed the government to give £20m to the
Thalidomide Trust.
In the light of all this,
one can only repeat to CG the words of Joseph Welch examining Joe McCarthy: “Have
you no sense of decency, sir? At long last, have you left no sense of decency?”
Appare
sconvolgente che, nel marzo del 1969, sul numero 7 della rivista
scientifica Le Scienze, a pagina 11,
il professor Renato Balbi, docente di neurochimica, neurofarmacologia e
neurologia applicata all’Università di Napoli, scrivesse:
La Chemie Grünenthal, obnubilata dal profumo del denaro era passata
sopra ogni segnalazione di rischi connessi all’assunzione del talidomide [http://web.tiscali.it/nadir_ong/talinomide.htm].
Un ignominioso fil rouge
lega il presente al passato dell’industria del farmaco!
Presidente
Giorgia Meloni;
La vita
non è lineare. In genere, sicurezza e pericolo coesistono negli stessi oggetti
e negli stessi fatti. Nelle giuste o sbagliate condizioni, tutto ciò che è
essenziale alla nostra esistenza può trasformarsi in qualcosa di dannoso o
fatale: l’acqua può annegare, il cibo può avvelenare, l’aria può soffocare. I Bambini
nascono, mettendo a rischio la vita delle loro Madri, e divengono adulti,
dovendo affrontare innumerevoli rischi.
Per
molti, in particolare, per i benestanti e i benpensanti, l’instabilità è
sinonimo di cambiamento e il cambiamento non può che essere per il peggio.
La
massa ama la stabilità, Presidente.
Lo status quo, benché non abbia alcun
fondamento ideologico e non sia particolarmente meritevole di lode, è il risultato
dell’interazione tra forze sociali. Forze che la massa conosce e comprende.
Questo equilibrio soddisfa la massa, che non auspica nulla di meglio della
stabilità. La paura spinge, incessantemente, la massa a inventare o a esagerare
i rischi. La televisione ci mette, inoltre, prepotentemente, a confronto con
eventi che accadono a migliaia di chilometri di distanza. Sappiamo che, spesso,
considerata la crescente interdipendenza tra i Paesi, i problemi che
interessano una area del Mondo, possono coinvolgere rapidamente altre aree.
Tutto ciò genera confusione e suscita un atteggiamento distorto nelle nostre
menti. Nei salotti delle nostre case si riversano, ininterrottamente, problemi
sempre nuovi. Problemi così tangibili da divenire spaventosi, tuttavia,
abbastanza remoti da non richiedere un coinvolgimento effettivo e affettivo.
Nella
massa questo atteggiamento può essere giustificabile, nei politici NO!
Ho,
sempre, pensato che i proverbi siano una coacervo di frasi fatte, un florilegio
di luoghi comuni. E, tuttavia, ve ne è uno che gode di tutto il mio rispetto:
“Non vi è peggiore SORDOdi chi non vuole sentire!”,
Nel loro libro, George Bush: The Unauthorized
Biography, Webster G. Tarpley e Anton Chaitkin scrivono:
“In
October 1942, ten months after entering World War II, America was preparing its
first assault against Nazi military forces. Prescott Bush was managing partner
of Brown Brothers Harriman. His 18-year-old son George, the future U.S.
President, had just begun training to become a naval pilot. On Oct. 20, 1942,
the U.S. government ordered the seizure of Nazi German banking operations in
New York City which were being conducted by Prescott Bush.
Under
the Trading with the Enemy Act, the government took over the Union Banking
Corporation, in which Bush was a director. The U.S. Alien Property Custodian
seized Union Banking Corp.’s stock shares, all of which were owned by Prescott
Bush, E. Roland “Bunny” Harriman, three Nazi executives, and two other
associates of Bush.”
Un libro dello studioso statunitense Richard
Breitman ha messo in luce e denunciato l’indifferenza degli Stati Uniti nei
confronti della cosiddetta “soluzione finale”, che secondo l’autore, si sarebbe
potuta evitare. Il sottotitolo del libro di Breitman rimanda chiaramente a
responsabilità morali degli Alleati nello sterminio degli ebrei. Richard Breitman, docente di storia all’American University di Washington, ha
analizzato i documenti di guerra resi pubblici, nel 1996, dalla National Security Agency statunitense,
che li aveva ottenuti da Londra, nel 1984. Sulla base di questi documenti,
Breitman sostiene che il Governo della Gran Bretagna e quello degli Stati Uniti
fossero, perfettamente, al corrente di ciò che stesse accadendo in Polonia e in
altri luoghi.
Dal
1941, erano state intercettate e decriptate molte notizie sui massacri di
decine di migliaia di ebrei in Polonia, Lituania, Ucraina. Winston Churchill
venne a conoscenza di queste informazioni, che rimasero all’interno del SIS.
Fino
al 1942, sia gli inglesi sia gli americani non avrebbero denunciato alcuna
atrocità contro le minoranze e contro il popolo ebraico, ma avrebbero parlato,
in modo generico, di atrocità e violenze sulle popolazioni dei territori
occupati. All’inizio del 1943, la BBC
iniziò a parlare di “soluzione finale”, progettata dai nazisti contro gli ebrei
e presero a circolare descrizioni di ghetti e di campi di sterminio, e storie
di fucilazioni di massa.
Nel 2001, il giornale britannico The Guardian aveva riportato la notizia
di 2 sopravvissuti all’Olocausto, Kurt Julius Goldstein di 87 anni e Peter
Gingold di 85 anni, che avevano depositato una class action contro il Governo degli Stati Uniti e la famiglia
Bush:
“[...] Kurt Julius Goldstein, 87, and Peter Gingold, 85, began a class action in
America in 2001, but the case was thrown out by Judge Rosemary Collier on the
grounds that the government cannot be held liable under the principle of “state
sovereignty.”
Jan Lissmann, one of the lawyers for the survivors, said: “President Bush
withdrew President Bill Clinton’s signature from the treaty [that founded the
court] not only to protect Americans, but also to protect himself and his
family.”
Lissmann argues that genocide-related cases are covered by international
law, which does hold governments accountable for their actions. He claims the
ruling was invalid as no hearing took place.
In their claims, Mr Goldstein and Mr Gingold, honorary chairman of the
League of Anti-fascists, suggest the Americans were aware of what was happening
at Auschwitz and should have bombed the camp.
The lawyers also filed a motion in The Hague asking for an opinion on
whether state sovereignty is a valid reason for refusing to hear their case. A
ruling is expected within a month.
The petition to The Hague states: “From April 1944 on, the American Air
Force could have destroyed the camp with air raids, as well as the railway
bridges and railway lines from Hungary to Auschwitz. The murder of about
400,000 Hungarian Holocaust victims could have been prevented.”
The case is built around a January 22 1944 executive order signed by
President Franklin Roosevelt calling on the government to take all measures to
rescue the European Jews. The lawyers claim the order was ignored because of
pressure brought by a group of big American companies, including BBH, where
Prescott Bush was a director.
Sulla scia delle posizioni di Breitman si pongono le tesi di un altro
studioso e giornalista investigativo statunitense, Edwin Black. Se si uniscono le ricerche di Breitman a
quelle di Black, si comprende come gli anglo-americani non si siano limitati a
non contrastare direttamente i crimini nazisti contro le minoranze e gli ebrei,
ma abbiano collaborato, attivamente, con le autorità naziste ad attuare
crimini.
L’argomento e le tesi esposte nel libro di Black sono sensazionali e
provocatoriamente dirompenti, poiché l’autore lancia chiare accuse di
complicità e di collaborazionismo con le autorità naziste, nel loro piano di
distruzione del Popolo ebraico, a una delle maggiori imprese statunitensi, l’International Business Machine, ovvero
la IBM, la quale, pur di conseguire
grandi profitti, non si fece scrupoli morali. Edwin Black nel suo libro
documenta la stretta collaborazione tra la grande Corporation americana e la Germania di Hitler e riesce a provare
che l’allora Presidente dell’IBM,
Thomas Watson, che Adolf Hitler insignì
della Gran
Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca – la più alta onorificenza del regime
nazista conferibile a uno straniero – aiutò i nazisti nell’opera di classificazione degli
ebrei per finalità razziste.
Nel 1933, fornì, infatti, la tecnologia necessaria per il primo censimento
del nazismo, cui seguirono altri più perfezionati, anche negli anni di guerra.
L’intera popolazione fu schedata in modo da potere identificare gli ebrei e
differenziare anche altre categorie, a esempio, i soggetti che avevano sposato
ebrei, gli ebrei che avevano combattuto durante la Prima Guerra Mondiale, la
percentuale di sangue ebraico. La tecnologia dell’IBM permise una maggiore efficienza dell’industria bellica e una
migliore organizzazione dei trasporti.
Black sostiene che l’aiuto della IBM
fu fondamentale per realizzare l’Olocausto degli ebrei e per ottenere i
migliori risultati nello sterminio dei soggetti ritenuti indegni di vivere,
zingari, disabili, mendicanti, omosessuali.Dopo lo scoppio della guerra, la Dehomag aprì nuove filiali nei territori
conquistati, Austria, Polonia, Cecoslovacchia, per attuare nuovi censimenti. L’IBM, con rapidità ed efficienza,
istituì, perfino, nuove filiali nei territori che sarebbero stati occupati in
seguito, anticipando, così, le mosse della Wehrmacht.
In tale modo, i Governi nazisti locali potevano da subito smascherare gli ebrei
e deportarli. Questa realtà agghiacciante è stata, inoppugnabilmente, provata
da Black.
Ufficialmente i rapporti fra l’IBM e il regime nazista cessarono nel 1940, ma Black ha rinvenuto
documenti che dimostrerebbero il contrario.
Alla fine della guerra, l’IBM
poté festeggiare una doppia vittoria: oltre agli enormi profitti maturati prima
e durante il conflitto, fu considerata dagli Alleati una vittima dell’esproprio
nazista, e poté recuperare tutte le proprie macchine.
Divenuto multimiliardario in 10 anni, come
nel miglior sogno americano del self–made
man, Bill Gates non è spuntato dal nulla!
Come tutti i grandi capitalisti americani,
anche lui si è fatto la sua foundation,
che gode dello status giuridico del no-profit, la Bill & Melinda Gates Foundation, una istituzione filantropica
senza scopo di lucro, autonoma, sostenuta pubblicamente, con lo scopo di
costituire fondi permanenti per il raggiungimento dei suoi obiettivi e con
ampie, se non totali, esenzioni dalle imposte. La Bill & Melinda Gates Foundation persegue come obiettivi, oltre
alla ricerca medica, la lotta all’AIDS
e alla malaria, il diritto a un accesso universale all’aborto e promuove la
diffusione della teoria del gender,
che distingue tra sesso e genere. Negli Stati Uniti, dove è diventato il più grande
proprietario terriero, in poco tempo e silenziosamente,
il fondatore di Microsoft è arrivato
ad acquistare più di un 1 miliardo di metri quadrati di terreno.
Al momento dell’ascesa al potere di
Hitler, il mondo non era a conoscenza che una massiccia raccolta di dati potesse
diventare un mezzo di controllo sociale e un’arma di guerra.
Oggi, noi non possiamo non capire che i dati
personali possono essere utilizzati in modo improprio per manipolare le società
in tutto il Mondo e dobbiamo guardare ala Storia.
Sono complottista se penso che i passaporti
vaccinali potranno essere utilizzati come strumento per il controllo sociale?
Il requisito del green pass ha portato alla creazione di una società a due livelli,
in cui gli individui non vaccinati sono stati ostracizzati e non hanno avuto accesso
ai luoghi di lavoro e a luoghi pubblici, quali bar, ristoranti, alberghi, musei,
e strutture pubbliche.
In un’intervista del 28 marzo 2021 con
Steve Hilton di Fox News, Naomi Wolf avvertiva
che i passaporti vaccinali obbligatori avrebbero segnato la “fine della libertà umana in Occidente”.
Naomi Wolf: I can not say this forcefully enough: This
is literally the end of human liberty in the West if this plan unfolds as
planned.
“Vaccine passport” sounds like a fine thing if you don’t
understand what these platforms can do. I’m the CEO of a tech company, I
understand what this platform does. It is not about the vaccine or the virus,
it is about your data. What people need to understand is that any other
functionality can be loaded onto that platform with no problem at all.
What that means is that can be merged with your Paypal
account, digital currency, Microsoft is talking about merging it with payment
plans, your networks can be sucked up, it geolocates you wherever you go. All
of your medical history can be included -- this has already happened in Israel.
And six months later, we’re hearing from activists
that it is a two-tiered society and basically activists are ostracized and
surveilled continually. It is the end of civil society and they are trying to
roll it out around the world. It is absolutely so much more than a vaccine pass,
it is -- I can not stress enough that it has the power to turn off your life,
or to turn on your life, to let you engage in society or be marginalized.
And by the way, the last thing I’ll say is IBM has a
horrible history with Nazi Germany... with punchcards that allowed the Nazis to
keep lists... in such a way that they could round up Jews, round up dissidents
and opposition leaders. It is catastrophic, it can not be allowed to
continue...
How does [China] keep a billion people under the thumb
of a totalitarian regime. The CCP can find any dissident in five minutes, and
that can happen here literally within months.”
I passaporti vaccinali ci concederanno o ci
negheranno l’accesso a spazi ed eventi pubblici, in base al nostro stato di
vaccinazione, la versione moderna del sistema di schede perforate che IBM ha sviluppato per il regime nazista,
che ha permesso loro di creare un censimento di ebrei e altri indesiderabili,
che potevano, quindi, essere identificati, rintracciati e ordinati in “liste”.
Edwin Black and other researchers talked about his book IBM and the Holocaust: The Strategic
Alliance between Nazi Germany and America’s Most Powerful Corporation,
published by Crown Publishers. The book contends that IBM and its president,
Thomas J. Watson, established business relations with Nazi Germany and that
IBM’s information technology and business alliance endowed Adolph Hitler with
the ability to accelerate and automate the persecution of Jews during World War
II and in the Holocaust. Following their remarks, they responded to questions
from the audience.
Moderna
and IBM to Explore Quantum Computing and Generative AI for mRNA Science, Moderna invests in developing
quantum computing skills and exploring the use of quantum computing in
developing future mRNA medicines
Ma, nell’articolo,
si parlava di un numero anche maggiore di vittime. Era una delle prime notizie
su uno dei grandi fatti del Ventesimo Secolo. E aveva, anche, il raro pregio di
poter servire a qualcosa. In quel momento, il massacro era ancora in atto e
altri milioni di Esseri Umani sarebbero stati soppressi, negli anni a venire.
Saperlo avrebbe potuto spingere ad agire. Ma il giornale, che di pagine ne
contava solo sei, pubblicò quella breve notizia alla pagina cinque. E nessun
altro quotidiano la riprese. Sarebbero trascorsi anni prima che l’Umanità
decidesse di inorridire di fronte all’Olocausto. In quei giorni non ne aveva
intenzione…
Il 30 luglio 1938, l’industriale Henry
Ford riceve da Adolf Hitler la Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila
Tedesca, che è la più alta onorificenza del regime nazista conferibile a uno
straniero, per l’impegno della sua Filiale Ford in Germania nel rifornire l’esercito
nazista di mezzi blindati e nel donare tutti gli utili alla causa nazista [https://www.ranker.com/list/relationship-between-henry-ford-and-ss/melissa-sartore].
L’Olocausto
è stato un momento eccezionale della Storia.
Oggi, in
tutto il Mondo 250 milioni di Esseri Umani soffrono di una grave insicurezza
alimentare e sono costretti a fare affidamento su programmi di aiuto
internazionale per sopravvivere.
Le
guerre creano masse di rifugiati.
E
migliaia di migranti affogano o si perdono, cercando una vita migliore.
Naturalmente,
ciò non accade a noi, che leggiamo queste notizie.
Sono,
sempre, gli Altri, come gli Altri erano gli Ebrei.
E la
loro Storia non cessa di uscire in penultima pagina, quando esce!
La più grandiosa e
grottesca manifestazione della completa vacuità del diritto internazionale è
stata, il Patto Briand-Kellog del 27
agosto 1928, che poneva la guerra “fuori legge”. Quasi tutti i Governi del
Mondo – compresi quelli della Germania, dell’Italia e del Giappone – si
affrettarono a dare pubblica prova delle loro pacifiche intenzioni, firmando la
morte legale della guerra. Stupendi discorsi, scambio di telegrammi tra Capi di
Stato, brindisi, felicitazioni, articoli ditirambici su grandi giornali.
Ma di buone
intenzioni è lastricato l’inferno.
Il Patto Kellog-Briand, non prevedendo
nessuna efficace sanzione, lasciò le cose come stavano.
La guerra, tutta
occupata a massacrare e a distruggere, neppure si accorse di essere stata messa
“fuori legge” da tante brave persone.
Platone
diceva:
“Conoscere è ricordare.”
E, il
tentativo evoca profondi strati di Passato: voci, suoni, odori, persone e così
via, senza fine. Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità,
l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il
pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di
appartenenza a innumerevoli Esseri Umani e, quindi, a un comportamento armonico
per la vita di questi Esseri Umani.
In un’Italia in cui si osservano rabbiosi ritorni a
pestiferi miti nazionalisti, in cui, improvvisamente, si scoprono passionali
correnti patriottiche in chi fino a ieri professava idee internazionaliste, in
questa Italia nella quale si vedono con raccapriccio riformarsi tendenze
belliciste, urge compiere un’opera di unificazione.
Opera, dico, e non predicazione!
Le spese militari sono alternative alle spese
sociali. Quanto più aumentano le une, tanto più devono necessariamente
diminuire le altre.
Presidente
Giorgia Meloni,
Il 21
novembre scorso, i giudici della Corte di Appello di Roma hanno confermato le
condanne nei confronti di Mamadou Gara, Yousef Salia, Brian Minthe e Alinno
Chima, imputati per l’omicidio di Desirée Mariottini, la 16enne morta, il 19
ottobre del 2018, in uno stabile abbandonato nel quartiere romano di San
Lorenzo.
E Lei,
Presidente, ha, così, commentato la sentenza su Twitter:
“‘Questa sentenza ci dà solo un po’ di
pace ma nessuno ci restituisce mia figlia, il dolore per la morte lo sento ogni
giorno.’ Comprendo le parole di Barbara, madre di Desirée, che abbraccio. Ora
almeno giustizia è fatta. Faremo tutto il possibile per rendere l’Italia
più sicura.”
Giorgia
Meloni: “Costretta da due stranieri a salire in macchina per essere pestata e
violentata per tutta la notte. Questa FECCIA UMANA deve marcire in carcere.
TOLLERANZA ZERO per chi usa violenza sulle donne!”, Twitter, 19 maggio 2018.”
Twitter, 19 maggio 2018.
Giorgia Meloni: Désirée è stata
uccisa una volta da un branco di vermi spacciatori, ma anche quattro volte dal lassismo della
sinistra. La mia lettera a “Libero Quotidiano”, Twitter, 30 ottobre 2018.
Giorgia
Meloni: “Spero che nel suo discorso di questa sera, il Presidente Mattarella
ricordi Pamela Mastropietro e Desirée Mariottini, due giovani italiane vittime
dell’immigrazione incontrollata. Per un 2019 in cui lo Stato non permetta altre
tragedie simili.”, Twitter, 31 dicembre 2018.
Giorgia
Meloni: “La mia solidarietà alla 24enne violentata a Napoli nell’ascensore
della Circumvesuviana. Per i 3 VERMI responsabili una PENA ESEMPLARE e
Tolleranza Zero!”, Twitter, 6 marzo 2019.
Giorgia
Meloni: “In occasione dell’8 marzo, aderisco anche io alla campagna contro la
violenza sulle donne Guarda bene chi ami. Perché chi ami non usa MAI
violenza.”, Twitter, 8 marzo 2019.
Giorgia
Meloni: “Oggi si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Non abbassiamo la testa, combattiamo, ogni giorno, questa barbarie.” Twitter, 25
novembre 2019.
Giorgia
Meloni: “I dati delle violenze sulle donne sono terribili e inaccettabili: in Italia
91 femminicidi nel 2020. Continuiamo a batterci contro questo fenomeno criminalee
a chiedere GIUSTIZIA e TUTELE per le vittime. Perché senza giustizia non sono sufficienti
le giornate contro la violenza.”, Twitter, 25 novembre 2020.
Giorgia
Meloni: “L’avrebbe presa di mira, colpita con un bastone e infine avrebbe tentato
di violentarla mentre faceva sport. Le urla della giovane fortunatamente hanno attirato
i Carabinieri che l’ha nno liberata. Mi auguro che la giustizia si dimostri inflessibile,la
mia vicinanza alla ragazza.” Twitter, 6 luglio 2022.
La
Costituzione italiana sancisce all’articolo 27:
“La
responsabilità penale è personale.
L’imputato
non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Non è
ammessa la pena di morte.”
Come
in molti altri articoli della Costituzione, oltre a moniti e vincoli, nell’articolo
27si ritrovano
anche delle tutele per il cittadino.
Io
credo fermamente nell’Essere Umano come credo fermamente che in tema di
responsabilità penale, la bussola sia, innanzitutto, rappresentata dall’articolo
27 e dal dovere dello Stato di non comminare pene contrarie al senso di umanità
e invece tese alla rieducazione del condannato. Precisato ciò, credo,
altrettanto fermamente, che garantire i propri diritti al prossimo, significhi
consentire lui la diversità delle sue idee, non l’illiceità o l’inciviltà dei
suoi comportamenti, che devono essere, esemplarmente, sanzionati da uno Stato
giusto e, al contempo, forte.
“Non possiamo pretendere che un africano
sappia che in Italia, sulla spiaggia, non si può violentare una persona, perché
lui probabilmente non lo sa proprio.”,
Per lo scrittore Christian
Raimo, l’assassino del carabiniere Mario Cerciello Rega, Finnegan Lee Elder è “un ragazzino di diciott’anni, viziato, testa di
cazzo, per perdere il controllo nell’ultima sera di vacanza, forse per paura,
per rabbia, per fare il grosso con l’amico [gabriel Natale Hjorth], vilmente,
sotto botta probabilmente, fa una cazzata spaventosa, infame e gigantesca che
distrugge una famiglia e rovina anche la sua vita per sempre. Se non pensiamo
che la pena abbia una funzione rieducativa per una persona del genere, allora
per chi?” [Carabiniere ucciso, Raimo choc:
“Solo una cazzata da 18enne”, Francesco Curridori, il Giornale, 30 Luglio 2019 -
13:49, https://www.ilgiornale.it/news/cronache/raimo-carabiniere-ucciso-solo-cazzata-18enne-1733738.html].
Accanto
alla garanzia verso Caino, uno Stato giusto e forte deve, anche, prestare
protezione e tutela anche ad Abele. Quindi, senz’altro sì alle garanzie, ma in
un sistema penale che preveda certezza tassativa ed effettiva della pena,
celebrazione veloce del processo in un’ottica di reale parità tra accusa e
difesa, statuizioni giudiziali temporalmente prossime al fatto-reato, ristoro
effettivo dei patimenti subiti dalla vittima del reato.
Occorre
recuperare la fiducia del cittadino verso il sistema giustizia di questo Paese
e ciò è, indubitatamente, compito degli operatori, ma, innanzitutto, del decisore
politico, che ha il mandato e l’onere di farlo.
Presidente
Giorgia Meloni,
Io sono in collera…
Io sono in collera
con il Mondo intero…
Io sono in collera
con l’Unione Europea…
Io sono in collera
con il mio Paese…
Io sono in collera
con la mia Città…
Io sono in collera
con una sedicente sinistra che si limita all’accoglienza,
ma non si pone mai il problema delle cause…
Perché
ci sono, oggi, tanti migranti?
Perché
africani e asiatici sono, oggi, migranti in terra straniera?
Non
sono forse vittime di quel “politicamente corretto” che ci obbliga, come
occidentali a continue missioni di pace e di solidarietà per “esportare” la
democrazia nei Paesi ancora al di fuori delle regole del neoliberismo?
Non
si tratta di aiutarli a casa loro, ma di lasciarli in pace a casa loro!
Nel
mondo del politicamente corretto gli zingari sono rom, i neri sono di colore, i
clandestini sono migranti irregolari.
Le
parole sono pietre, come ammoniva Carlo Levi, ma sono importanti, se a queste
seguono i fatti. E da quelle pietre devono sorgere fatti tangibili, soluzioni,
opportunità concrete, altrimenti le pietre lasciate così sono solo macerie.
Noi
possiamo anche chiamare gli zingari rom, i neri di colore e i clandestini
migranti irregolari, ma se li accogliamo per stiparli negli hotspots, che non sono ricoveri neppure
per le bestie, tutta questa correttezza di linguaggio è solo ipocrisia.
Per le
élites i migranti non costituiscono
un problema dal momento che insidiano i lavori e i territori che sono
appannaggio delle classi più impreparate alla competizione neoliberista.
Quando
fu decisa dalla Prefettura di Grosseto, la dislocazione di cinquanta migranti a
Capalbio, storica meta delle vacanze di intellettuali ed esponenti di sinistra, in esecuzione di un bando di
gara del Ministero dell’Interno, pubblicato il 15 dicembre 2015, per gli
operatori economici chiamati a provvedere all’accoglienza dei migranti, il
nobile e ambientalista Nicola Caracciolo nonché principe di Capalbio, in un’intervista al Corriere
della Sera, ebbe a dire:
Nel mondo della Fattoria
degli Animali gran parte dei comizi pubblici e delle chiacchiere sono
stupidaggini e menzogne guidate e, sebbene molti personaggi siano buoni e
benintenzionati, altri riescono con il terrore a indurli a coprirsi gli occhi
per non vedere quello che accade loro intorno. I maiali intimidiscono gli altri
con l’ideologia e, poi, la deformano per usarla a loro esclusivo vantaggio.
Come insegna George Orwell, non sono le etichette: cristianità, socialismo,
islam, democrazia, cattivi a due zampe, buoni a quattro zampe a definire, bensì
le azioni compiute in loro nome.
Come si fa presto a rovesciare un potere oppressivo e a
cadere, poi, nelle stesse trappole e consuetudini!
Come si fa presto a cambiare il comandamento “Tutti gli animali sono uguali” in “Tutti gli animali sono uguali ma alcuni
sono più uguali degli altri”!
Jean-Jacques Rousseau aveva ragione di avvertirci che
la democrazia è la forma di governo più difficile da mantenere.
Quale interesse mellifluo i porci mostrano per gli
altri animali, come sembrano preoccuparsi del loro benessere – solo per
mascherare il disprezzo nei confronti di quelli che stanno manipolando!
Con quale alacrità indossano le uniformi un tempo
disprezzate di quegli umani tirannici che loro stessi hanno cacciato, e come
imparano a usare le fruste!
Con quale ipocrisia giustificano le loro azioni,
grazie alle ragnatele verbali intessute da Clarinetto, il loro addetto stampa
dalla lingua sciolta, finché tutto il potere non è nelle loro zampe!
A quel punto non è più necessario fingere e possono
governare con la forza bruta.
Una rivoluzione, spesso, significa solo questo: un
ribaltamento, un giro della ruota della fortuna grazie al quale quelli che
stavano in basso salgono in cima e occupano le posizioni più ambite,
schiacciando sotto di loro i precedenti detentori del potere.
Dovremmo diffidare di coloro che tappezzano il nostro
ambiente dei loro ritratti in formato poster
come fa il maiale Napoleon!
La Fattoria degli Animali procurò molti guai a
George Orwell.
Chi si oppone alle convenzioni popolari del momento, chi mette in evidenza
ciò che è, fastidiosamente, ovvio, deve aspettarsi la condanna degli irosi
belati di mandrie di pecore ostinate.
Secondo il mio dizionario, il razzismo designa un’ideologia
basata sulla presunzione che un gruppo umano sia superiore agli altri, ma anche
un”atteggiamento
di sistematica ostilità verso una specifica categoria di esseri umani.”
E, dunque, se
stringo a me la borsa quando vedo rom in metropolitana ocambio marciapiede quando incrocio
extracomunitari incappucciati, sono razzista?
Dovremmo
porci tutti questa domanda, non essere razzisti non è solo denunciare un’ingiustizia…
E,
sinceramente, credo che ci si proclami non razzisti un po’ troppo facilmente!
Presidente Giorgia
Meloni,
Io sono in collera…
una collera profonda, che non mi lascerà mai…
Aventi anni ero di sinistra.
Cosa significava allora essere di
sinistra?
Credere nella lotta di classe e nella
coscienza di classe.
Nessuno
pensava, allora, che nel Popolo ci fosse qualcosa di sbagliato che le élites
dovessero “raddrizzare” per il bene dello stesso Popolo. Era il Popolo che,
assumendo coscienza, poteva e doveva guidare la società.
E
questo concetto, prima che di sinistra, è democratico!
La politica non è che un ramassis de blagues écœurant.
Non offre niente di nuovo.
La sua irrimediabile miseria mi ha riempito di
amarezza, fino dalla mia giovinezza. Così, ora, io non ho alcuna disillusione.
Ma non è disprezzando la sua miseria che ne contemplo la distesa.
Io ho la netta sensazione che questa classe
politica non piaccia più, sia nei comportamenti sia nelle decisioni. I
risultati delle ultime elezioni dimostrano la resistenza passiva degli
Italiani.
La lista delle trasgressioni della politica è
lunga!
La crisi finanziaria internazionale non è una
fatalità. Questa crisi non è certo una catastrofe naturale. Non è una sanzione
divina. E, non è neppure una maledizione satanica, ma affonda le sue radici
nelle condotte e nelle incapacità umane.
Nel 2008, la crisi scoppiò perché le banche agirono
con cupidigia, provocando derivati finanziari altamente speculativi e
pericolosi. Ma niente sarebbe accaduto se la politica avesse delimitato il
perimetro di azione delle banche. La politica ha lasciato fare. La politica ha
permesso alle banche di non inscrivere tutte le operazioni in bilancio. La
politica ha ammesso che le banche non disponessero di fondi propri a
sufficienza di fronte ai rischi che avevano assunto.
E gli Italiani dovettero pagare per le banche!
In una intervista del 9 settembre 2009 all’autorevole
quotidiano della finanza e dell’economia a stelle e
strisceThe
Wall Street Journal, Lloyd Blankfein, ex-CEO di Goldman Sachs, che
ha avuto una responsabilità diretta nella crisi economica mondiale del 2008,
aveva detto, letteralmente:
“[…] L’Italia è stato l’unico
Paese dell’Occidente a dover gestire il proprio sviluppo senza il determinante
contributo di lavoratori stranieri. Detto in linguaggio più semplice l’Italia è
stato l’unico Paese dell’Occidente a mandare avanti una società industriale
senza “negri”, che negli Stati Uniti erano negri nel senso letterale della
parola. Nel Nord Europa erano invece emigranti italiani, spagnoli, turchi o
nordafricani. […]
Dopo tre giorni passati
a Torino l’operaio siciliano non solo è già sindacalizzato, ma tende a
dimostrare la propria definitiva appartenenza alla classe operaia spingendosi
spesso verso i limiti più estremi della militanza sindacale. Non abbiamo perciò
goduto della possibilità, che hanno avuto gli altri, di scaricare sugli
stranieri le professioni che stanno in coda alla gerarchia sociale, cioè quelle
da cui nascono le tensioni e dilacerazioni. […]”
Cosa significa, oggi, essere di
sinistra?
Essere politicamente corretti.
Accettare il pensiero unico in maniera acritica e credere, presuntuosamente
che, in quanto detentrici del pensiero unico, le élites devono guidare un Popolo ignorante e rozzo, irritante per la
sua mancanza di educazione. Lo spiega bene, un altro ex-Goldman Sachs man, Mario Draghi,
tornato in pubblico, dopo la caduta del suo Governo, a Milano, il 21 febbraio
scorso, in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Emilio Giannelli,
vignettista del Corriere della Sera
molto apprezzato da l’ex-Presidente del Consiglio:
“Dalle vignette di Emilio Giannelli porto
a casa il fatto di riuscire a guardare al potere e ai potenti. Io mi sento parte di quella recita. Lo sono
stato, ora lo non lo sono più, per chiarire. Ecco perché non faccio
molta fatica a staccarmi dalla situazione in cui mi trovo e a guardarmi da
fuori.”
“Giannelli divide il mondo in due
categorie, ci sono i potenti e i normali. I potenti sono quelli che contano, i
normali sono quelli che guardano la realtà da normali appunto, con stupore e
con distacco. I potenti sono i governanti, i politici, siamo i banchieri centrali, quelli che
decidono o che credono di decidere le sorti del mondo. Sono gli attori della
recita del potere. Giannelli, con le sue
caricature, smaschera la recita del potere a cui i normali non partecipano.”
“Uno dei messaggi di Giannelli, secondo me
è questo: sono tutti uguali, al posto dei politici italiani ci potrebbero
essere benissimo politici di altri Paesi. Nella sostanza sono gli stessi.” [Francesco
Zecchini, Mario Draghi: “Non sono più parte della recita dei poteri”, Upday, 21
febbraio 2023, https://www.upday.com/it/mario-draghi-non-sono-piu-parte-della-recita-dei-poteri#google_vignette].
Presidente Giorgia Meloni,
ascolti la voce dei Suoi Concittadini, diffidi di coloro che
cercano, sempre, di favorire il capitale finanziario e di imporre i propri
interessi economici, politici e militari a scapito della vita umana. Sono gli
stessi che distruggono l’ambiente e le libertà cittadine e che generano la
fame, la povertà e l’emarginazione.
Vi è una varietà considerevole di problemi che
richiedono una soluzione immediata e il rischio di vedere, sempre più, cadere l’Italia
nel baratro della povertà esiste e non è mai stato così elevato.
“Non ci
saranno più crisi finanziarie nel nostro tempo.”,
aveva
affermato, coraggiosamente, Janet Yellen, il 27 giugno 2017, nel ruolo di
Presidente della Federal Reserve dal
podio della prestigiosa British Academy
di Londra. Memore dei fatti del 2008, aveva spiegato:
“Se
dicessi che non ci sarà mai più una crisi finanziaria, probabilmente mi
spingerei troppo in là, ma credo che siamo molto più al sicuro nel nostro tempo
e non credo che ci saranno.”
L’attuale
Segretaria al Tesoro degli Stati Uniti avrà ricordato quelle parole, la notte
tra il 22 e il 23 marzo scorsi, assistendo alla reazione dei mercati alla sua
dichiarazione sull’attuale crisi bancaria?
In un
sistema finanziario interconnesso è naturale che un problema in California si
ripercuota in Germania.
Come
scrive Andrew Sorkin, editorialista del New York Times e autore del libro Too big to fail, nel 2008 si trattò di
operazioni ad alto rischio con una leva finanziaria elevata e un indebitamento
in media di 30 a 1.
Oggi,
il problema non è l’esasperazione di una bolla ingigantita con strumenti
artificiali creati dall’ingegneria finanziaria, bensì i classici e più solidi
titoli di Stato, che si sono deprezzati a causa delle politiche monetarie delle
banche centrali, fattesi più restrittive in breve tempo.
La Silicon Valley Bank e altre banche,
ipotizzando una recessione imminente e, quindi, un allentamento monetario,
hanno incrementato il peso dei titoli di Stato, aumentando rischi ed
esposizione, ma la recessione non è arrivata e le banche
centrali hanno continuato ad alzare i tassi.
I
titoli di Stato, se portati a scadenza e in assenza di default, permettono di incassare quanto investito, ma, rivenduti in
risposta a una fase di tensione, possono capitalizzare una perdita.
Ed è,
esattamente, quanto è accaduto!
Who Really Owns the World?
“BlackRock and Vanguard also own shares in an
impossibly long list of virtually every major company in the world. Aside from
world media, the companies controlled by BlackRock and Vanguard span everything
from entertainment and airlines to social media and communications — quite
literally everything you can think of, and much that you can’t.
Together, they form a hidden monopoly on global asset
holdings, and through their influence over our centralized media, they have the
power to manipulate and control a great deal of the world’s economy and events,
and how the world views it all.
In all, BlackRock and Vanguard have ownership in some
1,600 American firms, which in 2015 had combined revenues of $9.1 trillion.
When you add in the third-largest global owner, State Street, their combined
ownership encompasses nearly 90% of all S&P 500 firms.
Interestingly, Vanguard also holds a large share of
BlackRock. In turn, BlackRock has been called the “fourth branch of government”
by Bloomberg as they are the only private firm that has financial agreements to
lend money to the central banking system.
Owners and stockholders of Vanguard include Rothschild
Investment Corp, Edmond De Rothschild Holding, the Italian Orsini family, the
American Bush family, the British Royal family, and the du Pont family, the
Morgan, Vanderbilt and Rockefeller families.”
Inaugurando
l’Anno Accademico 1883-1884, con un discorso sulla Difesa delle società contro le malattie
infettive, Giulio Bizzozero, professore di patologia generale
all’Università di Torino, affermò tra l’altro:
“Voi udite, e udrete sempre più parlare di
questioni sociali. Ma quando si tratta di bonificare terreni malarici, di
costruire spedali, di migliorare le condizioni igieniche dei quartieri operai,
allora l’erario è esausto, allora si grida ai quattro venti la necessità di
ricorrere a nuove imposte. Ma, al tempo stesso, si trovano e si profondono
milioni per rendere più teatralmente pomposa un’incoronazione – come quella,
cinque anni prima, del nuovo re Umberto I – o per ricostruire più splendidi i
palazzi dei Parlamenti – come quelli romani recentemente restaurati – o per
imporre a colpi di cannone il proprio protettorato a popoli – come quello
eritreo – che si vogliono sfruttare a beneficio di pochi affaristi.”
Bizzozero
fu il maggiore interprete italiano di Rudolf Ludwig Karl Virchow, professore di
anatomia patologica all’Università di Berlino e parlamentare del Partito del Progresso Tedesco. Di
Virchow, capostipite di quella generazione di medici che, attenti alle
questioni sociali, ritennero di dovere svolgere, anche, un’attività politica –
e di advocacy [ante litteram] del
diritto alla salute – a favore dei gruppi più vulnerabili della Popolazione, è
rimasta celebre la seguente affermazione:
“La medicina è una scienza sociale e la
politica non è altro che medicina su larga scala.”
Di
fronte alla condizione di miseria, in cui versava la maggioranza della
popolazione, criticava l’indifferenza e l’apatia dei governanti, e, nel 1849,
mentre imperversava un’epidemia di colera a Berlino, così espresse tutta la sua
indignazione:
“Non è chiaro che la nostra battaglia
debba essere sociale? Che il nostro compito non è quello di scrivere le
istruzioni per proteggere i consumatori di meloni e di salmoni, di dolci e
gelati, ossia la borghesia benestante, ma quello di creare istituzioni che
proteggano i poveri, coloro che non possono permettersi pane fresco, carne e
caldi vestiti? Potrebbero i ricchi durante l’inverno – davanti alle calde stufe
e alle torte di mele –ricordarsi che
gli equipaggi delle navi che portano carbone e mele muoiono di colera? È triste
constatare che migliaia devono sempre morire in miseria per consentire a poche
centinaia di vivere bene.”
Virchow sviluppò la tesi dell’origine multifattoriale
delle malattie, sostenendo che erano le condizioni materiali della vita
quotidiana degli individui la principale causa di morbilità e di mortalità,
pertanto, un efficace sistema sanitario non poteva limitarsi a trattare i
disturbi clinici dei pazienti, ma doveva affrontare le radici profonde delle
malattie e delle epidemie.
L’oggettività sperimentale assoluta rivendicata e
ricercata dalle scienze, che la medicina e la biologia, alla fine del XIX
Secolo accettarono con pochi ripensamenti epistemologici e morali, furono il
terreno fecondo su cui germogliò la pianta della discriminazione razziale.
L’opinione pubblica rimase affascinata da questo messaggio ideologico, ma
apparentemente e saldamente scientifico, un messaggio che asseriva come si
potesse intervenire sulle persone “migliorandole”,
allo stesso modo di un allevatore nel selezionare mucche da latte o cavalli da
corsa. La politica, la filosofia e la religione non contrastarono né
disapprovarono queste idee, che sembravano indubitabili, grazie al prestigio
che la medicina moderna si stava guadagnando, affrancando l’Umanità da flagelli
secolari, quali la sifilide, e da malattie infettive in genere. Quando la
Germania nazista iniziò a praticare l’eugenetica, l’esempio costituito dagli
Stati Uniti attraverso la sterilizzazione forzata risultò un punto di inizio
per un processo che sarebbe giunto, progressivamente, a estendere la gravità
dei suoi interventi, passando dalla sterilizzazione dei malati di mente non
autosufficienti all’eutanasia degli stessi e di tutti i soggetti che fossero,
indipendentemente dall’età, in una condizione di minorità e di non adeguatezza
ai criteri di una normalità presunta. Criteri che erano stabiliti da un insieme
di medici appositamente selezionati e formati dallo Stato. Nel 1926, in pieno clima di cultura eugenetica e di pulizia etnica che
spirava anche in Svizzera,
un insegnante di ginnasio, Alfred Siegfried, espulso dall’insegnamento per
pedofilia, divenne responsabile della Sezione
Scolarità Infantile della fondazione Pro
Juventute, un ente a “favore dei giovani” noto per la vendita annuale
di francobolli molto ambiti dai filatelici professionisti e dilettanti non solo
svizzeri.
“Non solo intere famiglie ma clan di diverse
centinaia di individui costituendo una stretta associazione che assume atteggiamenti
e modi di vita asociali e amorali li trasmette consapevolmente e
intenzionalmente anche alla propria prole. […]
I loro singoli membri possono sembrare abbastanza
innocui, le loro trasgressioni possono limitarsi a irregolarità e infrazioni di
polizia lievi. Il fatto però che essi si sostengano e si aiutino
vicendevolmente conferisce loro una potenzialità pericolosa.”
Il
programma Hilfswerk fur die Kinder der
Landstrasse [Opera di Assistenza per i Bambini di Strada], finanziato da
privati e istituzioni proseguì fino al 1972, con l’intento di “sradicare il male del nomadismo, fin
dall’infanzia, attraverso misure educative sistematiche e coerenti”,
consistenti, innanzitutto, nel sottrarre i bambini ai loro genitori e nel
sterilizzare, forzatamente, i loro genitori. in sostanza un programma di
pulizia etnica, camuffato da scolarità infantile, sostenuto dal Governo
elvetico. Molti
bambini venivano affidati ai contadini, le
bambine, si ritrovarono recluse in cliniche psichiatriche o in prigione,
dove subirono maltrattamenti, violenze terapeutiche, come l’elettroshock, e abusi sessuali.
Erano 35mila i jenisches,
ne rimasero 5mila. In Europa 500mila zingari sono stati sterminati durante la
Seconda Guerra Mondiale. Dal
1938, per formale richiesta della Svizzera, sui passaporti dei cittadini
tedeschi di“razza non ariana” erano
stati apposti timbri distintivi. Gli ebrei avevano una J, gli zingari una Z. Le
stesse lettere che venivano tatuate sul braccio prima del numero di
identificazione nei campi di sterminio.
A
Milano un liceo classico e scientifico è intitolato ad Alexis Carrel. Carrel fu
un grande pioniere della chirurgia, inventò brillanti tecniche di sutura dei
vasi sanguigni, la tecnica odierna dei trapianti gli deve molto. Alla nascita
del Governo Vichy nel 1940, Carrel accettò l’invito del Maresciallo Pétain di
dirigere la Fondazione Carrel per lo
studio dei problemi umani, che, in pratica, si occupava di selezioni razziali.
Ammiratore di Adolf Hitler e di Benito Mussolini, pubblicò in America, nel 1935,
Un uomo, questo sconosciuto. Nel suo
farneticante libro scrive:
“Rimane poi il problema insoluto
dell’immensa folla dei deficienti e dei criminali, che pesano interamente sulla
popolazione sana: le spese per le prigioni e per i manicomi, per la protezione
del pubblico dai banditi e dai pazzi sono diventate gigantesche. Le Nazioni
civili stanno compiendo inutili sforzi per la conservazione di essere inutili e
nocivi, e così gli anormali impediscono il progresso dei normali.”
Nel corso degli Anni Ottanta e Novanta, quando
furono rese disponibili nuove procedure tecnologiche di riproduzione assistita,
come la surrogazione di maternità [disponibile dal 1985], la diagnosi genetica
pre-implantazione [disponibile dal 1989] e il trasferimento citoplasmatico [eseguito
per la prima volta nel 1996] si temette un eventuale rinnovarsi delle idee e
pratiche eugenetiche, con l’emersione eclatante dell’ampliamento del divario
tra ricchi e poveri del mondo.
Una
domanda che, spesso, ci si pone quando si parla di Olocausto è:
“Ma possibile che nessuno lo sapesse o che
tutti fossero d’accordo?”
Se è
verosimile ritenere che l’opinione pubblica potesse ignorare le dimensioni
effettive del fenomeno o i particolari più agghiaccianti, è, tuttavia, doveroso
denunciare il lento ma inesorabile lavoro di indottrinamento eseguito dagli
eugenisti, che, sostenuti da eminenti psichiatri, crearono quell’humus culturale in cui le idee di
purezza razziale e di “soppressione della
vita indegna di essere vissuta” potevano proliferare ed essere accettate
come necessarie verità scientifiche.
L’eugenetica
– dal greco “buona nascita” – prese piede sulla scia delle teorie darwiniane
verso la fine del XIX Secolo. All’inizio del Novecento, spinta con forza anche
dalla Fondazione Rockefeller,
l’eugenetica si diffuse sempre più. L’idea di “sopravvivenza del più forte” fu, dapprima, usata per impedire che
i deboli procreassero e, in seguito, per giustificare la soppressione della “vita indegna di essere vissuta”. In
seguito fu sufficiente sviluppare un’intensa campagna antisemita,
stigmatizzando gli ebrei come appartenenti a una razza inferiore, e il gioco
era fatto: il concetto di razza inferiore germogliò con vigore in questo
substrato culturale imbevuto di pseudoscienza eugenetica, fornendo la base di consenso
allo sterminio.
La sospensione
della democrazia rischia di passare senza accorgersene, se equivoci e ambiguità rendono
particolarmente fragile il tessuto sociale.
White
Purity, Eugenics Ideology, and Mass Murder
Thomas
White | Cohen Center for Holocaust and Genocide Studies
Madison
Grant, American Eugenicist: “The laws of nature require the obliteration of the
unfit, and human life is valuable only when it is of use to the community or
race.”
Oliver
Wendell Holmes, Supreme Court Justice: “It is better for all the world if,
instead of waiting to execute degenerate offspring for crime or to let them starve
for their imbecility, society can prevent those who are manifestly unfit from
continuing their kind... Three generations of imbeciles are enough.”
Mario Lettieri e Paolo Raimondi, Tre
fondi, BlackRock, Vanguard e Ssga controllano tutte le corporation USA, In
dieci anni, di tutti i capitali confluiti nei vari fondi d’investimento, l’80%
è finito nei tre colossi. In venti anni la loro partecipazione azionaria nelle
grandi corporation americane, che fanno parte dello S&P 500, è
quadruplicata, passando dal 5,2% al 20,7%, italia oggi, 4 settembre 2019 [https://www.italiaoggi.it/news/tre-fondi-blackrock-vanguard-e-ssga-controllano-tutte-le-corporation-usa-2384258].
La lotta tra capitale e lavoro sta impoverendo
il nostro mercato, ostacolando lo sviluppo delle nostre fabbriche e, per poco
che durino, faranno abbassare i salari, abbassando la domanda. Io non sono una
esperta in questioni economiche e finanziarie e neppure una adepta del
complotto permanente, ma mi chiedo:
E se la crisi non servisse che a smantellare
gli ultimi servizi pubblici e a addomesticare i salariati?
È dall’inizio della crisi finanziaria che ho il
sospetto, forse, naïf, che questa
crisi non abbia che due vere funzioni, due grandi obiettivi:
- indurre i Paesi, che ne forniscano ancora, a
smantellare, definitivamente, gli ultimi servizi sociali, a venderli, che si
tratti di trasporti, di distribuzione di energia, di poste, di salute, di
assistenza sociale, etc. Una vendita che li renderebbe, miracolosamente,
redditizi a spese del “servizio” reso. La privatizzazione e la riduzione del deficit fanno parte delle condizioni –
di fatto, esigite – per aiutare Paesi o garantire i loro debiti. Nelle
condizioni imposte, io non ho sentito parlare – probabilmente non sono stata
abbastanza attenta – di aumento di esazioni per le imprese o le banche, imposto
dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo Monetario Internazionale o dalla
Riserva Federale Americana;
- indurre i salariati ad accettare sempre più
elasticità e sempre più flessibilità, per riprendere quelle parole strane che
caratterizzano, in effetti, un nuovo diritto di licenziamento più “spiccio”. E
sempre meno assistenza sociale e cassa integrazione.
Presidente, se è necessario che lo Stato faccia
economie, vere economie e non sulla pelle degli Italiani, iniziamo dal vertice,
che dovrebbe, per primo, dare l’esempio!
“A tout seigneur, tout honneur!”
Non solo per allineare il nostro Paese alla
maggior parte dei nostri vicini e, così, far tacere i giustificati sarcasmi di
cui siamo oggetto, ma, soprattutto, perché una tale misura sarebbe percepita
dagli Italiani come la prima tappa di una indispensabile riforma delle nostre
Istituzioni e della modernizzazione della vita pubblica.
Altro
che ripristinare i vitalizi tagliati agli ex-Senatori!
E questo è, proprio, tutto, Presidente Giorgia Meloni.