“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 18 febbraio 2019

CONTAMINATION AU CHLORDECONE : MACRON A ENCORE MENTI !

Makao garde du corps d'Emmanuel #Macron intime de Jawad Bendaoud logeur ...

domenica 17 febbraio 2019

ANTEPRIMA! estratto da: SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 8. IL BRIGANTAGGIO POLITICO di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE




“In politics, nothing happens by accident.
If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt



Lazzaro


 
para Lazzaro
“Un Amigo es la mano que despeina tristezas.”
Gustavo Gutierrez Merino


Cuando todo me parece imposible, horrible e inalcanzable, pienso en Tu sonrisa y la fuerza que me da, y de repente todo es posible.
Un día como hoy, hace un año me pediste que fuera Tu Amiga.
Desde ese momento mi vida cambió.
Te fui conociendo poco a poco y me di cuenta de que eres una persona excepcional y diferente a las demás.
Un año se cumple hoy y a pesar de nuestras diferencias, l’Amistad siempre ha prevalecido. En nuestra Amistad he aprendido mucho y me has enseñado a ver claramente mis defectos y cómo y porqué debo mejorarlos.
Mi Amigo gracias por Tu paciencia y comprensión; se que no soy fácil pero gracias a Dios siempre has mantenido la calma.
Quisiera decirte tantas cosas, de mil formas distintas para que Te des cuenta de lo mucho que te respeto, pero no se como hacerlo.
Espero que nuestra Amistad perdure y que con el paso de los años se fortalezca mas. Que a tua vida seja repleta de emoções, alegrias e conquistas.
¡Feliz aniversario, Amigo especial!

Roma, 13 de octubre de 2014





Se un fiore è la Primavera, un Amico è la fine della separazione.
Questo reportage sulla mafia, risultato di più di 5 anni di intensa ricerca, non esisterebbe senza l’incontro con Lazzaro, cui desidero esprimere tutta la mia riconoscenza.
In verità, Lazzaro non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del reportage.
L’Italia è uno strano Paese.
È un Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È un Paese in crisi.
È il riflesso e, perfino, il quadrante di tutto un mondo in crisi.
I suoi peccati smisuratamente grandi quanto le sue virtù, sono i peccati dell’Idealismo e della Democrazia; ma sono anche i peccati di un sistema economico-politico-tecnologico che investe responsabilità extra-umane, astratte, mondiali, senza via di uscita, apparentemente.
La prima chiarezza, che viene da questo studio, è che la corruzione ha, sempre, avuto un posto a sé tra legge formale, legge morale e opinione pubblica corrente. La legge formale ha potuto, sovente, mandarla sul banco degli accusati; quella morale ne ha fatto, molto sovente, oggetto dei suoi strali e delle sue invettive; ma, sempre, per la opinione pubblica corrente, la corruzione non è, mai, stata un vero reato, un vero peccato, non ha, mai, avuto l’impatto duro del furto, non è mai stata un tabù – come le trasgressioni sessuali – è, sempre, stata qualcosa di congenito, di naturale.
I padri fondatori della potenza inglese, Francis Bacon, Padre della Scienza, Samuel Pepys, organizzatore della marina militare e Warren Hasting, creatore dell’India inglese, incassavano, tranquillamente, tangenti e, nell’intimo, non se ne vergognavano affatto; lo annotavano sui loro diari. Seconda osservazione di chi sta allo specchio e, per una volta, si guarda come è, in quanto uomo immutabile: la corruzione non è, di per sé, quella decadenza delle buone società, di cui parlano i padri pellegrini e altri moralisti o puritani.
La corruzione è come un propellente: manda giù i deboli, gli stupidi; ma può, anche, accompagnarsi a grandi disegni, a grandi avventure di gruppo o di Nazione.
Intendiamoci bene: non sto facendo una apologia della corruzione!
Chi non ha letto in tutta la letteratura romana imperiale la nostalgia, il rimpianto per la buona severa Repubblica dai costumi spartani, dal profondo senso dello Stato?
Eppure basta grattare un po’ nella Storia morale del ceto dirigente repubblicano per scoprire non solo casi incredibili di corruzione, ma la naturalezza, direi il diritto alla corruzione diffusissimo nell’aristocrazia senatoriale.
Vi sono molti tipi di corruzione. La corruzione come arte di governo, a esempio. Praticata, sempre, dai dittatori o dai governi autoritari. Nel Drittes Reich, in cui un suddito poteva venire fucilato alla minima violazione della disciplina militare o burocratica, il maresciallo Hermann Wilhelm Göring aveva accumulato una ricchezza enorme, facendo man bassa dei quadri e delle opere d’arte razziati nei Paesi occupati. Erano, rapidamente, arricchiti Joseph Paul Goebbels, Walter Richard Rudolf Heß, Joachim von Ribbentrop e Heinrich Luitpold Himmler, ma il severissimo Führer chiudeva un occhio: rubassero pure, ma gli restassero sottomessi e fedeli.
La corruzione che si autodistrugge, autolesionista. A esempio, la corruzione mafiosa che tende a uccidere la gallina dalle uova d’oro, a strangolare industrie e negozi e ridurre regioni, quali la Sicilia e la Calabria a deserti industriali. Una corruzione che si traduce, sempre, in vita grama, di chi la pratica, densa di paura. Gente che deve vivere nascosta, in un continuo conflitto con gli amici e i nemici.
Vi è la corruzione a pioggia, la redistribuzione del reddito che partiti, enti pubblici, ministeri, aziende di Stato compiono per tenere buoni i clienti.
Vi è la corruzione partitica, in cui neppure i protagonisti riescono più a distinguere la corruzione per il partito o per la corrente da quella per se stessi.
Il potere economico è così forte, così ricco che non sente bisogno alcuno di donazioni da parte dei sudditi: è lui a corrompere i sudditi che possono servirgli, lui a seppellire la critica giornalistica, l’informazione pericolosa sotto una pioggia di regali. Case di moda, agenzie di pubblicità, aziende, banche, assicurazioni praticano la corruzione diffusa, coprendola con nomi professionali, quali pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, marketing, interventi promozionali.
Nella nostra cultura – la cultura occidentale, quella che, ancora, domina la cultura mondiale – la differenza tra tangente e dono si è sviluppata, soprattutto, riflettendo, dal punto di vista teologico-letterario, sulla Redenzione! 
A volte, l’uomo onesto, il non corrotto viene colto dal dubbio che la sua moralità sia una invenzione, una copertura di altro e meno nobile sentimento: la voglia di stare fuori dal gioco defatigante della corruzione, di non avere a che fare con ricattatori e venditori di fumo.
A volte, l’uomo onesto, che non ha, mai, toccato danaro sporco, si interroga su tutte le corruzioni intellettuali, culturali, cortigiane che ha praticato, monetizzabili nel futuro prossimo e si ricorda delle parole evangeliche:
“Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
Questo reportage è un invito alla riflessione per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri imbiancati che sulla corruzione hanno la ricetta pronta. È difficile che la Democrazia possa sopravvivere in una società organizzata sul principio della terapia anziché su quello del giudizio, sull’errore anziché sul misfatto. Se gli uomini sono liberi ed eguali, allora, debbono essere giudicati anziché ospitalizzati. 
Essendo un concetto legale, sono le leggi a determinare ciò che è corruzione, in una particolare società. La definizione legale non si dimostra, tuttavia, di alcuna utilità che non sia superficiale.
La legge è l’editto promulgato da un principe, lo statuto scritto sui libri o è, invece, ciò che viene realmente fatto rispettare?
Se ci si attiene alla norma proclamata, si rischia di scegliere un criterio di misura che, spesso, si dimostra non reale.
Alla risposta che è legge quella che viene applicata, segue la domanda: quanti processi occorrono perché una legge sia fatta rispettare?
È sufficiente il processo o è necessaria anche una condanna?
È sufficiente una dichiarazione di colpevolezza o deve esservi anche una grave punizione?
La legge è applicata anche se a essere puniti sono soltanto i piccoli trasgressori e non i grandi?
Quello dell’applicazione reale non è un criterio semplice e chiaro. 
Come diverrà chiaro al lettore, l’assassinio si accompagna, frequentemente, agli avvenimenti ricordati in questo reportage. Molti di questi delitti rimangono, ufficialmente, insoluti e nessuno dubita che i responsabili di quelle morti abbiano la capacità di uccidere ancora.
In me resta, come in molti Italiani, un profondo senso di gratitudine per i tanti Lazzaro, Uomini, di cui non conosciamo il nome e non vediamo il volto, ma che scelgono di sacrificare la propria vita per garantire la nostra. E speranza non effimera che, risolti gli aggrovigliati fatti politici del momento, guarite le piaghe interne, lenito il dolore per quelle guerre senza scopo e senza gloria, l’Italia possa tornare a simboleggiare per gli stranieri e, soprattutto, per gli Italiani migliori, il suolo sacro di una civiltà che non è fallita.
Posso assicurare il lettore che tutte le informazioni, tutti i dettagli, tutti i fatti sono stati, da me, controllati e ricontrollati, per verificare la credibilità delle diverse fonti.
Come sempre, me ne assumo la responsabilità, in toto.
La Verità deve essere rivelata, quando uno scrittore è pronto a raccontarla.
Allora, così sia!
 
 

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!



 SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
 
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
7. OPERATION HUSKY
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini

 SOCIETA’ SEGRETE
V. LA MAFIA AMERICANA
1. IL BRACCIO VIOLENTO DEL DOLLARO
di Daniela Zini
 

II. LA MAFIA
 “Quando colpiscono, colpiscono quelli che amiamo.”
don Vito Corleone


di
Daniela Zini


 “Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa

[…]
COSSIGA. Io posso confermare per scienza diretta che in Sardegna noi eravamo armati. Eravamo armati con armi corte in parte fornite dalle Forze dell’ordine e in parte acquistate su libero mercato: la Sardegna aveva visto passare gli eserciti tedeschi e gli eserciti alleati. Personalmente io ero armato con uno Stein. Le bombe a mano ci furono fornite dall’Arma dei carabinieri. L’addestramento del gruppo, del commando di cui facevo parte venne seguito da un sottufficiale della San Marco del Sud, non di quella di Valerio Borghese, anche se poi la storia dovrà chiarire che differenza c’è. Passato il 18 aprile noi riconsegnammo le armi. Nulla posso dire per scienza diretta del fatto che la parte avversa fosse armata.

PRESIDENTE. Tutti gli omicidi del triangolo rosso.
COSSIGA. No, è un fatto diverso. Non confondiamo gli omicidi del triangolo rosso, che sono di iniziativa individuale di settori del Partito di quella zona, con il Partito Comunista perché si tratta di due cose diverse. Comprendo benissimo, potei ammettere tutto ciò perché ero già Presidente della Repubblica e non era in vista o probabile una mia rielezione; altri lo dovettero negare perché potevano essere eletti al mio posto. Paolo Emilio Taviani conosceva tutto questo perché era uno dei capi delle formazioni partigiane bianche; uno di quelli più attivi in questo settore, come poi appresi, fu Enrico Mattei. A quanto so, dopo il 1948, almeno noi sardi, restituimmo le armi. Per quanto riguarda l’altra parte non so nulla di scienza diretta: so soltanto quello cui fui edotto quando, diventato sottosegretario alla difesa, mi fecero un briefing su una forza potenzialmente ostile quale era il Partito Comunista che, così, veniva considerato all’interno dell’Alleanza Atlantica, nel Comitato di Sicurezza, che ancora nella NATO esiste. Bisogna che i miei colleghi ammettano che noi abbiamo pesantemente discriminato i comunisti per 50 anni: questo è vero. Gli inglesi lo ammettono se nel costituire legalmente il servizio di sicurezza britannico, chiamato M15, un’introduzione firmata dal Primo Ministro afferma che gli scopi del servizio di sicurezza britannico sono ormai ridimensionati perché non c’è più il dovere del controllo ed il contrasto con il Partito comunista britannico: questo è stato scritto e firmato dal Primo Ministro britannico. Non capisco perché i miei colleghi non lo vogliono ammettere. Io ho sempre ammesso che la nostra è stata una democrazia limitata.

PRESIDENTE. Di questo le do atto.

COSSIGA. Abbiamo pesantemente discriminato i comunisti, mi limito a dire discriminati, ma è vero che talvolta li abbiamo perseguitati: li abbiamo licenziati, li abbiamo controllati. Probabilmente se avessero vinto loro avrebbero fatto lo stesso, ma questo a me non interessa: a me interessa dire quello che abbiamo fatto noi. Questa è la tragedia del nostro Paese. Il fatto che gli altri fossero armati non lo so per scienza diretta, lo so per il bríefing che mi fecero quando divenni sottosegretario alla difesa e mi occupavo un po’ di queste cose e poi per le conoscenze, sempre indirette e mai dirette, che avevo in qualità di Ministro dell’Interno. In questa veste sapevo benissimo, come dissi apertamente e come ha scritto nel suo bel libro l’amico Cervetti, che arrivavano le valigie di denari per il Partito comunista, come arrivavano per la Democrazia cristiana fino all’ultima segreteria Moro i denari della CIA, per essere chiari. Tanto è vero che la Procura della Repubblica di Roma ha detto che è tutto prescritto, ha chiuso tutto ed ha fatto bene. Quando mi dissero che cosa facciamo di questi messaggeri che portano i denari per il Partito Comunista risposi di lasciarli andare per alcuni motivi. Innanzitutto perché mi volevo tener buono il Partito comunista nella lotta contro il terrorismo, in secondo luogo perché sapevo che noi prendevamo denari dall’altra parte ed inoltre perché avevamo tali rapporti economici con l’Unione Sovietica che non volevo mettere in forse per la questione dei denari. Chiesi soltanto, come riporta Cervetti nel suo libro - non mi ha voluto dire chi gliel’abbia riferito - solo per far capire a chi mi faceva queste domande provocatorie, che tipo di valuta portano e mi risposero che si trattava di dollari americani, pertanto dissi benvenuti.
[…]

Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi
XXVII Seduta, Giovedì, 6 novembre 1997
Presidenza del Presidente Giovanni Pellegrino





  
La sera cade su Palermo – quel venerdì 3 settembre 1982 – quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa [1920-1982][2] lascia la Prefettura in compagnia della moglie, Emanuela Setti Carraro, sposata solo poche settimane prima, la quale è alla guida di una Fiat A112 bianca. Si allontanano, seguiti da un’altra vettura, guidata da un agente di scorta, Domenico Russo, incaricato della loro protezione. In via Isidoro Carini, la loro auto è affiancata da una BMW, con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci, i quali fanno fuoco attraverso il parabrezza, con un fucile kalashnikov AK-47. Il generale e sua moglie restano uccisi sul colpo [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/03/toto-riina-cosi-uccidemmo-dalla-chiesa-gli-sparammo-anche-da-morto/1109576/]. Nello stesso istante l’auto con a bordo Domenico Russo viene affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco, che lo fredda[3]

Il 15 gennaio 1993 viene arrestato, a Palermo, Salvatore Riina a opera dei Carabinieri della Sezione CrimOr, comandata dal capitano Sergio De Caprio [https://www.youtube.com/watch?v=kVJwCKkMT-k, https://www.rsi.ch/news/mondo/Dai-nostri-archivi-larresto-di-Tot%C3%B2-Riina-9797161.html, https://www.youtube.com/watch?v=fvT2-mZoWdk].

Il giorno dei funerali delle vittime, l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo [1918-2006] fa scalpore per la celebre citazione di Tito Livio che risuona nell’omelia:
“Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo!”
Al termine della messa, spesso, interrotta dalle proteste, i politici vengono fischiati e aggrediti dalla folla: una bottiglia d’acqua viene scagliata contro il ministro dell’interno, Virginio Rognoni e monetine vengono lanciate al presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini.
Nando Dalla Chiesa confida ai giornalisti:
Secondo me l’hanno ucciso perché è stato l’unico prefetto che è venuto qui a parlare di Mafia vera, a cercare di farli venir fuori. In questi ultimi giorni forse aveva capito qualcosa in più: ed ecco la fine che ha fatto.”


Lo scandalo della Loggia P2, la morte sospetta di Roberto Calvi, il banchiere del Vaticano, le questioni relative al terrorismo rosso e nero avevano, già, seriamente, intaccato la credibilità dello Stato italiano, ma la morte tragica di colui che aveva sgominato le Brigate Rosse e nel quale la popolazione riponeva tutte le sue speranze per ristabilire, in Sicilia, la forza della legge appare il crimine di troppo.
Il generale Dalla Chiesa non era la prima vittima della Mafia.
Il 30 giugno 1963, i corpi del tenente dei carabinieri Mario Malausa, dei marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, degli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, del maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, del soldato Giorgio Ciacci erano stati dilaniati nell’esplosione di un’Alfa Romeo Giulietta, imbottita di esplosivo [http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=421:30-giugno-1963-palermo-strage-di-ciaculli-dilaniati-da-unauto-bomba-mario-malausa-silvio-corrao-calogero-vaccaro-eugenio-altomare-marino-fardelli-pasquale-nuccio-e-giorgio-ciacci&catid=35:scheda&Itemid=67].
Nel 1970, il giornalista Mauro De Mauro era stato eliminato, forse, perché si interessava troppo da vicino alle modalità in cui era scomparso, nel 1962, il re del petrolio italiano, Enrico Mattei.   
Il 5 maggio 1971, il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione [1906-1971][4] e l’agente di scorta Antonino Lo Russo, alla guida di una Fiat 1500 nera, furono abbattuti. Era una prima, perché la Mafia, fino ad allora, era solita corrompere i magistrati di tale importanza o esercitare su di loro forti pressioni.
Il 20 agosto 1977, il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo [1928-1977][5] [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/08/la-lista-dei-grandi-delitti-anno-di.html] e, il 9 maggio 1978, un giornalista troppo curioso dell’amministrazione della Regione Autonoma della Sicilia, Giuseppe Impastato [1948-1978] [6] [http://archivio.internazionale.it/news/italia/2014/05/09/chi-era-peppino-impastato-morto-36-anni-fa], cadevano, a loro volta.
Il 9 marzo 1979, Michele Reina [1932-1979], segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana [http://www.isiciliani.it/9-marzo-1979-michele-reina-luomo-del-compromesso-storico-siciliano-contro-la-mafia/#.VayWfLUt2lI], il 21 luglio 1979, Giorgio Boris Giuliano [1930-1979][7], capo della Squadra Mobile di Palermo, e, il 4 maggio 1980, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile [1949-1980][8] furono le vittime successive.    
Il 25 settembre 1979, veniva assassinato il giudice ed ex-deputato indipendente PCI Cesare Terranova [1921-1979] e, il 6 gennaio 1980, il democristiano Piersanti Mattarella [1935-1980][9], che aveva denunciato collusioni tra il suo partito e l’Onorata Società.
Il 22 marzo 1980, era il banchiere della Mafia, Michele Sindona [1920- 1980], a morire in carcere in circostanze sospette.
Il 1980, vedeva, egualmente, l’assassinio del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa [1916-1980]. Il 6 agosto, veniva, infatti, freddato Costa da tre colpi di pistola sparati alle spalle da due killers in moto, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, in via Cavour. Il delitto era stato commissionato dal clan mafioso, capeggiato da Salvatore Inzerillo. Causa di quella spietata esecuzione: aver firmato, personalmente, i mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola e di alcuni suoi uomini, che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare e che, come disse Leonardo Sciascia, lo avevano additato alla vendetta mafiosa. Pur essendo l’unico magistrato a Palermo, al quale, in quel momento, fossero state assegnate una auto blindata e una scorta, non ne usufruiva, riteneva che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che la sua persona avesse “il dovere di avere coraggio”.
 Il 21 ottobre 1981, a Marsiglia, nella Francia del neo-eletto presidente François Mitterand, venne abbattuto, in piena strada, da due killers in motocicletta il giudice Pierre Michel [1943-1981][10], che investigava su un traffico di droga tra l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/04/20/un-giudice-troppo-ostinato-bisogna-proprio-eliminarlo.html].
Il 30 aprile 1982, fu il deputato siciliano Pio La Torre [1927-1982] a essere abbattuto per aver presentato un disegno di legge che prevedeva, per la prima volta, il reato di “associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni mafiosi.
Il 1982, videro, egualmente, la morte Salvatore Raiti, Silvano Franzolin, Luigi Di Barca e Giuseppe Di Lavore, uccisi, il 16 giugno, sotto i colpi dei fucili kalashnikov AK-47 dei killers del boss Nitto Santapaola, nella Strage della Circonvallazione, e, l’11 agosto, Paolo Giaccone [1929-1982], un medico legale[11] molto preoccupato di identificare le impronte digitali di un assassino.
È in queste circostanze drammatiche che il governo decideva di affidare la prefettura di Palermo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il generale arrivava a Palermo in maggio… per la sepoltura di Pio La Torre.
Il 6 settembre 1982, Emanuele De Francesco [1921-2011] [http://archiviostorico.corriere.it/1993/gennaio/10/Francesco_difese_Contrada_co_0_9301104506.shtml], è nominato alto commissario dal Governo Spadolini ed è chiamato, già, dal 7 settembre, a ricoprire il posto lasciato da Dalla Chiesa, ucciso tre giorni prima.
E, finalmente, la legge invocata da Pio La Torre è votata.
Ma occorre di più per impressionare l’avversario e, nel corso dei mesi successivi, esponenti delle istituzioni e della stampa indipendente pagano, ancora, un pesante tributo: un capitano dei carabinieri, il decano dei giudici istruttori di Palermo, Rocco Chinnici, lo scrittore catanese Giuseppe Fava, il giornalista torinese Bruno Caccia, che investigava sulle ramificazioni di Cosa Nostra nel Nord dell’Italia, un senatore e un industriale, che si rifiutava di essere ricattato, sono assassinati, come pure molti operatori delle Forze dell’Ordine di stanza in Sicilia.
Il 2 aprile 1985, più fortunato di uno dei suoi predecessori, il sostituto procuratore di Trapani, Carlo Palermo [http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Carlo-Palermo-La-mia-verit-.aspx], che aveva, appena, smantellato un laboratorio di fabbricazione di eroina, sfuggiva, miracolosamente a un attentato.
È su un terreno antropologico e storico molto particolare che è nata ed è fiorita la Mafia. È, intimamente, legata alle realtà politiche e sociali di una Sicilia a lungo sottomessa a padroni stranieri – quali i bizantini, i musulmani, i normanni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi, gli spagnoli, i borbonici e, infine, i piemontesi, una volta realizzata l’unità italiana – una terra sempre occupata e preoccupata di preservare la sua autonomia e che costruisce, nel XIX secolo, una società parallela garante della resistenza allo straniero, fondata su tutto un sistema di riferimenti arcaici e feudali. Questi sono, facilmente, identificabili: gerarchia immutabile ; rispetto quasi religioso per il capo reputato infallibile ; giustizia immediata e sbrigativa, che si fonda su un codice non scritto in cui la parola fa legge ; senso del gruppo, dalle famiglie”, che si spartiscono il controllo di una città, fino alla sicilianità da difendere, a ogni costo, contro le intrusioni di poteri esterni o contro ogni tentativo di uno Stato centralizzato, che cerchi di imporre la sua autorità. Aggiunti al culto della virilità e al culto del segreto, tutti questi elementi compongono nella loro semplicità, nella loro teatralità e nella loro violenza il cemento di una contro-società che finisce per confondersi con la società tout court.
Agli inizi del 1838, molto prima della realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario borbonico, Pietro Calà Ulloa [1801-1879], procuratore generale, che rappresentava, a Trapani, la Giustizia del Regno delle Due Sicilie e sarebbe divenuto primo ministro di re Francesco II in esilio, illustra in due relazioni, al guardasigilli, Cataldo Parisio, a Napoli, un quadro palpitante di dati e di fatti, di rilievi e di osservazioni molto interessanti, attraverso cui possiamo formarci una idea abbastanza chiara della situazione interna della Sicilia, appena qualche mese dopo uno dei suoi più gravi rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella prima, datata 25 aprile, sono tratteggiate le condizioni della magistratura in Sicilia.
“Il basso stato in cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu, durante il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei magistrati del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche, dai bisogni della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli stranieri e degli emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea un felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne anche nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle cose.”
Nella seconda, datata 3 agosto, di più ampio respiro e di più ricco contenuto, si descrivono le condizioni politiche, sociali ed economiche della stessa isola.  
“Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile.”
La realtà della Mafia è, si vede, anteriore all’annessione della Sicilia al giovane Regno d’Italia ed è, nella tradizione del banditismo locale, talvolta, confuso con la ribellione contro l’ordine costituito, che fa ricercare le sue origini, in questi primitivi della rivolta”. Questo tempo dei briganti rinvia alla fine del XVIII secolo, all’insurrezione palermitana del 1820, al sollevamento del 1848, allo sbarco garibaldino del 1860 e alla rivolta che infiamma di nuovo Palermo, nel 1866, e si estende in tutto l’Ovest dell’isola, segnata dall’assassinio del commissario di Monreale e dal massacro selvaggio dei carabinieri di Boccadifalco.
La repressione piemontese permette di ristabilire l’ordine, ma quando un gruppo di parlamentari italiani si reca in Sicilia, nel 1867, per indagare sulla insicurezza che regna sull’isola e sulla ostilità manifestata dalla popolazione ai rappresentanti del governo di Firenze, constata che delinquenza e dissidenza politica sono nate dalla disillusione dei siciliani, delusi dall’annessione al nuovo Regno. Questi deputati non usano, ancora, il termine Mafia, che si imporrà, in seguito, e la cui origine resta incerta.
Si tratta per i siciliani di difendersi di fronte a uno Stato che impone una fiscalità più pesante di quella dell’antico regime borbonico, allorché gli investimenti decisi dal Governo, insediato, prima, a Firenze, e, poi, a Roma, vanno prioritariamente al Piemonte e alla Lombardia. Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della “Spedizione dei Mille”, guidata da Giuseppe Garibaldi, aveva fatto nascere qualche speranza di riforma agraria e di trasformazione sociale, ma l’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato siciliano Francesco Crispi – che si sarebbe fatto più tardi campione sfortunato della espansione coloniale italiana – non esitò, allora, a proclamare che la popolazione insulare detestava il governo di Roma, che considerava peggiore di quello dei Borbone di Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo organizzato si sviluppano rapidamente dal 1860.
Gli ex-sostenitori di Garibaldi si rifiutano di tornare alla vita sociale, quando constatano che la vittoria della insurrezione non cambia nulla alla loro condizione. Quando il nuovo Regno d’Italia vuole imporre il servizio militare, dal 1861, numerosi ribelli si danno alla macchia ed è in questi strati sociali che la nascente Mafia può reclutare i suoi uomini di mano.
L’Onorata Società non è una semplice associazione di fuorilegge, ma una nuova struttura di potere. Allorché il fossato si scava tra lo Stato italiano e il popolo siciliano, si presenta come un sistema parallelo di autorità. Derivato, direttamente dai quadri preesistenti della vita politica e sociale, il nuovo potere sembra, così, prolungare il feudalesimo, abolito, molto tardivamente, in Sicilia, durante l’occupazione inglese, nel 1812. sostituendosi ai baroni, i capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese o della regione, e molti sono più rispettati dei rappresentanti del potere centrale…
Potere parallelo, la Mafia, strettamente legata alle classi dirigenti siciliane, inizia, rapidamente, a prendere il controllo del potere politico legale. In tutta la Sicilia occidentale, “fa” le elezioni e può assicurarsi complicità e protezioni al più alto livello dello Stato. Sul terreno locale, le famiglie più importanti si spartiscono borghi e regioni e forniscono i mediatori – piccoli notabili, avvocati, agricoltori benestanti – che reclutano, secondo il loro buon volere, la manodopera contadina e gestiscono le aziende dei grandi proprietari assenteisti, garantendo loro la perennità della rendita fondiaria. Sono dei veri cacicchi locali, che costituiscono l’ossatura portante della organizzazione mafiosa e assicurano il controllo sociale delle masse rurali arretrate e sottomesse.
I delitti commessi da piccole bande armate, riunite intorno a un capo locale, perdurano nell’ultimo terzo del XIX secolo, ma è una delinquenza più organizzata, creatrice di una illegalità divenuta strutturale, che si impone in questa epoca e permette alla Mafia di rinnovare regolarmente i suoi “uomini d’onore” – in sostanza, gli uomini di mano incaricati dei lavori sporchi – e i suoi quadri, trasformati in piacevoli notabili, che fanno attenzione a non ostentare una fortuna tanto improvvisa quanto sospetta.
L’abigeato, il furto di bovini, è, allora, una industria nazionale in Sicilia; ma la Mafia controlla, egualmente, il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando, importato dalla Tunisia, e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie o immobiliari.
Tutti i tentativi dello Stato centrale per vincere queste diverse forme di delinquenza falliscono uno dopo l’altro, per la resistenza della classe politica locale e dei sostegni assicurati a Roma. L’arresto o l’esecuzione del pesce piccolo dei colpevoli non cambiano affatto la situazione e non intaccano il potere dell’Onorata Società.
Il suo dominio sull’opinione insulare è pressoché totale, alla fine del XIX secolo.
Nessuno può sperare di vincere una elezione senza il sostegno della Mafia e l’assassinio di un sindaco di Palermo resta impunito, perché i siciliani unanimi si schierano con il deputato accusato di esserne il mandante, il quale sarà assolto per vizio di forma prima di essere, infine, prosciolto da ogni sospetto.
È l’epoca che vede l’etnologo Giuseppe Pitré affermare:
“La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto presente negli ingranaggi dello Stato centrale, ciò che gli garantisce una impunità pressoché totale, la Mafia può, anche, sollevare l’opinione siciliana contro questo lo stesso Stato, se manifesta velleità di ristabilire la legalità.
La storia dei tentativi compiuti dalle autorità dello Stato per reprimere i fenomeni mafiosi inizia 145 anni fa, precisamente, nell’aprile del 1874.
Dal 1861 ai primi anni immediatamente successivi alla Breccia di Porta Pia, il nuovo Stato italiano si era trovato, soprattutto, impegnato nel settore militare e internazionale, aveva combattuto una nuova e difficile guerra contro l’Austria, era riuscito a estendere le sue strutture a tutta la Penisola.
Era stato un cammino lento e difficile.
Il primo nemico dell’ordine interno non era apparso, allora, quella mitica Mafia, di cui, così poco, si sapeva, laggiù, nelle estreme province dell’isola di Giuseppe Garibaldi, bensì il banditismo a sfondo politico del basso Lazio, della Calabria e della Puglia, e, dunque, contro i fuorilegge, finanziati dagli agenti borbonici, si erano, soprattutto, indirizzati gli sforzi delle autorità. Il banditismo faceva politica; la Mafia no, a parte l’episodio di collusione con il tentativo di Maria Sofia di Baviera, nel 1863. Era, dunque, naturale che il giovane Stato si preoccupasse, in primo luogo, di eliminare le bande armate brigantesche. Fu una vera guerra, con orrendi e pietosi episodi da ambedue le parti.
Le cosche mafiose della Sicilia Occidentale, naturalmente, avevano, largamente, approfittato di questa situazione di forzata carenza da parte delle autorità. Soprattutto in provincia di Agrigento, il quindicennio 1860-1874 era stato terribile di estorsioni, rapimenti, delitti e vendette.
Vi erano, anche, stati episodi sintomatici.
Il primo febbraio del 1869, a esempio, un gruppo di ingegneri continentali, che effettuavano i rilievi per la costruzione della nuova strada ferrata, erano stati al centro di una sparatoria, a Canicattì, da parte di un gruppo di mafiosi, a scopo intimidatorio. Sembra che la Mafia locale intendesse far deviare la ferrovia dal previsto tracciato, che ledeva gli interessi di alcuni grossi proprietari terrieri. Il delegato di pubblica sicurezza della cittadina, membro lui stesso di una potente famiglia agraria, aveva trascurato di informare dell’accaduto il prefetto di Agrigento e, a Firenze capitale, l’allora ministro degli interni, l’onorevole Girolamo Cantelli, aveva appreso la cosa soltanto grazie a una segnalazione del suo collega dei lavori pubblici, al quale gli ingegneri della Impresa Generale Strade Ferrate Calabro-Sicule avevano fatto rapporto.
Il ministro Cantelli scrisse una dura lettera al prefetto di Agrigento, il quale, ignorando ogni cosa, si rivolse, a sua volta, al delegato di Canicattì, che, nondimeno, negò tutto e inviò a Firenze un rapporto anodino, nel quale si asseriva che non vi era stata, in vicinanza del gruppo di ingegneri, alcuna sparatoria, ma soltanto un incauto colpo partito da un revolver per l’innocua leggerezza di un gruppo di giovanotti”.
Gli autori della intimidazione non vennero, mai, identificati e, negli anni successivi, nuovi tentativi simili a quello di Canicattì si ripeterono, soprattutto, lungo la linea Agrigento-Sciacca-Castelvetrano.
Tutto ciò dimostrava, in primo luogo, che la Mafia, al servizio degli interessi agrari costituiti, non esitava a impiegare la violenza contro le imprese dello Stato e, in secondo luogo, che i delinquenti organizzati trovavano protezione e connivenza presso gli organi stessi periferici di governo. Ciò nonostante, la nuova Italia doveva attendere, ancora a lungo, prima di poter dare inizio a qualche forma di reazione efficace.
Il 17 aprile 1874, l’onorevole Cantelli inviava al prefetto di Agrigento, Luigi Berti, una lettera, che può essere considerata il documento che dà l’avvio al primo, serio tentativo di repressione antimafiosa. In questa lettera, la Mafia viene, per la prima volta, identificata come una vera e propria piaga sociale, che occorre conoscere a fondo nei suoi metodi e nei suoi uomini, se si vuole combatterla efficacemente; mentre il Governo assicura alle province infettetutto il suo appoggio nell’opera di bonifica. Sulla sua base, la polizia si mise in moto, con molta buona volontà, sia a Palermo sia ad Agrigento, e i risultati non si fecero attendere.
Bisogna dire che i vecchi questori piemontesi sapevano il fatto loro.
Nel 1877, dopo tre anni di lavoro, tutti i mafiosi erano stati, praticamente, identificati e processati. La magistratura pose una cura particolare nel selezionare i membri delle giurie; i processi si susseguirono ai processi e le condanne erano, sempre, dure.
È stato calcolato che, in pochi anni, non meno di 400 mafiosi furono allontanati dalla sola provincia di Agrigento e confinati a Lampedusa, Linosa, Ustica o sul continente.
E non solo!
Il governo dell’umile Italietta di allora fece qualcosa di più.
La dura quanto giustificata repressione della Mafia sul piano poliziesco venne, infatti, affiancata da tutta una attività, che ben possiamo chiamare di carattere sociale. Il Governo inviò, in Sicilia, numerose commissioni di deputati e senatori che, già, allora, seppero valutare il fenomeno con profondità superiore alla odierna confusione. Apparve chiaro, a esempio, che la Mafia non era affatto una organizzazione unitaria, che non aveva regolamenti o tradizioni scritte, che si doveva combattere, caso per caso, eliminando le varie cosche, una dopo l’altra, e, contemporaneamente, agendo sull’ambiente economico e sociale delle zone colpite ed elevando il tenore di vita materiale e culturale delle popolazioni.
Per tutto il dodicennio 1874-1885, la Mafia fu messa, praticamente, nelle condizioni di non nuocere.
Naturalmente, non venne estirpata.
Ma che vuol dire, a ben guardare, la richiesta che, di tanto in tanto, si leva di estirpare la Mafia?
La Mafia è un fenomeno delinquenziale, come il furto  o l’omicidio ed è certo che furto e omicidio non si possono estirpare né dalla Sicilia né da ogni altra regione o città d’Italia, bensì solo prevenire, ridurre, contenere. Nel dodicennio suddetto, la Mafia, dunque, se restò viva in potenza, scomparve come fenomeno in atto.
Non fu poca cosa!
Se poco più tardi, nuove condizioni ambientali e generali dovevano farla rifiorire, si può dire che, almeno per allora, l’ordine pubblico fu ristabilito insieme alla sovranità dello Stato.
Gli avvenimenti che portarono alla nuova esplosione mafiosa, dopo il 1885, furono essenzialmente due. Il primo è costituito dalla già ricordata estensione alla Sicilia della legge sulla coscrizione militare obbligatoria, che quelle popolazioni, ancora largamente immature dal punto di vista unitario, rifiutarono e avversarono, favorendo, così, la diserzione dei giovani e, quindi, la costituzione di nuove bande di fuorilegge e di nuove strutture di protezione dei renitenti. Il secondo, anche se è doloroso dirlo, fu l’apparizione di Giovanni Giolitti, al centro della costellazione politica nazionale.
Con l’avvento di Giolitti al potere,
scrive Renato Candida,
ebbe inizio la vera epoca d’oro della Mafia. Giolitti, per conseguire favorevoli risultati elettorali, poco addentro nella conoscenza della natura mafiosa, amò considerare le consorterie dalla possibilità del numero dei voti che potevano dare al partito al Governo. Uomini politici, funzionari, poliziotti inondarono di benefici i capi-mafia ed è noto come avvenissero le elezioni politiche di quel tempo.   
Fu un fenomeno dolorosissimo.
Giolitti, nel Settentrione, era lo statista più moderno che l’Italia potesse esprimere, concedeva il suffragio universale, avviava alle riforme un Paese ancora arretrato, favoriva l’inserimento delle masse popolari socialiste nella Democrazia e con ciò – come si direbbe, con linguaggio moderno – allargava le basi democratiche dello Stato. Tutto ciò avveniva, tuttavia, a prezzo di una politica meridionalistica che resta come una macchia sul blasone, per tanti lati così rispettabile, dell’uomo di Dronero. Giolitti, in sostanza, faceva progredire il resto d’Italia a spese del Mezzogiorno. L’unica cosa che interessasse il suo fondamentale scetticismo era che le province meridionali gli fornissero il più gran numero possibile di deputati, comunque eletti, che sostenessero la sua politica e gli facessero da contrappeso contro la rappresentanza parlamentare socialista.
Furono costoro i cosiddetti ascari. Chiedevano voti e offrivano, in cambio, favori e protezione, mentre il Governo chiudeva entrambi gli occhi sulla modalità e la provenienza dei loro suffragi.
Su questa base, una nuova generazione di mafiosi emerse come di incanto.
In pochissimi anni, tutto riprese da capo. 
Gli anni dell’ultimo decennio del secolo XIX e del primo Novecento furono presto terribili. La Mafia, da fenomeno prevalentemente agrario e provinciale che, di fatto, era stato fino ad allora, si trasferiva nel cuore stesso delle città, si ramificava nelle banche, negli enti pubblici, negli uffici di governo. Furono questi, sicuramente, gli anni più neri, neppure lontanamente paragonabili alla esplosione che doveva verificarsi mezzo secolo dopo, al tempo del secondo dopoguerra e del bandito Salvatore Giuliano. La intera Sicilia Occidentale era, praticamente, in mano ai pezzi da novanta e ai deputati mafiosi.
E non solo!
Già, iniziavano a manifestarsi i primi fenomeni dovuti alla cosiddetta mafia di ritorno, vale a dire i delitti imputabili a coloro che erano emigrati in America, al tempo delle prime repressioni o del rifiuto alla leva, tra il 1874 e il 1875, e che si erano associati alla Mano Nera di New York e al nascente gangsterismo locale e che riapparivano in Sicilia, fatti più esperti e crudeli dalla esperienza.
Due delitti tipici caratterizzano il terribile ventennio a cavallo del secolo. Il primo febbraio del 1883, il marchese Emanuele Notarbartolo[12] venne ucciso a pugnalate da due sicari mentre viaggiava sul treno Termini Imerese-Palermo. Era un gentiluomo di specchiata onestà, che si era, strenuamente, opposto alla penetrazione della mafia nel Banco di Sicilia, di cui era presidente. Come mandante dell’uccisione venne indicato un deputato, l’onorevole Raffaele Palizzolo, membro della direzione della stessa banca e noto mafioso. Lo scandalo fu enorme; ma il Palizzolo, condannato, una prima volta, dalla Corte di Assise di Bologna, finì per essere assolto dalla Corte di Cassazione di Firenze, dopo che un funzionario, evidentemente, istruito dall’alto, aveva ritrattato la prima deposizione a lui sfavorevole. Il delitto Notarbartolo dimostrava che la Mafia era, ormai, penetrata fino alle alte sfere di Palermo e che i suoi agenti e protettori sedevano tranquillamente in Parlamento.
Il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola fulminavano il poliziotto italo-americano Joe Petrosino, mentre usciva dal suo albergo di Piazza Marina, nel centro di Palermo.
Petrosino era sbarcato dall’America, solo pochi giorni prima. Era famoso per la lotta fortunata e tenace condotta tra New York e Chicago contro la Mano Nera, complessa organizzazione delinquenziale di tipo mafioso e camorristico, che reclutava i suoi aderenti, soprattutto, tra gli emigrati siciliani e calabresi.
Successive indagini stabilirono che, come Petrosino era venuto, a Palermo, per documentarsi sui collegamenti internazionali delle cosche americane, così l’organizzazione internazionale mafiosa era riuscita a farlo eliminare a migliaia di chilometri dal centro delle sue attività. A quanto pare, a eseguire, materialmente, la sentenza di morte fu un certo Cascio Ferro, un mafioso, da poco, rimpatriato da New York, che venne, infine, arrestato, nel 1926, come responsabile di 20 omicidi, 8 mancati, 5 rapine, 37 estorsioni e 53 reati minori. Immediatamente, dopo la sparatoria, improvvisamente, tutta l’illuminazione pubblica era stata interrotta nel quartiere del delitto, documentando come l’assassino godesse di utili amicizie.
Il delitto Petrosino, uno dei più clamorosi dell’epoca, dimostrò, a sua volta, come le strutture mafiose godessero, ormai, di estensione internazionale e si fossero impiantate, a opera degli emigranti siciliani, anche nella tumultuosa America di quegli anni. Si iniziava, per la prima volta, a parlare di malavita italo-americana. New York mutuava da Palermo e da Agrigento la pratica della protezione imposta con la violenza, dei ricatti e del pizzo”, prelevato sulla conclusione di ogni affare. A loro volta, Palermo e Agrigento mutuavano dall’America i metodi della più efficiente organizzazione criminale.    
Il sopraggiungere della guerra 1915-1918 non faceva che aggravare la situazione. Le campagne della Sicilia si riempivano di una nuova ondata di disertori, contadini miserabili, ai quali quella guerra era tanto estranea quanto lo Stato e la Nazione che la combattevano, ribelli contro una società che, dopo decenni di disinteressamento, veniva, adesso, a chiedere il loro sangue, in difesa di confini ignoti e nella esplicazione di una politica che non era da loro né conosciuta né compresa.
Tempi amari!
Le fanterie siciliane si svenavano con valore e rassegnazione al fronte, mentre nell’isola una manica di corruttori e di corrotti approfittava della situazione per estendere il suo arbitrio. Tempi così equivoci che si poté affermare che lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria” [https://www.youtube.com/watch?v=tPpQWPKJtug], si fosse lasciato eleggere dai voti della Mafia di Partinico, quella Mafia che nel significato antico, come egli stesso ebbe a dire in pieno Parlamento, nel 1921, “è sentimento del coraggio, della lealtà, dell’onore e della giustizia. 
Ora, con il ritorno a casa dei reduci dalla trincea, le nuove agitazioni sociali che scuotevano il Paese, l’insegnamento di violenza appreso al fronte, la disorganizzazione e la confusione materiale e spirituale dell’immediato dopoguerra, la Mafia trovava nuovo terreno favorevole alla sua espansione.
Tra il 1919 e il 1920, la situazione si fece, perfino, intollerabile.
La Sicilia grondava di sangue fraterno.
I delitti si erano fatti più foschi e più crudeli.
Il 19 gennaio 1921, il procuratore generale presso la Corte di Palermo, senatore Luigi Giampietro, aprendo l’anno giudiziario, ebbe a dire:
La vendetta viene eseguita barbaramente, selvaggiamente, a tradimento, in agguato, con sassi, con rasoi, con roncole, con armi, avvelenando, decapitando, strangolando e aggiungendo lo sfregio al cadavere, spargendogli del petrolio e incendiandolo, ovvero mutilandolo o facendone orrido scempio a segnalico della potenza veramente terrificante della Mafia.  
Il quadro è esatto.
Tra il 1919 e il 1924, non meno di 2500 omicidi si verificarono tra Agrigento e Palermo [almeno 300, solo nel 1919, nelle campagne dell’Agrigentino, ben 109 soltanto a Canicattì], e tutti restarono impuniti. Non vi era più proprietario terriero, commerciante o professionista che, volente o nolente, non fosse in rapporto con la Mafia, o per appoggiarvisi e farsene proteggere o come vittima di indebiti ricatti. Una nuova attività si era aggiunta alle antiche, quella relativa alla importazione clandestina dall’Oriente e dall’America di carichi di stupefacenti, destinati ai grossi mercati italiani ed europei.
Lo Stato non poteva più restare inerte.
Occorre a questo punto affrontare il grosso problema relativo alla discussa operazione che il fascismo condusse contro le strutture mafiose, tra il 1926-27 e il 1937, attraverso l’Ispettorato Generale della Pubblica Sicurezza per la Sicilia, creato ad hoc, e l’opera del celebre prefetto Cesare Primo Mori. Mori, a sua volta, aveva come suo braccio destro un altro celebre poliziotto, il commissario Giuseppe Gueli, personaggio di primo piano nella storia della polizia italiana, sgominatore della famosa banda Bedin, attiva nel Veneto e in Romagna negli anni 1930, successivamente, inflessibile repressore dei moti nazisti in Alto Adige, prima della sciagurata alleanza con la Germania hitleriana e, da ultimo, coinvolto nella liberazione di Benito Mussolini da Campo Imperatore.
L’Operazione Mafia del fascismo è stata ed è, tuttora, molto discussa. Prima di giudicarla, esaminiamo, attentamente, i suoi particolari e i risultati che raggiunse.
Pronta a legarsi contro il potere di Roma, la Mafia è, sempre, stata legata all’ordine sociale tradizionale e quando l’agitazione rivoluzionaria guadagnò la Sicilia, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, si schierò, chiaramente e dichiaratamente, con i contadini ribelli, che moltiplicano allora le occupazioni di terre.
All’inizio degli anni 1920, la mafia fa causa comune con i primi fascisti locali, ma la situazione cambia, rapidamente, dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si vedono, allora, politici liberali, quali Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi “mafioso e fiero di esserlo” e presentare la Onorata Società come un polo di resistenza, necessario di fronte all’evoluzione autoritaria e liberticida del nuovo regime.  Il 28 giugno 1925, nel comizio elettorale dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm], di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
“Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!”
Preoccupato di imporre la sua autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista nell’isola, Benito Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di briganti di ogni tipo di poesia e di fascino e si indigna che si parli della nobiltà e dello spirito cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto, il 2 giugno 1924, a Trapani, poi, a Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori. Questi impiega grandi mezzi per sradicare il banditismo classico, in particolare nella regione montagnosa delle Madonie, nell’entroterra di Cefalù. Carabinieri e milizie fasciste suddividono a scacchiera il paese, le “famiglie” mafiose sono identificate e i loro beni confiscati, centinaia di arresti sono eseguiti. Unendo repressione e azione psicologica verso le popolazioni, ottiene risultati spettacolari e la tradizionale omertà, la legge del silenzio, non protegge più i capi mafiosi. Alcuni mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi legami oltre Atlantico; altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe Genco Russo.
La marchiatura sistematica del bestiame, il licenziamento di numerosi gabellotti, le inchieste condotte sul patrimonio di alcuni sospetti permettono, allora, di portare colpi molto duri alla Mafia.
Mori è, tuttavia, ringraziato, nel giugno del 1929, dopo aver fatto scomparire il banditismo classico della “piccola Mafia”.
Ciò è sufficiente per Mussolini, soddisfatto di essere uscito vincitore da questa prova di forza; ma intenzionato ad accattivarsi i notabili siciliani, che, adottando la camicia nera, si sono, indirettamente, messi al riparo di inchieste troppo approfondite.
L’Onorata Società non è, dunque, smantellata e la Seconda Guerra Mondiale le fornisce l’occasione di ritrovare tutto il suo potere.
Mori operò sulla base di tre iniziative, due delle quali perfettamente giuste e accettabili e l’ultima, invece, resa possibile soltanto dalla sospensione delle garanzie costituzionali proprie del periodo. Il primo provvedimento, estremamente utile, fu quello relativo alla istituzione, in Sicilia, di un apposito servizio speciale denominato Anagrafe del Bestiame, che rese possibile agli organi di polizia il riconoscimento delle greggi. Ogni capo di bestiame doveva portare, saldato all’orecchio, un piombo con la sigla del comune di appartenenza e un numero progressivo. La misura si dimostrò notevolmente efficace per la lotta contro l’abigeato e la macellazione clandestina, sulla cui base si era sviluppata una delle più potenti organizzazioni mafiose interprovinciali.
Mori, inoltre, impose che la nomina dei campieri, i famosi guardiani dei feudi, dovesse essere subordinata al nulla osta da parte delle questure. Anche questo provvedimento fu giusto e utile. In pratica, a meno che non si verificasse qualche collusione, in alto loco, venne, quasi sempre, evitato che pregiudicati e noti mafiosi esercitassero un mestiere così aperto e facile alla prevaricazione. La pratica della violenza nelle campagne subì un crollo verticale. 
Molto discutibile, invece, il terzo provvedimento, vale a dire l’estensione indebita delle competenze e delle attività delle commissioni provinciali di confino.
Mori e Gueli non guardarono, certo, per il sottile!
Avevano a loro disposizione una legge già di per sé illiberale e vessatoria, come quella che permetteva, senza pubblico processo, senza possibilità di appello e senza la garanzia di un difensore, l’invio al confino di qualsiasi cittadino segnalato alla Prefettura dagli organismi di Pubblica Sicurezza.
I due applicarono questa legge con estrema durezza.
In pochi anni, migliaia e migliaia di cittadini furono allontanati dai loro paesi e l’innocente venne, spesso, coinvolto insieme al colpevole, il piccolo mafioso punito più del capo-mafia, il corrotto più del corruttore e il debole più del violento. In sostanza, soffiò sulla Sicilia un vento di colonialismo, che, alla lunga, non poteva generare che altri odi e nuovi risentimenti. Interi paesi furono, praticamente, spopolati di uomini. Invece di isolare i veri mafiosi e colpirli duramente, accadde che tutta la popolazione dei centri indiziati dovette pagare indiscriminatamente. Dalla sola Cattolica Eraclea, a esempio, vennero confinati 245 individui. Da Palma Montechiaro ben 211, più di 1000 tra Canicattì, Bivona e Favara. Poco, invece, fu fatto contro le cosche palermitane della mafia dei giardini e della mafia dei mercati, al cui vertice emerse, in quegli anni, il famoso Zì Gasperino, uno dei più spietati controllori del racket alimentare. 
E, mentre Mori e Gueli combattevano con durissimo rigore i gregari, certe collusioni si verificarono, invece, a diverso livello, quando la Mafia, sempre pronta a adeguarsi alle nuove situazioni, entrava nel complesso gioco delle rivalità politiche e personali, quasi sempre a sfondo affaristico, che si determinavano tra podestà e segretari federali, tra gruppi di gerarchi locali e tra fascisti e vecchia classe dirigente siciliana, sedicente liberale. Non vi è dubbio che, ad alto livello, le strutture mafiose, più che combattute, fossero assimilate e inglobate dal fascismo.
Il risultato di tutto ciò fu che una relativa tranquillità venne assicurata, per quegli anni, alle province martoriate. La Bassa Mafia era stata messa in condizioni di non nuocere da Mori e da Gueli, a forza di deportazioni, arresti indiscriminati, retate e vessazioni che colpivano pressoché tutti. L’Alta Mafia poteva dirsi, in molti casi, tranquillizzata e soddisfatta dalle raggiunte posizioni di potere diretto: non aveva più bisogno della violenza per conseguire i suoi fini economici, le bastava utilizzare le forze dello Stato a livello locale. Le ultime grosse retate furono compiute nel 1937-1938, e si era, ormai, alla vigilia dei tempi nuovi.
Vi è da aggiungere un’altra considerazione.
Già, nel decennio 1874-1885, lo Stato italiano si era impegnato a fondo e con estrema durezza, contro le strutture mafiose. Ma, come abbiamo visto, le misure di polizia prese, in quegli anni lontani, erano state accompagnate da tutta una attività di carattere sociale, rivolta a sanare le condizioni obiettive che favorivano la crescita del fenomeno. Il fascismo, purtroppo, non seppe fare quello che era stato, almeno, tentato dall’“Italietta del secolo precedente. In luogo di dare la terra ai contadini ed elevarli alla condizione di liberi cittadini, li irregimentò e li mandò a combattere. Il feudo rimase la realtà sovrana dell’interno dell’isola e le popolazioni divennero sempre più un gregge di sudditi, anziché una comunità di produttori. A tutti venne chiesto soltanto di obbedire e le conseguenze si pagarono, dopo pochissimi anni.
Mutate le condizioni politiche e ambientali, dopo il durissimo periodo bellico, che la Sicilia pagò in fame e distruzioni, forse, più di ogni altra regione d’Italia, la Mafia tornò a fiorire.
Dalla fine del XIX secolo, la miseria aveva spinto verso il Nuovo Mondo numerosi siciliani, che avevano costituito, a New York e in altre grandi città dell’America del Nord, importanti comunità, ben presto taglieggiati da compatrioti intraprendenti, preoccupati di assicurare loro “protezione”.
Gli anni 1920 e la prosperità che li accompagna oltre-Atlantico vedono la Mano Nera dell’inizio del secolo sostituita dall’Unione Siciliana, antenata di Cosa Nostra, in seno alla quale si distinguono nel modo che conosciamo, con il favore del proibizionismo, Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Frank Costello e Joe Profaci.
Dal 1942, gli americani si preoccupano di un futuro sbarco in Sicilia e beneficiano in questa prospettiva dei consigli avveduti di Lucky Luciano, uno dei più celebri mafiosi degli Stati Uniti, che, condannato a cinquanta anni di carcere, è liberato su parola per la circostanza.
E, con lo sbarco anglo-americano, nel luglio del 1943, i tre quarti dei sindaci, designati dal governo militare alleato, messo in piedi nell’isola, sono noti mafiosi. Allorché l’incertezza resta circa la evoluzione politica futura dell’Italia, questi “notabili” sono interlocutori ideali per gli americani e rivendicano anche la costituzione di una Repubblica siciliana indipendente.
La Mafia è dietro questa impresa separatista, che incarna allora Salvatore Giuliano. Accusato di mercato nero, questo giovane contadino di Montelepre ha ucciso un carabiniere, il 2 settembre 1943, e si è dato alla macchia nelle montagne vicine, dove numerosi altri giovani braccianti, in situazione molto precaria, lo raggiungono, nel corso dei mesi successivi.  
“Bandito d’onore”, Giuliano non esita ad attaccare i carabinieri e a far beneficiare di una parte delle sue ruberie la misera popolazione della sua terra.
Guadagna immenso prestigio!
Nell’estate del 1945, alcuni monarchici, che sostengono il movimento separatista, lo nominano “colonnello” dell’Esercito Volontario di Indipendenza Siciliana [EVIS]. Ma la concessione, nel 1946, di uno Statuto di Autonomia all’isola priva i separatisti del sostegno popolare; mentre la Mafia vede, immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di azione che sarà, ormai, la sua, nel quadro della nuova amministrazione regionale.
Le elezioni di aprile del 1947, che suggellano la sconfitta della corrente separatista, sono segnate da una forte spinta della sinistra, in un contesto di bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana.
La Mafia ha, rapidamente, fatto la sua scelta.
Si tratta, ora, di lottare contro la sinistra e, più in particolare, contro i comunisti.
Giuliano interviene nella attuazione di questa nuova strategia.
Il primo maggio del 1947, Giuliano attacca un raduno di sinistra a Portella della Ginestra e l’operazione fa più vittime.
Altre azioni analoghe sono condotte nel corso delle settimane seguenti. Ma Giuliano non è che un uomo di mano, che rischia di divenire troppo loquace, ed è assassinato il 5 luglio 1950.
Allorché sembra aver perduto la sua influenza con il favore della instaurazione del regime repubblicano, la Mafia stabilisce, di fatto, dei legami stretti con la Democrazia Cristiana, divenuta il primo partito della Sicilia. Può, così, intervenire nell’amministrazione  della regione, dotata, ormai, di una larga autonomia e il sistema clientelare, che faceva la sua forza, è, rapidamente, ristabilito.
La Legge della Riforma Agraria del 1950 – la cui applicazione è controllata dall’amministrazione regionale – permette tutte le speculazioni e, al tempo stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli agricoltori che debbono beneficiarne.
Il controllo della creazione di pubblici impieghi – che rientra nelle competenze dell’autorità regionale  – favorisce, egualmente, il clientelismo e contribuisce allo sviluppo dell’influenza mafiosa.
L’ottenimento di licenze edilizie, nel contesto del boom immobiliare del dopoguerra – Palermo è stata, in effetti, distrutta, in larga parte dai bombardamenti alleati – permette di privilegiare le imprese mafiose, che sanno, in cambio, mostrarsi generose, quando viene il momento delle campagne elettorali…
L’espansione economica dei “Trenta Gloriosi”[13] genera condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività mafiose.
Racket, speculazione immobiliare, contrabbando di sigarette e traffico di droga divengono campi di attività, particolarmente redditizi.
Le famiglie si dilaniano per il controllo di alcuni settori, perché la Mafia dei giardini o dei campi, molto presente negli agrumeti della Conca d’Oro, dove controlla il mercato fondiario e l’irrigazione, si scontra con la Mafia delle città o dei cantieri, specializzata nell’edilizia e nel riciclaggio del danaro sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio presto favorito dall’instaurazione della libera circolazione di capitali nell’Europa in costruzione.
Numerose vittime scompaiono, allora, di cui nessuno troverà, mai, i cadaveri, discretamente colati nel cemento degli immobili in costruzione…
Lo sterminio del clan Navarra, di Corleone, da parte di Luciano Leggio [1925-1993][14] è uno degli episodi più sanguinosi di queste lotte senza quartiere.
Prima di concludere questa breve storia delle insorgenze mafiose dobbiamo esaminare, più da vicino, il fenomeno che va sotto il nome di mafia di ritorno e che implica l’analisi dei rapporti intercorrenti tra tre diverse, ma inaspettatamente collegate centrali: le coschedel Palermitano, il gangsterismo di New York e di Chicago e la politica degli anglo-americani, in Italia, tra il 1942 e l’inizio del 1945.
La prima ondata di mafiosi siciliani, che ebbero a riversarsi al di là dell’Atlantico fu quella determinata, come abbiamo visto, dalla prima fase delle repressioni tra il 1874 e la fine del secolo scorso. I delinquenti siciliani, che sfuggivano alla cattura e che si mescolavano con la grande diaspora degli umili contadini, costretti a “fare fagotto” da tutta l’Italia meridionale, si associarono alla nota Mano Nera, che fu, inizialmente, nulla più che una società di mutuo soccorso tra gli emigranti italiani più sfruttati. Ben più grave di conseguenze fu, successivamente, il fatto che gli anni della seconda ondata – quando i mafiosi più compromessi lasciarono la Sicilia per non cadere nella rete di Mori – coincisero, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, con gli anni del proibizionismo, vale a dire con l’aprirsi di una situazione che sembrava, appositamente, studiata per favorire il radicarsi di organizzazioni e strutture fuori dalla legge a carattere delinquenziale di massa.
Il racket dell’alcool, in America, aveva, già, in partenza, tutte le caratteristiche delle attività commerciali illegali, che erano fiorite in Sicilia. Era inevitabile che i tecnici del rifornimento clandestino, del ricatto, della protezione e del pizzo”, provenienti dalla Sicilia, venissero, subito, irreggimentati nelle nuove bande americane.
Tra il 1930 – anno cruciale della repressione Mori – e il 1950 – anno della famosa inchiesta Kefauver – i delinquenti, scacciati dall’Italia, assunsero il pieno controllo di tutte le attività illegali americane.
Franco Castiglia, detto Frank Costello, ex-mafioso, fu il boss del racket di New York, mentre Al Capone regnò su Chicago.
È il tempo di Albert Anastasia; Charles Lucky Luciano; Michael Coppola; Antonio Carfano, detto Little Augie Pisano; Frank Nitti; Settimo, detto Sam o Sammy Accardi; Joe Doto detto Adonis; Paul “The Waiter” Ricca; Charles “Trigger Happy” Fischetti, Richard “Richie Nerves” Fusco.
I giorni della Anonima Delitti.
Dal 1933 in poi, come venne dimostrato dalla inchiesta del senatore Estes Kefauver, questa gente entrò, indubbiamente, in collusione con una parte del Partito Democratico. A cavallo tra la Tammany Hall, l’Unione Siciliana e le varie società di mutuo soccorso tra emigranti poveri dall’Italia, dall’Irlanda e dai Paesi slavi, tra il sindaco William O’Dwyer [1890-1964] e alcuni uomini politici corrotti, i bosses organizzano le elezioni, i sindacati, le convenzioni, i municipi. Lo stesso Franklin Delano Roosevelt [1882-1945]  [http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/26/Quando_Roosevelt_chiese_aiuto_boss_co_9_100826021.shtml] è impotente di fronte alla Piovradella malavita, concentrata nelle grandi città dell’Est, e solo la guerra, con la sua ondata di disciplina patriottica, riesce a mettere un freno al dilagare della corruzione.
La guerra ha, anche, altre conseguenze tra i grandi mafiosi restati in Sicilia, mimetizzati fino ad allora ai margini del fascismo o dallo stesso, come è stato giustamente detto, oppiati e resi soddisfatti. Furbi, bene informati dai loro complici americani, sempre pronti a adeguarsi alle nuove situazioni, ancora prima che si deliniino, i grandi mafiosi siciliani comprendono, subito, che Benito Mussolini perderà la guerra e che occorre prepararsi a tempi nuovi e a nuove situazioni per mantenersi a galla e per esserne i nascosti padroni.
La Mafia diviene, allora, antifascista, ma non già per amore di Democrazia, come non fu antiborbonica, un secolo prima, per puro amore di Libertà, bensì per acquistarsi meriti in cambio di protezione.
La Mafia americana mise a disposizione dei comandi americani la sua conoscenza di uomini e cose siciliane, i suoi canali di informazioni, la sua rete di collusioni.
Si offrì come strumento di spionaggio.
I comandi americani ebbero il torto di accettare questa offerta.
La rete mafiosa forniva loro una base per il giorno in cui avrebbero messo piede in Sicilia.
I loro agenti segreti si appoggiarono ai nominativi forniti da gente come Luciano o Adonis; lo sbarco in Sicilia fu preparato da una equivoca rete di esperti dello Strategic Service di Washington e di appartenenti alle cosche.
All’indomani dello sbarco del 10 luglio 1943, il 70% dei sindaci nominati, in Sicilia, dagli Alleati, erano mafiosi: le autorità di occupazione avevano in tasca i nominativi degli amici degli amici”, forniti dai capi-banda italo-americani in cambio di riduzioni della pena e promesse di estradizione.
E non solo!
Tutta un corrente politica, in America come in Inghilterra, pensava che l’Italia in quanto tale dovesse essere punita. Alcuni generali ragionavano in termini di vecchia strategia e sembrava loro che il distacco della Sicilia dallo Stato continentale avrebbe potuto essere, ancora, utilissimo per il futuro controllo del Mediterraneo.
Il movimento separatista siciliano traeva forza, d’altra parte, dalle miserrime condizioni dell’isola, dove le rivolte per fame si susseguivano a Palermo, a Partinico, a Catania e nelle campagne dell’interno.
Come conseguenza della disgregazione sociale, portata dalla guerra, il mercato nero generò il banditismo.
E il banditismo prese contatti con la Mafia e si mise al suo servizio.
E, poiché la Mafia sceglieva una politica, il banditismo diveniva, a sua volta, un fatto politico.
Le bande pre-Giuliano che presero nome di Labruzzo, Cassarà e Lombardo, nella Sicilia Occidentale, e Russo, nel Catanese, furono il prodotto di questa nuova situazione.
Sulla collusione mafia-banditismo-politica separatista degli anni tra il 1943 e il 1950 si è scritto molto. Bisogna riconoscere che, a seguito di una nuova attività repressiva, che, tuttavia, non ha mancato di lasciare uno strascico di dubbi e di polemiche, come conseguenza di certi metodi non ortodossi, la Mafia, dopo il 1950, subisce un altro colpo o almeno un’altra battuta di arresto.
Le statistiche parlano chiaro.
Tra il 1950 e il 1955, i reati accertati in Sicilia tendono a diminuire. Gli omicidi passano da una media di 45 a una media di 33 all’anno, i furti si riducono della metà, da oltre 700 a poco più di 400.
Ora, accanto all’attività repressiva di tipo poliziesco, la Sicilia conosce una nuova fase di sviluppo sociale, l’avvio alla riforma agraria che, bene o male, dà la terra e la casa a decine di migliaia di contadini; la scomparsa del feudo; l’inizio dell’industrializzazione.
E, come sempre, la Mafia viene messa in crisi dalla riforma sociale. Si mimetizza o emigra sotto l’imperversare della repressione poliziesca e militare, per poi rialzare il capo appena la pressione venga allentata; ma ben altre difficoltà deve affrontare, quando mutano le condizioni sociali ed economiche dell’ambiente, quando i contadini passano dalla condizione di bracciante, costretto a mendicare una giornata di lavoro, a quella di piccolo proprietario indipendente e i disoccupati cittadini trovano qualche prospettiva in una attività economica, avviata verso soluzioni di progresso.
Scompare, dunque, la Mafia?
Al contrario!
Il fenomeno, come abbiamo visto, ha mille volti e una capacità di adattamento quasi-totale. Negli anni in cui, dopo la liquidazione di Salvatore Giuliano e delle connivenze politiche separatiste, la Mafia sembra quasi battuta e le statistiche delinquenziali appaiono in regresso, l’organizzazione cambia, ancora una volta, uomini, metodi e strutture. Assistiamo, dunque, in questi anni, al seguente fenomeno: le strutture mafiose si fanno sempre più urbane e trasferiscono il loro interesse dalle fonti della produzione agricola a quelle del commercio, dell’edilizia, della industria nascente. I vecchi rackets paesani sono svuotati di contenuto economico; ma sorgono nuove incrostazioni, laddove il progresso economico muta il volto dell’isola.
La Mafia diviene, allora, più violenta e più del potere locale o la considerazione che procura, è la ricchezza che costituisce l’obiettivo delle nuove generazioni. Una Mafia di capi di impresacorrotti, organizzata in una vera multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia rurale, derivata dagli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di somme astronomiche, tratte da attività illegali, e docilità di impiegati di imprese mafiose costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, capi, che non fanno affatto fatica a prendere il controllo di settori interi della economia siciliana o italiana.
Il potere economico, derivato dal traffico di droga, procura di nuovo i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato italiano, in seno al quale diviene possibile “accaparrarsi” preziose complicità, ciò di cui testimoniano i “sospetti” molto seri che si sono portati su Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per sette mandati e vero centro di gravità del sistema politico italiano, per diversi decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in Parlamento, nel 1962, non ha, così, ottenuto che modestissimi risultati e un nutrito numero di funzionari, di operatori delle Forze dell’Ordine e di magistrati hanno pagato con la loro vita la loro volontà di lottare, seriamente, contro la criminalità organizzata.
La serie di assassinii, che ha segnato gli anni 1970, ed è culminata, nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione delle menti, soprattutto, in Sicilia, dove la Mafia non può più beneficiare del consenso tacito che le garantiva una impunità pressoché totale. È, ormai, con il terrore che deve imporsi, ma le inchieste di magistrati, quali Giovanni Falcone e Ferdinando Imposimato permettono di portarle colpi sempre più seri.
L’arrivo a Roma, nel 1984, di Tommaso Buscetta, estradato dal Brasile, costituisce una svolta nella lotta contro la Mafia. Trafficante di droga di grande levatura, aveva lasciato Palermo, nel 1981, per sfuggire ai killers di Michele e Pino Greco, i nuovi Corleonesi. Gli assassinii di suo cognato, di due figli, di un genero e, infine, di suo fratello – che, semplice artigiano, non aveva niente a che fare con la Mafia – lo indussero a parlare.
Al termine di una confessione di un mese, 3mila carabinieri e poliziotti possono procedere, il 29 settembre 1984, a una retata di vasta portata che permette di arrestare diverse decine di mafiosi, immediatamente portati nelle prigioni del Nord dell’Italia.
Dopo Buscetta, Salvatore Contorno, superstite di una famiglia decimata dai Corleonesi, Vincenzo Sinagra e una ventina di altri pentiti permetteranno di accumulare prove e, nel febbraio del 1986, 475 imputati su 840, compaiono davanti al Tribunale di Palermo. Questo, di fatto, è un vero bunker, dove misure di sicurezza eccezionali sono state prese: la sola costruzione degli edifici è costata 54 miliardi di lire, vale a dire poco meno di 28 milioni di euro. 
Il dossier dell’istruttoria conta più di 8mila pagine, riunite in 40 volumi e riguarda circa 100 omicidi. Altri 22 volumi raccolgono i documenti relative ai conti bancari e al riciclaggio di danaro sporco. 2mila carabinieri e poliziotti sono incaricati della protezione del tribunale, dei magistrati, dei testimoni e della quindicina di famiglie delle vittime che hanno avuto il coraggio di costituirsi parti civili, senza trovare un avvocato siciliano che accettasse di difenderli. Buscetta, al quale un intervento di chirurgia plastica ha modificato i tratti del volto, testimonia, il 7 aprile, fuori della vista degli accusati e del pubblico.
Il processo si trascina, perché i mafiosi e i loro avvocati utilizzano tutti i cavilli giuridici, che permettano loro di guadagnare tempo, e, il 7 ottobre, la Mafia uccide un bambino, la cui famiglia, addetta alla pulizia del tribunale, si era rifiutata di lasciarsi corrompere…
Forza resta, tuttavia, alla Giustizia e pesanti condanne cadono sui colpevoli.
Ma la Mafia non è morta…
E la sua vendetta si abbatterà, il 23 maggio 1992.
Nella Strage di Capaci perdono la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e 3 agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montanaro. Gli unici sopravvissuti sono Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
Il 19 luglio seguente, è il giudice Paolo Borsellino a essere ucciso con i 5 agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, nella Strage di via DAmelio.
La sera del 27 luglio, è Giovanni Lizzio[15], ispettore capo della Squadra Mobile della Questura di Catania – responsabile della sezione anti-racket – a essere abbattuto, nel quartiere periferico di Canalicchio, mentre è fermo in auto davanti a un semaforo  [http://www.cadutipolizia.it/Fonti/Polizia1981/1992Lizzio.htm]. Poco prima di morire, il 18 luglio, Lizzio aveva condotto una operazione,che aveva consentito la cattura di 14 uomini del clan Cappello, grazie alle rivelazioni di un pentito.
Di fronte a una opinione disgustata da questi attentati odiosi, le istituzioni sono, dunque, costrette a reagire.
Due giorni dopo la morte di Giovanni Falcone, il 25 maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro [1918-2012] è eletto Capo dello Stato al sedicesimo scrutinio.
E, il 28 giugno, dopo una crisi iniziata da 83 giorni, nasce il Governo Amato.     
Il 7 agosto, un decreto legge Antimafia permette di accelerare le procedure giuridico-poliziesche e accorda poteri eccezionali ai magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata.
Il 7 settembre, uno dei capi della Mafia, Giuseppe Madonia, figlio di Francesco Madonia, capo indiscusso della provincia di Caltanissetta e membro della commissione regionale di Cosa Nostra, è arrestato, dopo dieci anni di latitanza, a Longare.
Seguiranno altri arresti.
Poco tempo dopo, l’inchiesta Mani Pulite, condotta dai giudici di Milano contro la corruzione – con il sostegno massivo della opinione pubblica – permette, con il favore delle elezioni di giugno del 1993, la rigenerazione di un sistema politico italiano tanto sclerotizzato quanto incapace e la Giustizia può, così, segnare punti decisivi; mentre si attuano nuovi rapporti di forza elettorali, di cui fanno le spese i comunisti, a sinistra, e la Democrazia Cristiana, a destra.
La lotta contro il crimine organizzato porta, regolarmente, i suoi frutti, ma se centinaia di mafiosi sono stati arrestati, tra i quali gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le riforme della Giustizia, che sono, oggi, allo studio, in Italia, rischiano di rimettere in questione questo bilancio positivo. Sono considerate nell’ottica della difesa dei diritti del cittadino contro l’arbitrio di un giudice, ma autorizzando, a esempio, – in nome del “sospetto legittimo” circa l’imparzialità di un magistrato – lo spostamento di un processo da una corte a un’altra, si potrebbero offrire ai mafiosi e ai loro avvocati seri mezzi per intralciare l’azione della Giustizia, come aveva fatto valere l’ex procuratore nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna [1933-2005].
Che fare?
Conosciuta a fondo la nuova Mafia, come speriamo sia in grado di fare la nominata Commissione Parlamentare, occorre combatterla. Tutta la esperienza del passato ci dice che due sono le strade da battere. Quella del rigore della legge, affidata a uomini nuovi e decisi e quella della riforma sociale ed economica, l’unica capace di condurre a quella rivoluzione delle coscienze”, che è il vero, definitivo nemico della Mafia.  



8. IL BRIGANTAGGIO POLITICO





Il decennio 1890-1900, fu per l’Italia un periodo nervoso, inquieto e pericoloso per le libertà costituzionali. In una società ancora precapitalistica e però in via di profonda mutazione  proprio per effetto dello sviluppo industriale, le tensioni sociali tendevano sempre più a manifestarsi come effetto di forze organizzate. È in questi anni che, parallelamente alla nascita di un proletariato moderno, la cui origine si rifà alla crescente presenza della fabbrica, si organizzano su scala abbastanza vasta cooperative operaie, leghe di resistenza, camere del lavoro. In questi anni [1892] a Genova nasce anche il partito socialista che entra, come nuovo e importante elemento di opposizione, non solo nel tessuto sociale del Paese ma anche in quello politico.
Nel 1890, vi era un solo rappresentante socialista alla Camera, Andrea Costa. In quello stesso anno, i deputati socialisti divennero 5; nel 1892 salirono a 10; nel 1895 a 12; nel 1897 a 16; e infine nel 1900 a 32. Si avvia al tramonto il socialismo semplicistico, verboso e agitatorio ma sostanzialmente emarginato di Bakunin e si afferma una mentalità nuova, di ispirazione marxista, che trova i suoi teorici, Antonio Labriola, i suoi scrittori, Giovanni Verga, i suoi rapporti con il movimento operaio europeo, la Seconda Internazionale. 
Si può distinguere tra un socialismo tendenzialmente repubblicano e anarchico, come in Emilia, e un socialismo più spiccatamente marxista, che ha il suo centro a Milano, ma il fatto comune a questi inizi è l’abbandono dell’utopismo da club, dove si agitano idee generose ma inconcludenti e si aspetta una palingenesi che non verrà mai; poiché lo Stato ha da tempo una sua struttura ben definita e l’esercizio del potere politico, senza per questo volere accreditare leggendariamente una sua connaturata inclinazione a opprimere la massa e i suoi diritti, si esplica in forme che tendono a ritardare ogni processo di rinnovamento, a disciplinarlo, a contenerlo. È l’automatismo conservatore di ogni potere.  
Socialismo che nasce, dunque, al Nord.
Al Sud, viceversa, siamo ancora ben lontani dal vedere sorgere qualcosa che assomigli a una coscienza politica della classe operaia, ancorché già da un trentennio siano stati creati i Fasci dei Lavoratori in Sicilia. Questi, formatisi sulla falsariga delle società operaie mazziniane, si prefiggono scopi più che altro mutualistici, assistenziali, provvedono al sorgere di scuole, all’assistenza medica, ai prestiti di danaro tra i soci. I Fasci Siciliani erano il prodotto di un socialismo istintivo in una società rurale, povera e incolta che tuttavia si rendeva gradatamente conto, a misura che ferrovie e strade la mettevano sempre più a contatto con la società urbana, della propria miseria e delle condizioni del proprio sfruttamento.
Sommandosi poi, in Sicilia, allo scontento delle masse l’atavico risentimento contro ogni forma di governo e il vecchio rancore isolano contro il continente, avvenne che proprio da quella lontana provincia dovesse partire la prima, grave ribellione nei confronti del governo centrale. Così grave che, in parte per calcolo politico, in parte per un errore di valutazione provocato dalla violenza dell’urto insurrezionale e dalla necessità di porvi rimedio, il governo di allora accreditò la tesi di una rivolta organizzata, diretta a programmi di scardinamento dell’ordine legale e costituzionale. Niente di più falso, come è stato storicamente provato.
Quella che, nel gennaio del 1893, partì da Caltavuturo, dove i contadini invasero e occuparono le terre demaniali fu una vera e propria rivolta della fame. Il paese ne fu scosso a tal punto che, nel dicembre del 1893, il governo Giolitti dovette dimettersi. Il suo posto fu preso da Crispi, un siciliano che conosceva profondamente i problemi dell’isola, ma al cui giudizio umano e politico faceva velo, benché egli provenisse dal radicalismo garibaldino, il pregiudizio che ogni forma di socialismo andasse combattuta e stroncata. 
Il giudizio politico sulla situazione siciliana in quegli anni era già stato dato, nel 1892, pochi mesi prima dell’espolosione dei moti, dal deputato Napoleone Colajanni.

 

 segue, a breve, il testo integrale...



[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
[2] Secondo la sorella del giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa aveva incontrato il fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro di Aldo Moro, che infastidivano Andreotti. Buscetta, inoltre, affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
“[Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui.”
[3] All’inizio del mese di aprile del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva scritto al presidente del consiglio Giovanni Spadolini:
“La corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.”
Un mese dopo, veniva, improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A Palermo, lamentò, più volte, la carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica e carica di amarezza rimane la sua frase:
“Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì.”
Chiese di incontrare Giorgio Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo Stato. Nell’intervista del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno consentito alla Mafia di agire indisturbata, per anni. Di fatto la pubblicazione dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna reazione da parte dello Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel mirino il generale.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina, Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il generale Dalla Chiesa aveva svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, nel 1970, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei.
Le carte relative al sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, dopo la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se sono state sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.

[4] Secondo la testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione“fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni.

[5] Il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo di Palermo, stava indagando sul caso Mattei. La sera del 20 agosto 1977, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, perse la vita davanti a un bar di Ficuzza, frazione di Corleone.
Così ricordò, quella tragica sera del 1977, il giornalista Mario Francese, su Il Giornale di Sicilia, all’indomani dell’omicidio:
“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una “128” verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”

[6] L’uccisione di Giuseppe Impastato, avvenuta in piena notte, riuscì a passare, la mattina seguente, quasi inosservata, perché, proprio in quelle ore, veniva ritrovato il corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, in via Caetani, a Roma.
“È nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare…
Aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato…
Si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste sono alcune delle parole, con cui i Modena City Ramblers descrivono Peppino Impastato nella loro canzone I cento passi, ispirata all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.

[7] Giorgio Boris Giuliano fu ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle.

[8] Precedentemente al suo assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Giorgio Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il posto di Basile, quale comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e all’appuntato Giuseppe Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche l’ex-autista di Basile, il carabiniere Pietro Morici.

[9] Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria sui “delitti politici” siciliani che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone. Questi puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la morte di Falcone, l’uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
Nel 1993, Buscetta, in particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare] che non si doveva ammazzarlo [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione.”

[10] Pierre Michel scoprì che i marsigliesi erano in affari con la ‘Ndrangheta calabrese, in particolare, per quanto riguardava gli investimenti di droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso, Michel stava collaborando con alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache dell’epoca si apprende che, solo poche settimane prima dell’omicidio, il giudice aveva ricevuto, a Marsiglia, tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori solo due nomi di magistrati italiani che mantenevano rapporti di collaborazione con Michel: Giovanni Barrille e Giusto Sciacchitano.
E il terzo chi era?
Bisognerà aspettare il quinto anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione, infatti, appare Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa intuire ai cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice assassinato nel 1981.

[11] Paolo Giaccone è assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo. Aveva ricevuto l’incarico di esaminare impronte digitali, lasciate dai killers, che, nel dicembre del 1981, avevano scatenato una sparatoria tra le vie di Bagheria.

[12] Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia [http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/]. Già sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle calunnie, di cui erano stati oggetto nel pro­cesso. Questa sentenza significa per loro un fatto chiaro:
“LA GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano, molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi.”
E ancora:
“Sono arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno dei rapporti fra di loro.
È superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale, alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: “il tale è un capo della mafia”, significa soltanto che egli è in buoni rapporti con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in identico modo.”

[13] Per circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si triplicò.
Nei primi anni del dopoguerra, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I Paesi europei, invece, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra e colpite dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione Truman era consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e stabilità politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di qui la decisione di varare il Piano Marshall.
A questo punto, iniziò una fase di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I principali fattori che resero possibile il grande sviluppo dell’economia occidentale furono:
-        la creazione di un ordine economico e monetario stabile, imperniato sul dollaro, definito, già, nel luglio 1944, con gli Accordi di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con l’Asse;
-        il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche;
-        la rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che consentì la diffusione di beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-        l’esplosione dei consumi di massa, favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a esempio: la televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la vendita a rate] e, infine, dalla crescita della occupazione e delle retribuzioni, che rese disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del reddito nazionale;
-        il grande sviluppo dei trasporti, legato alla diffusione della motorizzazione privata e all’utilizzo su larga scala dell’aviazione civile.
Accanto alla crescita economica, gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte attenuazione del ciclo economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di sviluppo con altre di stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato l’economia capitalistica fino dal suo nascere.
In questo periodo non si registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti di rallentamento.
Ciò fu dovuto, oltre che alla stabilità del sistema monetario internazionale, alla adozione di politiche economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla esperienza del New Deal e sul principio che gli strumenti della politica economica, e, in particolare, la spesa pubblica, debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale, ossia l’insieme dei beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai cittadini, dalle imprese e dallo Stato.
L’autorità politica venne assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’economia. In molti Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre principali forme:
-        l’impostazione della politica economica in chiave espansiva;
-        l’ampliamento della funzione imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese pubbliche [a esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione di alcuni settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo a creare sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-        l’adozione generalizzata dello Stato Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche rivolte a erogare a tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa pubblica, servizi e assistenza sociale.

[14] Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.

[15] Per l’omicidio dell’ispettore capo Giovanni Lizzio è stato condannato all’ergastolo, con sentenza passata in giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.

responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.

The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
[2] Secondo la sorella del giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa aveva incontrato il fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro di Aldo Moro, che infastidivano Andreotti. Buscetta, inoltre, affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
“[Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui.”

[3] All’inizio del mese di aprile del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva scritto al presidente del consiglio Giovanni Spadolini:
“La corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.”
Un mese dopo, veniva, improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A Palermo, lamentò, più volte, la carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica e carica di amarezza rimane la sua frase:
“Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì.”
Chiese di incontrare Giorgio Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo Stato. Nell’intervista del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno consentito alla Mafia di agire indisturbata, per anni. Di fatto la pubblicazione dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna reazione da parte dello Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel mirino il generale.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina, Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il generale Dalla Chiesa aveva svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, nel 1970, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei.
Le carte relative al sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, dopo la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se sono state sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.

[4] Secondo la testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione“fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni.

[5] Il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo di Palermo, stava indagando sul caso Mattei. La sera del 20 agosto 1977, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, perse la vita davanti a un bar di Ficuzza, frazione di Corleone.
Così ricordò, quella tragica sera del 1977, il giornalista Mario Francese, su Il Giornale di Sicilia, all’indomani dell’omicidio:
“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una “128” verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”

[6] L’uccisione di Giuseppe Impastato, avvenuta in piena notte, riuscì a passare, la mattina seguente, quasi inosservata, perché, proprio in quelle ore, veniva ritrovato il corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, in via Caetani, a Roma.
“È nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare…
Aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato…
Si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste sono alcune delle parole, con cui i Modena City Ramblers descrivono Peppino Impastato nella loro canzone I cento passi, ispirata all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.

[7] Giorgio Boris Giuliano fu ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle.

[8] Precedentemente al suo assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Giorgio Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il posto di Basile, quale comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e all’appuntato Giuseppe Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche l’ex-autista di Basile, il carabiniere Pietro Morici.

[9] Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria sui “delitti politici” siciliani che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone. Questi puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la morte di Falcone, l’uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
Nel 1993, Buscetta, in particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare] che non si doveva ammazzarlo [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione.”

[10] Pierre Michel scoprì che i marsigliesi erano in affari con la ‘Ndrangheta calabrese, in particolare, per quanto riguardava gli investimenti di droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso, Michel stava collaborando con alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache dell’epoca si apprende che, solo poche settimane prima dell’omicidio, il giudice aveva ricevuto, a Marsiglia, tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori solo due nomi di magistrati italiani che mantenevano rapporti di collaborazione con Michel: Giovanni Barrille e Giusto Sciacchitano.
E il terzo chi era?
Bisognerà aspettare il quinto anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione, infatti, appare Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa intuire ai cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice assassinato nel 1981.

[11] Paolo Giaccone è assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo. Aveva ricevuto l’incarico di esaminare impronte digitali, lasciate dai killers, che, nel dicembre del 1981, avevano scatenato una sparatoria tra le vie di Bagheria.

[12] Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia [http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/]. Già sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle calunnie, di cui erano stati oggetto nel pro­cesso. Questa sentenza significa per loro un fatto chiaro:
“LA GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano, molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi.”
E ancora:
“Sono arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno dei rapporti fra di loro.
È superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale, alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: “il tale è un capo della mafia”, significa soltanto che egli è in buoni rapporti con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in identico modo.”

[13] Per circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si triplicò.
Nei primi anni del dopoguerra, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I Paesi europei, invece, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra e colpite dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione Truman era consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e stabilità politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di qui la decisione di varare il Piano Marshall.
A questo punto, iniziò una fase di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I principali fattori che resero possibile il grande sviluppo dell’economia occidentale furono:
-        la creazione di un ordine economico e monetario stabile, imperniato sul dollaro, definito, già, nel luglio 1944, con gli Accordi di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con l’Asse;
-        il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche;
-        la rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che consentì la diffusione di beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-        l’esplosione dei consumi di massa, favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a esempio: la televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la vendita a rate] e, infine, dalla crescita della occupazione e delle retribuzioni, che rese disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del reddito nazionale;
-        il grande sviluppo dei trasporti, legato alla diffusione della motorizzazione privata e all’utilizzo su larga scala dell’aviazione civile.
Accanto alla crescita economica, gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte attenuazione del ciclo economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di sviluppo con altre di stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato l’economia capitalistica fino dal suo nascere.
In questo periodo non si registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti di rallentamento.
Ciò fu dovuto, oltre che alla stabilità del sistema monetario internazionale, alla adozione di politiche economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla esperienza del New Deal e sul principio che gli strumenti della politica economica, e, in particolare, la spesa pubblica, debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale, ossia l’insieme dei beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai cittadini, dalle imprese e dallo Stato.
L’autorità politica venne assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’economia. In molti Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre principali forme:
-        l’impostazione della politica economica in chiave espansiva;
-        l’ampliamento della funzione imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese pubbliche [a esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione di alcuni settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo a creare sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-        l’adozione generalizzata dello Stato Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche rivolte a erogare a tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa pubblica, servizi e assistenza sociale.

[14] Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.

[15] Per l’omicidio dell’ispettore capo Giovanni Lizzio è stato condannato all’ergastolo, con sentenza passata in giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.