“He who controls the past controls the future.
He who
controls the present controls the past.”
George
Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by accident.
If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D.
Roosevelt
Lazzaro
para
Lazzaro
“Un Amigo es la mano que despeina tristezas.”
Gustavo
Gutierrez Merino
Cuando todo me parece imposible, horrible e
inalcanzable, pienso en Tu sonrisa y la fuerza que me da, y de repente todo es
posible.
Un día como hoy, hace un año me pediste que
fuera Tu Amiga.
Desde ese momento mi vida cambió.
Te fui conociendo poco a poco y me di
cuenta de que eres una persona excepcional y diferente a las demás.
Un año se cumple hoy y a pesar de nuestras
diferencias, l’Amistad siempre ha prevalecido. En nuestra Amistad he aprendido
mucho y me has enseñado a ver claramente mis defectos y cómo y porqué debo
mejorarlos.
Mi Amigo gracias por Tu paciencia y
comprensión; se que no soy fácil pero gracias a Dios siempre has mantenido la
calma.
Quisiera decirte tantas cosas, de mil
formas distintas para que Te des cuenta de lo mucho que te respeto, pero no se
como hacerlo.
Espero que nuestra Amistad perdure y que
con el paso de los años se fortalezca mas. Que a tua vida seja repleta de
emoções, alegrias e conquistas.
¡Feliz aniversario, Amigo especial!
Roma, 13 de octubre de 2014
Se
un fiore è la Primavera, un Amico è la fine della separazione.
Questo
reportage sulla mafia, risultato di più
di 5 anni di intensa ricerca, non esisterebbe senza l’incontro con Lazzaro, cui
desidero esprimere tutta la mia riconoscenza.
In
verità, Lazzaro non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi
servisse per convincermi a portare a termine la stesura del reportage.
L’Italia
è uno strano Paese.
È
un Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È
un Paese in crisi.
È
il riflesso e, perfino, il quadrante di tutto un mondo in crisi.
I
suoi peccati smisuratamente grandi quanto le sue virtù, sono i peccati
dell’Idealismo e della Democrazia; ma sono anche i peccati di un sistema
economico-politico-tecnologico che investe responsabilità extra-umane,
astratte, mondiali, senza via di uscita, apparentemente.
La
prima chiarezza, che viene da questo studio, è che la corruzione ha, sempre,
avuto un posto a sé tra legge formale, legge morale e opinione pubblica corrente.
La legge formale ha potuto, sovente, mandarla sul banco degli accusati; quella
morale ne ha fatto, molto sovente, oggetto dei suoi strali e delle sue
invettive; ma, sempre, per la opinione pubblica corrente, la corruzione non è,
mai, stata un vero reato, un vero peccato, non ha, mai, avuto l’impatto duro
del furto, non è mai stata un tabù – come le trasgressioni sessuali – è,
sempre, stata qualcosa di congenito, di naturale.
I
padri fondatori della potenza inglese, Francis Bacon, Padre della Scienza,
Samuel Pepys, organizzatore della marina militare e Warren Hasting, creatore
dell’India inglese, incassavano, tranquillamente, tangenti e, nell’intimo, non
se ne vergognavano affatto; lo annotavano sui loro diari. Seconda osservazione
di chi sta allo specchio e, per una volta, si guarda come è, in quanto uomo
immutabile: la corruzione non è, di per sé, quella decadenza delle buone
società, di cui parlano i padri pellegrini e altri moralisti o puritani.
La
corruzione è come un propellente: manda giù i deboli, gli stupidi; ma può,
anche, accompagnarsi a grandi disegni, a grandi avventure di gruppo o di
Nazione.
Intendiamoci
bene: non sto facendo una apologia della corruzione!
Chi
non ha letto in tutta la letteratura romana imperiale la nostalgia, il rimpianto
per la buona severa Repubblica dai costumi spartani, dal profondo senso dello
Stato?
Eppure
basta grattare un po’ nella Storia morale del ceto dirigente repubblicano per
scoprire non solo casi incredibili di corruzione, ma la naturalezza, direi il
diritto alla corruzione diffusissimo nell’aristocrazia senatoriale.
Vi
sono molti tipi di corruzione. La corruzione come arte di governo, a esempio.
Praticata, sempre, dai dittatori o dai governi autoritari. Nel Drittes Reich, in cui un suddito poteva
venire fucilato alla minima violazione della disciplina militare o burocratica,
il maresciallo Hermann Wilhelm Göring aveva accumulato
una ricchezza enorme, facendo man bassa dei quadri e delle opere d’arte
razziati nei Paesi occupati. Erano, rapidamente, arricchiti Joseph
Paul Goebbels, Walter Richard Rudolf Heß, Joachim von Ribbentrop
e Heinrich Luitpold Himmler, ma il severissimo Führer
chiudeva un occhio: rubassero pure, ma gli restassero sottomessi e fedeli.
La
corruzione che si autodistrugge, autolesionista. A esempio, la corruzione
mafiosa che tende a uccidere la gallina dalle uova d’oro, a strangolare
industrie e negozi e ridurre regioni, quali la Sicilia e la Calabria a deserti
industriali. Una corruzione che si traduce, sempre, in vita grama, di chi la pratica,
densa di paura. Gente che deve vivere nascosta, in un continuo conflitto con
gli amici e i nemici.
Vi
è la corruzione a pioggia, la redistribuzione del reddito che partiti, enti
pubblici, ministeri, aziende di Stato compiono per tenere buoni i clienti.
Vi
è la corruzione partitica, in cui neppure i protagonisti riescono più a
distinguere la corruzione per il partito o per la corrente da quella per se
stessi.
Il
potere economico è così forte, così ricco che non sente bisogno alcuno di
donazioni da parte dei sudditi: è lui a corrompere i sudditi che possono
servirgli, lui a seppellire la critica giornalistica, l’informazione pericolosa
sotto una pioggia di regali. Case di moda, agenzie di pubblicità, aziende,
banche, assicurazioni praticano la corruzione diffusa, coprendola con nomi
professionali, quali pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, marketing, interventi promozionali.
Nella
nostra cultura – la cultura occidentale, quella che, ancora, domina la cultura
mondiale – la differenza tra tangente e dono si è sviluppata, soprattutto,
riflettendo, dal punto di vista teologico-letterario, sulla Redenzione!
A
volte, l’uomo onesto, il non corrotto viene colto dal dubbio che la sua
moralità sia una invenzione, una copertura di altro e meno nobile sentimento:
la voglia di stare fuori dal gioco defatigante della corruzione, di non avere a
che fare con ricattatori e venditori di fumo.
A
volte, l’uomo onesto, che non ha, mai, toccato danaro sporco, si interroga su
tutte le corruzioni intellettuali, culturali, cortigiane che ha praticato,
monetizzabili nel futuro prossimo e si ricorda delle parole evangeliche:
“Chi
di voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
Questo
reportage è un invito alla
riflessione per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri imbiancati che sulla
corruzione hanno la ricetta pronta. È difficile che la Democrazia possa
sopravvivere in una società organizzata sul principio della terapia anziché su
quello del giudizio, sull’errore anziché sul misfatto. Se gli uomini sono
liberi ed eguali, allora, debbono essere giudicati anziché ospitalizzati.
Essendo
un concetto legale, sono le leggi a determinare ciò che è corruzione, in una
particolare società. La definizione legale non si dimostra, tuttavia, di alcuna
utilità che non sia superficiale.
La
legge è l’editto promulgato da un principe, lo statuto scritto sui libri o è,
invece, ciò che viene realmente fatto rispettare?
Se
ci si attiene alla norma proclamata, si rischia di scegliere un criterio di
misura che, spesso, si dimostra non reale.
Alla
risposta che è legge quella che viene applicata, segue la domanda: quanti
processi occorrono perché una legge sia fatta rispettare?
È
sufficiente il processo o è necessaria anche una condanna?
È
sufficiente una dichiarazione di colpevolezza o deve esservi anche una grave
punizione?
La
legge è applicata anche se a essere puniti sono soltanto i piccoli trasgressori
e non i grandi?
Quello
dell’applicazione reale non è un criterio semplice e chiaro.
Come
diverrà chiaro al lettore, l’assassinio si accompagna, frequentemente, agli
avvenimenti ricordati in questo reportage.
Molti di questi delitti rimangono, ufficialmente, insoluti e nessuno dubita che
i responsabili di quelle morti abbiano la capacità di uccidere ancora.
In
me resta, come in molti Italiani, un profondo senso di gratitudine per i tanti
Lazzaro, Uomini,
di cui non conosciamo il nome e non vediamo il volto, ma che scelgono di
sacrificare la propria vita per garantire la nostra. E
speranza non effimera che, risolti gli aggrovigliati fatti politici del
momento, guarite le piaghe interne, lenito il dolore per quelle guerre senza
scopo e senza gloria, l’Italia possa tornare a simboleggiare per gli stranieri
e, soprattutto, per gli Italiani migliori, il suolo sacro di una civiltà che
non è fallita.
Posso
assicurare il lettore che tutte le informazioni, tutti i dettagli, tutti i
fatti sono stati, da me, controllati e ricontrollati, per verificare la
credibilità delle diverse fonti.
Come
sempre, me ne assumo la responsabilità, in
toto.
La
Verità deve essere rivelata, quando uno scrittore è pronto a raccontarla.
Allora,
così sia!
Crediamo,
veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli
affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo
assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta,
dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte
delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno
alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi,
che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può
essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce
del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo
assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti
della stampa, riuniti presso l’Hotel
Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul
pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società
libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i
pericoli che vengono invocati
a giustificazione. […]”
La
storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di
potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.
Pressoché
tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste
società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che
si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il
mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che
suscitano appena se ne parli.
E
se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che
ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono
state, sono così potenti come si pretende?
Vi
è motivo di temerle?
Tante
domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società
segrete più celebri della storia.
In
questo reportage, solidamente
documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute,
riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il
linguaggio, che sono loro propri.
Se
le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di
meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo
sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in
paranoia.
Dedicare
una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto
[di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci
che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una
conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari,
diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e
illuminante.
Non
sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente,
credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva
prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco
volante.
Una
delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è
che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive
Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in
miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio
delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce
di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e,
forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe
stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla
ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché
si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il
divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una
unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio
dell’uomo alla parola, i due poli della
sua esistenza.
Nessuno
sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia
stato, mai, abitato.
Ma
che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo
bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le
proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi
concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque,
l’iniziazione.
È
possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere
nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un
mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità,
i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In
seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi
Templari.
Nel
Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il
leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il
XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società
segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più
diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica.
Il
periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in
particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a
apocalittiche.
La
storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste
una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto
delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma
ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E,
per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste
società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti
più antichi in nostro possesso.
Vi
farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso,
sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò,
subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di
affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la
manipolazione.
Un
nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria
- Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
7. OPERATION HUSKY
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI
NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI
DEL TEMPIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
V. LA MAFIA AMERICANA
1. IL BRACCIO VIOLENTO DEL DOLLARO
di Daniela Zini
II.
LA MAFIA
“Quando colpiscono, colpiscono quelli
che amiamo.”
don Vito Corleone
di
Daniela Zini
“Finché una tessera di partito conterà più
dello Stato, non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa
[…]
COSSIGA. Io posso
confermare per scienza diretta che in Sardegna noi eravamo armati. Eravamo
armati con armi corte in parte fornite dalle Forze dell’ordine e in parte
acquistate su libero mercato: la Sardegna aveva visto passare gli eserciti
tedeschi e gli eserciti alleati. Personalmente io ero armato con uno Stein. Le
bombe a mano ci furono fornite dall’Arma dei carabinieri. L’addestramento del
gruppo, del commando di cui
facevo parte venne seguito da un sottufficiale della San Marco del Sud, non di
quella di Valerio Borghese, anche se poi la storia dovrà chiarire che
differenza c’è. Passato il 18 aprile noi riconsegnammo le armi. Nulla posso
dire per scienza diretta del fatto che la parte avversa fosse armata.
PRESIDENTE. Tutti gli omicidi del triangolo rosso.
COSSIGA. No, è un fatto
diverso. Non confondiamo gli omicidi del triangolo rosso, che sono di
iniziativa individuale di settori del Partito di quella zona, con il Partito
Comunista perché si tratta di due cose diverse. Comprendo benissimo, potei
ammettere tutto ciò perché ero già Presidente della Repubblica e non era in
vista o probabile una mia rielezione; altri lo dovettero negare perché potevano
essere eletti al mio posto. Paolo Emilio Taviani conosceva tutto questo perché
era uno dei capi delle formazioni partigiane bianche; uno di quelli più attivi
in questo settore, come poi appresi, fu Enrico Mattei. A quanto so, dopo il
1948, almeno noi sardi, restituimmo le armi. Per quanto riguarda l’altra parte
non so nulla di scienza diretta: so soltanto quello cui fui edotto quando,
diventato sottosegretario alla difesa, mi fecero un briefing su una forza potenzialmente ostile quale era il Partito
Comunista che, così, veniva considerato all’interno dell’Alleanza Atlantica,
nel Comitato di Sicurezza, che ancora nella NATO esiste. Bisogna che i miei
colleghi ammettano che noi abbiamo pesantemente discriminato i comunisti per 50
anni: questo è vero. Gli inglesi lo ammettono se nel costituire legalmente il
servizio di sicurezza britannico, chiamato M15, un’introduzione firmata dal
Primo Ministro afferma che gli scopi del servizio di sicurezza britannico sono
ormai ridimensionati perché non c’è più il dovere del controllo ed il contrasto
con il Partito comunista britannico: questo è stato scritto e firmato dal Primo
Ministro britannico. Non capisco perché i miei colleghi non lo vogliono
ammettere. Io ho sempre ammesso che la nostra è stata una democrazia limitata.
PRESIDENTE. Di questo le do atto.
COSSIGA. Abbiamo
pesantemente discriminato i comunisti, mi limito a dire discriminati, ma è vero
che talvolta li abbiamo perseguitati: li abbiamo licenziati, li abbiamo
controllati. Probabilmente se avessero vinto loro avrebbero fatto lo stesso, ma
questo a me non interessa: a me interessa dire quello che abbiamo fatto noi.
Questa è la tragedia del nostro Paese. Il fatto che gli altri fossero armati non
lo so per scienza diretta, lo so per il bríefing
che mi fecero quando divenni sottosegretario alla difesa e mi occupavo
un po’ di queste cose e poi per le conoscenze, sempre indirette e mai dirette,
che avevo in qualità di Ministro dell’Interno. In questa veste sapevo
benissimo, come dissi apertamente e come ha scritto nel suo bel libro l’amico
Cervetti, che arrivavano le valigie di denari per il Partito comunista, come
arrivavano per la Democrazia cristiana fino all’ultima segreteria Moro i denari
della CIA, per essere chiari. Tanto è vero che la Procura della Repubblica di
Roma ha detto che è tutto prescritto, ha chiuso tutto ed ha fatto bene. Quando
mi dissero che cosa facciamo di questi messaggeri che portano i denari per il
Partito Comunista risposi di lasciarli andare per alcuni motivi. Innanzitutto
perché mi volevo tener buono il Partito comunista nella lotta contro il
terrorismo, in secondo luogo perché sapevo che noi prendevamo denari dall’altra
parte ed inoltre perché avevamo tali rapporti economici con l’Unione Sovietica
che non volevo mettere in forse per la questione dei denari. Chiesi soltanto,
come riporta Cervetti nel suo libro - non mi ha voluto dire chi gliel’abbia
riferito - solo per far capire a chi mi faceva queste domande provocatorie, che
tipo di valuta portano e mi risposero che si trattava di dollari americani,
pertanto dissi benvenuti.
[…]
Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e
sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi
XXVII Seduta, Giovedì, 6 novembre 1997
Presidenza del Presidente Giovanni Pellegrino
La
sera cade su Palermo – quel venerdì 3 settembre 1982 – quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa [1920-1982]
lascia la Prefettura in compagnia della moglie, Emanuela Setti Carraro, sposata
solo poche settimane prima, la quale è alla guida di una Fiat A112 bianca. Si allontanano, seguiti da un’altra vettura,
guidata da un agente di scorta, Domenico Russo, incaricato della loro
protezione. In via Isidoro Carini, la loro auto è affiancata da una BMW, con a
bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci, i quali fanno fuoco attraverso il
parabrezza, con un fucile kalashnikov
AK-47. Il generale e sua moglie restano uccisi sul colpo [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/03/toto-riina-cosi-uccidemmo-dalla-chiesa-gli-sparammo-anche-da-morto/1109576/].
Nello stesso istante l’auto con a bordo Domenico Russo viene affiancata da una
motocicletta guidata da Pino Greco, che lo fredda.
Il
giorno dei funerali delle vittime, l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo
[1918-2006] fa scalpore per la celebre citazione di Tito Livio che risuona
nell’omelia:
“Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene
espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la
nostra Palermo!”
Al termine della
messa, spesso, interrotta dalle proteste, i politici vengono fischiati e
aggrediti dalla folla: una bottiglia d’acqua viene scagliata contro il ministro
dell’interno, Virginio Rognoni e monetine vengono lanciate al presidente del
Consiglio, Giovanni Spadolini.
Nando
Dalla Chiesa confida ai giornalisti:
“Secondo me l’hanno
ucciso perché è stato l’unico prefetto che è venuto qui a parlare di Mafia
vera, a cercare di farli venir fuori. In questi ultimi giorni forse aveva
capito qualcosa in più: ed ecco la fine che ha fatto.”
Lo scandalo della Loggia P2, la morte
sospetta di Roberto Calvi, il banchiere del Vaticano, le questioni relative al
terrorismo rosso e nero avevano, già, seriamente, intaccato la credibilità
dello Stato italiano, ma la morte tragica di colui che aveva sgominato le
Brigate Rosse e nel quale la popolazione riponeva tutte le sue speranze per
ristabilire, in Sicilia, la forza della legge appare “il crimine di troppo”.
Il generale Dalla Chiesa non era la prima
vittima della Mafia.
Nel 1970, il giornalista Mauro De Mauro era
stato eliminato, forse, perché si interessava troppo da vicino alle modalità in
cui era scomparso, nel 1962, il “re del petrolio” italiano, Enrico Mattei.
Il 5 maggio 1971, il procuratore capo di
Palermo Pietro Scaglione [1906-1971] e l’agente di scorta Antonino Lo Russo,
alla guida di una Fiat 1500
nera, furono abbattuti. Era una prima, perché la Mafia, fino ad allora, era
solita corrompere i magistrati di tale importanza o esercitare su di loro forti
pressioni.
Il 25 settembre 1979, veniva assassinato il
giudice ed ex-deputato indipendente
PCI Cesare
Terranova [1921-1979] e, il 6 gennaio 1980, il democristiano Piersanti
Mattarella [1935-1980], che aveva denunciato collusioni tra il
suo partito e l’Onorata Società.
Il 22 marzo 1980, era il banchiere della
Mafia, Michele Sindona [1920- 1980], a morire in carcere in circostanze sospette.
Il 1980, vedeva, egualmente, l’assassinio
del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa [1916-1980]. Il 6 agosto, veniva,
infatti, freddato Costa da tre colpi di pistola sparati alle
spalle da due killers in moto, mentre
sfogliava dei libri su una bancarella, in via Cavour. Il delitto era stato
commissionato dal clan mafioso,
capeggiato da Salvatore Inzerillo. Causa di quella spietata esecuzione: aver
firmato, personalmente, i mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola e di alcuni suoi
uomini, che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare e che, come disse
Leonardo Sciascia, lo avevano additato alla vendetta mafiosa. Pur essendo
l’unico magistrato a Palermo, al quale, in quel momento, fossero state
assegnate una auto blindata e una scorta, non ne usufruiva, riteneva che la sua
protezione avrebbe messo in pericolo altri e che la sua persona avesse “il dovere di avere coraggio”.
Il 30 aprile 1982, fu il deputato siciliano
Pio La Torre [1927-1982] a essere abbattuto per aver presentato un disegno
di legge che prevedeva, per la prima volta, il reato di “associazione mafiosa”
e la confisca dei patrimoni mafiosi.
Il 1982, videro, egualmente, la morte
Salvatore Raiti, Silvano Franzolin, Luigi Di Barca e Giuseppe Di Lavore, uccisi,
il 16 giugno, sotto i colpi dei fucili kalashnikov
AK-47 dei killers del boss Nitto Santapaola, nella Strage
della Circonvallazione, e,
l’11 agosto, Paolo Giaccone [1929-1982], un medico legale molto preoccupato di identificare le
impronte digitali di un assassino.
È in queste circostanze drammatiche che il
governo decideva di affidare la prefettura di Palermo al generale Carlo Alberto
Dalla Chiesa.
Il generale arrivava a Palermo in maggio…
per la sepoltura di Pio La Torre.
E, finalmente, la legge invocata da Pio La
Torre è votata.
Ma occorre di più per impressionare
l’avversario e, nel corso dei mesi successivi, esponenti delle istituzioni e
della stampa indipendente pagano, ancora, un pesante tributo: un capitano dei
carabinieri, il decano dei giudici istruttori di Palermo, Rocco Chinnici, lo
scrittore catanese Giuseppe Fava, il giornalista torinese Bruno Caccia, che
investigava sulle ramificazioni di Cosa Nostra nel Nord dell’Italia, un
senatore e un industriale, che si rifiutava di essere ricattato, sono
assassinati, come pure molti operatori delle Forze dell’Ordine di stanza in
Sicilia.
È
su un terreno antropologico e storico molto
particolare che è nata ed è fiorita la Mafia. È,
intimamente, legata alle
realtà politiche e sociali di una Sicilia a lungo sottomessa a padroni
stranieri – quali i bizantini, i musulmani, i normanni, gli svevi, gli angioini,
gli aragonesi, gli spagnoli, i borbonici e, infine, i piemontesi, una volta
realizzata l’unità italiana – una terra sempre occupata e preoccupata di
preservare la sua autonomia e che costruisce, nel XIX secolo, una società
parallela garante della resistenza allo straniero, fondata su tutto un sistema
di riferimenti arcaici e feudali. Questi sono, facilmente, identificabili:
gerarchia immutabile ; rispetto quasi religioso per il capo reputato
infallibile ; giustizia immediata e sbrigativa, che si fonda su un codice
non scritto in cui la parola fa legge ; senso del gruppo, dalle “famiglie”, che si spartiscono il controllo di una
città, fino alla “sicilianità” da difendere, a ogni costo, contro le intrusioni di poteri
esterni o contro ogni tentativo di uno Stato centralizzato, che cerchi di
imporre la sua autorità. Aggiunti al culto della virilità e al culto del
segreto, tutti questi elementi compongono nella loro semplicità, nella loro
teatralità e nella loro violenza il cemento di una contro-società che finisce
per confondersi con la società tout court.
Agli inizi del
1838, molto prima della realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario
borbonico, Pietro Calà Ulloa [1801-1879], procuratore generale, che
rappresentava, a Trapani, la Giustizia del Regno delle Due Sicilie e sarebbe
divenuto primo ministro di re Francesco II in esilio, illustra in due
relazioni, al guardasigilli, Cataldo Parisio, a Napoli, un quadro
palpitante di dati e di fatti, di rilievi e di osservazioni molto interessanti,
attraverso cui possiamo formarci una idea abbastanza chiara della situazione
interna della Sicilia, appena qualche mese dopo uno dei suoi più gravi
rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella
prima, datata 25 aprile, sono tratteggiate le condizioni della magistratura in
Sicilia.
“Il basso stato in
cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e
gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello
ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla
macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu,
durante il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei
magistrati del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche,
dai bisogni della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli
stranieri e degli emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea
un felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne
anche nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle
cose.”
Nella
seconda, datata 3 agosto, di più ampio respiro e di più ricco contenuto, si
descrivono le condizioni politiche, sociali ed economiche della stessa isola.
“Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a
rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o
fratellanze, specie di sette, che dicono partiti,
senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello
della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una
cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo,
ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie
di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto
moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i
rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel
ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito.
Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e
s’inscrivon nei partiti. Molti
alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile.”
La realtà della Mafia è, si vede, anteriore
all’annessione della Sicilia al giovane Regno d’Italia ed è, nella tradizione
del banditismo locale, talvolta, confuso con la ribellione contro l’ordine
costituito, che fa ricercare le sue origini, in questi “primitivi della rivolta”.
Questo “tempo dei briganti” rinvia alla fine del XVIII secolo,
all’insurrezione palermitana del 1820, al sollevamento del 1848, allo sbarco
garibaldino del 1860 e alla rivolta che infiamma di nuovo Palermo, nel 1866, e
si estende in tutto l’Ovest dell’isola, segnata dall’assassinio del commissario
di Monreale e dal massacro selvaggio dei carabinieri di Boccadifalco.
La repressione piemontese permette di
ristabilire l’ordine, ma quando un gruppo di parlamentari italiani si reca in
Sicilia, nel 1867, per indagare sulla insicurezza che regna sull’isola e sulla
ostilità manifestata dalla popolazione ai rappresentanti del governo di
Firenze, constata che delinquenza e dissidenza politica sono nate dalla
disillusione dei siciliani, delusi dall’annessione al nuovo Regno. Questi
deputati non usano, ancora, il termine Mafia, che si imporrà, in seguito, e la
cui origine resta incerta.
Si tratta per i siciliani di difendersi di
fronte a uno Stato che impone una fiscalità più pesante di quella dell’antico regime
borbonico, allorché gli investimenti decisi dal Governo, insediato, prima, a
Firenze, e, poi, a Roma, vanno prioritariamente al Piemonte e alla Lombardia.
Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della “Spedizione dei Mille”,
guidata da Giuseppe Garibaldi, aveva fatto nascere
qualche speranza di riforma agraria e di trasformazione sociale, ma
l’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato siciliano Francesco Crispi
– che si sarebbe fatto più tardi campione sfortunato della espansione coloniale
italiana – non esitò, allora, a proclamare che la popolazione insulare
detestava il governo di Roma, che considerava peggiore di quello dei Borbone di
Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo
organizzato si sviluppano rapidamente dal 1860.
Gli ex-sostenitori di Garibaldi si
rifiutano di tornare alla vita sociale, quando constatano che la vittoria della
insurrezione non cambia nulla alla loro condizione. Quando il nuovo Regno
d’Italia vuole imporre il servizio militare, dal 1861, numerosi ribelli si
danno alla macchia ed è in questi strati sociali che la nascente Mafia può
reclutare i suoi uomini di mano.
L’Onorata Società non è una semplice
associazione di fuorilegge, ma una nuova struttura di potere. Allorché il
fossato si scava tra lo Stato italiano e il popolo siciliano, si presenta come
un “sistema parallelo di autorità”. Derivato, direttamente dai quadri
preesistenti della vita politica e sociale, il nuovo potere sembra, così,
prolungare il feudalesimo, abolito, molto tardivamente, in Sicilia, durante
l’occupazione inglese, nel 1812. sostituendosi ai baroni, i
capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese o della
regione, e molti sono più rispettati dei rappresentanti del potere centrale…
Potere
parallelo, la Mafia, strettamente legata alle classi dirigenti siciliane,
inizia, rapidamente, a prendere il controllo del potere politico legale. In
tutta la Sicilia occidentale, “fa” le elezioni e può assicurarsi complicità e
protezioni al più alto livello dello Stato. Sul terreno locale, le famiglie più
importanti si spartiscono borghi e regioni e forniscono i mediatori – piccoli
notabili, avvocati, agricoltori benestanti – che reclutano, secondo il loro
buon volere, la manodopera contadina e gestiscono le aziende dei grandi
proprietari assenteisti, garantendo loro la perennità della rendita fondiaria.
Sono dei veri cacicchi locali, che costituiscono l’ossatura portante della
organizzazione mafiosa e assicurano il controllo sociale delle masse rurali
arretrate e sottomesse.
I
delitti commessi da piccole bande armate, riunite intorno a un capo locale,
perdurano nell’ultimo terzo del XIX secolo, ma è una delinquenza più
organizzata, creatrice di una illegalità divenuta strutturale, che si impone in
questa epoca e permette alla Mafia di rinnovare regolarmente i suoi “uomini
d’onore” – in sostanza, gli uomini di mano incaricati dei lavori sporchi – e i
suoi quadri, trasformati in piacevoli notabili, che fanno attenzione a non
ostentare una fortuna tanto improvvisa quanto sospetta.
L’abigeato, il furto di bovini, è,
allora, una industria nazionale in Sicilia; ma la Mafia controlla, egualmente,
il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando, importato dalla Tunisia,
e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie o immobiliari.
Tutti
i tentativi dello Stato centrale per vincere queste diverse forme di
delinquenza falliscono uno dopo l’altro, per la resistenza della classe
politica locale e dei sostegni assicurati a Roma. L’arresto o l’esecuzione del
pesce piccolo dei colpevoli non cambiano affatto la situazione e non intaccano
il potere dell’Onorata Società.
Il
suo dominio sull’opinione insulare è pressoché totale, alla fine del XIX
secolo.
Nessuno
può sperare di vincere una elezione senza il sostegno della Mafia e
l’assassinio di un sindaco di Palermo resta impunito, perché i siciliani
unanimi si schierano con il deputato accusato di esserne il mandante, il quale
sarà assolto per vizio di forma prima di essere, infine, prosciolto da ogni
sospetto.
È l’epoca che vede l’etnologo Giuseppe Pitré
affermare:
“La mafia non è
setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un
ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la
qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché
il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della
parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del
malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta
mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi
indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato
concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di
ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e
peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e
rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia,
ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo
di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto
presente negli ingranaggi dello Stato centrale, ciò che gli garantisce una
impunità pressoché totale, la Mafia può, anche, sollevare l’opinione siciliana
contro questo lo stesso Stato, se manifesta velleità di ristabilire la
legalità.
La storia dei tentativi compiuti dalle
autorità dello Stato per reprimere i fenomeni mafiosi inizia 145 anni fa,
precisamente, nell’aprile del 1874.
Dal 1861 ai primi anni immediatamente
successivi alla Breccia di Porta Pia, il nuovo Stato italiano si era trovato,
soprattutto, impegnato nel settore militare e internazionale, aveva combattuto
una nuova e difficile guerra contro l’Austria, era riuscito a estendere le sue
strutture a tutta la Penisola.
Era stato un cammino lento e difficile.
Il primo nemico dell’ordine interno non era
apparso, allora, quella mitica Mafia, di cui, così poco, si sapeva, laggiù,
nelle estreme province dell’isola di Giuseppe Garibaldi, bensì il banditismo a
sfondo politico del basso Lazio, della Calabria e della Puglia, e, dunque,
contro i fuorilegge, finanziati dagli agenti borbonici, si erano, soprattutto,
indirizzati gli sforzi delle autorità. Il banditismo faceva politica; la Mafia
no, a parte l’episodio di collusione con il tentativo di Maria Sofia di
Baviera, nel 1863. Era, dunque, naturale che il giovane Stato si preoccupasse,
in primo luogo, di eliminare le bande armate brigantesche. Fu una vera guerra,
con orrendi e pietosi episodi da ambedue le parti.
Le cosche mafiose della Sicilia
Occidentale, naturalmente, avevano, largamente, approfittato di questa
situazione di forzata carenza da parte delle autorità. Soprattutto in provincia
di Agrigento, il quindicennio 1860-1874 era stato terribile di estorsioni,
rapimenti, delitti e vendette.
Vi erano, anche, stati episodi sintomatici.
Il primo febbraio del 1869, a esempio, un gruppo
di ingegneri continentali, che effettuavano i rilievi per la costruzione della
nuova strada ferrata, erano stati al centro di una sparatoria, a Canicattì, da
parte di un gruppo di mafiosi, a scopo intimidatorio. Sembra che la Mafia
locale intendesse far deviare la ferrovia dal previsto tracciato, che ledeva
gli interessi di alcuni grossi proprietari terrieri. Il delegato di pubblica
sicurezza della cittadina, membro lui stesso di una potente famiglia agraria,
aveva trascurato di informare dell’accaduto il prefetto di Agrigento e, a
Firenze capitale, l’allora ministro degli interni, l’onorevole Girolamo
Cantelli, aveva appreso la cosa soltanto grazie a una segnalazione del suo
collega dei lavori pubblici, al quale gli ingegneri della Impresa Generale Strade Ferrate Calabro-Sicule avevano fatto
rapporto.
Il ministro Cantelli scrisse una dura
lettera al prefetto di Agrigento, il quale, ignorando ogni cosa, si rivolse, a
sua volta, al delegato di Canicattì, che, nondimeno, negò tutto e inviò a
Firenze un rapporto anodino, nel quale si asseriva che non vi era stata, in vicinanza
del gruppo di ingegneri, alcuna sparatoria, ma soltanto un incauto colpo
partito da un revolver per l’“innocua
leggerezza di un gruppo di giovanotti”.
Gli autori della intimidazione non vennero,
mai, identificati e, negli anni successivi, nuovi tentativi simili a quello di
Canicattì si ripeterono, soprattutto, lungo la linea
Agrigento-Sciacca-Castelvetrano.
Tutto ciò dimostrava, in primo luogo, che
la Mafia, al servizio degli interessi agrari costituiti, non esitava a
impiegare la violenza contro le imprese dello Stato e, in secondo luogo, che i
delinquenti organizzati trovavano protezione e connivenza presso gli organi
stessi periferici di governo. Ciò nonostante, la nuova Italia doveva attendere,
ancora a lungo, prima di poter dare inizio a qualche forma di reazione
efficace.
Il 17 aprile 1874, l’onorevole Cantelli
inviava al prefetto di Agrigento, Luigi Berti, una lettera, che può essere
considerata il documento che dà l’avvio al primo, serio tentativo di
repressione antimafiosa. In questa lettera, la Mafia viene, per la prima volta,
identificata come una vera e propria “piaga sociale”, che occorre conoscere a fondo nei suoi
metodi e nei suoi uomini, se si vuole combatterla efficacemente; mentre il
Governo assicura alle province “infette” tutto il suo appoggio nell’opera di bonifica. Sulla sua base, la
polizia si mise in moto, con molta buona volontà, sia a Palermo sia ad
Agrigento, e i risultati non si fecero attendere.
Bisogna dire che i vecchi questori
piemontesi sapevano il fatto loro.
Nel 1877, dopo tre anni di lavoro, tutti i
mafiosi erano stati, praticamente, identificati e processati. La magistratura
pose una cura particolare nel selezionare i membri delle giurie; i processi si
susseguirono ai processi e le condanne erano, sempre, dure.
È
stato calcolato che, in pochi anni, non
meno di 400 mafiosi furono allontanati dalla sola provincia di Agrigento e
confinati a Lampedusa, Linosa, Ustica o sul continente.
E non solo!
Il governo dell’umile “Italietta” di allora fece qualcosa di più.
La dura quanto giustificata repressione
della Mafia sul piano poliziesco venne, infatti, affiancata da tutta una
attività, che ben possiamo chiamare di carattere sociale. Il Governo inviò, in
Sicilia, numerose commissioni di deputati e senatori che, già, allora, seppero
valutare il fenomeno con profondità superiore alla odierna confusione. Apparve
chiaro, a esempio, che la Mafia non era affatto una organizzazione unitaria,
che non aveva “regolamenti” o tradizioni scritte, che si doveva
combattere, caso per caso, eliminando le varie “cosche”, una dopo l’altra, e, contemporaneamente,
agendo sull’ambiente economico e sociale delle zone colpite ed elevando il
tenore di vita materiale e culturale delle popolazioni.
Per tutto il dodicennio 1874-1885, la Mafia
fu messa, praticamente, nelle condizioni di non nuocere.
Naturalmente, non venne “estirpata”.
Ma che vuol dire, a ben guardare, la
richiesta che, di tanto in tanto, si leva di “estirpare” la Mafia?
La Mafia è un fenomeno delinquenziale, come
il furto o l’omicidio ed è certo che
furto e omicidio non si possono “estirpare” né dalla Sicilia né da ogni altra regione
o città d’Italia, bensì solo prevenire, ridurre, contenere. Nel dodicennio
suddetto, la Mafia, dunque, se restò viva in potenza, scomparve come fenomeno
in atto.
Non fu poca cosa!
Se poco più tardi, nuove condizioni
ambientali e generali dovevano farla rifiorire, si può dire che, almeno per
allora, l’ordine pubblico fu ristabilito insieme alla sovranità dello Stato.
Gli avvenimenti che portarono alla nuova esplosione
mafiosa, dopo il 1885, furono essenzialmente due. Il primo è costituito dalla
già ricordata estensione alla Sicilia della legge sulla coscrizione militare
obbligatoria, che quelle popolazioni, ancora largamente immature dal punto di
vista unitario, rifiutarono e avversarono, favorendo, così, la diserzione dei
giovani e, quindi, la costituzione di nuove bande di fuorilegge e di nuove
strutture di protezione dei renitenti. Il secondo, anche se è doloroso dirlo,
fu l’apparizione di Giovanni Giolitti, al centro della costellazione politica
nazionale.
“Con l’avvento di Giolitti al potere”,
scrive Renato Candida,
“ebbe inizio la vera epoca d’oro della Mafia. Giolitti, per
conseguire favorevoli risultati elettorali, poco addentro nella conoscenza
della natura mafiosa, amò considerare le consorterie dalla possibilità del
numero dei voti che potevano dare al partito al Governo. Uomini politici,
funzionari, poliziotti inondarono di benefici i capi-mafia ed è noto come
avvenissero le elezioni politiche di quel tempo.”
Fu un fenomeno dolorosissimo.
Giolitti, nel Settentrione, era lo statista
più moderno che l’Italia potesse esprimere, concedeva il suffragio universale,
avviava alle riforme un Paese ancora arretrato, favoriva l’inserimento delle
masse popolari socialiste nella Democrazia e con ciò – come si direbbe, con
linguaggio moderno – allargava le basi democratiche dello Stato. Tutto ciò
avveniva, tuttavia, a prezzo di una politica meridionalistica che resta come
una macchia sul blasone, per tanti lati così rispettabile, dell’“uomo di Dronero”. Giolitti, in sostanza, faceva progredire
il resto d’Italia a spese del Mezzogiorno. L’unica cosa che interessasse il suo
fondamentale scetticismo era che le province meridionali gli fornissero il più
gran numero possibile di deputati, comunque eletti, che sostenessero la sua
politica e gli facessero da contrappeso contro la rappresentanza parlamentare
socialista.
Furono costoro i cosiddetti “ascari”. Chiedevano voti e offrivano, in cambio,
favori e protezione, mentre il Governo chiudeva entrambi gli occhi sulla
modalità e la provenienza dei loro suffragi.
Su questa base, una nuova generazione di
mafiosi emerse come di incanto.
In pochissimi anni, tutto riprese da
capo.
Gli anni dell’ultimo decennio del secolo XIX
e del primo Novecento furono presto terribili. La Mafia, da fenomeno
prevalentemente agrario e provinciale che, di fatto, era stato fino ad allora,
si trasferiva nel cuore stesso delle città, si ramificava nelle banche, negli
enti pubblici, negli uffici di governo. Furono questi, sicuramente, gli anni
più neri, neppure lontanamente paragonabili alla esplosione che doveva
verificarsi mezzo secolo dopo, al tempo del secondo dopoguerra e del bandito
Salvatore Giuliano. La intera Sicilia Occidentale era, praticamente, in mano ai
“pezzi da novanta” e ai deputati mafiosi.
E non solo!
Già, iniziavano a manifestarsi i primi
fenomeni dovuti alla cosiddetta “mafia di ritorno”, vale a dire i delitti imputabili a coloro
che erano emigrati in America, al tempo delle prime repressioni o del rifiuto
alla leva, tra il 1874 e il 1875, e che si erano associati alla Mano Nera di
New York e al nascente gangsterismo locale e che riapparivano in Sicilia, fatti
più esperti e crudeli dalla esperienza.
Due delitti tipici caratterizzano il
terribile ventennio a cavallo del secolo. Il primo febbraio del 1883, il
marchese Emanuele Notarbartolo venne ucciso a pugnalate da due sicari
mentre viaggiava sul treno Termini Imerese-Palermo. Era un gentiluomo di
specchiata onestà, che si era, strenuamente, opposto alla penetrazione della
mafia nel Banco di Sicilia, di cui era presidente. Come mandante dell’uccisione
venne indicato un deputato, l’onorevole Raffaele Palizzolo, membro della
direzione della stessa banca e noto mafioso. Lo scandalo fu enorme; ma il
Palizzolo, condannato, una prima volta, dalla Corte di Assise di Bologna, finì
per essere assolto dalla Corte di Cassazione di Firenze, dopo che un
funzionario, evidentemente, istruito dall’alto, aveva ritrattato la prima
deposizione a lui sfavorevole. Il delitto Notarbartolo dimostrava che la Mafia
era, ormai, penetrata fino alle alte sfere di Palermo e che i suoi agenti e
protettori sedevano tranquillamente in Parlamento.
Il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola
fulminavano il poliziotto italo-americano Joe Petrosino, mentre usciva dal suo
albergo di Piazza Marina, nel centro di Palermo.
Petrosino era sbarcato dall’America, solo
pochi giorni prima. Era famoso per la lotta fortunata e tenace condotta tra New
York e Chicago contro la Mano Nera, complessa organizzazione delinquenziale di
tipo mafioso e camorristico, che reclutava i suoi aderenti, soprattutto, tra
gli emigrati siciliani e calabresi.
Successive indagini stabilirono che, come
Petrosino era venuto, a Palermo, per documentarsi sui collegamenti
internazionali delle cosche americane, così l’organizzazione internazionale
mafiosa era riuscita a farlo eliminare a migliaia di chilometri dal centro
delle sue attività. A quanto pare, a eseguire, materialmente, la sentenza di
morte fu un certo Cascio Ferro, un mafioso, da poco, rimpatriato da New York,
che venne, infine, arrestato, nel 1926, come responsabile di 20 omicidi, 8
mancati, 5 rapine, 37 estorsioni e 53 reati minori. Immediatamente, dopo la
sparatoria, improvvisamente, tutta l’illuminazione pubblica era stata
interrotta nel quartiere del delitto, documentando come l’assassino godesse di
utili amicizie.
Il delitto Petrosino, uno dei più clamorosi
dell’epoca, dimostrò, a sua volta, come le strutture mafiose godessero, ormai,
di estensione internazionale e si fossero impiantate, a opera degli emigranti
siciliani, anche nella tumultuosa America di quegli anni. Si iniziava, per la
prima volta, a parlare di malavita italo-americana. New York mutuava da Palermo
e da Agrigento la pratica della protezione imposta con la violenza, dei ricatti
e del “pizzo”, prelevato sulla conclusione di ogni affare.
A loro volta, Palermo e Agrigento mutuavano dall’America i metodi della più
efficiente organizzazione criminale.
Il sopraggiungere della guerra 1915-1918
non faceva che aggravare la situazione. Le campagne della Sicilia si riempivano
di una nuova ondata di disertori, contadini miserabili, ai quali quella guerra
era tanto estranea quanto lo Stato e la Nazione che la combattevano, ribelli
contro una società che, dopo decenni di disinteressamento, veniva, adesso, a
chiedere il loro sangue, in difesa di confini ignoti e nella esplicazione di
una politica che non era da loro né conosciuta né compresa.
Tempi amari!
Le fanterie siciliane si svenavano con
valore e rassegnazione al fronte, mentre nell’isola una manica di corruttori e
di corrotti approfittava della situazione per estendere il suo arbitrio. Tempi
così equivoci che si poté affermare che lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, “il Presidente della Vittoria”
[https://www.youtube.com/watch?v=tPpQWPKJtug], si fosse lasciato eleggere dai voti della
Mafia di Partinico, quella Mafia che “nel significato antico”, come egli stesso ebbe a dire in pieno
Parlamento, nel 1921, “è sentimento del coraggio, della
lealtà, dell’onore e della giustizia”.
Ora, con il ritorno a casa dei reduci dalla
trincea, le nuove agitazioni sociali che scuotevano il Paese, l’insegnamento di
violenza appreso al fronte, la disorganizzazione e la confusione materiale e
spirituale dell’immediato dopoguerra, la Mafia trovava nuovo terreno favorevole
alla sua espansione.
Tra il 1919 e il 1920, la situazione si
fece, perfino, intollerabile.
La Sicilia grondava di sangue fraterno.
I delitti si erano fatti più foschi e più
crudeli.
Il 19 gennaio 1921, il procuratore generale
presso la Corte di Palermo, senatore Luigi Giampietro, aprendo l’anno
giudiziario, ebbe a dire:
“La vendetta viene eseguita barbaramente, selvaggiamente, a
tradimento, in agguato, con sassi, con rasoi, con roncole, con armi,
avvelenando, decapitando, strangolando e aggiungendo lo sfregio al cadavere,
spargendogli del petrolio e incendiandolo, ovvero mutilandolo o facendone
orrido scempio a segnalico della potenza veramente terrificante della Mafia.”
Il quadro è esatto.
Tra il 1919 e il 1924, non meno di 2500
omicidi si verificarono tra Agrigento e Palermo [almeno 300, solo nel 1919,
nelle campagne dell’Agrigentino, ben 109 soltanto a Canicattì], e tutti
restarono impuniti. Non vi era più proprietario terriero, commerciante o
professionista che, volente o nolente, non fosse in rapporto con la Mafia, o
per appoggiarvisi e farsene “proteggere” o come vittima di indebiti ricatti. Una nuova attività si era
aggiunta alle antiche, quella relativa alla importazione clandestina
dall’Oriente e dall’America di carichi di stupefacenti, destinati ai grossi
mercati italiani ed europei.
Lo Stato non poteva più restare inerte.
Occorre a questo punto affrontare il grosso
problema relativo alla discussa operazione che il fascismo condusse contro le
strutture mafiose, tra il 1926-27 e il 1937, attraverso l’Ispettorato Generale
della Pubblica Sicurezza per la Sicilia, creato ad hoc, e l’opera del celebre prefetto Cesare Primo Mori. Mori, a
sua volta, aveva come suo braccio destro un altro celebre poliziotto, il
commissario Giuseppe Gueli, personaggio di primo piano nella storia della
polizia italiana, sgominatore della famosa banda Bedin, attiva
nel Veneto e in Romagna negli anni 1930, successivamente, inflessibile repressore dei moti nazisti in
Alto Adige, prima della sciagurata alleanza con la Germania hitleriana e, da
ultimo, coinvolto nella liberazione di Benito Mussolini da Campo Imperatore.
L’“Operazione Mafia” del fascismo è stata ed è, tuttora, molto
discussa. Prima di giudicarla, esaminiamo, attentamente, i suoi particolari e i
risultati che raggiunse.
Pronta a legarsi contro il potere di Roma,
la Mafia è, sempre, stata legata all’ordine sociale
tradizionale e quando l’agitazione rivoluzionaria guadagnò la Sicilia,
all’indomani della Prima Guerra Mondiale, si schierò, chiaramente e
dichiaratamente, con i contadini ribelli, che moltiplicano allora le
occupazioni di terre.
All’inizio
degli anni 1920, la mafia fa causa comune con i primi fascisti locali, ma la
situazione cambia, rapidamente, dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si
vedono, allora, politici liberali, quali Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi
“mafioso e fiero di esserlo” e
presentare la Onorata Società come un polo di resistenza, necessario di fronte
all’evoluzione autoritaria e liberticida del nuovo regime. Il 28 giugno 1925, nel comizio elettorale
dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm],
di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da
Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
“Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso
dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza
e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il
forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche
della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi
atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni
individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di
esserlo!”
Preoccupato di imporre la sua
autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista nell’isola, Benito
Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di briganti di ogni tipo di
poesia e di fascino e si indigna che si parli della nobiltà e dello spirito
cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto, il 2 giugno 1924, a Trapani, poi, a
Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori. Questi impiega
grandi mezzi per sradicare il banditismo classico, in particolare nella regione
montagnosa delle Madonie, nell’entroterra di Cefalù. Carabinieri e
milizie fasciste suddividono a scacchiera il paese, le “famiglie” mafiose sono
identificate e i loro beni confiscati, centinaia di arresti sono eseguiti.
Unendo repressione e azione psicologica verso le popolazioni, ottiene risultati
spettacolari e la tradizionale omertà, la legge del silenzio, non protegge più
i capi mafiosi. Alcuni
mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi legami oltre
Atlantico; altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe Genco Russo.
La marchiatura sistematica del
bestiame, il licenziamento di numerosi gabellotti,
le inchieste condotte sul patrimonio di alcuni sospetti permettono, allora, di
portare colpi molto duri alla Mafia.
Mori
è, tuttavia, ringraziato, nel giugno del 1929, dopo aver fatto scomparire il
banditismo classico della “piccola Mafia”.
Ciò
è sufficiente per Mussolini, soddisfatto di essere uscito vincitore da questa
prova di forza; ma intenzionato ad accattivarsi i notabili siciliani, che,
adottando la camicia nera, si sono, indirettamente, messi al riparo di
inchieste troppo approfondite.
L’Onorata
Società non è, dunque, smantellata e la Seconda Guerra Mondiale le fornisce
l’occasione di ritrovare tutto il suo potere.
Mori operò sulla base di tre iniziative,
due delle quali perfettamente giuste e accettabili e l’ultima, invece, resa
possibile soltanto dalla sospensione delle garanzie costituzionali proprie del
periodo. Il primo provvedimento, estremamente utile, fu quello relativo alla
istituzione, in Sicilia, di un apposito servizio speciale denominato Anagrafe
del Bestiame, che rese possibile agli organi di polizia il riconoscimento delle
greggi. Ogni capo di bestiame doveva portare, saldato all’orecchio, un piombo
con la sigla del comune di appartenenza e un numero progressivo. La misura si
dimostrò notevolmente efficace per la lotta contro l’abigeato e la macellazione
clandestina, sulla cui base si era sviluppata una delle più potenti
organizzazioni mafiose interprovinciali.
Mori, inoltre, impose che la nomina dei “campieri”, i famosi guardiani dei feudi, dovesse
essere subordinata al nulla osta da parte delle questure. Anche questo provvedimento
fu giusto e utile. In pratica, a meno che non si verificasse qualche
collusione, in alto loco, venne,
quasi sempre, evitato che pregiudicati e noti mafiosi esercitassero un mestiere
così aperto e facile alla prevaricazione. La pratica della violenza nelle
campagne subì un crollo verticale.
Molto discutibile, invece, il terzo
provvedimento, vale a dire l’estensione indebita delle competenze e delle
attività delle commissioni provinciali di confino.
Mori e Gueli non guardarono, certo, per il
sottile!
Avevano a loro disposizione una legge già
di per sé illiberale e vessatoria, come quella che permetteva, senza pubblico
processo, senza possibilità di appello e senza la garanzia di un difensore,
l’invio al confino di qualsiasi cittadino segnalato alla Prefettura dagli
organismi di Pubblica Sicurezza.
I due applicarono questa legge con estrema
durezza.
In pochi anni, migliaia e migliaia di
cittadini furono allontanati dai loro paesi e l’innocente venne, spesso,
coinvolto insieme al colpevole, il piccolo mafioso punito più del capo-mafia,
il corrotto più del corruttore e il debole più del violento. In sostanza,
soffiò sulla Sicilia un vento di colonialismo, che, alla lunga, non poteva
generare che altri odi e nuovi risentimenti. Interi paesi furono, praticamente,
spopolati di uomini. Invece di isolare i veri mafiosi e colpirli duramente,
accadde che tutta la popolazione dei centri “indiziati” dovette pagare indiscriminatamente. Dalla
sola Cattolica Eraclea, a esempio, vennero confinati 245 individui. Da Palma
Montechiaro ben 211, più di 1000 tra Canicattì, Bivona e Favara. Poco, invece,
fu fatto contro le cosche palermitane della “mafia dei giardini” e della “mafia dei mercati”, al cui vertice emerse, in quegli anni, il
famoso Zì Gasperino, uno dei più spietati controllori del racket alimentare.
E, mentre Mori e Gueli combattevano con
durissimo rigore i gregari, certe collusioni si verificarono, invece, a diverso
livello, quando la Mafia, sempre pronta a adeguarsi alle nuove situazioni,
entrava nel complesso gioco delle rivalità politiche e personali, quasi sempre
a sfondo affaristico, che si determinavano tra podestà e segretari federali,
tra gruppi di gerarchi locali e tra fascisti e vecchia classe dirigente
siciliana, sedicente “liberale”. Non vi è dubbio che, ad alto livello, le strutture mafiose,
più che combattute, fossero assimilate e inglobate dal fascismo.
Il risultato di tutto ciò fu che una
relativa tranquillità venne assicurata, per quegli anni, alle province
martoriate. La Bassa Mafia era stata messa in condizioni di non nuocere da Mori
e da Gueli, a forza di deportazioni, arresti indiscriminati, retate e
vessazioni che colpivano pressoché tutti. L’Alta Mafia poteva dirsi, in molti
casi, tranquillizzata e soddisfatta dalle raggiunte posizioni di potere
diretto: non aveva più bisogno della violenza per conseguire i suoi fini
economici, le bastava utilizzare le forze dello Stato a livello locale. Le
ultime grosse retate furono compiute nel 1937-1938, e si era, ormai, alla
vigilia dei tempi nuovi.
Vi è da aggiungere un’altra considerazione.
Già, nel decennio 1874-1885, lo Stato
italiano si era impegnato a fondo e con estrema durezza, contro le strutture
mafiose. Ma, come abbiamo visto, le misure di polizia prese, in quegli anni
lontani, erano state accompagnate da tutta una attività di carattere sociale,
rivolta a sanare le condizioni obiettive che favorivano la crescita del
fenomeno. Il fascismo, purtroppo, non seppe fare quello che era stato, almeno,
tentato dall’“Italietta” del secolo precedente. In luogo di dare la
terra ai contadini ed elevarli alla condizione di liberi cittadini, li
irregimentò e li mandò a combattere. Il feudo rimase la realtà sovrana
dell’interno dell’isola e le popolazioni divennero sempre più un gregge di
sudditi, anziché una comunità di produttori. A tutti venne chiesto soltanto di “obbedire” e le conseguenze si pagarono, dopo
pochissimi anni.
Mutate le condizioni politiche e
ambientali, dopo il durissimo periodo bellico, che la Sicilia pagò in fame e
distruzioni, forse, più di ogni altra regione d’Italia, la Mafia tornò a
fiorire.
Dalla fine del XIX secolo, la miseria aveva
spinto verso il Nuovo Mondo numerosi siciliani, che avevano costituito, a New
York e in altre grandi città dell’America del Nord, importanti comunità, ben
presto taglieggiati da compatrioti intraprendenti,
preoccupati di assicurare loro “protezione”.
Gli
anni 1920 e la prosperità che li accompagna oltre-Atlantico vedono la Mano Nera
dell’inizio del secolo sostituita dall’Unione Siciliana, antenata di Cosa
Nostra, in seno alla quale si distinguono nel modo che conosciamo, con il
favore del proibizionismo, Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Frank
Costello e Joe Profaci.
Dal
1942, gli americani si preoccupano di un futuro sbarco in Sicilia e beneficiano
in questa prospettiva dei consigli avveduti di Lucky Luciano, uno dei più
celebri mafiosi degli Stati Uniti, che, condannato a cinquanta anni di carcere,
è liberato su parola per la circostanza.
E,
con lo sbarco anglo-americano, nel luglio del 1943, i tre quarti dei sindaci,
designati dal governo militare alleato, messo in piedi nell’isola, sono noti
mafiosi. Allorché l’incertezza resta circa la evoluzione politica futura
dell’Italia, questi “notabili” sono interlocutori ideali per gli americani e rivendicano
anche la costituzione di una Repubblica siciliana indipendente.
La
Mafia è dietro questa impresa separatista, che incarna allora Salvatore
Giuliano. Accusato di mercato nero, questo giovane contadino di Montelepre ha
ucciso un carabiniere, il 2 settembre 1943, e si è dato alla macchia nelle
montagne vicine, dove numerosi altri giovani braccianti, in situazione molto
precaria, lo raggiungono, nel corso dei mesi successivi.
“Bandito
d’onore”, Giuliano non esita ad attaccare i carabinieri e a far beneficiare di
una parte delle sue ruberie la misera popolazione della sua terra.
Guadagna
immenso prestigio!
Nell’estate
del 1945, alcuni monarchici, che sostengono il movimento separatista, lo
nominano “colonnello” dell’Esercito Volontario di Indipendenza Siciliana
[EVIS]. Ma la concessione, nel 1946, di uno Statuto di Autonomia all’isola
priva i separatisti del sostegno popolare; mentre la Mafia vede,
immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di azione che sarà,
ormai, la sua, nel quadro della nuova amministrazione regionale.
Le
elezioni di aprile del 1947, che suggellano la sconfitta della corrente
separatista, sono segnate da una forte spinta della sinistra, in un contesto di
bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana.
La
Mafia ha, rapidamente, fatto la sua scelta.
Si
tratta, ora, di lottare contro la sinistra e, più in particolare, contro i
comunisti.
Giuliano
interviene nella attuazione di questa nuova strategia.
Il
primo maggio del 1947, Giuliano attacca un raduno di sinistra a Portella della
Ginestra e l’operazione fa più vittime.
Altre
azioni analoghe sono condotte nel corso delle settimane seguenti. Ma Giuliano
non è che un uomo di mano, che rischia di divenire troppo loquace, ed è
assassinato il 5 luglio 1950.
Allorché
sembra aver perduto la sua influenza con il favore della instaurazione del
regime repubblicano, la Mafia stabilisce, di fatto, dei legami stretti con la
Democrazia Cristiana, divenuta il primo partito della Sicilia. Può, così,
intervenire nell’amministrazione della
regione, dotata, ormai, di una larga autonomia e il sistema clientelare, che
faceva la sua forza, è, rapidamente, ristabilito.
La
Legge della Riforma Agraria del 1950 – la cui applicazione è controllata
dall’amministrazione regionale – permette tutte le speculazioni e, al tempo
stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli agricoltori che debbono
beneficiarne.
Il
controllo della creazione di pubblici impieghi – che rientra nelle competenze
dell’autorità regionale – favorisce,
egualmente, il clientelismo e contribuisce allo sviluppo dell’influenza
mafiosa.
L’ottenimento
di licenze edilizie, nel contesto del boom
immobiliare del dopoguerra – Palermo è stata, in effetti, distrutta, in larga
parte dai bombardamenti alleati – permette di privilegiare le imprese mafiose,
che sanno, in cambio, mostrarsi generose, quando viene il momento delle
campagne elettorali…
L’espansione
economica dei “Trenta Gloriosi”
genera condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività mafiose.
Racket,
speculazione immobiliare, contrabbando di sigarette e traffico di droga
divengono campi di attività, particolarmente redditizi.
Le
famiglie si dilaniano per il controllo di alcuni settori, perché la Mafia dei
giardini o dei campi, molto presente negli agrumeti della Conca d’Oro, dove
controlla il mercato fondiario e l’irrigazione, si scontra con la Mafia delle
città o dei cantieri, specializzata nell’edilizia e nel riciclaggio del danaro
sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio presto favorito
dall’instaurazione della libera circolazione di capitali nell’Europa in
costruzione.
Numerose
vittime scompaiono, allora, di cui nessuno troverà, mai, i cadaveri,
discretamente colati nel cemento degli immobili in costruzione…
Lo
sterminio del clan Navarra, di
Corleone, da parte di Luciano Leggio [1925-1993]
è uno degli episodi più sanguinosi di queste lotte senza quartiere.
Prima di concludere questa breve storia
delle insorgenze mafiose dobbiamo esaminare, più da vicino, il fenomeno che va
sotto il nome di “mafia di ritorno” e che implica l’analisi dei rapporti intercorrenti tra tre
diverse, ma inaspettatamente collegate “centrali”: le “cosche” del Palermitano, il gangsterismo di New
York e di Chicago e la politica degli anglo-americani, in Italia, tra il 1942 e
l’inizio del 1945.
La prima ondata di mafiosi siciliani, che
ebbero a riversarsi al di là dell’Atlantico fu quella determinata, come abbiamo
visto, dalla prima fase delle repressioni tra il 1874 e la fine del secolo
scorso. I delinquenti siciliani, che sfuggivano alla cattura e che si
mescolavano con la grande diaspora degli umili contadini, costretti a “fare
fagotto” da tutta l’Italia meridionale, si
associarono alla nota Mano Nera, che fu, inizialmente, nulla più che una
società di mutuo soccorso tra gli emigranti italiani più sfruttati. Ben più
grave di conseguenze fu, successivamente, il fatto che gli anni della seconda
ondata – quando i mafiosi più compromessi lasciarono la Sicilia per non cadere
nella rete di Mori – coincisero, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, con
gli anni del proibizionismo, vale a dire con l’aprirsi di una situazione che
sembrava, appositamente, studiata per favorire il radicarsi di organizzazioni e
strutture fuori dalla legge a carattere delinquenziale di massa.
Il racket
dell’alcool, in America, aveva, già, in partenza, tutte le caratteristiche
delle attività commerciali illegali, che erano fiorite in Sicilia. Era
inevitabile che i tecnici del rifornimento clandestino, del ricatto, della “protezione” e del “pizzo”, provenienti dalla Sicilia, venissero,
subito, irreggimentati nelle nuove bande americane.
Tra il 1930 – anno cruciale della
repressione Mori – e il 1950 – anno della famosa inchiesta Kefauver – i
delinquenti, scacciati dall’Italia, assunsero il pieno controllo di tutte le
attività illegali americane.
Franco Castiglia, detto Frank Costello,
ex-mafioso, fu il boss del racket di
New York, mentre Al Capone regnò su Chicago.
È
il tempo di Albert Anastasia; Charles Lucky
Luciano; Michael Coppola; Antonio Carfano, detto
Little Augie Pisano;
Frank Nitti; Settimo, detto Sam o Sammy Accardi; Joe Doto detto Adonis; Paul “The
Waiter” Ricca; Charles
“Trigger Happy” Fischetti,
Richard “Richie Nerves” Fusco.
I giorni della “Anonima Delitti”.
Dal 1933 in poi, come venne dimostrato dalla inchiesta
del senatore Estes Kefauver, questa gente entrò, indubbiamente, in collusione
con una parte del Partito Democratico. A cavallo tra la Tammany Hall, l’Unione
Siciliana e le varie società di mutuo soccorso tra emigranti poveri
dall’Italia, dall’Irlanda e dai Paesi slavi, tra il sindaco William O’Dwyer
[1890-1964] e alcuni uomini politici corrotti, i bosses organizzano le elezioni, i sindacati, le convenzioni, i
municipi. Lo stesso Franklin Delano Roosevelt [1882-1945] [http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/26/Quando_Roosevelt_chiese_aiuto_boss_co_9_100826021.shtml] è impotente di fronte alla “Piovra” della malavita, concentrata nelle grandi
città dell’Est, e solo la guerra, con la sua ondata di disciplina patriottica,
riesce a mettere un freno al dilagare della corruzione.
La guerra ha, anche, altre conseguenze tra
i grandi mafiosi restati in Sicilia, mimetizzati fino ad allora ai margini del
fascismo o dallo stesso, come è stato giustamente detto, “oppiati” e resi soddisfatti. Furbi, bene informati
dai loro complici americani, sempre pronti a adeguarsi alle nuove situazioni,
ancora prima che si deliniino, i grandi mafiosi siciliani comprendono, subito,
che Benito Mussolini perderà la guerra e che occorre prepararsi a tempi nuovi e
a nuove situazioni per mantenersi a galla e per esserne i nascosti padroni.
La Mafia diviene, allora, antifascista, ma
non già per amore di Democrazia, come non fu antiborbonica, un secolo prima,
per puro amore di Libertà, bensì per acquistarsi meriti in cambio di
protezione.
La Mafia americana mise a disposizione dei
comandi americani la sua conoscenza di uomini e cose siciliane, i suoi canali
di informazioni, la sua rete di collusioni.
Si offrì come strumento di spionaggio.
I comandi americani ebbero il torto di
accettare questa offerta.
La rete mafiosa forniva loro una base per
il giorno in cui avrebbero messo piede in Sicilia.
I loro agenti segreti si appoggiarono ai
nominativi forniti da gente come Luciano o Adonis; lo sbarco in Sicilia fu
preparato da una equivoca rete di esperti dello Strategic Service di Washington e di appartenenti alle “cosche”.
All’indomani dello sbarco del 10 luglio 1943,
il 70% dei sindaci nominati, in Sicilia, dagli Alleati, erano mafiosi: le
autorità di occupazione avevano in tasca i nominativi degli “amici degli amici”, forniti dai capi-banda italo-americani in
cambio di riduzioni della pena e promesse di estradizione.
E non solo!
Tutta un corrente politica, in America come
in Inghilterra, pensava che l’Italia in quanto tale dovesse essere punita.
Alcuni generali ragionavano in termini di vecchia strategia e sembrava loro che
il distacco della Sicilia dallo Stato continentale avrebbe potuto essere,
ancora, utilissimo per il futuro controllo del Mediterraneo.
Il movimento separatista siciliano traeva
forza, d’altra parte, dalle miserrime condizioni dell’isola, dove le rivolte
per fame si susseguivano a Palermo, a Partinico, a Catania e nelle campagne
dell’interno.
Come conseguenza della disgregazione
sociale, portata dalla guerra, il mercato nero generò il banditismo.
E il banditismo prese contatti con la Mafia
e si mise al suo servizio.
E, poiché la Mafia sceglieva una politica,
il banditismo diveniva, a sua volta, un fatto politico.
Le bande pre-Giuliano che presero nome di
Labruzzo, Cassarà e Lombardo, nella Sicilia Occidentale, e Russo, nel Catanese,
furono il prodotto di questa nuova situazione.
Sulla collusione mafia-banditismo-politica
separatista degli anni tra il 1943 e il 1950 si è scritto molto. Bisogna
riconoscere che, a seguito di una nuova attività repressiva, che, tuttavia, non
ha mancato di lasciare uno strascico di dubbi e di polemiche, come conseguenza
di certi metodi non ortodossi, la Mafia, dopo il 1950, subisce un altro colpo o
almeno un’altra battuta di arresto.
Le statistiche parlano chiaro.
Tra il 1950 e il 1955, i reati accertati in
Sicilia tendono a diminuire. Gli omicidi passano da una media di 45 a una media di 33 all’anno,
i furti si riducono della metà, da oltre 700 a poco più di 400.
Ora, accanto all’attività repressiva di
tipo poliziesco, la Sicilia conosce una nuova fase di sviluppo sociale, l’avvio
alla riforma agraria che, bene o male, dà la terra e la casa a decine di
migliaia di contadini; la scomparsa del feudo; l’inizio
dell’industrializzazione.
E, come sempre, la Mafia viene messa in
crisi dalla riforma sociale. Si mimetizza o emigra sotto l’imperversare della
repressione poliziesca e militare, per poi rialzare il capo appena la pressione
venga allentata; ma ben altre difficoltà deve affrontare, quando mutano le
condizioni sociali ed economiche dell’ambiente, quando i contadini passano
dalla condizione di bracciante, costretto a mendicare una giornata di lavoro, a
quella di piccolo proprietario indipendente e i disoccupati cittadini trovano
qualche prospettiva in una attività economica, avviata verso soluzioni di
progresso.
Scompare, dunque, la Mafia?
Al contrario!
Il fenomeno, come abbiamo visto, ha mille
volti e una capacità di adattamento quasi-totale. Negli anni in cui, dopo la
liquidazione di Salvatore Giuliano e delle connivenze politiche separatiste, la
Mafia sembra quasi battuta e le statistiche delinquenziali appaiono in
regresso, l’organizzazione cambia, ancora una volta, uomini, metodi e
strutture. Assistiamo, dunque, in questi anni, al seguente fenomeno: le
strutture mafiose si fanno sempre più urbane e trasferiscono il loro interesse
dalle fonti della produzione agricola a quelle del commercio, dell’edilizia,
della industria nascente. I vecchi rackets
paesani sono svuotati di contenuto economico; ma sorgono nuove incrostazioni,
laddove il progresso economico muta il volto dell’isola.
La Mafia diviene, allora, più violenta e
più del potere locale o la considerazione che procura, è la ricchezza che
costituisce l’obiettivo delle nuove generazioni. Una ”Mafia di capi di impresa”
corrotti, organizzata in una vera
multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia rurale, derivata
dagli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di
somme astronomiche, tratte da attività illegali, e docilità di impiegati di
imprese mafiose costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, capi,
che non fanno affatto fatica a prendere il controllo di settori interi della
economia siciliana o italiana.
Il potere economico, derivato dal traffico
di droga, procura di nuovo i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato
italiano, in seno al quale diviene possibile “accaparrarsi” preziose complicità, ciò di cui
testimoniano i “sospetti” molto seri che si sono portati su Giulio
Andreotti, presidente del Consiglio per sette mandati e vero centro di gravità
del sistema politico italiano, per diversi decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in
Parlamento, nel 1962, non ha, così, ottenuto che modestissimi risultati e un
nutrito numero di funzionari, di operatori delle Forze dell’Ordine e di
magistrati hanno pagato con la loro vita la loro volontà di lottare,
seriamente, contro la criminalità organizzata.
La serie di assassinii, che ha segnato gli
anni 1970, ed è culminata, nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione
delle menti, soprattutto, in Sicilia, dove la Mafia non può più beneficiare del
consenso tacito che le garantiva una impunità pressoché totale. È, ormai, con il terrore che deve imporsi,
ma le inchieste di magistrati, quali Giovanni Falcone e Ferdinando
Imposimato permettono di portarle colpi sempre più seri.
L’arrivo
a Roma, nel 1984, di Tommaso Buscetta, estradato dal Brasile, costituisce una
svolta nella lotta contro la Mafia. Trafficante di droga di grande levatura,
aveva lasciato Palermo, nel 1981, per sfuggire ai killers di Michele e Pino Greco, i nuovi Corleonesi. Gli assassinii
di suo cognato, di due figli, di un genero e, infine, di suo fratello – che,
semplice artigiano, non aveva niente a che fare con la Mafia – lo indussero a
parlare.
Al
termine di una confessione di un mese, 3mila carabinieri e poliziotti possono
procedere, il 29 settembre 1984,
a una retata di vasta portata che permette di arrestare
diverse decine di mafiosi, immediatamente portati nelle prigioni del Nord
dell’Italia.
Dopo
Buscetta, Salvatore Contorno, superstite di una famiglia decimata dai
Corleonesi, Vincenzo Sinagra e una ventina di altri pentiti permetteranno di
accumulare prove e, nel febbraio del 1986, 475 imputati su 840, compaiono
davanti al Tribunale di Palermo. Questo, di fatto, è un vero bunker, dove misure di sicurezza
eccezionali sono state prese: la sola costruzione degli edifici è costata 54
miliardi di lire, vale a dire poco meno di 28 milioni di euro.
Il
dossier dell’istruttoria conta più di
8mila pagine, riunite in 40 volumi e riguarda circa 100 omicidi. Altri 22
volumi raccolgono i documenti relative ai conti bancari e al riciclaggio di
danaro sporco. 2mila carabinieri e poliziotti sono incaricati della protezione
del tribunale, dei magistrati, dei testimoni e della quindicina di famiglie
delle vittime che hanno avuto il coraggio di costituirsi parti civili, senza
trovare un avvocato siciliano che accettasse di difenderli. Buscetta, al quale
un intervento di chirurgia plastica ha modificato i tratti del volto,
testimonia, il 7 aprile, fuori della vista degli accusati e del pubblico.
Il
processo si trascina, perché i mafiosi e i loro avvocati utilizzano tutti i
cavilli giuridici, che permettano loro di guadagnare tempo, e, il 7 ottobre, la
Mafia uccide un bambino, la cui famiglia, addetta alla pulizia del tribunale,
si era rifiutata di lasciarsi corrompere…
Forza
resta, tuttavia, alla Giustizia e pesanti condanne cadono sui colpevoli.
Ma
la Mafia non è morta…
E
la sua vendetta si abbatterà, il 23 maggio 1992.
Nella
Strage di Capaci perdono la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua
moglie Francesca Morvillo e 3 agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco
Dicillo, Antonio Montanaro. Gli unici sopravvissuti sono Paolo Capuzza, Angelo
Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
Il
19 luglio seguente, è il giudice Paolo Borsellino a essere ucciso con i 5
agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter
Eddie Cosina e Claudio Traina, nella Strage di via DAmelio.
La
sera del 27 luglio, è Giovanni Lizzio,
ispettore capo della Squadra Mobile della Questura di Catania – responsabile
della sezione anti-racket – a essere
abbattuto, nel quartiere periferico di Canalicchio, mentre è fermo in auto
davanti a un semaforo [http://www.cadutipolizia.it/Fonti/Polizia1981/1992Lizzio.htm].
Poco prima di morire, il 18 luglio, Lizzio aveva condotto una operazione,che
aveva consentito la cattura di 14 uomini del clan Cappello, grazie alle rivelazioni di un pentito.
Di
fronte a una opinione disgustata da questi attentati odiosi, le istituzioni
sono, dunque, costrette a reagire.
Due
giorni dopo la morte di Giovanni Falcone, il 25 maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro
[1918-2012] è eletto Capo dello Stato al sedicesimo scrutinio.
E,
il 28 giugno, dopo una crisi iniziata da 83 giorni, nasce il Governo
Amato.
Il
7 agosto, un decreto legge Antimafia permette di accelerare le procedure
giuridico-poliziesche e accorda poteri eccezionali ai magistrati impegnati
nella lotta contro la criminalità organizzata.
Il
7 settembre, uno dei capi della Mafia, Giuseppe Madonia, figlio di Francesco
Madonia, capo indiscusso della provincia di Caltanissetta e membro della
commissione regionale di Cosa Nostra, è arrestato, dopo dieci anni di
latitanza, a Longare.
Seguiranno
altri arresti.
Poco
tempo dopo, l’inchiesta Mani Pulite, condotta dai giudici di Milano contro la
corruzione – con il sostegno massivo della opinione pubblica – permette, con il
favore delle elezioni di giugno del 1993, la rigenerazione di un sistema
politico italiano tanto sclerotizzato quanto incapace e la Giustizia può, così,
segnare punti decisivi; mentre si attuano nuovi rapporti di forza elettorali,
di cui fanno le spese i comunisti, a sinistra, e la Democrazia Cristiana, a
destra.
La
lotta contro il crimine organizzato porta, regolarmente, i suoi frutti, ma se
centinaia di mafiosi sono stati arrestati, tra i quali gli assassini dei
giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le riforme della Giustizia, che
sono, oggi, allo studio, in Italia, rischiano di rimettere in questione questo
bilancio positivo. Sono considerate nell’ottica della difesa dei diritti del
cittadino contro l’arbitrio di un giudice, ma autorizzando, a esempio, – in
nome del “sospetto legittimo” circa l’imparzialità di un magistrato – lo
spostamento di un processo da una corte a un’altra, si potrebbero offrire ai
mafiosi e ai loro avvocati seri mezzi per intralciare l’azione della Giustizia,
come aveva fatto valere l’ex procuratore nazionale antimafia, Pier
Luigi Vigna [1933-2005].
Che fare?
Conosciuta a fondo la nuova Mafia, come
speriamo sia in grado di fare la nominata Commissione Parlamentare, occorre
combatterla. Tutta la esperienza del passato ci dice che due sono le strade da
battere. Quella del rigore della legge, affidata a uomini nuovi e decisi e
quella della riforma sociale ed economica, l’unica capace di condurre a quella “rivoluzione delle coscienze”, che è il vero, definitivo nemico della
Mafia.
8. IL BRIGANTAGGIO
POLITICO
Il
decennio 1890-1900, fu per l’Italia un periodo nervoso, inquieto e pericoloso
per le libertà costituzionali. In una società ancora precapitalistica e però in
via di profonda mutazione proprio per
effetto dello sviluppo industriale, le tensioni sociali tendevano sempre più a
manifestarsi come effetto di forze organizzate. È in questi anni che,
parallelamente alla nascita di un proletariato moderno, la cui origine si rifà
alla crescente presenza della fabbrica, si organizzano su scala abbastanza
vasta cooperative operaie, leghe di resistenza, camere del lavoro. In questi
anni [1892] a Genova nasce anche il partito socialista che entra, come nuovo e
importante elemento di opposizione, non solo nel tessuto sociale del Paese ma
anche in quello politico.
Nel
1890, vi era un solo rappresentante socialista alla Camera, Andrea Costa. In
quello stesso anno, i deputati socialisti divennero 5; nel 1892 salirono a 10;
nel 1895 a 12; nel 1897 a 16; e infine nel 1900 a 32. Si avvia al tramonto il
socialismo semplicistico, verboso e agitatorio ma sostanzialmente emarginato di
Bakunin e si afferma una mentalità nuova, di ispirazione marxista, che trova i
suoi teorici, Antonio Labriola, i suoi scrittori, Giovanni Verga, i suoi
rapporti con il movimento operaio europeo, la Seconda Internazionale.
Si
può distinguere tra un socialismo tendenzialmente repubblicano e anarchico,
come in Emilia, e un socialismo più spiccatamente marxista, che ha il suo
centro a Milano, ma il fatto comune a questi inizi è l’abbandono dell’utopismo
da club, dove si agitano idee generose ma inconcludenti e si aspetta una
palingenesi che non verrà mai; poiché lo Stato ha da tempo una sua struttura ben
definita e l’esercizio del potere politico, senza per questo volere accreditare
leggendariamente una sua connaturata inclinazione a opprimere la massa e i suoi
diritti, si esplica in forme che tendono a ritardare ogni processo di
rinnovamento, a disciplinarlo, a contenerlo. È l’automatismo conservatore di
ogni potere.
Socialismo
che nasce, dunque, al Nord.
Al
Sud, viceversa, siamo ancora ben lontani dal vedere sorgere qualcosa che
assomigli a una coscienza politica della classe operaia, ancorché già da un
trentennio siano stati creati i Fasci dei Lavoratori in Sicilia. Questi,
formatisi sulla falsariga delle società operaie mazziniane, si prefiggono scopi
più che altro mutualistici, assistenziali, provvedono al sorgere di scuole,
all’assistenza medica, ai prestiti di danaro tra i soci. I Fasci Siciliani
erano il prodotto di un socialismo istintivo in una società rurale, povera e
incolta che tuttavia si rendeva gradatamente conto, a misura che ferrovie e
strade la mettevano sempre più a contatto con la società urbana, della propria
miseria e delle condizioni del proprio sfruttamento.
Sommandosi
poi, in Sicilia, allo scontento delle masse l’atavico risentimento contro ogni
forma di governo e il vecchio rancore isolano contro il continente, avvenne che
proprio da quella lontana provincia dovesse partire la prima, grave ribellione
nei confronti del governo centrale. Così grave che, in parte per calcolo
politico, in parte per un errore di valutazione provocato dalla violenza
dell’urto insurrezionale e dalla necessità di porvi rimedio, il governo di
allora accreditò la tesi di una rivolta organizzata, diretta a programmi di
scardinamento dell’ordine legale e costituzionale. Niente di più falso, come è
stato storicamente provato.
Quella
che, nel gennaio del 1893, partì da Caltavuturo, dove i contadini invasero e
occuparono le terre demaniali fu una vera e propria rivolta della fame. Il
paese ne fu scosso a tal punto che, nel dicembre del 1893, il governo Giolitti
dovette dimettersi. Il suo posto fu preso da Crispi, un siciliano che conosceva
profondamente i problemi dell’isola, ma al cui giudizio umano e politico faceva
velo, benché egli provenisse dal radicalismo garibaldino, il pregiudizio che
ogni forma di socialismo andasse combattuta e stroncata.
Il
giudizio politico sulla situazione siciliana in quegli anni era già stato dato,
nel 1892, pochi mesi prima dell’espolosione dei moti, dal deputato Napoleone
Colajanni.
segue, a breve, il testo integrale...
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald
Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its
London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had
treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent,
history might have been different. And I hope all publishers will bear this
lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small
increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry
in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the
degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend
the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you
that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s
efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has
warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
Secondo la sorella del
giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa aveva incontrato il
fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il generale aveva confidato
al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli
documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di
giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di
segreti sul sequestro di Aldo Moro, che infastidivano Andreotti. Buscetta,
inoltre, affermò che il boss Gaetano
Badalamenti gli disse:
“[Dalla
Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto
ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di
lui.”
All’inizio del mese di aprile
del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva scritto al presidente
del consiglio Giovanni Spadolini:
“La
corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la
“famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.”
Un mese dopo, veniva,
improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare
l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A Palermo, lamentò, più volte, la
carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica e carica di amarezza
rimane la sua frase:
“Mi
mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di
Forlì.”
Chiese di incontrare Giorgio
Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo Stato. Nell’intervista
del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella
battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno
consentito alla Mafia di agire indisturbata, per anni. Di fatto la pubblicazione
dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna reazione da parte dello
Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel mirino il generale.
Per i tre omicidi sono stati
condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina,
Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il generale Dalla Chiesa aveva
svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, nel
1970, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi,
promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei.
Le
carte relative al sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé
a Palermo, dopo la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se
sono state sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.
Secondo la testimonianza del
giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione“fu
convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di
maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”.
Il colonnello dei carabinieri
Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo di Palermo, stava indagando
sul caso Mattei. La sera del 20
agosto 1977, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
perse la vita davanti a un bar di Ficuzza,
frazione di Corleone.
Così ricordò, quella tragica
sera del 1977, il giornalista Mario
Francese, su Il Giornale di Sicilia, all’indomani
dell’omicidio:
“Al bar entrò
soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i
due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si
accorse di una “128”
verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente
controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino
alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò
proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini
alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si
fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla
tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di
accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15.
Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente,
per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini
aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno,
armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer
certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per
finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un
raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il
killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla
testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via.
Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il
corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse
subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei
dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da
Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni
prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo
«in via Ausonia sotto casa a Palermo e il
professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il
giornalista- No,
perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”
“È nato nella terra
dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Negli occhi si
leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare…
Aveva un cognome
ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato…
Si sa dove si nasce
ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste sono alcune delle parole,
con cui i Modena City Ramblers descrivono Peppino Impastato nella loro
canzone I cento passi, ispirata
all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.
Giorgio Boris Giuliano fu
ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle.
Precedentemente al suo
assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Giorgio Boris
Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di
stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di
consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Tre anni dopo la sua morte, il
13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il
posto di Basile, quale comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale,
sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e all’appuntato Giuseppe
Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche l’ex-autista di Basile, il
carabiniere Pietro Morici.
Le indagini giudiziarie
procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa
del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo
a quella corposa requisitoria sui “delitti politici” siciliani che, depositata
il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone.
Questi puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estema destra
Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali
esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti
eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la morte di Falcone, l’uccisione di
Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai
collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
Nel 1993, Buscetta, in
particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano
Bontate e i suoi alleati non erano
favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [o alla
maggioranza che Riina era riuscito a formare] che non si doveva ammazzarlo
[...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione.”
Pierre Michel scoprì che i
marsigliesi erano in affari con la ‘Ndrangheta
calabrese, in particolare, per quanto riguardava gli investimenti di
droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso, Michel stava collaborando con
alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache dell’epoca si apprende che, solo
poche settimane prima dell’omicidio, il giudice aveva ricevuto, a Marsiglia,
tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori solo due nomi di magistrati italiani
che mantenevano rapporti di collaborazione con Michel: Giovanni Barrille e
Giusto Sciacchitano.
E il terzo chi era?
Bisognerà aspettare il quinto
anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione, infatti, appare
Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa intuire ai
cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice assassinato nel 1981.
Paolo Giaccone è assassinato
tra i viali alberati del Policlinico di Palermo. Aveva ricevuto l’incarico di
esaminare impronte digitali, lasciate dai killers,
che, nel dicembre del 1981, avevano scatenato una sparatoria tra le vie di
Bagheria.
Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo
di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia
[http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/].
Già sindaco di
Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia,
viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo
Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel
tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che
legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco
di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività
illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo
e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i
possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il
deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli
occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco
scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla
di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a
far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla
Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo
sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte
d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma,
nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice
vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte
della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle
calunnie, di cui erano stati oggetto nel processo. Questa sentenza significa
per loro un fatto chiaro:
“LA
GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel
famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele
Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A
proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano,
molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto
in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano
intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in
tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente
abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla
parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi
di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da
essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di
fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono
sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che quasi non
immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione,
di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i
nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or
dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro
linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia
intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che,
quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili
di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è
una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la
prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di
rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno
speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si
propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai
membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente
delittuosi.”
E ancora:
“Sono
arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo
fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose.
Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non
esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la
superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le
cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di
amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si
combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno
è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che
ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I
membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie
diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno
dei rapporti fra di loro.
È
superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale,
alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: “il
tale è un capo della mafia”, significa soltanto che egli è in buoni rapporti
con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne
l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E
neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di
riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le
persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che
appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per
quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e
dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle
diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso
viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un
battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va
fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo
riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno
perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in
identico modo.”
Per
circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i
Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che
questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione
mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si
triplicò.
Nei primi anni del dopoguerra,
lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I Paesi europei, invece,
faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra e colpite
dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione Truman era
consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e stabilità
politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di qui la
decisione di varare il Piano Marshall.
A questo punto, iniziò una fase
di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I principali fattori che resero
possibile il grande sviluppo dell’economia occidentale furono:
-
la
creazione di un ordine economico e monetario stabile, imperniato sul dollaro,
definito, già, nel luglio 1944, con gli Accordi
di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con l’Asse;
-
il
basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche;
-
la
rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che
consentì la diffusione di beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-
l’esplosione
dei consumi di massa, favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a
esempio: la televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la
vendita a rate] e, infine, dalla crescita della occupazione e delle
retribuzioni, che rese disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del
reddito nazionale;
-
il
grande sviluppo dei trasporti, legato alla diffusione della motorizzazione
privata e all’utilizzo su larga scala dell’aviazione civile.
Accanto alla crescita economica,
gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte attenuazione del ciclo
economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di sviluppo con altre di
stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato l’economia capitalistica
fino dal suo nascere.
In questo periodo non si
registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti di rallentamento.
Ciò fu dovuto, oltre che alla
stabilità del sistema monetario internazionale, alla adozione di politiche
economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla esperienza del New Deal e sul principio che gli
strumenti della politica economica, e, in particolare, la spesa pubblica,
debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale, ossia l’insieme dei
beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai cittadini, dalle imprese
e dallo Stato.
L’autorità politica venne
assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’economia. In molti
Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre principali forme:
-
l’impostazione
della politica economica in chiave espansiva;
-
l’ampliamento
della funzione imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese
pubbliche [a esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione
di alcuni settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo
a creare sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-
l’adozione
generalizzata dello Stato Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche
rivolte a erogare a tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa
pubblica, servizi e assistenza sociale.
Luciano Leggio,
meglio conosciuto come Liggio
dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al
maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.
Per l’omicidio dell’ispettore
capo Giovanni Lizzio è stato condannato all’ergastolo, con sentenza passata in
giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.
responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry
in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the
degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend
the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you
that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s
efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has
warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
Secondo la sorella del
giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa aveva incontrato il
fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il generale aveva confidato
al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli
documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di
giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di
segreti sul sequestro di Aldo Moro, che infastidivano Andreotti. Buscetta,
inoltre, affermò che il boss Gaetano
Badalamenti gli disse:
“[Dalla
Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto
ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di
lui.”
All’inizio del mese di aprile
del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva scritto al presidente
del consiglio Giovanni Spadolini:
“La
corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la
“famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.”
Un mese dopo, veniva,
improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare
l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A Palermo, lamentò, più volte, la
carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica e carica di amarezza
rimane la sua frase:
“Mi
mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di
Forlì.”
Chiese di incontrare Giorgio
Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo Stato. Nell’intervista
del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella
battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno
consentito alla Mafia di agire indisturbata, per anni. Di fatto la pubblicazione
dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna reazione da parte dello
Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel mirino il generale.
Per i tre omicidi sono stati
condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina,
Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il generale Dalla Chiesa aveva
svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, nel
1970, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi,
promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei.
Le
carte relative al sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé
a Palermo, dopo la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se
sono state sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.
Secondo la testimonianza del
giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione“fu
convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di
maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”.
Il colonnello dei carabinieri
Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo di Palermo, stava indagando
sul caso Mattei. La sera del 20
agosto 1977, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
perse la vita davanti a un bar di Ficuzza,
frazione di Corleone.
Così ricordò, quella tragica
sera del 1977, il giornalista Mario
Francese, su Il Giornale di Sicilia, all’indomani
dell’omicidio:
“Al bar entrò
soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i
due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si
accorse di una “128”
verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente
controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino
alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò
proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini
alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si
fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla
tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di
accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15.
Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente,
per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini
aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno,
armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer
certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per
finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un
raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il
killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla
testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via.
Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il
corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse
subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei
dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da
Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni
prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo
«in via Ausonia sotto casa a Palermo e il
professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il
giornalista- No,
perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”
“È nato nella terra
dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Negli occhi si
leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare…
Aveva un cognome
ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato…
Si sa dove si nasce
ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste sono alcune delle parole,
con cui i Modena City Ramblers descrivono Peppino Impastato nella loro
canzone I cento passi, ispirata
all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.
Giorgio Boris Giuliano fu
ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle.
Precedentemente al suo
assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Giorgio Boris
Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di
stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di
consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Tre anni dopo la sua morte, il
13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il
posto di Basile, quale comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale,
sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e all’appuntato Giuseppe
Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche l’ex-autista di Basile, il
carabiniere Pietro Morici.
Le indagini giudiziarie
procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa
del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo
a quella corposa requisitoria sui “delitti politici” siciliani che, depositata
il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone.
Questi puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estema destra
Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali
esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti
eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la morte di Falcone, l’uccisione di
Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai
collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
Nel 1993, Buscetta, in
particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano
Bontate e i suoi alleati non erano
favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [o alla
maggioranza che Riina era riuscito a formare] che non si doveva ammazzarlo
[...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione.”
Pierre Michel scoprì che i
marsigliesi erano in affari con la ‘Ndrangheta
calabrese, in particolare, per quanto riguardava gli investimenti di
droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso, Michel stava collaborando con
alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache dell’epoca si apprende che, solo
poche settimane prima dell’omicidio, il giudice aveva ricevuto, a Marsiglia,
tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori solo due nomi di magistrati italiani
che mantenevano rapporti di collaborazione con Michel: Giovanni Barrille e
Giusto Sciacchitano.
E il terzo chi era?
Bisognerà aspettare il quinto
anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione, infatti, appare
Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa intuire ai
cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice assassinato nel 1981.
Paolo Giaccone è assassinato
tra i viali alberati del Policlinico di Palermo. Aveva ricevuto l’incarico di
esaminare impronte digitali, lasciate dai killers,
che, nel dicembre del 1981, avevano scatenato una sparatoria tra le vie di
Bagheria.
Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo
di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia
[http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/].
Già sindaco di
Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia,
viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo
Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel
tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che
legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco
di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività
illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo
e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i
possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il
deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli
occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco
scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla
di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a
far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla
Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo
sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte
d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma,
nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice
vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte
della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle
calunnie, di cui erano stati oggetto nel processo. Questa sentenza significa
per loro un fatto chiaro:
“LA
GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel
famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele
Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A
proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano,
molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto
in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano
intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in
tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente
abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla
parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi
di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da
essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di
fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono
sinteticamente quando dicono la mafia, riesce così familiare, che quasi non
immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione,
di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i
nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or
dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro
linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia
intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che,
quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili
di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è
una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la
prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di
rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno
speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si
propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai
membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente
delittuosi.”
E ancora:
“Sono
arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo
fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose.
Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non
esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la
superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le
cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di
amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si
combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno
è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che
ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I
membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie
diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno
dei rapporti fra di loro.
È
superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale,
alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: “il
tale è un capo della mafia”, significa soltanto che egli è in buoni rapporti
con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne
l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E
neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di
riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le
persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che
appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per
quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e
dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle
diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso
viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un
battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va
fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo
riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno
perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in
identico modo.”
Per
circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i
Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che
questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione
mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si
triplicò.
Nei primi anni del dopoguerra,
lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I Paesi europei, invece,
faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra e colpite
dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione Truman era
consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e stabilità
politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di qui la
decisione di varare il Piano Marshall.
A questo punto, iniziò una fase
di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I principali fattori che resero
possibile il grande sviluppo dell’economia occidentale furono:
-
la
creazione di un ordine economico e monetario stabile, imperniato sul dollaro,
definito, già, nel luglio 1944, con gli Accordi
di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con l’Asse;
-
il
basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche;
-
la
rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che
consentì la diffusione di beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-
l’esplosione
dei consumi di massa, favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a
esempio: la televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la
vendita a rate] e, infine, dalla crescita della occupazione e delle
retribuzioni, che rese disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del
reddito nazionale;
-
il
grande sviluppo dei trasporti, legato alla diffusione della motorizzazione
privata e all’utilizzo su larga scala dell’aviazione civile.
Accanto alla crescita economica,
gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte attenuazione del ciclo
economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di sviluppo con altre di
stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato l’economia capitalistica
fino dal suo nascere.
In questo periodo non si
registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti di rallentamento.
Ciò fu dovuto, oltre che alla
stabilità del sistema monetario internazionale, alla adozione di politiche
economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla esperienza del New Deal e sul principio che gli
strumenti della politica economica, e, in particolare, la spesa pubblica,
debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale, ossia l’insieme dei
beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai cittadini, dalle imprese
e dallo Stato.
L’autorità politica venne
assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’economia. In molti
Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre principali forme:
-
l’impostazione
della politica economica in chiave espansiva;
-
l’ampliamento
della funzione imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese
pubbliche [a esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione
di alcuni settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo
a creare sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-
l’adozione
generalizzata dello Stato Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche
rivolte a erogare a tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa
pubblica, servizi e assistenza sociale.
Luciano Leggio,
meglio conosciuto come Liggio
dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al
maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.
Per l’omicidio dell’ispettore
capo Giovanni Lizzio è stato condannato all’ergastolo, con sentenza passata in
giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.