UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
“L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo!”
Cecco d’Ascoli
astrologo senza paura
FRANCESCO di SIMONE STABILI
[Ancarano, 1269 – Firenze, 16
settembre 1327]
Dotato di eccezionali capacità divinatorie,
il celebre studioso marchigiano non volle, mai, piegarsi a compromessi di alcun
genere, attirandosi l’odio dei potenti del suo tempo. Primo intellettuale
italiano laico condannato a morte, per eresia, dall’Inquisizione, venne arso
vivo insieme ai suoi libri, davanti alla Basilica di Santa Croce, a Firenze, il
16 settembre 1327.
ad Antonia
Mattiuzzi,
mia dolce Amica e Compagna di viaggio
“Oh non!
Je me suis trompé de bouton!
Nous sommes bloqués en pleine antiquité romaine!”
[Sacha
Guitry a proposito della sua lavatrice!]
Un Amico mi raccontava, recentemente,
la “tecnica di abbordaggio” dei suoi sedici anni. Si fermava davanti alla
ragazza che gli piaceva e le chiedeva a bruciapelo:
“Occorre molto tempo per andare
lontano?”
Mi ha deliziato questa domanda, che
trovo straordinaria, semplice, efficace, onesta.
A lungo, io ho creduto che vi fosse
un “Altrove”, un luogo diverso nel mondo… da cercare… da conoscere… da amare.
Ho preso treni, navi, aerei… ho
dormito in stazioni, moli, aeroporti…
Ho condiviso caldo e freddo, fame e sete,
veglia e sonno con coloro che ho amato.
Ora, io so che non ho bisogno di
andare “Altrove” per viaggiare, è sufficiente, a volte, che io giri l’angolo di
una strada, che io pieghi nel mio luogo segreto, che io dondoli sull’altalena,
che io rida con le persone che amo…
Con la Fede e con l’Amore, non
occorre molto tempo per andare lontano...
Ogni volta che io viaggio, io non
vado da nessuna parte.
Io incedo passo dopo passo…
Io faccio la strada, voglio dire
faccio io la strada…sono io la strada…
E, mi dico:
“Ecco Spello…
Ecco Venezia…
Ecco Heidelberg…
Ecco Parigi…”
I luoghi non sono che scenari, in cui
muoversi.
In ogni luogo, si può vedere una eguale
proporzione di luce e tenebra, di pace e guerra, di amore e vuoto.
I luoghi sono solo la geografia, ciò
che conta è fare del proprio corpo e della propria anima la sola casa.
A volte, il mondo mi travolge… e colo
a picco… ma, mai, molto a lungo, perché, da sempre, ovunque è casa mia.
Sotto la mia bandiera io intono i
miei inni, muovo la guerra ai miei nemici, scrivo le leggi e, quando non sono
più giuste, le cambio.
Alla scuola della mia Repubblica io
apprendo la Libertà.
Io dimentico le forme e gli spazi.
Lo spazio-tempo è mio.
Allora io proseguo, io sono il mio
Paese, io porto la mia bandiera, io canto la mia Patria, io esaudisco le mie
preghiere…
Io avanzo…
Io non ho l’ombra di un dubbio sulla
mia Patria interiore.
Io non ho, mai, paura, quando le
persone sono ciò che sono.
Io non ho, mai, paura, quando tutto è
chiaro, quando vedo, in trasparenza, la Verità.
Io non ho, mai, paura, quando la
notte è talmente profonda da brillare, da essere la Verità.
Il Poeta statunitense William Carlos
Williams diceva:
“Un mondo Nuovo è solo una mente
nuova.”
Si chiama buco nero in astrofisica
una specie di buco – dunque, non proprio un buco, una specie di buco –,
presente nell’Universo in grado di comunicare con un altro buco, anch’esso presente
nell’Universo, ma in un’altra epoca.
Avrete, sicuramente, compreso, anche
voi come me, che il buco nero sta al viaggio nel tempo come il tunnel sta al
viaggio nello spazio…
Chi non ha mai sognato di viaggiare
nel tempo?
Chi non ha mai sognato di poter
contemplare il Colosso di Rodi prima della sua distruzione?
Chi non ha mai sognato di poter vedere
il mondo prima della comparsa dell’Uomo?
Chi non ha mai sognato di poter
stringere la mano a Gesù?
Chi non ha mai sognato di poter
riscrivere la Storia?
Ma si può
cambiare il corso della Storia?
E, se fosse possibile,
chi non lo farebbe?
Il futuro anteriore ci
indica che, se noi avessimo agito diversamente, gli eventi avrebbero potuto verificarsi
diversamente. Il futuro anteriore ci indica il nostro potere di raccontare una
storia e di cambiarne il corso. Ma noi sappiamo che ciò che ha avuto luogo è,
ormai, irreversibile, solo gli eventi in corso sono accessibili ai nostri
interventi. Il futuro anteriore è, dunque, un niente illusorio tranne nel senso
in cui traduce la nostra impressione presente che vi è una contingenza di
eventi e che ci è possibile intervenire sugli eventi.
Per il professor John
Wheeler dell’Università di Princeton:
“Il tempo è il modo per
la natura di evitare che tutte le cose accadano nello stesso tempo.”,
ma, come Richard Arnowitt, Stanley Deser, Charles
W. Misner e Julian Barbour, non dispone, ancora, dello
strumento teorico che permetta di dimostrare, matematicamente, la natura del
tempo.
Nel marzo del 1955,
pochi giorni dopo la morte di Michele Besso, suo amico carissimo, fino dagli anni
di studio a Zurigo - Albert Einstein scrisse alla
sorella e al figlio di questi una lettera, che si concludeva con queste parole:
“E, ora, nel dare addio a questo
strano mondo mi ha preceduto di poco. Ciò non significa nulla. Per noi, fisici
di fede, la distinzione tra passato, presente e futuro è solo una illusione,
anche se ostinata.”
Parole profetiche!
Einstein moriva, appena quattro
settimane dopo averle scritte, il 18 aprile 1955.
La sua visione della vita e della
morte era, profondamente, influenzata dal suo concetto di spazio e di tempo.
Il lascito più importante di Albert
Einstein si rivelerà, forse, un giorno, la capacità di comprendere che, per
quanto attiene alla morte, allo spazio, al tempo, e alla materia, avevamo
sbagliato tutto.
Noi non saremmo,
dunque, che le marionette delle necessità del corso della Storia?
Il nostro sguardo sul
passato, vale a dire la nostra comprensione stessa del corso della Storia, non
è, sempre, ideologica?
Quando una deformazione
del corso della Storia ci è imputabile, noi scopriamo, al contempo, il
carattere relativo e cieco di un modo di vedere che ci aveva determinato fino a
quel momento. Le nostre approssimazioni del corso della Storia, che si sono
rivelate, traducono determinazioni passionali e ideologiche, che hanno agito su
di noi e lasciano sospettare che, ancora oggi, la nostra comprensione della Storia
e delle nostre azioni storiche resti ignara del vero corso della Storia.
Come si scrive la
Storia?
La Storia, quella che è
“storia di…”, in effetti, non esiste in se stessa; è il prodotto di una
attività umana di storici ufficiali o di uomini comuni, che, nella loro vita
sociale, pensano e parlano del loro passato e del loro presente.
Nel mondo storico,
tutto si dà come Storia e niente si dà come Storia: scelte, costruzioni e
ricostruzioni, punti di vista, restano sempre da fare per dare forma a ciò che
è in sé caos informale.
Tuttavia, la Storia è
soggettiva e arbitraria, fondamentalmente relativista?
Un autore può modificare
la velocità del corso del tempo: inserisce una pausa, il tempo cessa di
scorrere, o un sommario, il tempo è passato in rivista accelerato. Ciò
permette, dunque, di rallentare l’azione, di comprimerla o anche di eluderla puramente
e semplicemente.
Un autore dispone,
anche, del potere di trasferire i suoi lettori nel passato o nel futuro.
Immaginiamo che, grazie a un “buco nero” “qualcuno” possa riscrivere il
passato, a esempio, impedire l’assassinio di Giovanni Falcone. Salverebbe,
così, sua moglie, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle loro
scorte: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano,
Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Bloccherebbe gli attentati del 1993!
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
La lunga tradizione del Giornalismo e
la sua attendibilità vanno, sempre più, offuscandosi e anche la sua voce va
affievolendosi.
Le ragioni sono molteplici.
Il soggiacere di alcuni direttori
alle pressioni, dettate dagli interessi personali di questo o quel personaggio
influente, il crescente disinteresse da parte dei giornalisti – demotivati da
una gestione dei giornali ipocrita e, spesso, opportunista – tolgono al
glorioso Giornalismo smalto, mordente… e lettori.
Gli aperti tentativi di alcuni
giornalisti “coraggiosi” franano contro il muro invalicabile di intricati
interessi.
Nulla sembra poter risollevare le
sorti del Giornalismo!
“Qualcuno”, tuttavia, non ci sta.
“Qualcuno” che sente il dovere morale
di dare nuova trasparenza all’informazione… e nuovo lustro al Giornalismo.
Con molta audacia, sempre, nell’assoluto
anonimato, nottetempo e con metodi misteriosi, “qualcuno”, inizialmente
sconcertato, poi, mosso da curiosità, ammirazione e gratitudine si improvviserà
detective.
Ripercorrerà i capitoli più bui della storia italiana, dagli
anni di piombo alle stragi degli anni 1990… capitoli già scritti, ma non fino
in fondo… per poterli cambiare!
Un viaggio destinato a far conoscere l’Amore a “qualcuno” e a far
cambiare la storia del nostro Paese.
“Qualcuno” ha in serbo grandi
progetti e una impresa di risonanza epocale…
Questa volontà di cambiare il corso della Storia, per
immaginare ciò che avrebbe potuto essere, mi ricorda un pensiero di Blaise
Pascal:
“Le nez de Cléopâtre, s’il eût été plus court, toute la face
de la terre aurait changé.”
[Blaise Pascal, Pensées, 90]
e mi ha ispirato un nuovo libro:
ACRONIA…
In un momento culturale, politico e
sociale, così carico di tensioni, ho deciso di porre un accento di riflessione
sulla tormentata storia italiana dell’ultimo cinquantennio.
Far conoscere il
significato universale degli eventi disastrosi della nostra Storia è un debito
verso le generazioni future e verso il Paese.
Se tali eventi sono
stati pagati con la sofferenza da parte di Chi li ha subiti, gli insegnamenti
che se ne traggono appartengono al Mondo intero.
Colui che usurpa la
libertà degli Altri è il primo a perdere la propria e a divenire schiavo.
Protagonista è una donna, un’altra
ribelle all’ordine costituito.
Non vi sorprenda, dunque, se la mia
immaginazione si ingegni a conferire a questa donna poteri che rifiuta all’uomo.
Colei che vi apre le porte del libro mirabile, conosce tutto ciò che
incontrerete, conosce le risposte agli enigmi, scioglie gli indovinelli,
disperde gli incantesimi, riconosce chi si nasconde in un corpo, che una magia
ha trasformato, rintraccia le strade dei pellegrini, sa dove approdano i
naufraghi e quali segnali svelino e nascondano le severe bizzarrie del Fato.
La verità prima di tutto!
di
Daniela Zini
“Voi non potete dubitare delle cose in cui credete: io
debbo”.
Ipazia di Alessandria
estino terribile e strano, davvero,
dominato da torve stelle, quello di Francesco di Simone Stabili, più noto come
Cecco d’Ascoli, dal nome della natia città, tanto amata e tanto rimpianta,
durante il lungo errare da un luogo all’altro, da una università all’altra: da
Ascoli Piceno a Salerno, da Salerno a Parigi e, poi, a Bologna, a Firenze...
“La
fama straordinaria della sua dottrina generò tali e tante esagerazioni, eccitò
così fortemente la fantasia popolare, che – di grado in grado – si arrivò sino
alle superbe altezze del soprannaturale.”
Giuseppe
Castelli, La vita e le opere di Cecco d’Ascoli
A questo pittoresco, impetuoso,
aggressivo personaggio ben si addice il cappello a cono, attribuito dalla
tradizione agli astrologi, in memoria dei tempi andati, quando per osservare il
corso dei pianeti – mancando le effemeridi di Raphael – occorreva appostarsi
alla sommità delle torri e di lassù scrutare il cielo notturno.
Di Cecco d’Ascoli, o meglio della sua
vita privata abbiamo poche notizie; né parrebbe chiaro il motivo per cui fu
vittima dell’Inquisizione – la quale risparmiò molti maghi e astrologi
contemporanei – se non conoscessimo la sua indole impulsiva, che gli creò tante
inimicizie.
Alberto Magno [1193-1280], vescovo di
Ratisbona e dottore della Chiesa, a esempio, sebbene, lui stesso, dedito alle
arti divinatorie, venne canonizzato, e Dante Alighieri [1265-1321],
in Paradiso, ce lo
mostra, perfino, al fianco di San Tommaso d’Aquino [1225-1274]. Dimostrazione di immenso rispetto, l’aver
posto il sapiente monaco domenicano svevo alla destra del Doctor Angelicus; trattamento pressoché inspiegabile, se ricordiamo
gli altri indovini, veggenti, negromanti, confinati da Dante Alighieri nella
quarta bolgia e condannati a procedere con il viso volto all’indietro, per
scontare il peccato di aver spinto lo sguardo nel futuro. Tra gli altri, vi
troviamo il ghibellino Guido Bonatti, o Bonalti, che fu promotore di ogni
studio concernente le arti occulte e fece dono ai suoi concittadini di un bel
cavaliere fuso nel rame, il quale avrebbe dovuto proteggere Forlì dai nemici, particolarmente,
dalle armate pontificie, decise a occuparla. Quando si annunciava imminente uno
scontro, Guido scrutava le stelle per trovare l’ora favorevole ai suoi, e dall’alto
del campanile, munito di un astrolabio, con il suono delle campane maggiori
lanciava il segnale dell’attacco. Forse, sarebbe eccessivo affermare che la
terribile battaglia, combattuta dal capitano Guido da Montefeltro [1223-1298],
per conto dei forlivesi, contro il rettore papale della Romagna, Jean d’Eppes, Giovanni
d’Appia, – battaglia conclusasi con lo sterminio di ottomila francesi – venisse
vinta grazie alle pratiche divinatorie di Guido Bonatti; ma neppure si può
negarlo decisamente.
Alla fin fine, la suggestione o la
fede, comunque si intenda chiamarla, ha veramente il potere di smuovere le
montagne. Oltre alla fortuna di essere ammirato e venerato dai suoi
concittadini, Guido Bonatti ebbe anche la buona sorte di poter sfuggire al
braccio vindice dell’Inquisizione, riparando in Francia.
A Cecco d’Ascoli, invece, non fu
risparmiata alcuna delle tappe dolorose che menavano al rogo: due processi, una
lunga detenzione, la condanna. Tuttavia, si ha motivo di presumere che questa
fosse dovuta all’inimicizia della classe medica piuttosto che alla sua fama di
mago, o all’aver avuto l’imperdonabile presunzione di voler spiegare l’opera e
il martirio di Gesù, in base al suo oroscopo natale.
“[…]
scrisse et insegnò che Christo uenne in terra per uoler di Dio e per necessità
di stelle doueua essere e uiuere pouero con i suoi Discepoli e morire in Croce,
perché così fu forzato dalle Costellazioni […]”
Intorno a 1200 l’astrologia era,
ancora, considerata con rispetto: sovrani e, perfino, pontefici si tenevano a
lato studiosi di quella scienza.
Così, vi erano cattedre di astrologia
in ogni università.
All’Alma Mater, a Bologna, per acclamazione dei goliardi, Cecco d’Ascoli
venne chiamato a insegnare, intorno al 1320.
Non era ancora vecchio, essendo nato
nell’anno 1269, vale a dire quattro anni dopo Dante Alighieri, del
quale, sembra, fosse amico ed estimatore, almeno fino al giorno in cui non
volle accingersi a un grande compito trascendente le sue forze, la stesura di
un poema critico, l’Acerba etas, in
contrapposizione alla Commedia.
Fino dai primi versi dell’opera, Cecco dichiara, esplicitamente, l’incapacità
dell’intelletto umano ad andare oltre il Primo Mobile:
Oltre non segue più la nostra luce
Fuor della superficie di quel primo
In qual natura, per poter, conduce
La forma intelligibil che divide
Noi da’ animali per l’abito estrimo
Qual creatura mai tutto non vide.
Sopra ogni cielo sostanzïe nude
Stanno benigne per la dolce nota,
Ove la pïetà li occhi non chiude;
E per potenza di cotal virtute
Servano il giro di ciascuna rota
Onde di vita ricevem salute;
E l’arco dove son diversi lumi
Gira di sotto con soggette stelle
E lascia un grado ben con tardi tumi.
Le quattro qualità costui informa
Sì che il soggetto in atto vien da quelle
Perch’ei le stringe con sua dolce norma.
Di sotto luce quella trista stella,
Tarda di corso e di virtù nemica,
Che mai suoi raggio non fè cosa bella.
Gelo con freddo fiato mette a terra,
E a chi non ha mercè, s’ella s’applica,
L’aere stridendo chiama «guerra, guerra».
Circoscritta la luce benigna
Nel sesto cielo, onde quello s’acquista
Che ben si prova là dove si signa.
Se l’alma gli occhi suoi belli non chiude
Stando ne l’ombra de l’umana vista,
Vuol ch’ella dorma in le sue braccia
nude.
L’ignea stella che pietà non mira,
Ma sempre di mercè si mostra freda
A chi lei sturba, di sotto le gira,
E tal tempesta per l’aere despande
La sua potenzia, che per tutto preda
Al nostro tempo noi miriamo grande.
Poi gira il corpo de la nostra vita,
Agente universal d’ogni soggette;
E virtù pinge sì la sua ferita
De li ferventi raggi onde si scalda
La grave qualità che in lei si flette,
Che ciò che vive lor potenzia salda.
D’amor la stella ne la terza rota
Allo spirto dà angoscia con sua luce
Di cosa bella, che non sta remota
Da lui se morte spenga sua figura.
In cui lo dolce raggio non riluce,
Non è animata cosa tal natura.
Gira il pianeta con la bina voglia
Per quella spera onde viene tal lume,
Qual tutta obscurità de l’alma spoglia.
La fredda stella in quel piccolo cerchio
Ultimo gira, e no è ver che consume
L’ombra per lo splendor che sia
soverchio.
Anche ogni luce che possede il cielo
Vien da quel corpo qual natura prima
Ebbe formato d’amoroso zelo,
Sì ch’ogni stella per costui risplende.
Ma l’ultima si mostra più sublima;
Cessandosi da lui, luce non prende.
Ma quando infra li raggi ella si volve,
Attrista la virtù di ciò che vive
E l’aere per tempesta si dissolve,
Scema li fiumi ed ogni virtù sbada;
E chi le insegne in campo circoscrive,
D’onor si priva per contraria spada.
Se in orïente luce la sua stella
E nell’ottava parte ella si trova,
A tal potenzia non po’ star rubella;
Se l’altra gira nel più alto punto,
Sarà da pinger l’aere questa prova
E far volare chi di piombo è unto.
Muove li corpi di minor ragione
E fuga ciò che non puo’ lor natura
Assimigliare a sua perfezïone;
Lor viso bello turba al nostro aspetto,
Nel specchio pinge di nebbia figura
E toglie luce al figlio a gran diletto.
L’altri animali di vertude nudi
L’estremità possiedon di ciò sempre.
O gran virtù che tutte cose mudi!
O quanto il tuo valor fa bella mostra,
Che vuoi ogni natura che si tempre
Per più benigna far la vita nostra,
O tu che mostri il terzo in una forma
E accendi di pietà la spessa norma!
Per
Etienne Gilson [1884-1978], la fine del XIII secolo sarebbe stata
caratterizzata da grandi cambiamenti:
“Après 1277, l’allure de la pensée
médiévale toute entière se trouve changée. Après une courte lune de miel, théologie et
philosophie croient s’apercevoir que leur mariage avait été une erreur.”
Etienne
Gilson, La philosophie au Moyen Age
E Cecco
colse la necessità di una separazione tra scienza e religione, che unite
permettevano alla Chiesa di guidare la cultura e le coscienze.
Idolatrato dagli studenti, Cecco
dovette scontare con l’odio dei colleghi quella straripante popolarità. Anche a
Bologna, la cattedra di astrologia era annessa alla facoltà di medicina: una
consuetudine, questa, impostasi quando la cultura araba, diffondendosi dalla
Spagna, islamizzata in ogni sua parte dell’Europa civile, aveva associato lo
studio dell’astrologia – che era, poi, tutt’uno con l’astronomia – ad altri
rami dello scibile, in particolare la medicina, la giurisprudenza, l’alchimia.
Ben presto l’astio o meglio l’avversione dei docenti assunse, nei confronti di
Cecco, aspetti preoccupanti; per di più, questi osava adoperare un linguaggio,
troppo spesso, offensivo, che lasciava duri strascichi di rancore. A un frate, che
gli aveva domandato che cosa, secondo lui, facesse in cielo “il nostro padre San Francesco”,
Cecco rispose che il Poverello, ancora non era entrato in Paradiso, perché
avendo posto come regola di dovervi accedere a due a due, “dopo la morte sua, non ha hauto anchor compagno che sia
arrivato a quella porta, ma colà aspetta la paternità vostra”. L’aneddoto,
che viene anche attribuito a Dante Alighieri, è riferito, nel Codice Vaticano
4831, da Angelo Colocci [1474-1549], segretario di Papa Leone X [1475-1521].
Il 16 dicembre 1324, il grande
inquisitore di Bologna, il
frate domenicano Lamberto da Cingoli, pensò di avere in mano bastante materiale
per fabbricare la corda, cui appendere il Maestro. Ma, o avesse sbagliato i
calcoli o i suoi capi di accusa non risultassero sufficientemente solidi, o
infine, si temesse di provocare una rivolta tra gli studenti, la condanna fu
mitissima. Riconosciuto colpevole di aver tenuto discorsi contrari allo spirito
della religione, Cecco venne punito con la perdita della cattedra e il
sequestro totale delle opere, oltre che con altre penitenze trascurabili, come
la recita quotidiana di un certo numero di preghiere, l’obbligo di digiunare le
vigilie, e la multa di sessanta lire bolognesi da versare nelle casse dell’Inquisizione.
Dopodiché, Cecco d’Ascoli scompare:
per qualche tempo sembra essersi sublimato tra le stelle, fino a far perdere
ogni traccia di sé.
Tornò, forse, alla diletta Ascoli,
dove ancora oggi, presso la vecchia Porta Romana, vi è una rua degli Stabili,
che ci rammenta la non oscura famiglia da cui nacque?
Oppure si recò di nuovo a Parigi?
A Salerno?
Dovette, senza dubbio, starsene lontano
da Roma, perché – è, ancora, Colocci a dirlo:
“Li fu
predetto che doveva morire in Campo di Fiore” – la piazza ove si eseguivano le
condanne capitali – “per il che fuggiva Roma:
ma li advene quel che ad Hanibal […] Non possendo evitare il fato […]”
Nel maggio del 1327, ritroviamo Cecco
tra i cortigiani al seguito del figlio del re di Napoli, Carlo d’Angiò, duca di
Calabria [1298-1328], la cui “protezione” Firenze ha dovuto accettare, come il
minore di tutti i mali, allorché le è divenuto impossibile, nel ribollire della
discordia tra Ghibellini e Guelfi, tra Neri e Bianchi, salvaguardare, più a
lungo, le libertà costituzionali così strenuamente difese.
È phisicus
et astrologus et familiaris del duca, una posizione grazie alla quale
dovrebbe godere prestigio e porsi al sicuro dagli attacchi dei nemici. Invece,
con quel suo carattere marchigiano, ombroso, sincero e impulsivo, in breve
tempo, non solo riaccende intorno a sé gli astiosi desideri di rivincita, che
si è illuso di essersi lasciato alle spalle; ma ne suscita di nuovi.
La disputa con il celebre medico Dino
[Aldobrandino] del Garbo […-1327], al quale ha, pubblicamente, rimproverato una
colpa di plagio per alcuni commenti a testi classici, mettendolo alla gogna di
fronte agli studenti, sarà la prima causa della sua sciagura.
E le altre?
In questo caso si può brancolare nel
buio, ma non a lungo: l’ostilità di tutti i medici fiorentini, coalizzati
contro di lui, non tardò a trovare eco a corte; e, quando il duca commissionò a
Cecco di fare l’oroscopo della figlia, natagli a Firenze, nel 1326, erede della
Corona angioina, poiché mancavano eredi maschi; l’astrologo non seppe obbedire
alle squisite regole del vivere mondano. La piccina – la futura Giovanna I di
Angiò, regina di Napoli, detta “la Pazza” [1343-1381], le cui disgrazie
politiche, coniugali ed extra-coniugali sono così risapute e hanno dato tanto
motivo di pietà e scandalo al mondo da rendere superfluo ogni chiarimento – dichiarò
l’astrologo, doveva crescere intelligente, bella, destinata sicuramente a un
trono; ma di “lussuria disordinata”,
la quale lussuria la avrebbe condotta al precipizio. Profezia rivelatasi esatta,
dunque, come sembra lo fossero tutte le altre predizioni, fatte sulla base
degli oroscopi del mago-poeta-filosofo-astrologo ascolano; ma non certo atta a
conciliargli le simpatie del padre di Giovanna. Infatti, quando l’ostilità del
corpo medico fiorentino, capeggiato da del Garbo, riuscì a trovare rispondenza
nel cancelliere di corte, il frate marsigliese Raymond de Maussac, Raimondo de Mausaco,
che era, poi, vescovo di Aversa e apparteneva all’Ordine dei Minori Conventuali
– più di una volta criticato e deriso da Cecco – il principe non mosse un dito
per impedire che la vendetta si compisse.
“Un maestro Cecco d’Ascoli, che fu
sottilissimo uomo in astrologia, e dicesi che disse e dicea contro alla fede,
ma mai non lo confessò. […]; ma dicesi che la cagione perché fu arso fu che
disse’ che Madonna Giovanna, figliuola dello Duca, era nata in punto di dovere
essere in lussuria disordinata. Di che parve questo essere sdegno al Duca,
perché non avrebbe voluto che fosse morto un tanto uomo per un libro. E molti
vogliono dire ch’era nemico di quel frate Minore inquisitore e arcivescovo di
Cosenza, perché i frati Minori erano molto suoi nimici. Di che il fece ardere a
dì 16 di settembre 1327.”
Così Baldassarre Bonaiuti [1336-1386],
detto Marchionne di Coppo Stefani nella
sua Cronaca Fiorentina riporta la notizia della condanna di Cecco.
Nel luglio del 1327, l’inquisitore di
Firenze, Accursio Bonfantini,
domandò all’Inquisizione di Bologna gli atti del primo processo contro Cecco d’Ascoli.
Esiste una particolareggiata lista delle spese fatte per assicurarsi la sua
persona, per mantenerlo in carcere, per offrire un lieve rinfresco di vino e
frutta al cancelliere del duca, quando questi comparve in giudizio a deporre
contro l’imputato. Come primo capo di accusa, vi è il commento all’opera
cosmografica Tractatus de sphaera,
noto anche come De sphaera mundi o
semplicemente De sphaera dell’astrologo
inglese John of Holywood, Giovanni Sacrobosco, “il quale compose dettandoglielo il
diavolo per sua dannazione”; e, poi, l’aver voluto erigere,
perfino, l’oroscopo del Salvatore, e l’aver predicato molte eresie e falsità ai
discepoli. Insomma, un cumulo di colpe, tuttavia, così inconsistenti e, in
parte, non provate, che qualche storico ha voluto cercare in altri campi il
motivo della condanna. E vi è stato anche chi ha pensato al “vizio greco”, come
si definiva la sodomia, sebbene l’amore di Cecco d’Ascoli per una donna della
sua città, dalla quale ebbe, probabilmente, una figlia illegittima, cui allude
Colocci, nei suoi appunti, quando scrive “maritò
una sua bastarda”, fosse cosa ben nota, divulgata da lui stesso,
con poesie ardenti, intense, accorate che alcuni critici ritengono abbiano,
notevolmente, influenzato il Petrarca.
“Perché è più freddo quando è più sereno?”
Dico che il vento che vien d’aquilone
Allora li vapor mette al declino;
Ma, respirando poi lo meridiano,
La sua caldezza li vapor compone
Sì che fa il tempo quasi dolce e piano.
“Perché è più freddo nascendo l’aurora
Che in mezza notte e quando il Sol si
cela?”
Ché la rosata stilla giù in quell’ora.
In mezza notte l’ora vien più fredda
Ché più remoto è il Sole e più congela:
La sera è presso al Sole e non affredda.
“Perché d’estate son maggior le vampe,
La notte assai più che lo giorno, dico?
O tu che scrivi, la tua man no inciampe!”
Ché l’aquilone tien le penne strette
D’estate, perché regna il suo nemico,
Ma nel gelato tempo fuor le mette.
“Perché d’estate, quando è l’aere bruno,
Celato il Sole dalle nubi dense,
V’è sì gran vampa da languir ciascuno?”
Dico che allora il Sole è sì fervente
Ché scalda queste nubi e falle accense;
Poi la vampa nell’aëre si sente.
Anche ti voglio più espresso dire
Perché è più freddo nel tempo stellato:
Or qui m’ascolta, se ciò vuoi sentire.
Esala il caldo e l’umido su mena:
Per tale umidità l’aere è gelato
E la rosata piove allor ben piena.
Però nel freddo tempo e nello fosco,
Che il caldo si riserva e non esala,
Brina non cade né in prato né in bosco.
E tu a me: “Perché vedem la stella
Fuggir per l’aria sin che in terra cala?”
Di ciò ti voglio dir certa novella.
Non caggiono le stelle da le spere,
Ché l’una copreria tutta la terra;
Ma il vento, che da quella parte fere,
Muove per l’aria li vapor focati.
Dicono certi che nel cielo è guerra:
Or questi son li semplici dannati.
“Perché chiamando in Ascoli tu senti,
Presso alle mura delle oneste donne,
Con simil voce rispondere i venti?”
Dico che l’aria questa voce porta,
Trova l’opposto che riflette l’onne
Sì che la voce torna qui ritorta.
E tu a me: “Or questa Galassia,
Secondo la sentenza del Magistro,
Voglio saper da te che cosa sia.”
Dico, secondo l’altra opinïone:
Ma non prendessi l’altra nel sinistro,
Ché ciò non forma la mia intenzione.
Sopra noi molte stelle troppo spisse,
Che illuminando fanno la chiarezza,
Son dell’ottava sfera stelle fisse.
Son strette sì, che l’una l’altra tocca:
Così si mostra la bianca bellezza.
Questa è la via della gente sciocca.
E tu a me: “Or di’ s’io dico bene:
Altro vento non è che d’aria moto.
Ormai di dubitar qui mi conviene.
Perché, quando comincia primavera,
D’inverno, e quando autunno sta remoto,
Regna l’australe con la spessa schiera?”
Dico che il Sole che leva li fiati
D’inverno ascende verso quella parte,
E li scalda nei tempi nominati;
E l’aquilone respira d’estate
E intanto il Sole di lì non si parte,
Secondo sue nature limitate.
“Perché lo vento che vien dall’oriente
D’essere sano porta più la voce
Che non sia l’altro che vien da ponente?”
Dico che il Sole con li dolci raggi
Purificando sempre lo conduce.
Or guarda che in error di ciò non caggi.
“Perché vien dalla bocca freddo e caldo
Il fiato?” Dico, quando alita l’uomo,
Vien congregato il fiato e tutto saldo;
Soffiando, ne vien l’aere congregato,
Però vien freddo: tu vedi ben como.
Or tu medesmo ve’ se t’ho ingannato.
E tu a me: “Di’, come prende forma
Dal cuor dolente e ne nasce il sospiro
Quando del suo pensier l’alma s’informa?”
Non spira l’uomo, onde s’infiamma il
cuore;
Poi tira l’aria sentendo il martiro,
Sì che il sospir, languendo, manda fuore.
Con più pensier, più sospiro si spande,
Ché, quanto più del tempo il pensier
fura,
Cotanto è più dell’aria il tratto grande.
Contenta l’alma lo sospir d’amore,
E certa gente forma la natura,
Che, desïando, nel sospir si muore.
Io mi ricordo che già sospirai
Sì nel partire da quel dolce loco,
Ch’io dir non so perché il cuor non
lasciai.
Sperando di tornar, passo martiri
Struggendosi lo core a poco a poco
‘Nanzi ch’io tragga gli ultimi sospiri.
Oimè quegli occhi da cui son lontano,
Oimè memoria del passato tempo,
Oimè la dolce fe’ di quella mano,
Oimè la gran virtù del suo valore,
Oimè, che il mio morir non è per tempo
Oimè, pensando quanto è il mio dolore!
Da questa lunga sequela di oimé, nel Quarto
Canto dell’Acerba etas, che Cecco di Ascoli scrisse, forse, in prigione, mentre era in attesa della
sentenza, il pensiero corre subito al primo sonetto di messer Francesco in
morte di Laura:
Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,
Oimè il leggiadro portamento altero;
Oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et
fero
Facevi humile, ed ogni huom vil
gagliardo!
Et oimè il dolce riso, onde uscío ‘l
dardo
Di che morte, altro bene omai non spero:
Alma real, dignissima d’impero,
Se non fossi fra noi scesa sí tardo!
Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi
respire,
Ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son
privo,
via men d’ogni sventura altra mi dole.
Di speranza m’empieste et di desire,
Quand’io partí’ dal sommo piacer vivo;
Ma ‘l vento ne portava le parole.
E non è che un esempio!
Il 16 settembre 1327, alcuni giorni
dopo aver scritto le ultime righe del suo poema didascalico in sestine,
destinato a restare incompiuto al V libro:
Ora piangete, dolenti occhi miei,
Poi che, morendo, non vedete lei.
Cecco venne
arso insieme ai suoi libri, davanti alla Basilica di Santa Croce, a Firenze.
“Alla presenza di un popolo innumerabile [...]
fu letto il sunto e ristretto del Processo et ad ogni capo domandando a Cecco
se fusse uero, con diabolica presunzione diceua: l’ho detto, l’ho insegnato e
lo credo.”
Si comminarono pene durissime per
chiunque, di qualsiasi grado o sesso, conservasse, leggesse o riferisse ad
altri sul contenuto delle sue opere. Tuttavia, l’Acerba etas, ritenuto “libro di consultazioni semantiche” al pari
dell’Eneide di Virgilio e del Divan di Hafez, sia pure con varianti e
correzioni apocrife, avrebbe avuto, fino al 1550, trenta edizioni.
Poco meno di quante ne ebbe, nello
stesso periodo, la Divina Commedia!
A distanza di due settimane appena
dall’iniquo, atroce supplizio, anche il nemico principale di Cecco d’Ascoli, il
medico Dino del Garbo, colto da malattia improvvisa e mortale, cessava di
vivere.
Attraverso alcuni
registri contabili sappiamo che dalla vendita dei beni del condannato si
ricavarono appena tre fiorini e mezzo.
Il profondo amore
per il sapere e il disprezzo di Cecco per il denaro, dichiarati nei versi dell’Acerba etas, erano, dunque, sinceri,
testimonianza di una vita spesa, incessantemente, a interrogarsi sul quia delle cose.
“Non è virtù non dubitar al
mondo.”
Il
dubbio, il rifiuto di accettare una qualunque proposizione, fintanto che resta
una obiezione da opporle, è il metodo che Cecco in tutta l’Acerba etas espone e raccomanda come procedimento metodologico del
filosofo naturale.
“Tutta la conoscenza scientifica è incerta;
gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza. Questo
tipo di esperienza è prezioso e, a mio modo di vedere, anche al di là della
scienza. Nell’affrontare una nuova situazione bisogna lasciare aperta la porta
sull’ignoto, ammettere la possibilità di non sapere esattamente come stanno le
cose; in caso contrario, potremmo non riuscire a trovare le soluzioni.
Quando uno scienziato dice di non sapere la
risposta, si rende conto di essere ignorante. Quando dice che ha una vaga idea
di cosa succederà, è incerto. Quando è abbastanza sicuro e dice “Scommetto che
andrà così”, ha ancora qualche dubbio. Ed è di primaria importanza, ai fini del
progresso scientifico, riconoscere il valore di questa ignoranza e di questo
dubbio. Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee.
Il progresso della scienza non si misura solo dalla quantità di nuovi
esperimenti, ma anche, molto più importante, dall’abbondanza di nuove ipotesi
da verificare.
Se non si potesse, o volesse, guardare in
nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza,
non si riuscirebbero ad avere idee nuove. Non ci sarebbe nulla che valga la
pena di verificare, perché sapremmo già cos’è vero e cos’è falso. Quindi ciò
che oggi chiamiamo “conoscenze scientifiche” è un corpo di affermazioni a
diversi livelli di certezza. Alcune sono estremamente incerte, altre quasi
sicure, nessuna certa del tutto. Noi scienziati ci siamo abituati, sappiamo che
è possibile vivere senza sapere le risposte. Mi sento dire: “ Come fai a vivere
senza sapere?”. Non capisco cosa intendano. Io vivo sempre senza risposte. È
facile. Quello che voglio sapere è come si arriva alla conoscenza.
Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri
campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio,
all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian
piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una
soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende
possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero. E come scienziato
sento la responsabilità di proclamare il valore di questa libertà, e di
insegnare che il dubbio non deve essere temuto, ma accolto volentieri in quanto
possibilità di nuove potenzialità per gli esseri umani. Se non siamo sicuri, e
lo sappiamo, abbiamo una chance di migliorare la situazione. Chiedo la stessa
libertà per le generazioni future”.
Richard Phillips Feynmam, Il senso delle cose
[https://www.youtube.com/watch?v=Kgivi57N8Tc]
Con
queste parole Richard Phillips Feynmam,
Premio Nobel per la Fisica, nel 1965, ci spiega il valore del dubbio nella
scienza e nella vita.
Daniela Zini
Copyright © 4 maggio 2014 ADZ
Chi può dire se, quando le strade si incontreranno,
questo Amore sarà nel tuo cuore?
Celeberrimo è il giudizio sprezzante che, nell’
Acerba etas, la sua opera più famosa, Cecco d’Ascoli riservò a
Dante Alighieri, colpevole di cantare
“come le rane […] immaginando cose vane”.
Questa sintetica
informazione del cronista fiorentino contiene, tra l’altro, anche un errore di
non secondaria importanza: il vescovo minorita, che, secondo l’autore sarebbe
stato inquisitore e nemico di Cecco, non era affatto inquisitore, e, soprattutto,
non era vescovo di Cosenza, ma di Aversa, come riporta giustamente l’altro
cronista contemporaneo, Giovanni Villani.
Accursio Bonfantini, vissuto nel secolo XIV, francescano di nobile famiglia
fiorentina, che ricoprì la carica di inquisitore di Toscana, dal novembre del
1326 all’agosto del 1329.
Chiamate “mosse” dall’autore.
Augusto Beccaria,
I biografi di Maestro Cecco d’Ascoli e le fonti per la sua
storia e la sua leggenda.