“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 30 maggio 2014

COMUNICATO STAMPA conferenza-dibattito: 1 su 5 la violenza si apprende dall’infanzia a cura di Daniela Zini



COMUNICATO STAMPA 
conferenza-dibattito:
1 su 5
la violenza si apprende dall’infanzia

a cura di Daniela Zini

venerdì 20 giugno 2014 – ore 17.00
Odradek la Libreria via dei Banchi Vecchi, 57 – Roma



Pedofilia: l’infanzia negata e violata
I.                   Che cosa si intende per pedofilia?

Pedofilia: l’infanzia negata e violata
II.                 Pedofilia e complesso di Edipo
 
Pedofilia: l’infanzia negata e violata
III.             Pedofilia e turismo sessuale


Sapevate che, in Europa, 1 bambino su 5 è vittima di violenza sessuale?
Sapevate che, nel 70-85% dei casi, l’autore della violenza sessuale è qualcuno che il bambino conosce o di cui ha fiducia?
Sapevate che, nel 90% dei casi, la violenza sessuale non è denunciata alle autorità?
Sapevate, infine, che, il 29 novembre 2010, il Consiglio d’Europa, nel quadro del programma “COSTRUIRE UNA EUROPA PER E CON I BAMBINI”,  ha lanciato una vasta campagna di sensibilizzazione, per promuovere misure giuridiche, educative e di altro tipo, destinate a combattere ogni forma di violenza sessuale compiuta su un bambino,  simbolicamente, chiamata 1 su 5?
Questo bambino è depositario di un terribile segreto.
Questo bambino è smarrito.
Noi possiamo essere colei o colui che ascolterà e aiuterà questo bambino. 
DONNE IN DIVENIRE sostiene che un mondo senza violenza è una necessità imperativa per l’avvenire dell’UMANITA’. In quanto proiezione di questo avvenire, il bambino ha diritto a una protezione particolare contro ogni forma di violenza, nella sua evoluzione. Per una società in preda alla miseria crescente e alla povertà antropologica, il bambino è sempre più considerato una fonte di reddito, ciò ha per effetto di favorire e rafforzare la spirale della tratta dei bambini a fini di sfruttamento sessuale.    

Daniela Zini
fondatrice e portavoce di DONNE IN DIVENIRE

venerdì 23 maggio 2014

OMAGGIO A GIOVANNI FALCONE di Daniela Zini





a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani
Vi sono volti e voci che mi ispirano, mi sfidano, mi pungolano e mi spronano a elevarmi per avanzare nella vita e contribuire a far avanzare le cose.
Sono un sano contagio, una magnifica emulazione, talvolta, una intimidazione… tanto sono nobili.
Sono dei preziosi “carburanti”, quando la speranza negli uomini o nelle circostanze potrebbe indurmi ad alzare le braccia.  
Alcuni di questi volti e di queste voci hanno versato il proprio sangue per aprirci la via alla Libertà, alla Democrazia e alla Giustizia.
A loro dico: Grazie!
In nome del loro sacrificio, noi dovremmo avere la ricerca della Libertà, della Democrazia e della Giustizia dell’Uomo esigente.
Io ammiro questi spiriti brillanti e impegnati che, con i loro scritti, partecipano a strutturare il mio modo di pensare il Mondo. Possano questi spiriti essere dei venti sotto le vele delle nostre lotte per accedere alla Libertà, alla Democrazia e alla Giustizia nel nostro Paese.
Chi si appresterà a prendere il testimone?
La nostra generazione può scegliere di scuotere il giogo, che la mantiene nella serena rassegnazione o nella ammirazione passiva, per decidere di divenire attrice della sua Storia.
Vi sono tante terre di Libertà, di Democrazia e di Giustizia da conquistare o da riprendere.
Noi abbiamo una responsabilità di fronte alla generazione che ci ha preceduto e di fronte alla generazione che ci seguirà.
E, con la passione per la Terra del mio cuore, Vi lascio con queste poche righe che ho scritto per rendere omaggio a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani per ringraziarli di aver incrociato la mia vita, le nostre vite.
Noi non vi dimenticheremo!
Daniela Zini


A Giovanni Falcone

È morto un Uomo di lupara bianca,
Che aveva per difesa
Le braccia aperte alla vita.
È morto un Uomo di lupara bianca,
Che continua la lotta
Contro la Morte, contro l’Oblio.

Tutto ciò che lui voleva,
Lo vogliamo anche noi.
E lo vogliamo, oggi.
Che sia luce
Nel fondo degli occhi, nel fondo del cuore.
E Giustizia sulla Terra.

Daniela Zini

 

Ventidue anni fa, non è stato ucciso un Uomo, da dietro la nuca, perché si voleva prendere i suoi beni, eliminare un rivale, un concorrente.
Ventidue anni fa, non è stato ucciso un Uomo per vendicarsi…
È stato ucciso un Uomo perché si temeva…
Era votato al suo lavoro.
Aveva il senso del dovere.
Era, profondamente, onesto.  
E amava l’Italia, di cui era un fedele servitore.
Non ha avuto diritto a un giudizio.
Il suo assassino e i suoi complici non avevano nulla da rimproverargli.
È stato ucciso senza che lo conoscessero.
È stato ucciso perché rappresentava lo Stato e poteva essere “un simbolo scomodo”.
“Un simbolo scomodo”!
Non un Uomo, un simbolo!
Per difendere, rafforzare una idea, si è, freddamente, ucciso un Uomo, solo perché rappresentava una istituzione che si giudicava incompatibile con questa idea.
È stato fatto brillare come si fa brillare la facciata di un palazzo.
Come non pensare a Sébastien Castellion, che scriveva:
“Uccidere un Uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un Uomo.”
Questo assassinio trascinava l’Italia verso l’abisso del Terrore:
“Io ti uccido perché rifiuto ciò che tu sei, ciò che tu rappresenti.
Io ti uccido perché io ti credo un ostacolo alla causa.
O perché la tua morte “servirà la causa”.”
Quale tributo l’Italia paga, oggi, ancora, a questa violenza cieca, inutile, disonorevole e disonorevole non solo perché si esercita nell’ombra contro una vittima impotente…
Io spero che tali assassinii non accadano più.
Io spero che ognuno, su questa terra, sappia difendere le proprie idee, quali che siano, senza altra arma che l’intelligenza, la parola e il cuore.
Perché questa è la Libertà.
Questa è la Democrazia.
Questa è la Giustizia.
Italiani, la morte di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Rocco Dicillo, di Antonio Montinaro e di Vito Schifani è servita?
Dipende da ognuno di noi.
Si può dimenticare, negare, relativizzare anche.
Ma quando si tollera che un Uomo sia sacrificato alla Ragione di Stato, si accetta che altri siano giustiziati allo stesso modo, per lo stesso motivo.
L’Italia rifiuta l’immagine che alcuni le danno.
L’Italia è forte dei suoi valori.
Non ama la morte.
Conosce il peso dell’Uomo.
Conosce il peso della Vita.
E l’Italia costruirà il suo avvenire nella Libertà, nella Democrazia e nella Giustizia. 
Nella fiducia alla Repubblica.
Non sarà, sempre, facile, gli ostacoli non mancheranno.
Ma l’Italia li sormonterà, perché può contare in Uomini e Donne di onore e di fede nella loro terra e nella loro identità.
È per me una certezza!
E io vi ringrazio, Italiani, di darmi questa certezza.
Viva l’Italia, viva la Repubblica, viva gli Italiani.


Daniela Zini
Copyright © 23 maggio 2014 ADZ



lunedì 19 maggio 2014

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI MALCOLM X di Daniela Zini




UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI

il diavolo bianco dagli occhi azzurri fu il suo vero nemico
Malcolm X
MALCOLM LITTLE
[North Omaha, 19 maggio 1925 – New York, 21 febbraio 1965]


È possibile che un nero dedito alla droga, spacciatore di marijuana e mezzano di donne da strada all’età di diciotto anni, rapinatore a venti, dopo avere scontato sette anni di carcere, acquisti improvvisamente coscienza del proprio abisso morale e risalga la china fino a diventare uno dei più prestigiosi leader politici degli Stati Uniti?
Evidentemente sì.
Queste, infatti sono state le tappe della vita di Malcolm X, nato Malcolm Little, a North Omaha (Nebraska), il 19 maggio 1925, e morto assassinato a New York, il 21 febbraio 1965.  
Il padre di Malcolm, un attivista nero seguace di Marcus Garvey che propugnava il ritorno di tutti i neri americani nella terra natale d’Africa, era stato più volte minacciato di morte dalla Legione Nera (l’equivalente del Ku Klux Klan negli Stati Uniti del Nord) prima di venire trovato morto per frattura del cranio sui binari della tranvia di Lansing, la cittadina del Michigan, dove si era trasferito. Secondo le indagini della polizia, risultò che si era spaccato la testa cercando di prendere un tram in corsa. Era il 1931. Negli anni che seguirono, la madre di Malcolm, una fragile mulatta originaria delle Indie Occidentali, lottò con tutte le sue forze per mantenere l’unità del nucleo familiare. Fu, tuttavia, sopraffatta dalle difficoltà economiche e dall’autoritarismo dei funzionari dei vari enti assistenziali, che cercavano di sottrarle il controllo dei figli: il suo equilibrio psichico andò compromettendosi sempre più, finché, nel 1937, venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Kalamazoo, dove rimase per ventisei anni.
Dopo essere stato affidato per qualche tempo alla pubblica assistenza, Malcolm, nel 1940, venne ospitato dalla sorellastra Ella, nella sua casa di Boston.
L’ingresso nel mondo della grande città era destinato ad avere sul giovane nero, cresciuto in città di provincia, effetti travolgenti. Trovato un posto come lustrascarpe alla Roseland Baltroom, il locale notturno più frequentato di Boston, Malcolm si trovò, infatti, a contatto con il vivacissimo ambiente che gravitava intorno alle migliori orchestre nere in perenne tournée per il paese. Nomi di grandi jazzisti, come Count Basie, Duke Ellington e Lionel Hampton, attiravano masse di neri deliranti e anche un buon numero di bianchi in cerca di emozioni nei quartieri del ghetto; spacciatori di droga e di whisky, prostitute di entrambe le razze, sfruttatori costituivano il naturale complemento per una folla divisa da barriere razziali che solo sotto l’insegna di un divertimento ebbro trovavano il modo di abbassarsi.
Malcolm, preso dal ritmo frenetico del lindy-hop (è strano quanto fresca, in quei primi anni di prosperità intorno al 1940, fosse ancora la memoria della trasvolata di Lindbergh, tanto da dare il nome al ballo allora più in voga) finì per abbandonare ben presto il suo lavoro. Fattisi stirare i capelli crespi e indossato un vistosissimo zoot-suit, l’abito d’obbligo per tutti i neri con aspirazioni mondane, si trasformò nel più scatenato dei guappi di colore. E, facendo uno sforzo per immaginare come dovesse apparire con la sua statura prossima ai due metri, paludato in una giacca lunga fino alle ginocchia sopra pantaloni enormemente larghi intorno alle gambe e strettissimi alle caviglie, i piedi calzati in affilate scarpe arancione terminanti in una assurda punta a cupola, cappello piumato e accessori vari, i capelli quasi rossi, che tradivano la razza del nonno materno, impomatati in modo incredibile, non si stenta a comprendere come anni più tardi – rinsavito – Malcolm dovesse esprimersi in modo ferocemente ironico circa gli atteggiamenti da clown che lui stesso e la maggior parte dei suoi confratelli di vita, in quel periodo avevano adottato.
Ma se farsesca era la cornice, di ben altra natura era il genere di vita che conduceva: divenuto venditore di panini sul treno Yankee Clipper, che viaggiava da Boston a New York, poi, sul Silver Meteor per Miami e, infine, cameriere nel ristorante di Harlem Small’s Paradise, Malcolm scivolò a poco a poco nell’abitudine della droga, già molto diffusa tra i neri non integrati.
Cacciato dallo Small’s per avere procurato una prostituta a un agente provocatore, nel 1943, Malcolm divenne uno spacciatore di marijuana a tempo pieno; per resistere alla tensione iniziò, lui stesso, a fumarne quantitativi sempre maggiori, tanto che, per sua ammissione, dopo breve tempo non esisteva momento della giornata in cui non si trovasse sotto l’effetto dello stupefacente.
Segnalato all’Ufficio Narcotici fu presto braccato, così da dover sospendere il proprio traffico. Ricorrere alla pistola, che aveva preso l’abitudine di portare sempre indosso, per iniziare una serie di rapine fu il passo seguente compiuto da Malcolm sulla strada del crimine.
Caduto in una trappola per la spiata di un negoziante ebreo, Malcolm venne arrestato insieme a un altro nero e a due donne bianche, tutti suoi complici. Mentre le ragazze ricevettero una mite condanna, un periodo di detenzione da uno a cinque anni, la sentenza per i due uomini di colore fu assai più severa: dieci anni di carcere. Commentando la cosa molti anni più tardi, Malcolm avanzò il legittimo dubbio che la pena gli fosse stata comminata più per il reato di avere infranto dei tabù sessuali che non per avere effettivamente violato la legge.
Rinchiuso nella prigione di Charleston e, poi, in quella di Concord. Malcolm, reso furioso dalla mancanza di droga o, meglio, dalla sua scarsità, dato che un certo numero di “paglie” veniva sempre smerciato a caro prezzo dai secondini, tenne un comportamento talmente irriducibile da guadagnarsi il soprannome di Satana da parte dei suoi stessi compagni di pena.
Nel 1948, improvvisa venne l’illuminazione: il fratello Reginald, nel corso di alcune visite, lo mise al corrente di avere aderito alla Nazione dell’Islam, che definiva la vera religione dei neri d’America e il cui capo era un uomo di nome Elijah Muhammad, nato Elija Poole (Sandersville, 7 ottobre 1897 – 25 febbraio 1975) al quale Allah si era rivelato.
La dottrina di questa setta, che, ovviamente, nulla aveva da spartire con l’autentico islamismo, era costituita da tutto un complesso di elementi favolistica non molto più fantasiosi di quelli delle infinite altre superstizioni religiose che fioriscono tra le comunità nere del Nuovo Mondo.
Ma un punto in mezzo a tutta una grossolana paccottiglia ideologica era destinato a fare una presa immediata sul giovane Malcolm: e, cioè, che l’uomo bianco è il diavolo e che dalla sua malvagità derivano tutte le sciagure dell’umanità e, segnatamente, quelle delle popolazioni nere.
Malcolm passò in rivista tutte le miserie di cui era stato testimone durante la sua tumultuosa vita, dai quartieri neri delle piccole città del Nord che aveva conosciuto nella sua adolescenza agli sterminati e immondi ghetti delle metropoli, e concluse che tutto era effettivamente colpa dell’uomo bianco che aveva sradicato i neri dalla loro terra, li aveva ridotti in schiavitù, aveva stuprato le loro donne, li aveva sfruttati e ingannati fino al punto da far perdere loro il senso della propria identità razziale. E, forse, proprio perché Malcolm non era in cerca di una risposta a problemi di ordine trascendente ma di un messaggio umano che lo illuminasse sulla misura del suo valore di uomo di colore in una società dominata da bianchi, l’adesione da lui data alla Nazione dell’Islam fu totale.
Trasferito per interessamento della sorellastra Ella nel carcere sperimentale di Norfolk (Massachusetts) ebbe a disposizione una biblioteca eccezionalmente ben fornita. Pur essendo praticamente analfabeta, si diede alla lettura in modo frenetico. Per conoscere il significato delle parole nuove che via via incontrava  ricopiò un intero dizionario dalla A alla Z, passò, poi, a testi di storia, di sociologia e di filosofia, fino a munirsi di un bagaglio culturale assai vasto, anche se non privo dei difetti tipici di un autodidatta.
Liberato sulla parola, nel 1952, Malcolm iniziava a ventisette anni una nuova vita. Entrato in diretto contatto con Elijah Muhammad, ben presto fu nominato assistente pastore nel “tempio numero uno” di Detroit: qui, fin dall’inizio, fu attivissimo nel reclutare proseliti e nel tenere discorsi ispirati da un’arte oratoria spontanea e di eccezionale vigore. Fu in questo periodo che, secondo un’usanza dei Black Muslims – questo il nome con cui venivano chiamati gli aderenti alla Nazione dell’Islam – Malcolm mutò le proprie generalità da Malcolm Little in Malcom X, ove la X stava per il nome di famiglia sconosciuta dei suoi avi allorché erano stati imbarcati a forza dal bianco per l’America.   
A un contenuto egualmente polemico furono ispirati i suoi sermoni; quasi invariabilmente articolati sui seguenti punti: la elencazione delle malefatte compiute dai “diavoli bianchi con gli occhi azzurri”, la manipolazione degli avvenimenti storici da loro eseguita a proprio favore, l’esortazione a essere orgogliosi di appartenere alla razza nera e a tenere un comportamento conforme a un concetto di grande rispetto nei confronti di se stessi.
Da tutto ciò conseguiva per chi aderiva alle Nazioni dell’Islam l’applicazione di un codice morale eccezionalmente rigido. Ma la proibizione di ogni tipo di promiscuità sessuale, il divieto della droga, dell’alcool, del tabacco e del gioco d’azzardo assumevano per Malcolm una particolare coloritura: era, appunto, tramite l’imposizione di queste regole di natura apparentemente religiosa che si mirava alla nascita di un uomo nero dalla moralità nuova sul quale non facesse presa il consumismo dell’uomo bianco e l’industria del vizio di cui egli teneva le fila e dalla quale, proprio per la debolezza del fratello di colore, aveva finora tratto colossali profitti.
A partire dal 1954, Malcolm X, divenuto pastore nel “tempio numero sette” di New York, con la sua infaticabile attività organizzativa su tutto il territorio degli Stati Uniti fece, in breve volgere di tempo, compiere un enorme cammino alla Nazione dell’Islam.
Per l’intransigenza e per il coraggio con cui portava avanti la sua crociata fu accusato di sobillazione e di incitamento alla rivolta. In effetti, pur rimanendo la sua violenza tutta in termini rigorosamente verbali, è vero che sulla fine degli Anni Cinquanta l’azione di Malcolm X andava sempre più assumendo le caratteristiche della lotta politica.
Ferocemente avverso al movimento per i diritti civili – Malcolm non esitò ad accusare i leaders della protesta ordinata di essersi divisi la cifra di un milione e mezzo di dollari offerti dall’amministrazione Kennedy ai tempi della famosa marcia su Washington – colui che era stato anche chiamato “il rosso di Detroit” intravedeva una soluzione del problema nero unicamente in questa direzione: era  assolutamente inutile esercitare uno sforzo per l’attuazione delle norme previste dalla Costituzione, dal momento che, così impostata, la questione ricadeva nell’ambito degli affari interni degli Stati Uniti, per i quali era improponibile qualunque azione basata sulla solidarietà internazionale; ciò che, invece, andava fatto era proclamare la violazione della Carta dei Diritti dell’Uomo davanti alle Nazioni Unite al fine di ottenere l’appoggio dei paesi africani e asiatici allora appena sottrattisi al giogo colonialista.
Concepito su questa direttrice, è ovvio che il programma di Malcolm si trovasse a radunare intorno a sé molti degli elementi più avanzati del nazionalismo nero, dei quali automaticamente egli si trovava ad assumere la guida.
Fu a questo punto che si verificò la rottura tra Malcolm ed Elijah Muhammad: non poteva andare certamente in modo diverso se è vero, come ebbe più tardi a rivelare lo stesso Malcolm, che tra Elijah e i capi del Ku Klux Klan era stato pattuito un accordo per la spartizione su base razziale degli Stati Uniti della Georgia e del South Carolina qualora l’estrema destra americana fosse riuscita ad assumere il potere.
È, peraltro, assai probabile che Elijah Muhammad, pur assai soddisfatto inizialmente della larga base che Malcolm aveva fatto assumere al suo movimento, abbia, poi, iniziato a temere di vedere compromessa la propria vantaggiosa condizione economica a causa del radicalismo dell’allievo: la messa fuori legge della Nazione dell’Islam avrebbe, infatti, significato la chiusura della catena di negozi e delle altre capillari attività commerciali gestite dalla setta dalle quali Elijah, uomo mediocre e venale, largamente attingeva.   
L’occasione per estromettere dalla Nazione dell’Islam l’ormai scomodo profeta doveva offrirsi a Elijah Muhammad, il 23 novembre 1963, quando Malcolm, commentando con dei giornalisti l’assassinio del Presidente Kennedy, ebbe a esprimersi nel seguente modo:
“Le galline che tornano al pollaio non mi hanno mai reso triste.”
La frase, dal significato analogo a quello del detto italiano:
“Chi semina vento raccoglie tempesta.”,
intendeva unicamente alludere al seme di violenza profondamente radicato nella società americana e ai suoi mostruosi frutti.
Elijah Muhammad, senza entrare nel merito della giustezza dell’analisi, la giudicò intempestiva e dannosa agli interessi della setta: di conseguenza, Malcolm venne sospeso per un periodo di tre mesi da ogni tipo di attività. Ma, in realtà, questo era solo il primo passo per isolare definitivamente Malcolm e ridurre la sua voce al silenzio totale.
Il rosso di Detroit non era, tuttavia, uomo da poter venire manovrato così facilmente e, dopo un primo comprensibile sbigottimento, lo lasciò chiaramente intendere: iniziarono, così, a correre le prime voci circa l’insicurezza della stessa vita. Malcolm non disarmò e nel marzo del 1964 fondava a New York la Muslim Mosque Inc., un’associazione sulla base religiosa dell’Islamismo, ma aperta anche a neri non credenti o di diversa fede, il cui scopo era di fissare i presupposti per un’internazionalizzazione del problema razziale negli Stati Uniti.
Quasi contemporaneamente Malcolm intraprese un pellegrinaggio alla Mecca. Il viaggio ebbe importanti conseguenze, sia sul piano ideologico, sia su quello strettamente politico. Se, infatti, il contatto alla Mecca con le masse appartenenti ai ceppi etnici più diversi valse ad aprirgli una più ampia dimensione del concetto di fratellanza non più da fondare esclusivamente sul colore della pelle, gli incontri avuti con personalità politiche arabe, egiziane e, più tardi, sulla via del ritorno, sudanesi, nigeriane e del Ghana lo confermarono, con le loro dimostrazioni di simpatia e di fiducia, nell’opinione che la strada imboccata aveva delle reali possibilità di successo.
L’anno seguente, Malcolm, recatosi al Cairo per partecipare al Congresso per l’unità africana, presentò una mozione a favore di una lotta su scala internazionale alla politica razzista degli Stati Uniti, lotta da iniziare mediante una messa in stato di accusa da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Forse, Malcolm non comprese del tutto quali problemi di ordine internazionale rischiassero di porre le sue iniziative al Governo degli Stati Uniti e continuò a additare in Elijah Muhammad l’unico uomo che avrebbe impedito alla sua bocca di continuare a parlare.
Ma, se i tre sicari che lo fulminarono con ben sedici pallottole quella domenica mattina del febbraio 1965 alla Audubon Ballroom di New York erano effettivamente dei membri della Nazione dell’Islam, è certo che la posta del gioco era, ormai, tale da comportare mandanti assai più in alto e complicità diverse.
In definitiva, l’eliminazione di Malcolm X fu un assassinio politico non eccessivamente misterioso tra i troppi che hanno insanguinato l’America.
 

Daniela Zini
Copyright © 19 maggio 2014 ADZ



domenica 4 maggio 2014

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI CECCO D'ASCOLI di Daniela Zini



UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
“L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo!”

Cecco d’Ascoli
astrologo senza paura
FRANCESCO di SIMONE STABILI
 [Ancarano, 1269 – Firenze, 16 settembre 1327] 


Dotato di eccezionali capacità divinatorie, il celebre studioso marchigiano non volle, mai, piegarsi a compromessi di alcun genere, attirandosi l’odio dei potenti del suo tempo. Primo intellettuale italiano laico condannato a morte, per eresia, dall’Inquisizione, venne arso vivo insieme ai suoi libri, davanti alla Basilica di Santa Croce, a Firenze, il 16 settembre 1327.


ad Antonia Mattiuzzi,
mia  dolce Amica e Compagna di viaggio
“Oh non!
Je me suis trompé de bouton!
Nous sommes bloqués en pleine antiquité romaine!”
[Sacha Guitry a proposito della sua lavatrice!]


Un Amico mi raccontava, recentemente, la “tecnica di abbordaggio” dei suoi sedici anni. Si fermava davanti alla ragazza che gli piaceva e le chiedeva a bruciapelo:
“Occorre molto tempo per andare lontano?”
Mi ha deliziato questa domanda, che trovo straordinaria, semplice, efficace, onesta.
A lungo, io ho creduto che vi fosse un “Altrove”, un luogo diverso nel mondo… da  cercare… da conoscere… da  amare.
Ho preso treni, navi, aerei… ho dormito in stazioni, moli, aeroporti…
Ho condiviso caldo e freddo, fame e sete, veglia e sonno con coloro che ho amato.
Ora, io so che non ho bisogno di andare “Altrove” per viaggiare, è sufficiente, a volte, che io giri l’angolo di una strada, che io pieghi nel mio luogo segreto, che io dondoli sull’altalena, che io rida con le persone che amo…
Con la Fede e con l’Amore, non occorre molto tempo per andare lontano...   
Ogni volta che io viaggio, io non vado da nessuna parte.
Io incedo passo dopo passo…
Io faccio la strada, voglio dire faccio io la  strada…sono io la strada…
E, mi dico:
“Ecco Spello…
Ecco Venezia…
Ecco Heidelberg…
Ecco Parigi…”
I luoghi non sono che scenari, in cui muoversi.
In ogni luogo, si può vedere una eguale proporzione di luce e tenebra, di pace e guerra, di amore e vuoto.
I luoghi sono solo la geografia, ciò che conta è fare del proprio corpo e della propria anima la sola casa.
A volte, il mondo mi travolge… e colo a picco… ma, mai, molto a lungo, perché, da sempre, ovunque è casa mia.
Sotto la mia bandiera io intono i miei inni, muovo la guerra ai miei nemici, scrivo le leggi e, quando non sono più giuste, le cambio.
Alla scuola della mia Repubblica io apprendo la Libertà.
Io dimentico le forme e gli spazi.
Lo spazio-tempo è mio.  
Allora io proseguo, io sono il mio Paese, io porto la mia bandiera, io canto la mia Patria, io esaudisco le mie preghiere…
Io avanzo…
Io non ho l’ombra di un dubbio sulla mia Patria interiore.
Io non ho, mai, paura, quando le persone sono ciò che sono.
Io non ho, mai, paura, quando tutto è chiaro, quando vedo, in trasparenza, la Verità.
Io non ho, mai, paura, quando la notte è talmente profonda da brillare, da essere la Verità.
Il Poeta statunitense William Carlos Williams diceva:
“Un mondo Nuovo è solo una mente nuova.”
Si chiama buco nero in astrofisica una specie di buco – dunque, non proprio un buco, una specie di buco –, presente nell’Universo in grado di comunicare con un altro buco, anch’esso presente nell’Universo, ma in un’altra epoca.
Avrete, sicuramente, compreso, anche voi come me, che il buco nero sta al viaggio nel tempo come il tunnel sta al viaggio nello spazio…
Chi non ha mai sognato di viaggiare nel tempo?
Chi non ha mai sognato di poter contemplare il Colosso di Rodi prima della sua distruzione?
Chi non ha mai sognato di poter vedere il mondo prima della comparsa dell’Uomo?
Chi non ha mai sognato di poter stringere la mano a Gesù?
Chi non ha mai sognato di poter riscrivere la Storia?
Ma si può cambiare il corso della Storia?
E, se fosse possibile, chi non lo farebbe?
Il futuro anteriore ci indica che, se noi avessimo agito diversamente, gli eventi avrebbero potuto verificarsi diversamente. Il futuro anteriore ci indica il nostro potere di raccontare una storia e di cambiarne il corso. Ma noi sappiamo che ciò che ha avuto luogo è, ormai, irreversibile, solo gli eventi in corso sono accessibili ai nostri interventi. Il futuro anteriore è, dunque, un niente illusorio tranne nel senso in cui traduce la nostra impressione presente che vi è una contingenza di eventi e che ci è possibile intervenire sugli eventi.
Per il professor John Wheeler dell’Università di Princeton:
“Il tempo è il modo per la natura di evitare che tutte le cose accadano nello stesso tempo.”,
ma, come Richard Arnowitt, Stanley Deser, Charles W. Misner e Julian Barbour, non dispone, ancora, dello strumento teorico che permetta di dimostrare, matematicamente, la natura del tempo.
Nel marzo del 1955, pochi giorni dopo la morte di Michele Besso, suo amico carissimo, fino dagli anni di studio a Zurigo - Albert Einstein scrisse alla sorella e al figlio di questi una lettera, che si concludeva con queste parole:
“E, ora, nel dare addio a questo strano mondo mi ha preceduto di poco. Ciò non significa nulla. Per noi, fisici di fede, la distinzione tra passato, presente e futuro è solo una illusione, anche se ostinata.”
Parole profetiche!
Einstein moriva, appena quattro settimane dopo averle scritte, il 18 aprile 1955.
La sua visione della vita e della morte era, profondamente, influenzata dal suo concetto di spazio e di tempo.
Il lascito più importante di Albert Einstein si rivelerà, forse, un giorno, la capacità di comprendere che, per quanto attiene alla morte, allo spazio, al tempo, e alla materia, avevamo sbagliato tutto.
Noi non saremmo, dunque, che le marionette delle necessità del corso della Storia?
Il nostro sguardo sul passato, vale a dire la nostra comprensione stessa del corso della Storia, non è, sempre, ideologica?
Quando una deformazione del corso della Storia ci è imputabile, noi scopriamo, al contempo, il carattere relativo e cieco di un modo di vedere che ci aveva determinato fino a quel momento. Le nostre approssimazioni del corso della Storia, che si sono rivelate, traducono determinazioni passionali e ideologiche, che hanno agito su di noi e lasciano sospettare che, ancora oggi, la nostra comprensione della Storia e delle nostre azioni storiche resti ignara del vero corso della Storia. 
Come si scrive la Storia?
La Storia, quella che è “storia di…”, in effetti, non esiste in se stessa; è il prodotto di una attività umana di storici ufficiali o di uomini comuni, che, nella loro vita sociale, pensano e parlano del loro passato e del loro presente.
Nel mondo storico, tutto si dà come Storia e niente si dà come Storia: scelte, costruzioni e ricostruzioni, punti di vista, restano sempre da fare per dare forma a ciò che è in sé caos informale.   
Tuttavia, la Storia è soggettiva e arbitraria, fondamentalmente relativista?
Un autore può modificare la velocità del corso del tempo: inserisce una pausa, il tempo cessa di scorrere, o un sommario, il tempo è passato in rivista accelerato. Ciò permette, dunque, di rallentare l’azione, di comprimerla o anche di eluderla puramente e semplicemente.     
Un autore dispone, anche, del potere di trasferire i suoi lettori nel passato o nel futuro.
Immaginiamo che, grazie a un “buco nero” “qualcuno” possa riscrivere il passato, a esempio, impedire l’assassinio di Giovanni Falcone. Salverebbe, così, sua moglie, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte: Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Bloccherebbe gli attentati del 1993!
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
La lunga tradizione del Giornalismo e la sua attendibilità vanno, sempre più, offuscandosi e anche la sua voce va affievolendosi.
Le ragioni sono molteplici.
Il soggiacere di alcuni direttori alle pressioni, dettate dagli interessi personali di questo o quel personaggio influente, il crescente disinteresse da parte dei giornalisti – demotivati da una gestione dei giornali ipocrita e, spesso, opportunista – tolgono al glorioso Giornalismo smalto, mordente… e lettori.
Gli aperti tentativi di alcuni giornalisti “coraggiosi” franano contro il muro invalicabile di intricati interessi.
Nulla sembra poter risollevare le sorti del Giornalismo!
“Qualcuno”, tuttavia, non ci sta.
“Qualcuno” che sente il dovere morale di dare nuova trasparenza all’informazione… e nuovo lustro al Giornalismo.
Con molta audacia, sempre, nell’assoluto anonimato, nottetempo e con metodi misteriosi, “qualcuno”, inizialmente sconcertato, poi, mosso da curiosità, ammirazione e gratitudine si improvviserà detective.
Ripercorrerà i capitoli più bui della storia italiana, dagli anni di piombo alle stragi degli anni 1990… capitoli già scritti, ma non fino in fondo… per poterli cambiare!
Un viaggio destinato a far conoscere l’Amore a “qualcuno” e a far cambiare la storia del nostro Paese.
“Qualcuno” ha in serbo grandi progetti e una impresa di risonanza epocale…
Questa volontà di cambiare il corso della Storia, per immaginare ciò che avrebbe potuto essere, mi ricorda un pensiero di Blaise Pascal:

Le nez de Cléopâtre, s’il eût été plus court, toute la face de la terre aurait changé.”
 [Blaise Pascal, Pensées, 90]

e mi ha ispirato un nuovo libro: ACRONIA…
In un momento culturale, politico e sociale, così carico di tensioni, ho deciso di porre un accento di riflessione sulla tormentata storia italiana dell’ultimo cinquantennio.
Far conoscere il significato universale degli eventi disastrosi della nostra Storia è un debito verso le generazioni future e verso il Paese.
Se tali eventi sono stati pagati con la sofferenza da parte di Chi li ha subiti, gli insegnamenti che se ne traggono appartengono al Mondo intero.
Colui che usurpa la libertà degli Altri è il primo a perdere la propria e a divenire schiavo.
Protagonista è una donna, un’altra ribelle all’ordine costituito.
Non vi sorprenda, dunque, se la mia immaginazione si ingegni a conferire a questa donna poteri che rifiuta all’uomo. Colei che vi apre le porte del libro mirabile, conosce tutto ciò che incontrerete, conosce le risposte agli enigmi, scioglie gli indovinelli, disperde gli incantesimi, riconosce chi si nasconde in un corpo, che una magia ha trasformato, rintraccia le strade dei pellegrini, sa dove approdano i naufraghi e quali segnali svelino e nascondano le severe bizzarrie del Fato.


La verità prima di tutto!

di
Daniela Zini


“Voi non potete dubitare delle cose in cui credete: io debbo”.
Ipazia di Alessandria


D
estino terribile e strano, davvero, dominato da torve stelle, quello di Francesco di Simone Stabili, più noto come Cecco d’Ascoli, dal nome della natia città, tanto amata e tanto rimpianta, durante il lungo errare da un luogo all’altro, da una università all’altra: da Ascoli Piceno a Salerno, da Salerno a Parigi e, poi, a Bologna, a Firenze...

“La fama straordinaria della sua dottrina generò tali e tante esagerazioni, eccitò così fortemente la fantasia popolare, che – di grado in grado – si arrivò sino alle superbe altezze del soprannaturale.”
Giuseppe Castelli, La vita e le opere di Cecco d’Ascoli

A questo pittoresco, impetuoso, aggressivo personaggio ben si addice il cappello a cono, attribuito dalla tradizione agli astrologi, in memoria dei tempi andati, quando per osservare il corso dei pianeti – mancando le effemeridi di Raphael – occorreva appostarsi alla sommità delle torri e di lassù scrutare il cielo notturno.
Di Cecco d’Ascoli, o meglio della sua vita privata abbiamo poche notizie; né parrebbe chiaro il motivo per cui fu vittima dell’Inquisizione – la quale risparmiò molti maghi e astrologi contemporanei – se non conoscessimo la sua indole impulsiva, che gli creò tante inimicizie.
Alberto Magno [1193-1280], vescovo di Ratisbona e dottore della Chiesa, a esempio, sebbene, lui stesso, dedito alle arti divinatorie, venne canonizzato, e Dante Alighieri [1265-1321], in Paradiso, ce lo mostra, perfino, al fianco di San Tommaso d’Aquino [1225-1274].  Dimostrazione di immenso rispetto, l’aver posto il sapiente monaco domenicano svevo alla destra del Doctor Angelicus; trattamento pressoché inspiegabile, se ricordiamo gli altri indovini, veggenti, negromanti, confinati da Dante Alighieri nella quarta bolgia e condannati a procedere con il viso volto all’indietro, per scontare il peccato di aver spinto lo sguardo nel futuro. Tra gli altri, vi troviamo il ghibellino Guido Bonatti, o Bonalti, che fu promotore di ogni studio concernente le arti occulte e fece dono ai suoi concittadini di un bel cavaliere fuso nel rame, il quale avrebbe dovuto proteggere Forlì dai nemici, particolarmente, dalle armate pontificie, decise a occuparla. Quando si annunciava imminente uno scontro, Guido scrutava le stelle per trovare l’ora favorevole ai suoi, e dall’alto del campanile, munito di un astrolabio, con il suono delle campane maggiori lanciava il segnale dell’attacco. Forse, sarebbe eccessivo affermare che la terribile battaglia, combattuta dal capitano Guido da Montefeltro [1223-1298], per conto dei forlivesi, contro il rettore papale della Romagna, Jean d’Eppes, Giovanni d’Appia, – battaglia conclusasi con lo sterminio di ottomila francesi – venisse vinta grazie alle pratiche divinatorie di Guido Bonatti; ma neppure si può negarlo decisamente.
Alla fin fine, la suggestione o la fede, comunque si intenda chiamarla, ha veramente il potere di smuovere le montagne. Oltre alla fortuna di essere ammirato e venerato dai suoi concittadini, Guido Bonatti ebbe anche la buona sorte di poter sfuggire al braccio vindice dell’Inquisizione, riparando in Francia.
A Cecco d’Ascoli, invece, non fu risparmiata alcuna delle tappe dolorose che menavano al rogo: due processi, una lunga detenzione, la condanna. Tuttavia, si ha motivo di presumere che questa fosse dovuta all’inimicizia della classe medica piuttosto che alla sua fama di mago, o all’aver avuto l’imperdonabile presunzione di voler spiegare l’opera e il martirio di Gesù, in base al suo oroscopo natale.
“[…] scrisse et insegnò che Christo uenne in terra per uoler di Dio e per necessità di stelle doueua essere e uiuere pouero con i suoi Discepoli e morire in Croce, perché così fu forzato dalle Costellazioni […]”
Intorno a 1200 l’astrologia era, ancora, considerata con rispetto: sovrani e, perfino, pontefici si tenevano a lato studiosi di quella scienza.
Così, vi erano cattedre di astrologia in ogni università.
All’Alma Mater, a Bologna, per acclamazione dei goliardi, Cecco d’Ascoli venne chiamato a insegnare, intorno al 1320.
Non era ancora vecchio, essendo nato nell’anno 1269, vale a dire quattro anni dopo Dante Alighieri[1], del quale, sembra, fosse amico ed estimatore, almeno fino al giorno in cui non volle accingersi a un grande compito trascendente le sue forze, la stesura di un poema critico, l’Acerba etas[2], in contrapposizione alla Commedia.   
Fino dai primi versi dell’opera, Cecco dichiara, esplicitamente, l’incapacità dell’intelletto umano ad andare oltre il Primo Mobile:  

Oltre non segue più la nostra luce
Fuor della superficie di quel primo
In qual natura, per poter, conduce
La forma intelligibil che divide
Noi da’ animali per l’abito estrimo
Qual creatura mai tutto non vide.

Sopra ogni cielo sostanzïe nude
Stanno benigne per la dolce nota,
Ove la pïetà li occhi non chiude;
E per potenza di cotal virtute
Servano il giro di ciascuna rota
Onde di vita ricevem salute;

E l’arco dove son diversi lumi
Gira di sotto con soggette stelle
E lascia un grado ben con tardi tumi.
Le quattro qualità costui informa
Sì che il soggetto in atto vien da quelle
Perch’ei le stringe con sua dolce norma.

Di sotto luce quella trista stella,
Tarda di corso e di virtù nemica,
Che mai suoi raggio non fè cosa bella.
Gelo con freddo fiato mette a terra,
E a chi non ha mercè, s’ella s’applica,
L’aere stridendo chiama «guerra, guerra».

Circoscritta la luce benigna
Nel sesto cielo, onde quello s’acquista
Che ben si prova là dove si signa.
Se l’alma gli occhi suoi belli non chiude
Stando ne l’ombra de l’umana vista,
Vuol ch’ella dorma in le sue braccia nude.

L’ignea stella che pietà non mira,
Ma sempre di mercè si mostra freda
A chi lei sturba, di sotto le gira,
E tal tempesta per l’aere despande
La sua potenzia, che per tutto preda
Al nostro tempo noi miriamo grande.

Poi gira il corpo de la nostra vita,
Agente universal d’ogni soggette;
E virtù pinge sì la sua ferita
De li ferventi raggi onde si scalda
La grave qualità che in lei si flette,
Che ciò che vive lor potenzia salda.

D’amor la stella ne la terza rota
Allo spirto dà angoscia con sua luce
Di cosa bella, che non sta remota
Da lui se morte spenga sua figura.
In cui lo dolce raggio non riluce,
Non è animata cosa tal natura.

Gira il pianeta con la bina voglia
Per quella spera onde viene tal lume,
Qual tutta obscurità de l’alma spoglia.
La fredda stella in quel piccolo cerchio
Ultimo gira, e no è ver che consume
L’ombra per lo splendor che sia soverchio.

Anche ogni luce che possede il cielo
Vien da quel corpo qual natura prima
Ebbe formato d’amoroso zelo,
Sì ch’ogni stella per costui risplende.
Ma l’ultima si mostra più sublima;
Cessandosi da lui, luce non prende.

Ma quando infra li raggi ella si volve,
Attrista la virtù di ciò che vive
E l’aere per tempesta si dissolve,
Scema li fiumi ed ogni virtù sbada;
E chi le insegne in campo circoscrive,
D’onor si priva per contraria spada.

Se in orïente luce la sua stella
E nell’ottava parte ella si trova,
A tal potenzia non po’ star rubella;
Se l’altra gira nel più alto punto,
Sarà da pinger l’aere questa prova
E far volare chi di piombo è unto.

Muove li corpi di minor ragione
E fuga ciò che non puo’ lor natura
Assimigliare a sua perfezïone;
Lor viso bello turba al nostro aspetto,
Nel specchio pinge di nebbia figura
E toglie luce al figlio a gran diletto.

L’altri animali di vertude nudi
L’estremità possiedon di ciò sempre.
O gran virtù che tutte cose mudi!
O quanto il tuo valor fa bella mostra,
Che vuoi ogni natura che si tempre
Per più benigna far la vita nostra,

O tu che mostri il terzo in una forma
E accendi di pietà la spessa norma!

Per Etienne Gilson [1884-1978], la fine del XIII secolo sarebbe stata caratterizzata da grandi cambiamenti:

“Après 1277, l’allure de la pensée médiévale toute entière se trouve changée. Après une courte lune de miel, théologie et philosophie croient s’apercevoir que leur mariage avait été une erreur.”
Etienne Gilson, La philosophie au Moyen Age

E Cecco colse la necessità di una separazione tra scienza e religione, che unite permettevano alla Chiesa di guidare la cultura e le coscienze.
Idolatrato dagli studenti, Cecco dovette scontare con l’odio dei colleghi quella straripante popolarità. Anche a Bologna, la cattedra di astrologia era annessa alla facoltà di medicina: una consuetudine, questa, impostasi quando la cultura araba, diffondendosi dalla Spagna, islamizzata in ogni sua parte dell’Europa civile, aveva associato lo studio dell’astrologia – che era, poi, tutt’uno con l’astronomia – ad altri rami dello scibile, in particolare la medicina, la giurisprudenza, l’alchimia. Ben presto l’astio o meglio l’avversione dei docenti assunse, nei confronti di Cecco, aspetti preoccupanti; per di più, questi osava adoperare un linguaggio, troppo spesso, offensivo, che lasciava duri strascichi di rancore. A un frate, che gli aveva domandato che cosa, secondo lui, facesse in cielo “il nostro padre San Francesco”, Cecco rispose che il Poverello, ancora non era entrato in Paradiso, perché avendo posto come regola di dovervi accedere a due a due, “dopo la morte sua, non ha hauto anchor compagno che sia arrivato a quella porta, ma colà aspetta la paternità vostra”. L’aneddoto, che viene anche attribuito a Dante Alighieri, è riferito, nel Codice Vaticano 4831, da Angelo Colocci [1474-1549], segretario di Papa Leone X [1475-1521].
Il 16 dicembre 1324, il grande inquisitore di Bologna, il frate domenicano Lamberto da Cingoli, pensò di avere in mano bastante materiale per fabbricare la corda, cui appendere il Maestro. Ma, o avesse sbagliato i calcoli o i suoi capi di accusa non risultassero sufficientemente solidi, o infine, si temesse di provocare una rivolta tra gli studenti, la condanna fu mitissima. Riconosciuto colpevole di aver tenuto discorsi contrari allo spirito della religione, Cecco venne punito con la perdita della cattedra e il sequestro totale delle opere, oltre che con altre penitenze trascurabili, come la recita quotidiana di un certo numero di preghiere, l’obbligo di digiunare le vigilie, e la multa di sessanta lire bolognesi da versare nelle casse dell’Inquisizione.
Dopodiché, Cecco d’Ascoli scompare: per qualche tempo sembra essersi sublimato tra le stelle, fino a far perdere ogni traccia di sé.
Tornò, forse, alla diletta Ascoli, dove ancora oggi, presso la vecchia Porta Romana, vi è una rua degli Stabili, che ci rammenta la non oscura famiglia da cui nacque?
Oppure si recò di nuovo a Parigi?
A Salerno?
Dovette, senza dubbio, starsene lontano da Roma, perché – è, ancora, Colocci a dirlo:
“Li fu predetto che doveva morire in Campo di Fiore” – la piazza ove si eseguivano le condanne capitali – “per il che fuggiva Roma: ma li advene quel che ad Hanibal […] Non possendo evitare il fato […]”
Nel maggio del 1327, ritroviamo Cecco tra i cortigiani al seguito del figlio del re di Napoli, Carlo d’Angiò, duca di Calabria [1298-1328], la cui “protezione” Firenze ha dovuto accettare, come il minore di tutti i mali, allorché le è divenuto impossibile, nel ribollire della discordia tra Ghibellini e Guelfi, tra Neri e Bianchi, salvaguardare, più a lungo, le libertà costituzionali così strenuamente difese.
È phisicus et astrologus et familiaris del duca, una posizione grazie alla quale dovrebbe godere prestigio e porsi al sicuro dagli attacchi dei nemici. Invece, con quel suo carattere marchigiano, ombroso, sincero e impulsivo, in breve tempo, non solo riaccende intorno a sé gli astiosi desideri di rivincita, che si è illuso di essersi lasciato alle spalle; ma ne suscita di nuovi.
La disputa con il celebre medico Dino [Aldobrandino] del Garbo […-1327], al quale ha, pubblicamente, rimproverato una colpa di plagio per alcuni commenti a testi classici, mettendolo alla gogna di fronte agli studenti, sarà la prima causa della sua sciagura.
E le altre?
In questo caso si può brancolare nel buio, ma non a lungo: l’ostilità di tutti i medici fiorentini, coalizzati contro di lui, non tardò a trovare eco a corte; e, quando il duca commissionò a Cecco di fare l’oroscopo della figlia, natagli a Firenze, nel 1326, erede della Corona angioina, poiché mancavano eredi maschi; l’astrologo non seppe obbedire alle squisite regole del vivere mondano. La piccina – la futura Giovanna I di Angiò, regina di Napoli, detta “la Pazza” [1343-1381], le cui disgrazie politiche, coniugali ed extra-coniugali sono così risapute e hanno dato tanto motivo di pietà e scandalo al mondo da rendere superfluo ogni chiarimento – dichiarò l’astrologo, doveva crescere intelligente, bella, destinata sicuramente a un trono; ma di “lussuria disordinata”, la quale lussuria la avrebbe condotta al precipizio. Profezia rivelatasi esatta, dunque, come sembra lo fossero tutte le altre predizioni, fatte sulla base degli oroscopi del mago-poeta-filosofo-astrologo ascolano; ma non certo atta a conciliargli le simpatie del padre di Giovanna. Infatti, quando l’ostilità del corpo medico fiorentino, capeggiato da del Garbo, riuscì a trovare rispondenza nel cancelliere di corte, il frate marsigliese Raymond de Maussac, Raimondo de Mausaco, che era, poi, vescovo di Aversa e apparteneva all’Ordine dei Minori Conventuali – più di una volta criticato e deriso da Cecco – il principe non mosse un dito per impedire che la vendetta si compisse.

“Un maestro Cecco d’Ascoli, che fu sottilissimo uomo in astrologia, e dicesi che disse e dicea contro alla fede, ma mai non lo confessò. […]; ma dicesi che la cagione perché fu arso fu che disse’ che Madonna Giovanna, figliuola dello Duca, era nata in punto di dovere essere in lussuria disordinata. Di che parve questo essere sdegno al Duca, perché non avrebbe voluto che fosse morto un tanto uomo per un libro. E molti vogliono dire ch’era nemico di quel frate Minore inquisitore e arcivescovo di Cosenza, perché i frati Minori erano molto suoi nimici. Di che il fece ardere a dì 16 di settembre 1327.”

Così Baldassarre Bonaiuti [1336-1386], detto Marchionne di Coppo Stefani[3] nella sua Cronaca Fiorentina riporta la notizia della condanna di Cecco.
Nel luglio del 1327, l’inquisitore di Firenze, Accursio Bonfantini[4], domandò all’Inquisizione di Bologna gli atti del primo processo contro Cecco d’Ascoli. Esiste una particolareggiata lista delle spese fatte per assicurarsi la sua persona, per mantenerlo in carcere, per offrire un lieve rinfresco di vino e frutta al cancelliere del duca, quando questi comparve in giudizio a deporre contro l’imputato. Come primo capo di accusa, vi è il commento all’opera cosmografica Tractatus de sphaera, noto anche come De sphaera mundi o semplicemente De sphaera dell’astrologo inglese John of  Holywood, Giovanni Sacrobosco, “il quale compose dettandoglielo il diavolo per sua dannazione”; e, poi, l’aver voluto erigere, perfino, l’oroscopo del Salvatore, e l’aver predicato molte eresie e falsità ai discepoli. Insomma, un cumulo di colpe, tuttavia, così inconsistenti e, in parte, non provate, che qualche storico ha voluto cercare in altri campi il motivo della condanna. E vi è stato anche chi ha pensato al “vizio greco”, come si definiva la sodomia, sebbene l’amore di Cecco d’Ascoli per una donna della sua città, dalla quale ebbe, probabilmente, una figlia illegittima, cui allude Colocci, nei suoi appunti, quando scrive “maritò una sua bastarda”, fosse cosa ben nota, divulgata da lui stesso, con poesie ardenti, intense, accorate che alcuni critici ritengono abbiano, notevolmente, influenzato il Petrarca.

“Perché è più freddo quando è più sereno?”
Dico che il vento che vien d’aquilone
Allora li vapor mette al declino;
Ma, respirando poi lo meridiano,
La sua caldezza li vapor compone
Sì che fa il tempo quasi dolce e piano.
“Perché è più freddo nascendo l’aurora
Che in mezza notte e quando il Sol si cela?”
Ché la rosata stilla giù in quell’ora.
In mezza notte l’ora vien più fredda
Ché più remoto è il Sole e più congela:
La sera è presso al Sole e non affredda.
“Perché d’estate son maggior le vampe,
La notte assai più che lo giorno, dico?
O tu che scrivi, la tua man no inciampe!”
Ché l’aquilone tien le penne strette
D’estate, perché regna il suo nemico,
Ma nel gelato tempo fuor le mette.
“Perché d’estate, quando è l’aere bruno,
Celato il Sole dalle nubi dense,
V’è sì gran vampa da languir ciascuno?”
Dico che allora il Sole è sì fervente
Ché scalda queste nubi e falle accense;
Poi la vampa nell’aëre si sente.
Anche ti voglio più espresso dire
Perché è più freddo nel tempo stellato:
Or qui m’ascolta, se ciò vuoi sentire.
Esala il caldo e l’umido su mena:
Per tale umidità l’aere è gelato
E la rosata piove allor ben piena.
Però nel freddo tempo e nello fosco,
Che il caldo si riserva e non esala,
Brina non cade né in prato né in bosco.
E tu a me: “Perché vedem la stella
Fuggir per l’aria sin che in terra cala?”
Di ciò ti voglio dir certa novella.
Non caggiono le stelle da le spere,
Ché l’una copreria tutta la terra;
Ma il vento, che da quella parte fere,
Muove per l’aria li vapor focati.
Dicono certi che nel cielo è guerra:
Or questi son li semplici dannati.
“Perché chiamando in Ascoli tu senti,
Presso alle mura delle oneste donne,
Con simil voce rispondere i venti?”
Dico che l’aria questa voce porta,
Trova l’opposto che riflette l’onne
Sì che la voce torna qui ritorta.
E tu a me: “Or questa Galassia,
Secondo la sentenza del Magistro,
Voglio saper da te che cosa sia.”
Dico, secondo l’altra opinïone:
Ma non prendessi l’altra nel sinistro,
Ché ciò non forma la mia intenzione.
Sopra noi molte stelle troppo spisse,
Che illuminando fanno la chiarezza,
Son dell’ottava sfera stelle fisse.
Son strette sì, che l’una l’altra tocca:
Così si mostra la bianca bellezza.
Questa è la via della gente sciocca.
E tu a me: “Or di’ s’io dico bene:
Altro vento non è che d’aria moto.
Ormai di dubitar qui mi conviene.
Perché, quando comincia primavera,
D’inverno, e quando autunno sta remoto,
Regna l’australe con la spessa schiera?”
Dico che il Sole che leva li fiati
D’inverno ascende verso quella parte,
E li scalda nei tempi nominati;
E l’aquilone respira d’estate
E intanto il Sole di lì non si parte,
Secondo sue nature limitate.
“Perché lo vento che vien dall’oriente
D’essere sano porta più la voce
Che non sia l’altro che vien da ponente?”
Dico che il Sole con li dolci raggi
Purificando sempre lo conduce.
Or guarda che in error di ciò non caggi.
“Perché vien dalla bocca freddo e caldo
Il fiato?” Dico, quando alita l’uomo,
Vien congregato il fiato e tutto saldo;
Soffiando, ne vien l’aere congregato,
Però vien freddo: tu vedi ben como.
Or tu medesmo ve’ se t’ho ingannato.
E tu a me: “Di’, come prende forma
Dal cuor dolente e ne nasce il sospiro
Quando del suo pensier l’alma s’informa?”
Non spira l’uomo, onde s’infiamma il cuore;
Poi tira l’aria sentendo il martiro,
Sì che il sospir, languendo, manda fuore.
Con più pensier, più sospiro si spande,
Ché, quanto più del tempo il pensier fura,
Cotanto è più dell’aria il tratto grande.
Contenta l’alma lo sospir d’amore,
E certa gente forma la natura,
Che, desïando, nel sospir si muore.
Io mi ricordo che già sospirai
Sì nel partire da quel dolce loco,
Ch’io dir non so perché il cuor non lasciai.
Sperando di tornar, passo martiri
Struggendosi lo core a poco a poco
‘Nanzi ch’io tragga gli ultimi sospiri.
Oimè quegli occhi da cui son lontano,
Oimè memoria del passato tempo,
Oimè la dolce fe’ di quella mano,
Oimè la gran virtù del suo valore,
Oimè, che il mio morir non è per tempo
Oimè, pensando quanto è il mio dolore!

Da questa lunga sequela di oimé, nel Quarto Canto dell’Acerba etas, che Cecco di Ascoli scrisse,  forse, in prigione, mentre era in attesa della sentenza, il pensiero corre subito al primo sonetto di messer Francesco in morte di Laura:

Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo,
Oimè il leggiadro portamento altero;
Oimè il parlar ch’ogni aspro ingegno et fero
Facevi humile, ed ogni huom vil gagliardo!

Et oimè il dolce riso, onde uscío ‘l dardo
Di che morte, altro bene omai non spero:
Alma real, dignissima d’impero,
Se non fossi fra noi scesa sí tardo!

Per voi conven ch’io arda, e ‘n voi respire,
Ch’i’ pur fui vostro; et se di voi son privo,
via men d’ogni sventura altra mi dole.

Di speranza m’empieste et di desire,
Quand’io partí’ dal sommo piacer vivo;
Ma ‘l vento ne portava le parole.

E non è che un esempio!
Il 16 settembre 1327, alcuni giorni dopo aver scritto le ultime righe del suo poema didascalico in sestine[5], destinato a restare incompiuto al V libro:

Ora piangete, dolenti occhi miei,
Poi che, morendo, non vedete lei.

Cecco[6] venne arso insieme ai suoi libri, davanti alla Basilica di Santa Croce, a Firenze.

“Alla presenza di un popolo innumerabile [...] fu letto il sunto e ristretto del Processo et ad ogni capo domandando a Cecco se fusse uero, con diabolica presunzione diceua: l’ho detto, l’ho insegnato e lo credo.”[7]

Si comminarono pene durissime per chiunque, di qualsiasi grado o sesso, conservasse, leggesse o riferisse ad altri sul contenuto delle sue opere. Tuttavia, l’Acerba etas, ritenuto “libro di consultazioni semantiche” al pari dell’Eneide di Virgilio e del Divan di Hafez, sia pure con varianti e correzioni apocrife, avrebbe avuto, fino al 1550, trenta edizioni. 
Poco meno di quante ne ebbe, nello stesso periodo, la Divina Commedia!



A distanza di due settimane appena dall’iniquo, atroce supplizio, anche il nemico principale di Cecco d’Ascoli, il medico Dino del Garbo, colto da malattia improvvisa e mortale, cessava di vivere. 
Attraverso alcuni registri contabili sappiamo che dalla vendita dei beni del condannato si ricavarono appena tre fiorini e mezzo.
Il profondo amore per il sapere e il disprezzo di Cecco per il denaro, dichiarati nei versi dell’Acerba etas, erano, dunque, sinceri, testimonianza di una vita spesa, incessantemente, a interrogarsi sul quia delle cose.

“Non è virtù non dubitar al mondo.”

Il dubbio, il rifiuto di accettare una qualunque proposizione, fintanto che resta una obiezione da opporle, è il metodo che Cecco in tutta l’Acerba etas espone e raccomanda come procedimento metodologico del filosofo naturale.

“Tutta la conoscenza scientifica è incerta; gli scienziati sono abituati a convivere con il dubbio e l’incertezza. Questo tipo di esperienza è prezioso e, a mio modo di vedere, anche al di là della scienza. Nell’affrontare una nuova situazione bisogna lasciare aperta la porta sull’ignoto, ammettere la possibilità di non sapere esattamente come stanno le cose; in caso contrario, potremmo non riuscire a trovare le soluzioni.
Quando uno scienziato dice di non sapere la risposta, si rende conto di essere ignorante. Quando dice che ha una vaga idea di cosa succederà, è incerto. Quando è abbastanza sicuro e dice “Scommetto che andrà così”, ha ancora qualche dubbio. Ed è di primaria importanza, ai fini del progresso scientifico, riconoscere il valore di questa ignoranza e di questo dubbio. Il dubbio ci spinge a guardare in nuove direzioni e cercare nuove idee. Il progresso della scienza non si misura solo dalla quantità di nuovi esperimenti, ma anche, molto più importante, dall’abbondanza di nuove ipotesi da verificare.
Se non si potesse, o volesse, guardare in nuove direzioni, se non si avessero dubbi, o non si riconoscesse il valore dell’ignoranza, non si riuscirebbero ad avere idee nuove. Non ci sarebbe nulla che valga la pena di verificare, perché sapremmo già cos’è vero e cos’è falso. Quindi ciò che oggi chiamiamo “conoscenze scientifiche” è un corpo di affermazioni a diversi livelli di certezza. Alcune sono estremamente incerte, altre quasi sicure, nessuna certa del tutto. Noi scienziati ci siamo abituati, sappiamo che è possibile vivere senza sapere le risposte. Mi sento dire: “ Come fai a vivere senza sapere?”. Non capisco cosa intendano. Io vivo sempre senza risposte. È facile. Quello che voglio sapere è come si arriva alla conoscenza.
Questa libertà di dubitare è fondamentale nella scienza e, credo, in altri campi. C’è voluta una lotta di secoli per conquistarci il diritto al dubbio, all’incertezza: vorrei che non ce ne dimenticassimo e non lasciassimo pian piano cadere la cosa. Come scienziato, conosco il grande pregio di una soddisfacente filosofia dell’ignoranza, e so che una tale filosofia rende possibile il progresso, frutto della libertà di pensiero. E come scienziato sento la responsabilità di proclamare il valore di questa libertà, e di insegnare che il dubbio non deve essere temuto, ma accolto volentieri in quanto possibilità di nuove potenzialità per gli esseri umani. Se non siamo sicuri, e lo sappiamo, abbiamo una chance di migliorare la situazione. Chiedo la stessa libertà per le generazioni future”.
Richard Phillips Feynmam, Il senso delle cose
[https://www.youtube.com/watch?v=Kgivi57N8Tc]

Con queste parole Richard Phillips Feynmam, Premio Nobel per la Fisica, nel 1965, ci spiega il valore del dubbio nella scienza e nella vita.


Daniela Zini
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Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?

















[1] Celeberrimo è il giudizio sprezzante che, nell’Acerba etas, la sua opera più famosa, Cecco d’Ascoli riservò a Dante Alighieri, colpevole di cantare “come le rane […] immaginando cose vane”.

[3] Questa sintetica informazione del cronista fiorentino contiene, tra l’altro, anche un errore di non secondaria importanza: il vescovo minorita, che, secondo l’autore sarebbe stato inquisitore e nemico di Cecco, non era affatto inquisitore, e, soprattutto, non era vescovo di Cosenza, ma di Aversa, come riporta giustamente l’altro cronista contemporaneo, Giovanni Villani.

[4] Accursio Bonfantini, vissuto nel secolo XIV, francescano di nobile famiglia fiorentina, che ricoprì la carica di inquisitore di Toscana, dal novembre del 1326 all’agosto del 1329.
[5] Chiamate “mosse” dall’autore.

[6] Cecco d’Ascoli seguì, quindi, la medesima sorte di altri intellettuali del suo tempo, quali Pietro d’Abano, che fu amico di  Marco Polo e visse, a lungo, a Costantinopoli dove apprese il greco e l’arabo e studiò, in originale, i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Accusato per ben tre volte dal Tribunale dell’Inquisizione di eresia, nel 1300, nel 1306 e, probabilmente, nel 1312, fu prosciolto le prime due volte. L’ultima, morì in prigione a causa delle torture subite, un anno prima della fine del processo. A seguito della condanna, il suo cadavere fu dissotterrato per essere arso sul rogo.

[7] Augusto Beccaria, I biografi di Maestro Cecco d’Ascoli e le fonti per la sua storia e la sua leggenda.