“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 27 gennaio 2014

CRIMINI DI GUERRA, CRIMINI CONTRO L’UMANITA’ di Daniela Zini


 



“Cessate infine di ripetere che Auschwitz non si spiega, che Auschwitz è il frutto di forze irrazionali, inconcepibili per la ragione, perché il male ha sempre una spiegazione razionale. Ascoltatemi bene, ciò che è realmente irrazionale e che non ha veramente spiegazione, non è il male, al contrario: è il bene.”
Imre Kertész (1929), scrittore ungherese, deportato ad Auschwitz, nel 1944, Premio Nobel della letteratura 2002, Kaddish a meg nem született gyermekért (Kaddish per un bambino che non nascerà), 1990 
 

Il 1° novembre 2005, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adotta una risoluzione “storica”, che proclama il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz, “Giornata Internazionale di Commemorazione in Memoria delle Vittime dell’Olocausto”, per ricordare i crimini del passato e prevenire atti di genocidio in futuro. Il 24 gennaio dello stesso anno, l’Assemblea aveva commemorato, per la prima volta, il 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti in una sessione storica. Più di trenta personalità avevano preso la parola per rendere omaggio alle vittime dei carnefici nazisti ed esortare la comunità internazionale a trarre lezione  da quanto accaduto ad Auschwitz.

“I genocidi in Cambogia e in Rwanda non sarebbero mai dovuti accadere e quanto accade nel Darfur, nell’indifferenza generale, non dovrebbe verificarsi. Il mondo non trarrà, dunque, mai insegnamento da quanto è accaduto ad Auschwitz e negli altri campi della morte?”

si era chiesto, il Premio Nobel della pace, sopravvissuto ai campi di concentramento nazista, Elie Wiesel, e aveva proseguito:

“Noi sappiamo che per i morti è troppo tardi. Per loro, abbandonati da Dio e traditi dall’umanità, la vittoria è venuta troppo tardi. Ma non è troppo tardi per i bambini di oggi, i nostri e i vostri. È solo per loro che noi testimoniamo.”



Più di 6 milioni di ebrei, di cui almeno 1,2 milioni di bambini sono stati sterminati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, dei 9 milioni che vivevano in Europa alla vigilia della guerra. Nei campi della morte sono periti circa mezzo milione di zingari e circa 250.000 portatori di handicap, nonché migliaia di oppositori al regime, di intellettuali e di omosessuali.
Sessantacinque anni fa, il 27 gennaio 1945, alla liberazione del campo di Auschwitz, l’esercito rosso scopriva 7.000 sopravvissuti, di cui 200 bambini,  mantenuti in vita come cavie per gli esperimenti degli scienziati nazisti.
Numerosi ebrei sopravvissuti all’Olocausto hanno testimoniato l’orrore che hanno vissuto nei campi. A lungo, hanno avuto difficoltà a essere ascoltati. La Polonia comunista ha sempre mantenuto un silenzio sul fatto che i campi facessero parte di un sistema concepito per sterminare specificamente il popolo ebreo.
Raccontare quanto accadde è importante perché questo non accada più. I sopravvissuti all’Olocausto sono, oggi, molto anziani e, ben presto, non potranno più testimoniare. Spetta, quindi, alle nuove generazioni conservare la memoria.
 La storia recente e i testi antichi, quali la Bibbia, abbondano di racconti di sterminio.
E, dunque, si devono mettere nello stesso sacco i genocidi, i massacri di guerra, i crimini contro l’umanità…?
Per evitare ogni confusione, lo storico Bernard Bruneteau, ricorda l’importanza di una definizione rigorosa dei concetti di crimine contro l’umanità e di genocidio.
La distinzione tra crimine di guerra e crimine contro l’umanità è introdotto dall’Accordo di Londra dell’8 agosto 1945, nello Statuto del Tribunale Militare Internazionale che ha giudicato a Norimberga i criminali nazisti.
È il primo utilizzo di questo concetto da… Robespierre.
 

L’Accordo di Londra definisce il crimine di guerra come “l’assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e qualsiasi altro atto inumano commesso ai danni di una qualsiasi popolazione civile, prima e durante la guerra, ovvero le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi” (articolo 6). Si può notare come questa definizione sia ristretta al quadro della seconda guerra mondiale. Non sia generica. La sua conseguenza giuridica fondamentale è di essere imprescrittibile: i suoi autori possono essere perseguiti fino all’ultimo giorno della loro vita, si tratta di uno “strappo” a un principio giuridico immemorabile che deve essere usato con precauzione.
Più tardi, nella prima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’11 dicembre 1946, con la Risoluzione 96, è definito il concetto di genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani”, che questi “gruppi razziali, religiosi, politici o altri, siano stati distrutti interamente o in parte”. Il genocidio entra così nella categoria dei crimini contro l’umanità. Ma l’allusione al fatto politico dispiace all’URSS, che ha molto da biasimarsi. E, la definizione è edulcorata nell’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 9 dicembre 1948 (1) che definisce come genocidio “atti commessi nell’intenzione di distruggere, interamente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. L’esclusione del fatto politico fa ancora dibattere gli specialisti, così come sottolinea Bernard Bruneteau, perché porta a escludere, a esempio, il massacro degli Hutu moderati dal genocidio dei Tutsi, nel 1994, e non tiene conto, secondo lui, di una constatazione evidente:

“I genocidi commessi contro dei gruppi razziali, etnici o religiosi sono generati sempre da conflitti o da considerazioni ideologico-politiche.”

Bernard Bruneteau mette in guardia da una doppia deriva: 
la prima, ultrarestrittiva, vede nell’Olocausto (lo sterminio degli ebrei) il solo vero genocidio; stabilisce, a esempio, una differenza tra la pretesa “razionalità” dei crimini staliniani, commessi in nome di un ideale onorevole, e l’assoluta “irrazionalità” dei crimini nazisti; 
la seconda, estensiva, induce a qualificare genocidio o crimine contro l’umanità tutti i misfatti di una certa ampiezza rischiando di negare ogni pertinenza a questi concetti.
L’antisemitismo è antico in Europa come lo attestano i numerosi progroms che hanno insanguinato i paesi europei, dal medioevo alla fine del XIX secolo. Ma l’antisemitismo nella sua forma “moderna” e “razziale” appare nel XIX secolo. In Germania, Wilhelm Marr (3) fonda una lega antisemita e, in Francia, Joseph Arthur de Gobineau scrive Essai sur l’inégalité des races. Edouard Adolphe Drumont pubblica, nel 1886, La France juive.
Tuttavia, nulla predisponeva la Germania a sviluppare un antisemitismo più radicale che avrebbe condotto al genocidio. Al contrario, l’emancipazione degli ebrei tedeschi per tutto il XIX secolo aveva favorito la loro integrazione in seno alla società.
Dalla sua origine l’antisemitismo fu un tema ripreso e sviluppato dai movimenti e dai partiti di estrema destra di tutti i paesi europei, come mostra il caso Dreyfus, in Francia.
Nel 1924, il partito nazista è ancora molto piccolo, quando Adolf Hitler esce di prigione, dove ha scritto Mein Kempf. Per accrescere il suo pubblico Hitler deve attendere la crisi economica che inizia negli Stati Uniti, nel 1929, e colpisce la Germania, con estrema violenza, dal 1930. La maggior parte dei militanti del partito nazista è, allora, costituita da piccoli commercianti e da esercenti le libere professioni, schiacciati dalla crisi e soggetti alla crescente concorrenza delle grandi imprese.
Al di là di questa base sociale, Hitler, che si è lanciato in una strategia elettorale, cerca di attirare i sei milioni di disoccupati che conta la Germania e di allargare il suo elettorato tra gli operai. Di più, tenta di ottenere il sostegno dei grandi capitalisti, che per fronteggiare la crisi  economica, sognano di un partito capace di spezzare con forza tutte le organizzazioni operaie. Queste classi sociali hanno, naturalmente, interessi contraddittori. L’antisemitismo è allora l’elemento fondamentale che permette di fondere nello stesso partito elettori provenienti da orizzonti diversi. Gli ebrei, che Hitler assimila volentieri al socialismo e al comunismo sono qualificati parassiti viventi del lavoro del popolo tedesco e ritenuti responsabili dalla propaganda nazista di tutte le disgrazie che colpiscono la Germania.
Quando la guerra scoppia, nel 1939, diviene sempre più difficile considerare la deportazione massiva degli ebrei in territori che non siano sotto il controllo tedesco e i nazisti pianificano di concentrare gli ebrei in riserve situate nei territori conquistati nell’est dell’Europa.
Eì, nel 1940, è creato a Lods il primo grande ghetto che raggruppa 150.000 ebrei.
Il 20 maggio 1941, Goering afferma che, per una “soluzione finale della questione ebraica”, vorrebbe indurre con tutti i mezzi gli ebrei tedeschi alla partenza.   
La repressione di ogni opposizione interna e le condizioni di guerra rendono la situazione arroventata. Nonostante le violenze e le persecuzioni, tuttavia, sembra che i nazisti non prendano ancora in considerazione lo sterminio degli ebrei. Pensano, a esempio, nel giugno del 1940, di deportare gli ebrei in Madagascar. Eppure, l’ideologia nazista con la violenza del suo antisemitismo lasciava già intravedere i massacri a venire. Il 30 gennaio 1939, Hitler in un discorso al Reichstag dichiarava:

“Se la giudecca internazionale, in Europa e al di là dell’Europa, spingesse ancora una volta i popoli alla guerra mondiale, il risultato non sarebbe la bolscevizzazione della terra e la vittoria degli ebrei, ma la distruzione della razza ebrea in Europa.”

Fino al 1941 la Germania nazista riporta una serie di vittorie militari folgoranti. La guerra-lampo ha permesso di vincere e di occupare in poche settimane la Polonia e, poi, la Francia, il Belgio, i Paesi Bassi… Ma con l’invasione dell’URSS, il 22 giugno 1941, la guerra cambia natura: ormai la guerra diviene totale, la Germania deve impegnare tutte le sue risorse in questa “guerra di annientamento” per sperare di vincere il giudaico bolscevismo.
Dall’inizio dell’invasione, sotto l’autorità di Reinhard Tristan Eugen Heydrich erano state create delle unità speciali della polizia e delle SS (4), le Einsatzgruppen, incaricate di giustiziare, dapprima, i membri dell’intellighenzia, poi, tutte le famiglie ebree. Anche se dall’estate del 1941, i nazisti hanno intrapreso lo sterminio degli ebrei sovietici, questa decisione non concerneva ancora gli altri ebrei.
Il 31 luglio 1941, Goering domanda a Heydrich “di apportare alla questione ebraica, sotto la forma dell’emigrazione o dell’evacuazione, la soluzione più favorevole”.    
La decisione di procedere al genocidio, vale a dire alla volontà di sterminio dell’insieme della popolazione ebrea dell’Europa, è presa, solo progressivamente, nel corso dell’autunno del 1941, quando i primi rovesci dell’esercito tedesco sul fronte russo annunciano il fallimento della guerra-lampo.
La seconda potenza economica mondiale mette allora in opera tutti i mezzi di cui dispone a profitto della sua follia criminale. I nazisti applicano per il genocidio gli stessi metodi degli industriali alle loro imprese: bisogna essere più rapidi, più redditizi. Le esecuzioni per fucilazione sono troppo lente e troppo traumatizzanti per gli esecutori, allora i nazisti procedono alla gasazione, all’inizio in camion mobili, poi, nei campi di sterminio, vere officine dove è messo a punto l’assassinio industriale.
Il 20 gennaio 1942, una quindicina di dignitari nazisti e di ufficiali delle SS si riuniscono in una villa sulle rive del Lago di Wansee, su invito di Heydrich, e mettono a punto la deportazione degli ebrei dell’ovest dell’Europa nei campi di concentramento situati in Polonia.
Il genocidio perpetrato dai nazisti è il più efferato del XX secolo.
Un genocidio non si distingue dalle persecuzioni commesse da uno Stato unicamente per il numero dei morti ma per la sua stessa natura. Generalmente uno Stato, che perseguita una parte della sua popolazione, cerca di espellerne una parte. Più spesso ancora tenta di sottometterla con la violenza  per poter continuare a sfruttarla. Nel caso di un genocidio, le barriere della razionalità sono oltrepassate, il fine dello Stato non è di sottomettere, ma di sterminare tutta una popolazione. Il genocidio commesso dal regime nazista non si può comprendere senza ricordare che il razzismo è al centro dell’ideologia di Hitler, per il quale la storia del mondo si realizza nella lotta delle razze superiori contro le razze inferiori.
È sempre stato difficile dare una spiegazione all’Olocausto, talmente rappresenta l’indicibile, l’orrore assoluto. Ma, questo genocidio inimmaginabile fu il risultato indiretto della crisi del capitalismo negli anni 1930. Per risolvere la crisi, i datori di lavoro tedeschi erano pronti a dare il controllo dello Stato tedesco all’organizzazione nazista, che rappresentava la follia paranoica della piccola borghesia.
Con i mezzi dello Stato più industrializzato d’Europa, le conseguenze non potevano non essere orribili.
Gli eventi dimostrano che non vi è limite agli orrori del capitalismo in crisi.




Note:
(1) Art. II: Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale:
(a) uccisione di membri del gruppo;
(b) lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
(c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
(d) misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;
(e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

(2) Pogrom è un termine storico di derivazione russa (Погром, che, in italiano, significa letteralmente distruzione), con cui vengono indicate le sommosse popolari antisemite, e i conseguenti massacri e saccheggi, avvenuti in Russia al tempo degli zar,  tra il 1881 e il 1921, con il consenso - se non con l'appoggio - delle autorità.

(3) Wilhelm Marr (1819-1904), autore dell’opuscolo Der Weg zum Siege des Germanentums über das Judentum (La strada verso la vittoria del Germanismo sul Giudaismo) fonda, nel 1879, la Antisemiten-Liga (Lega Antisemita), la prima organizzazione tedesca impegnata specificamente nel combattere la presunta minaccia posta alla Germania dagli ebrei, che sostiene la loro rimozione forzata dal paese. Marr rappresenta un importante anello della catena evolutiva del razzismo tedesco che sfocia nel genocidio dell'epoca nazista.

(4) Le SS – abbreviazione del tedesco Schutzstaffeln (reparti di difesa) – erano un'unità paramilitare d'élite del Partito Nazista. Vengono formate reclutando appartenenti delle SA, nel 1925, per essere la guardia personale di Adolf Hitler e per sorvegliare i raduni del partito. Il 6 gennaio 1929, Hitler nomina Heinrich Himmler capo delle SS, le quali contano, al momento, solo 280 uomini. Con l'approvazione di Hitler, Himmler amplia i ranghi delle SS e, alla fine del 1932, si calcolano ben 52.000 membri. Dopo un solo anno supereranno i 209.000 uomini.


Daniela Zini
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domenica 26 gennaio 2014

conferenza-dibattito: PROSTITUZIONE DI STATO O STATO DI PROSTITUZIONE? prostituzione in Europa: 65 anni di reticenza di Daniela Zini


COMUNICATO STAMPA


Giornata Internazionale della Donna 2014






conferenza-dibattito:


PROSTITUZIONE DI STATO O STATO DI PROSTITUZIONE?
prostituzione in Europa: 65 anni di reticenza
a cura di Daniela Zini
venerdì 7 marzo 2014 – ore 17.00
Odradek la Libreria via dei Banchi Vecchi, 57 – Roma 

65 anni fa, il 2 dicembre 1949, un anno dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, in un clima di speranza umanista, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava, con la risoluzione 317 (IV), la Convenzione per la soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui, che entrava in vigore il 25 luglio 1951.
Quantunque la maggioranza dei Paesi europei abbia ratificato la convenzione, pochissimi di loro la rispettano. Dalla metà degli anni 1990, assistiamo a un importante movimento su scala mondiale: la prostituzione è banalizzata e legittimata.
Noi, organizzazioni di donne, abbiamo, sempre, messo in evidenza il legame tra prostituzione e tratta di esseri umani, perché è palese che la tolleranza europea verso il sistema prostituivo permette e alimenta la tratta di esseri umani e il loro sfruttamento sessuale nei nostri Paesi.
Di e a fronte della espansione – sia a livello europeo (prostituzione), sia a livello internazionale (tratta degli esseri umani a fini di prostituzione e di pornografia, turismo sessuale) – del fenomeno dello sfruttamento sessuale, una delle peggiori forme di negazione dei diritti fondamentali dell’essere umano, strettamente, collegata a fattori propri alla mondializzazione neoliberista, DONNE IN DIVENIRE chiede, in occasione di questo 65° anniversario, alle istituzioni europee e agli Stati membri di impegnarsi a:
esigere la soppressione di ogni misura repressiva verso le persone prostituite e le vittime della tratta di esseri umani;
lottare contro ogni forma di prossenetismo e rifiutare la legalizzazione;
lanciare campagne di dissuasione verso i clienti prostitutori e - fissare norme che vietino ogni vendita di servizi sessuali;
promuovere opportunità alternative per tutte le persone che vogliono abbandonare la prostituzione; 
attuare politiche di prevenzione della prostituzione e di educazione a una sessualità rispettosa dell’Altro.

Daniela Zini

venerdì 24 gennaio 2014

LETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA ANNAMARIA CANCELLIERI di Daniela Zini



   


Signora Ministra Cancellieri,

ho deciso di scrivere una lettera aperta e di mandarla nell’aere a lei, nella sua duplice veste di Ministro dell’Interno, nel precedente governo Monti, e di Ministro della Giustizia, nell’attuale governo Letta, perché io non sono uno dei suoi amici con un caso umano da proporle al numero del suo cellulare, anche se tengo a precisare che, seppure lo fossi, non ne approfitterei, di certo, per avere il giusto, sapendo di essere nel giusto.
Io ho, sempre, considerato l’Amicizia una responsabilità, mai una opportunità!
Domenica scorsa, mi sono sorpresa a fare questa considerazione.
In Israele, con la morte, viene condonata ogni violazione ai diritti altrui, commessa, in vita, da un individuo.
In Italia, con la morte, viene condonata ogni violazione ai propri diritti, subita, in vita, da un individuo.
La giustizia, quella umana, naturalmente, è molto FLOU.
L'Italia è un Paese “garantista”, si sa, non è il Kerala!
Perdonare sempre e comunque?
Nell’animo, sì, è doveroso non conservare rancore verso chiunque, ma è opportuno operare dei “DISTINGUO”.
Se non si pone un limite, che duri nel tempo, si rischia di perdere di vista ciò che è BENE e ciò che è MALE.
Con un “ATTEGGIAMENTO BUONISTA”, in pratica, è come dire:
“Fai pure, tanto per me va bene!”
Un lasciapassare, un assecondare comportamenti “NON ORTODOSSI”, in nome di un “BUONISMO” di maniera, che rischia di perpetuarsi.
È uno strano Paese questo Paese, che non estingue i “DOVERI” di un MORTO, ma ne estingue i DIRITTI!
Perché le scrivo?
Perché da un anno e mezzo io attendo Giustizia da questo Paese, che si considera uno Stato di diritto, per il defunto Fausto Zini e, sua nipote, Assunta Zini, io, per l’appunto.

Come essere un buon cittadino?
Come rendersi utile alla società?
Come fare per fare del proprio Paese un Paese migliore in cui vivere?
Ogni Paese è retto da leggi che fissano ciò che si può fare, ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Ai diritti, infatti, si accompagnano dei doveri – a esempio, il diritto di libertà religiosa sancisce il dovere di rispettare la fede altrui – e, in eguale misura, ai diritti si accompagnano delle responsabilità verso l’insieme della comunità, a esempio, il diritto ai servizi sociali impone che si debbano pagare imposte che li finanzino. 
Conoscere la legge è responsabilità di ciascuno.
Conoscere i propri diritti permette di prendere il proprio destino in mano.
In Italia, vi è una sola Carta Costituzionale che si applica in tutto il Paese. Definisce e garantisce i diritti fondamentali della persona, ma nessuno di questi diritti fondamentali è assoluto. I diritti fondamentali non possono servire a compromettere i diritti fondamentali altrui.
In Italia, tutte le leggi sono rese pubbliche. Non vi sono leggi segrete. Se si infrange una legge, non è una difesa pretendere di non conoscere la legge che si è infranta.
Perché noi Italiani sentiamo il diritto-dovere di denunciare gli abusi di cui siamo vittima?
Perché noi Italiani crediamo fortemente nel primato del diritto e nell’eguaglianza. Noi Italiani rispettiamo le decisioni democratiche, le leggi e le politiche anche se non le condividiamo. E, come Italiani, abbiamo la responsabilità di sostenere la carta dei diritti, che significa difendere i nostri diritti e proteggere i diritti altrui.
Vi è anche una ragione pratica che ci induce a rispettare la legge. Quando il governo adotta leggi o programmi, cui noi assentiamo totalmente, noi vogliamo che anche gli Altri vi si conformino, anche se non li condividono. Se noi non rispettassimo che le leggi o i programmi che ci convengono, la nostra società sarebbe, sempre, nel caos. Naturalmente, se noi dissentiamo da una legge o da un programma di governo particolare, noi abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per cambiarli, attraverso un processo democratico.
Ma il primato del diritto ha anche un altro significato. Quale che sia il nostro status nella società, tutti, indistintamente, dobbiamo osservare le stesse leggi. Operai, imprenditori, impiegati, quadri, magistrati, politici, dobbiamo osservare la legge, come ogni altro cittadino italiano o di altra nazionalità.

Io, a volte, ho l’impressione di vivere ai margini della società, da quando ho denunciato illeciti.
E ne pago un prezzo altissimo.
Chi viene, direttamente, leso dalla commissione di un reato, patisce conseguenze anche in termini di pregiudizio fisico, patrimoniale e psicologico.
È orribile da vivere e sta distruggendo la mia vita!
Come stupirsi, dunque, che vi sia così poca fiducia nella Giustizia?
Vorrei dire a chiunque di pensarvi due volte prima di farlo. La tendenza è di archiviare, spesso de plano, senza svolgere alcun atto di indagine.
Ma, allo stesso tempo, SÌ, lo rifarei.
Perché vi sono cose inaccettabili nella vita, che si deve essere capaci di denunciare, per impedire che accadano ancora… ancora… e ancora…
L’aiuto e la vicinanza della Polizia di Stato sono stati determinanti nell’affrontare e nel gestire la mia vicenda personale. Il loro operato è stato encomiabile e la mia gratitudine imperitura.

Complice il progressivo invecchiamento della nostra popolazione, quello delle badanti e delle colfs è un mercato con molte zone d’ombra, caratterizzato da una elevata percentuale di lavoro nero e dominato dalla presenza di extra-comunitari, spesso irregolari, sui quali ingrassano organizzazioni, che speculano sulle loro difficoltà. Nella maggior parte dei casi, la ricerca di badanti e di colfs è affidata al passaparola tra amici, conoscenti e parenti. In rari casi, ci si rivolge a una agenzia o a un servizio messo a disposizione da enti pubblici. Le famiglie, che cercano una badante e una colf, hanno bisogno di trovare una persona affidabile ed efficiente, e, tuttavia, sono poco informate sul titolo di studio e sul passato lavorativo delle badanti e delle colfs scelte.
Per combattere l’illegalità che caratterizza le professioni di badanti e di colfs, si debbono intraprendere nuove strade.

Noi diamo ai nostri rappresentanti eletti il potere diretto di stabilire le leggi della nostra società. Diversamente da altre società, i nostri rappresentanti restano, sempre, responsabili di fronte a noi Italiani.
La responsabilità comporta, innanzitutto, che i nostri rappresentanti eletti debbano renderci conto delle loro azioni. Durante le campagne elettorali, i nostri rappresentanti eletti debbono, infatti, spiegare e giustificare le loro azioni, se vogliono che noi li rieleggiamo. Secondariamente, come cittadini, noi abbiamo il diritto di partecipare alla Democrazia, lavorando per incidere, in modo significativo, nell’elaborazione delle leggi e dei programmi di governo.
I cittadini debbono poter fare molto più che andare, semplicemente, a votare alle elezioni ogni quattro o cinque anni.

Io ho l’impressione che l’Italia non si dia, sempre, i mezzi sufficienti per mettere in opera un arsenale giuridico relativamente completo, che offra un alto livello di protezione in materia di tutela dei diritti.
Sembra così sussistere, in certi campi, un fossato che può rivelarsi molto largo tra ciò che enunciano i testi e la pratica.
Che cosa resta della giustizia degli uomini, se un atto - rilevante giuridicamente - non tanto non sia esistito, quanto non porti avanti la serie dei suoi effetti?
Questo per il diritto vuol dire la negazione: se al diritto si toglie la prevedibilità sicura di una serie di effetti, necessariamente innescati da un fatto o – ancor più – da un atto, se ne nega la stessa struttura, lo stesso metodo, quale supporto necessario di efficacia o – a un altro livello – di credibilità.
Se ne potrebbe dedurre che ogni fede nella giustizia umana sia vana…
Quanto, poi, alla Giustizia divina superiore e giusta ha i suoi tempi!
Non a caso una delle principali obiezioni laiche al Cristianesimo è l’“ingiustizia del mondo”.
Naturalmente, tutti i nostri diritti non possono essere garantiti dalla legge.
Regole fondamentali che concernono il rispetto degli Altri debbono, egualmente, essere un modo di vita per ognuno di noi. Anche quando i nostri diritti sono garantiti dalla legge, la legge sola non è sufficiente a proteggerli. Perché la Giustizia trionfi, tutti noi cittadini dobbiamo prendere un impegno personale verso i  valori democratici e metterli in pratica attivamente nella nostra vita quotidiana. Senza questo impegno, la legge che “garantisce” i nostri diritti perderebbe il suo spirito democratico.  
La vitalità della Giustizia in Italia dipende dall’impegno di tutti noi Italiani verso i valori democratici che noi condividiamo.  

Roma, 15 gennaio 2014


sua sfiduciata, ma non rassegnata
Assunta Daniela Zini

Copyright © 15 gennaio 2014 ADZ

LETTERA APERTA A SUA SANTITA’ PAPA FRANCESCO I di Daniela Zini


“Iniziate con il fare ciò che è necessario, poi, ciò che è possibile.
E, all’improvviso, vi sorprenderete a fare l’impossibile.”
San Francesco di Assisi




Roma, 7 dicembre 2013

In certi momenti della Storia, il destino sembra esitare tra ora e malora, come se attendesse la venuta di qualcuno, ma, solitamente, non viene nessuno. Ed è in questi momenti di incertezza che l’Umanità si domanda, sempre, cosa riservi l’avvenire.
Ogni imprenditore sa, perfettamente, che, quando esiste una domanda, vi è, sempre, qualcuno disposto a farsi avanti per soddisfarla. Nel gergo aziendale, se si può trarre anche un solo centesimo, qualcuno, di certo, ne approfitterà. Fino dai primi giorni degli Anni Novanta è apparso chiaro che questo ventennio sarebbe stato destinato a essere agitato.
Perché il mondo occidentale sperimenta un senso di insoddisfazione dopo la grande vittoria sul nemico comunista?
Quali alternative esistono, oggi, al modello occidentale?
Tra i rischi che dobbiamo affrontare, quali debbono essere considerati prioritari?
Quali azioni dovrebbe intraprendere l’Occidente?
Quali dei nostri comportamenti dovremmo rivedere?
Quale sarà il futuro dell’Occidente?
Con l’emergere, in ogni settore, di problemi incontrollabili non corriamo il rischio di vedere precipitare nel caos o collassare l’intero sistema occidentale?

Dalla sera del 13 marzo scorso, la Chiesa Cattolica ha un nuovo Papa: Jorge Mario Bergoglio.
Lei, Sua Santità.
Il primo Papa non-europeo dal 741, il primo Papa venuto dal continente americano e il primo argentino.
Il primo gesuita a divenire Sommo Pontefice della Chiesa Universale.
Quella sera, con milioni di credenti e non, io ho formulato il desiderio che Francesco I divenga, sulla Terra, il Papa dei Poveri e della Pace e faccia sentire la Sua voce per mettere un termine all’abuso del nome di Cristo.

Tutte le parole si consumano con il tempo. Usiamole, dunque, con cautela, altrimenti rischieremo di cogliere solo una piccola parte di ciò che vogliono dire. È necessario servirsene, precisando, sempre, il loro senso.
La Chiesa appartiene a quel genere di vocaboli di cui si sente parlare molto, ma accade, spesso, che evochi un concetto più banale che sacro.
Chiesa – inutilizzabile per il credente, per il cristiano, senza chiarire cosa intenda – da un lato, evoca una costruzione architettonica, un edificio, ai nostri giorni, spesso, vuoto; dall’altro, assume l’accezione di un apparato teocratico, circondato da un fasto insolito anche per i sovrani e i capi di Stato.
In nome degli ideali più puri si costruiscono le migliori cattedrali, ma se gli ideali proposti non vivono nel nostro animo al servizio di ciascuno di noi sono destinati a venire traditi e le belle cattedrali si trasformano in vuote conchiglie.
Progressivamente l’evoluzione può sfociare nelle peggiori atrocità.
La Chiesa, con l’Inquisizione, il processo a Giovanna d’Arco, la condanna di Galileo Galilei, non è stata risparmiata.

Santo Padre,
il mio nome è D, come Donna, Diritti, Doveri. E, come scrive Fatima Naseef, in ogni tempo e in ogni luogo, “i miei doveri hanno, sempre, avuto la meglio sui miei diritti”. Per nascita, educazione e caso, ho potuto, in certa misura, sfuggire alle pressioni della società.
Sono una privilegiata.
Io non ho fatto l’esperienza del freddo e della fame.
Io non ho subito la tortura.
Io non ho conosciuto la schiavitù.
Possiedo radici vaghe e culture multiple, perché da quando sono nata mi hanno spostata o mi sono spostata da un luogo all’altro. Da piccola ne ho sofferto. Oggi ne sono felice, perché le radici forti alimentano una gabbia di soffocanti predestinazioni. L’educazione cattolica delle scuole private mi aveva reso una bambina cupa, profondamente infelice, che non mi somigliava. Mi avevano parlato del diavolo, dell’inferno, raccomandandomi di essere giudiziosa, altrimenti sarei stata punita. Non ho, mai, sentito associare le parole religione, amore e libertà. Tutte le cose che mi rendevano viva erano peccato, veniale o mortale: leggere libri messi all’indice, fare scorribande con i miei coetanei in bicicletta fino a sera.
Certe dottrine vengono insegnate con l’imposizione. Forse, possono essere di aiuto per vivere meglio. Ma proprio perché siamo stati costretti ad apprenderle, le rifiutiamo molto presto e facilmente. 
Mi liberai dalla religione cattolica!
La scoperta di altre culture, altri racconti di storia, altre divinità trasformò il mio sguardo sul mondo da assoluto a relativo. Non eravamo la verità, noi occidentali, noi cristiani, noi cultura greco-romana. Eravamo una minoranza nel mondo. Se il potere era solo nostro, era un potere d’élite, privo di democrazia. Se il regno dei cieli era solo cattolico, era un regno disumano, giacché escludeva la maggioranza degli uomini, delle donne e dei bambini del pianeta. La scoperta della relatività della verità, della relatività della storia, della relatività dello stesso concetto di religione o cultura o nazione è stata per me la via maestra verso la libertà. Scoprivo che libertà è innamorarsi senza rimorso delle piccole verità che ogni cultura contiene e che qualsiasi relazione può contenere.
Quale fede, alla mia età, rimane nel fondo del mio spirito?
La parola atea mi è, sempre, dispiaciuta e, con Thomas Henry Huxley, sono del parere che il termine agnostica sia più corrispondente alla mia condizione spirituale, se è agnosticismo dire che l’origine prima, la sostanza e il fine ultimo delle cose siano inaccessibili all’intelletto umano. In ogni caso, quantunque l’idea di un Dio come entità sia scomparsa dalla mia coscienza, mi rimane, ancora, la fede nello sviluppo lento e graduale di una vita sociale più elevata, più nobile. Credo sia dovere degli uomini obbedire a leggi di bontà e di amore, sforzarsi di porre fine alle guerre e alle epidemie, alla povertà, alla miseria, alle malattie, e crearsi, così, un Paradiso in terra, che trasformi il pellegrinaggio della vita in una crociata, nella quale ogni croce sia coronata di rose.
Ritengo di aver saputo trarre profitto da tutti i naufragi della vita. E, se, talvolta, il prezzo è stato esorbitante, era quello il prezzo che la vita esigeva. Chi ha paura di pagare un prezzo troppo alto, muore a se stesso!
So che il corso del mondo è il tessuto stesso della mia vita e ne seguo, con attenzione, il movimento. Un uomo o una donna che scrive non appartiene più al suo sesso. Sfugge, perfino, all’umano. Letteratura e potere non sono mai andati d’accordo. Il potere è dalla parte dell’ordine e della responsabilità, la letteratura dalla parte del “disordine” e dell’”irresponsabilità”. Il potere comanda, la letteratura “disobbedisce”. Il potere inclina, per sua natura, alla perpetuazione, la letteratura al rinnovamento. Rifiutando il passato, o più esattamente, legandosi al momento presente, nella sua qualità essenziale, fugace, il moderno respinge la tradizione, si lega alla sensazione dell’Hic et nunc.

Viaggiando, per anni, in lungo e in largo per il globo e assimilandone, senza mai staccarmi dalla mia terra di origine, le lingue,  i miti, i riti e i cibi, mi sono chiesta se esistano, davvero, una cultura occidentale e una cultura orientale o piuttosto, provenendo entrambe dallo stesso magma iniziale, che ha dato vita alle varie etnie e alle varie classi sociali all’interno delle singole etnie, chiamiamo cultura l’insieme di elementi specifici che il potere di turno ha fatto emergere dal magma, ha valorizzato secondo canoni precostituiti, ha rafforzato attraverso le leggi e ha tramandato nell’educazione attraverso una deliberata manipolazione dei documenti storici, letterari, filosofici e religiosi.
Non è necessario uscire dai confini del proprio Paese per scoprire un’altra visione del mondo. Si può rivelare uno straniero il proprio padre, il proprio fratello, il proprio marito, il proprio figlio.
Alla fine di questo viaggio una certezza ha trovato dimora in me. La scelta primaria di ogni essere umano, che va al di là del proprio sesso, della propria etnia, della propria lingua, della propria cultura, della propria religione e della propria classe sociale, è:
Da quale parte stare? 
Dalla parte dei potenti o degli oppressi?
Dalla parte dei colonialisti o dei colonizzati?
Dalla parte di chi scrive la storia, il vincitore di turno, o dalla parte di chi non ha voce, pur avendo fatto, egualmente, la storia?
A quali popolazioni e a quali classi sociali si riferiscono i nostri governi, quando parlano dei popoli e dei loro bisogni?

L’Umanità sta laboriosamente cercando la sua strada attraverso un agitato periodo di transizione. Le istituzioni politiche e sociali debbono, ancora una volta, essere trasformate: un nuovo mondo sta per nascere. Il vecchio mondo, da qualsiasi lato si guardi, appare nel suo letto di morte. Non vediamo intorno a noi che diffidenza, incertezza e fanatismo. Viviamo sotto il regime della grande paura. Per decine di milioni di esseri umani la fame e la disperazione sono più che una paura, sono la realtà della vita giornaliera. Per cecità da una parte, per impotenza dall’altra, le soluzioni della disperazione sembrano essere le sole adottabili e realiste.
Che cosa dobbiamo pensare di tutto ciò?
Il problema dell’ordine internazionale è il problema più urgente, quello che deve avere una priorità assoluta nella nostra considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici, spirituali che, oggi, si presentano nell’ambito dei singoli Stati. Se non arriveremo a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a ripetizione, che coinvolgono tutti i Paesi del mondo, non potremo salvare la nostra civiltà: entreremo in un nuovo Medioevo.
La guerra non è più un urto tra eserciti. È una conflagrazione tra popoli che, nella lotta, impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite. È la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con i più efficienti strumenti forniti dalla scienza moderna, di distruggere il potenziale bellico e di abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto per annientarne l’esercito. È la negazione di ogni sentimento umano, il definitivo ripudio del diritto come regola di vita. È un turbine che sradica intere popolazioni dalle terre sulle quali risiedevano da secoli, per gettarle senza più case, senza più mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di distanza; che non rispetta né ospedali, né luoghi di culto, né asili di infanzia; che riduce in macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
La cosiddetta Intelligentia risulta composta di propagandisti e di esperti, perché non si apprezzano più le opere di significato universale, né le ricerche disinteressate, ma solo le opere che esaltano i sentimenti nazionalisti e i ritrovati tecnici che possono tradursi in armi efficienti.
Discorsi, giornali, televisione, fanno appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia collettiva che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio.  Non ci si deve neppure più domandare cosa la vittoria possa significare. Si vuole la vittoria per la vittoria, si vuole la distruzione del nemico, si vuole sopravvivere, anche se quello che di noi sopravvivesse non meriterebbe, in alcun modo, essere difeso.
Le falsificazioni, le menzogne sono, sistematicamente, adoperate come strumenti di guerra al pari delle bombe e dei missili.
Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della patria.
Tutti i valori morali sono sovvertiti: la violenza, il misconoscimento di ogni regola di vita civile, l’odio che non ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati, divengono abiti spirituali, in luogo del rispetto della vita umana, dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso di responsabilità individuale.
Il mio padre confessore, un gesuita spagnolo, faceva comprendere questa idea con una immagine semplice, ma molto forte. Raccontava che un giorno, camminando, aveva visto su una collina di fronte, un essere mostruoso, che, appressandosi, si era rivelato un uomo e, da vicino, suo fratello. Aveva esercitato, per lunghi anni, il ministero in America Latina, in condizioni austere e difficili, proprio come Lei, Santo Padre. Si era rivelato un teologo eccezionale e la sua disquisizione sul Verbo Incarnato mi appassionò profondamente. Iniziai, in quel periodo, a comprendere qualcosa del mistero di Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, che, con la sua rivelazione, cambiava radicalmente il volto di Dio:
“Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti.” [Marco 10, 45]
Questa affermazione mi ha, sempre, colpito.  

Da una scintilla accesa in Palestina si è sprigionata una fiamma che è impossibile domare. Senza mai estinguersi, quale ultima ratio regum, ha compiuto il suo percorso da nazione a nazione, e ha operato, silenziosamente, le sue conquiste. L’Umanità se ne è ritrovata trasformata senza quasi avvedersene, ha acquistato la conoscenza dei suoi diritti curando, secondo giustizia, i suoi interessi, e ha scoperto, infine, che la forza e il potere del dispotismo consistono, unicamente, nel timore di opporvi resistenza, e che, per essere liberi, è sufficiente volerlo.
Qualunque sia la sua forma o la sua costituzione, un governo non deve avere altro oggetto che il benessere generale. Quando, al contrario, tende a creare e ad accrescere la miseria in una parte della società, è basato su un sistema errato, che è necessario riformare.
Il linguaggio abituale ha classificato la condizione umana sotto le due categorie di vita civile e vita non civile. Alla prima ha associato il benessere e l’opulenza; alla seconda, la miseria e l’indigenza. Ma, per quanto le immagini e i paragoni possano colpire la nostra immaginazione, è pur vero che una larga parte dell’Umanità, nei Paesi cosiddetti civili, versa in condizioni di miseria e di indigenza.
È così in Italia.
È così nel resto del mondo.
La causa?
Non risiede in qualche difetto naturale dei principi della civiltà, ma nell’impedire che questi principi abbiano una efficacia universale; ne consegue un sistema perpetuo di guerre e di spese, che esauriscono il Paese e distruggono il benessere generale che la civiltà è in grado di generare.
Di tutti i governi, nessuno si fonda su un principio di civiltà universale, ma sul suo opposto. Nei loro rapporti reciproci, si trovano nelle stesse condizioni che noi immaginiamo essere quelle della vita selvaggia e incivile e si pongono al di sopra sia delle leggi di Dio sia di quelle umane, quanto ai loro principi e alla loro condotta reciproca, si comportano come altrettanti individui in uno stato di natura.
In ogni Paese, sotto l’influenza civilizzatrice delle leggi, gli abitanti comunicano, agevolmente, tra loro, ma i governi, essendo ancora in uno stato incivile, e, ormai, continuamente in guerra, distorcono il benessere prodotto dalla vita civile per promuovere la parte incivile. Innestando, in tale modo, la sua barbarie sulla civiltà interna di un Paese, il governo stesso trae da quest’ultimo e, in particolare, dai poveri, una buona parte di quei profitti che dovrebbero essere impiegati per il loro sostentamento e per il loro benessere. A parte ogni riflessione morale o filosofica, è ben triste che più di un quarto della fatica umana sia consumato, ogni anno, da questo sistema barbaro. Il tornaconto, che comporta, per tutti i governi, il mantenimento di questo stato incivile, ha permesso che si perpetuasse questo male. Fornisce, infatti, a quei governi pretesti per ottenere maggiori poteri ed entrate, di cui non vi sarebbe necessità e giustificazione se il cerchio della civiltà fosse, finalmente, completo. Da solo, il governo civile o governo delle leggi non esige molte imposte; agisce all’interno e direttamente sotto gli occhi del Paese e non permette troppi inganni. Ma quando prendiamo in considerazione la contesa incivile tra i governi, il campo delle pretese si estende, e il Paese, non esercitando più il suo giudizio, è soggetto a ogni abuso che al governo piaccia compiere. 
Solo chi si arresti all’apparenza esteriore può immaginare che, nei Paesi cosiddetti civili, domini il benessere, ma, nascosta all’occhio dell’osservatore comune, esiste una massa di infelici, che non hanno quasi altra aspettativa che quella di perire nella povertà e nell’infamia. Il loro ingresso nella vita è accompagnato dal presagio della loro sorte.  Un governo civile provvede al sostegno degli anziani e alla istruzione dei giovani, così da preservare gli uni dalla disperazione e gli altri dalla dispersione, per quanto è possibile. Invece, le risorse della nazione vengono profuse per i “re”, per le “corti”, per i “mercenari”, per gli “impostori” e per le “meretrici” e gli stessi poveri, nonostante tutte le privazioni di cui soffrono, sono obbligati a sostenere questo sistema fraudolento che li opprime. I milioni che si sprecano, inutilmente, per i governi sarebbero più che sufficienti a sanare questi mali e a migliorare le condizioni di ogni abitante di una nazione, che viva al di fuori delle “corti”.
Avere fatto tirocinio della vita è tornato a mio vantaggio: io conosco il valore della educazione morale, come conosco i pericoli che la sua mancanza comporta. E, nel momento in cui, di fronte al male, per proteggere i più deboli non si presentino strumenti alternativi, non si può rifiutare la mischia. Se, in nome della mitezza, si ritenga che non sia giusto battersi e si passi dall’altro lato della via, allora, non è vero che si è miti.
Si è codardi!
Quello che io difendo non è elemosina, ma diritto; non dono, ma giustizia!
Lo stato attuale della civiltà è odioso quanto ingiusto. È l’opposto di quello che dovrebbe essere ed è necessario che si effettui una “rivoluzione”.
Il contrasto tra ricchezza e povertà che offende, continuamente, la vista è come lo spettacolo di un vivo e di un morto incatenati l’uno all’altro. Per quanto mi interessi meno che a chiunque altro, non demonizzo, certo, la ricchezza, perché è suscettibile di fare del bene. Non mi importa quanto possano essere ricchi alcuni, purché nessuno sia povero per causa loro.

Santo Padre,
conoscendo il mio cuore e sentendomi, come io mi sento, superiore a ogni schermaglia di partito e all’odio di avversari sviati dall’interesse o dall’errore, senza replicare alle falsità e agli insulti, procederò all’esame dei difetti dei governi.
Inizierò dai privilegi e dalle caste.
Affermare che un privilegio conferisca dei diritti significa pervertire i termini; ha un effetto opposto, vale a dire quello di privare dei diritti. I diritti ineriscono a tutti i cittadini; ma i privilegi, annullando tali diritti nella maggioranza, li lasciano, per esclusione, nelle mani di pochi. Se i privilegi fossero istituiti in modo da sancire, in termini espliciti, che ogni cittadino, che non fosse membro di una casta, non potesse esercitare il diritto di voto, tali privilegi si presenterebbero, evidentemente, non come delle concessioni di diritti, ma come esclusioni.
In passato, quando nascevano dei contrasti in tema di governo, si ricorreva alla spada, dando luogo alla guerra civile. Quella usanza barbara è stata estirpata dal nuovo sistema; ora, si fa appello alle “larghe intese”. Arbitra della questione è la volontà generale, cui le opinioni personali si sottomettono di buon grado e l’ordine è preservato da ogni violazione. 

“Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo nei giornali. Quando, alcune settimane fa, ho appreso questa notizia, che, purtroppo, tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E, allora, ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze, perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta, per favore. Prima, però, vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore.
Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà!
Grazie!”
Santo Padre,
senza se e senza ma, Lei ha deciso di piacermi.
Il suo richiamo, nella omelia dell’8 luglio scorso, sulla spiaggia di Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza, in fedeltà alla parola di Cristo:
“Ero forestiero e mi avete ospitato.” [Matteo 25, 35],
dovremmo sentirlo tutti come uno schiaffo per ciò che non abbiamo fatto.
Che dire davanti al massacro di innocenti che fuggono la guerra, la fame e la dittatura?
Che dire davanti alle salme di quei 300 disperati, morti per la sola ragione di aver avuto la folle idea di passare da un continente all’altro, in nome del diritto alla libertà di circolazione?
Lei sogna “una Chiesa povera, per i poveri” e non esita a denunciare nel capitalismo una “eutanasia silenziosa”. Come colpi di cannone, che avvertono del pericolo, risuonano i Suoi accenti contro un “liberismo selvaggio [che] rende i forti più forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi”.
Quelle vittime al largo della Spiaggia dei Conigli erano i poveri dei poveri.
I leaders europei non possono occultare la realtà cruda e ignobile. Quei 300 morti accusano l’Europa di non-assistenza a persone in pericolo.
“Mi viene la parola vergogna: è una vergogna!”
Questa idolatria del capitalismo e del potere statale, martellata, ogni giorno, alle masse dai media, non è una eresia aperta?
Non è in contraddizione totale con l’atteggiamento di Cristo, che pregava sulla croce per i suoi persecutori?
Per tutta risposta alla miseria del mondo, gli Stati ricchi non adottano che la via repressiva, erigono barriere e torri, come a Ceuta e a Melilla; spendono centinaia di milioni, ogni anno, in dispositivi Frontex ed Eurosur, per controllare e dare la caccia agli immigrati; sovvenzionano gli Stati africani perché controllino, in pieno deserto, i loro cittadini; sviluppano centri di accoglienza in Africa e in Europa.
Come i muri eretti tra Grecia e Turchia, tra Stati Uniti e Messico, tra Africa del Sud e Mozambico, tra Cina e Corea del Nord, tra Uzbekistan e Afghanistan, tra Botswana e Zimbabwe…
E tutto ciò in pura perdita!
La generalizzazione di questi recinti e reticolati antimigranti dovrebbe, tuttavia, farci riflettere.
Quale cortina di ferro o di bambù, quale cordone culturale, etnico o religioso potrebbe mai contenere la pressione crescente che i 5 miliardi di poveri del Sud del mondo esercitano verso il miliardo di privilegiati del Nord?
A che servono questi ostacoli che non dissuaderanno mai coloro che preferiscono rischiare la loro vita su barconi di fortuna piuttosto che restare nei loro Paesi devastati dalla violenza e dalla miseria?
Queste linee Maginot del XXI secolo sono inutili oltre che illusorie. Servono, innanzitutto, a ingannare le popolazioni degli Stati che li erigono e si rifiutano di ammettere una semplice verità: i flussi migratori non sono invasioni, ma meri movimenti di popolazione, normali in un mondo aperto. Non si può, al tempo stesso, erigere a dogma la libera circolazione delle finanze e delle merci e vietare agli esseri umani di circolare e, perfino, di insediarsi.
È negare il diritto di ospitalità, il diritto di asilo, il diritto dei migranti!
Io so che mi si accuserà, ancora una volta, di angelismo, incapace di comprendere le preoccupazioni popolari. Ma io difenderò, sempre, una visione del mondo che rifiuta le finzioni ed esige la verità. I migranti detti “illegali” non sono più nemici di quanto non lo siano stati gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i francesi, i belgi, gli olandesi, gli inglesi, gli irlandesi, gli scozzesi, i tedeschi, gli svedesi, i polacchi, i russi, a partire dal XVI secolo.
Secondo le stime dell’ONU, nel 2003, i migranti sono stati circa 175 milioni, circa il 3% dell’intera Umanità; nel 2013, 232 milioni, pari al 3,2%, di cui 35mila sbarcati in Italia.
L’Occidente non si definisce per la sua “bianchezza” o per la sua religione, ma per la sua storia e per la sua cultura, prodotto della sua diversità. L’Occidente, è il crogiuolo di una civiltà co-scritta da migranti. E ciò non ha, mai, cessato dai barbari ai romani, dagli unni ai vichinghi, dai musulmani andalusi agli ebrei venuti dall’Europa Centrale.  
Oggi, l’Unione Europea si nasconde dietro le sue mura per proteggere i suoi “ricchi” dai “dannati della Terra”. 
Si è trasformata in fortezza.
Costituita per preservare la pace al suo seno, fa la guerra ai poveri del resto del mondo… e ai suoi stessi cittadini.
Se una crisi esaspera, sempre, i sentimenti di rigetto, questi stessi sentimenti di rigetto sono rafforzati dalla situazione di ineguaglianza e di declassamento che incrudelisce in numerosi Paesi europei.
Tuttavia, il modo di vita occidentale fa sognare centinaia di milioni di uomini e di donne nel mondo. Le immagini rimandate dagli schermi creano l’illusione di un mondo dove il lusso sia facile; dove si trovi lavoro; dove si mangi, assecondando la propria fame; dove si viva in sicurezza.
Noi sappiamo che non è così, ma, per i giovani maghrebini, somali, eritrei, siriani, questa illusione permette di conservare una speranza. Quando il mare non li inghiotte, li getta in una avventura, alla fine della quale scoprono il rovescio della medaglia: una Europa della paura e dello smarrimento, dove l’ultimo arrivato non è il benvenuto, una Europa del “ciascuno per sé”.
Siamo o siamo stati tutti migranti, Ronald Reagan, Barack Obama, Donald Henry Rumsfeld, Herbert Norman Schwarzkopf, Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski, Colin Luther Powell, Paul Wolfowitz, Nicolas Sarkozy, Manuel Carlos Valls, Benjamin Netanyahu…
Abramo, Mosè, Gesù, gli stessi Apostoli…
Lei, Santo Padre, e io…
I migranti sono sotto la protezione internazionale, ma le leggi nazionali, redatte in fretta, sotto la pressione della crisi e dell’opinione, creano le condizioni della tragedia di Lampedusa.
Se i migranti attraversano il Mediterraneo a rischio della propria vita è perché i visti sono impossibili da ottenere.
Se i trafficanti li abbandonano in mare aperto è perché non vogliono essere considerati responsabili del trasporto.
Se le barche non li soccorrono è perché i pescatori temono di essere considerati complici.
Le catene dell’ipocrisia debbono essere spezzate e le leggi illiberali rigettate.
Le diverse centinaia di milioni, che si spendono per equipaggiare i Paesi rivieraschi e frontalieri, si potrebbero impiegare meglio in progetti di co-sviluppo.
In luogo di vendere armi ai dittatori, si potrebbero costruire ospedali.
Corridoi umanitari potrebbero essere organizzati, a partire dalla Siria.
Il diritto di asilo potrebbe essere esteso, meglio diviso da tutti i Paesi dell’Unione Europea…
Ma gli Stati dell’Unione Europea non faranno mai nulla di tutto ciò.
Troppo difficile da “vendere” alle loro opinioni rispettive, non abbastanza redditizio!
E si dimenticherà Lampedusa fino alla prossima volta.
I dimenticati della Storia passeranno per perdite e profitti, come sempre!

Siamo, ora, agli inizi di dicembre. Se andassi in giro per la campagna, gli alberi si mostrerebbero nel loro aspetto invernale: senza foglie. Si usa spezzare piccoli rami, camminando, e, forse, se ne spezzassi uno anche io, potrei osservare su quel ramoscello una unica piccola gemma iniziare a germogliare. Sarebbe presuntuoso e, perfino, insensato se supponessi che quella piccola gemma fosse l’unica gemma nel mondo. Penserei, al contrario, che quel miracolo della natura stia accadendo, anche, altrove.
Il letargo vegetativo di alcuni alberi si protrarrà più a lungo rispetto ad altri e certi non fioriranno che tra due o tre anni, ma, in estate, tutti saranno adorni di foglie, a eccezione dei morti.
Nessun pronostico può stabilire se l’estate politica terrà il passo con quella naturale.
E nonostante ciò, non è difficile accorgersi che la “Primavera” sia alle porte.

Buon Natale, Sua Santità!

Assunta Daniela Zini, per tutti semplicemente D

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