“Iniziate con il fare ciò che è necessario,
poi, ciò che è possibile.
E, all’improvviso, vi sorprenderete a fare l’impossibile.”
San Francesco di Assisi
Roma, 7 dicembre 2013
In certi momenti della Storia, il destino
sembra esitare tra ora e malora, come se attendesse la venuta di qualcuno, ma,
solitamente, non viene nessuno. Ed è in questi momenti di incertezza che
l’Umanità si domanda, sempre, cosa riservi l’avvenire.
Ogni imprenditore sa, perfettamente, che,
quando esiste una domanda, vi è, sempre, qualcuno disposto a farsi avanti per
soddisfarla. Nel gergo aziendale, se si può trarre anche un solo centesimo,
qualcuno, di certo, ne approfitterà. Fino dai primi giorni degli Anni Novanta è
apparso chiaro che questo ventennio sarebbe stato destinato a essere agitato.
Perché il mondo occidentale sperimenta un
senso di insoddisfazione dopo la grande vittoria sul nemico comunista?
Quali alternative esistono, oggi, al modello
occidentale?
Tra i rischi che dobbiamo affrontare, quali
debbono essere considerati prioritari?
Quali azioni dovrebbe intraprendere
l’Occidente?
Quali dei nostri comportamenti dovremmo
rivedere?
Quale sarà il futuro dell’Occidente?
Con l’emergere, in ogni settore, di problemi
incontrollabili non corriamo il rischio di vedere precipitare nel caos o
collassare l’intero sistema occidentale?
Dalla sera del 13 marzo scorso, la Chiesa
Cattolica ha un nuovo Papa: Jorge Mario Bergoglio.
Lei, Sua Santità.
Il primo Papa non-europeo dal 741, il primo
Papa venuto dal continente americano e il primo argentino.
Il primo gesuita a divenire Sommo Pontefice
della Chiesa Universale.
Quella sera, con milioni di credenti e non,
io ho formulato il desiderio che Francesco I divenga, sulla Terra, il Papa dei
Poveri e della Pace e faccia sentire la Sua voce per mettere un termine
all’abuso del nome di Cristo.
Tutte le parole si consumano con il tempo.
Usiamole, dunque, con cautela, altrimenti rischieremo di cogliere solo una
piccola parte di ciò che vogliono dire. È necessario servirsene, precisando,
sempre, il loro senso.
La Chiesa appartiene a quel genere di
vocaboli di cui si sente parlare molto, ma accade, spesso, che evochi un
concetto più banale che sacro.
Chiesa – inutilizzabile per il credente, per
il cristiano, senza chiarire cosa intenda – da un lato, evoca una costruzione
architettonica, un edificio, ai nostri giorni, spesso, vuoto; dall’altro,
assume l’accezione di un apparato teocratico, circondato da un fasto insolito
anche per i sovrani e i capi di Stato.
In nome degli ideali più puri si costruiscono
le migliori cattedrali, ma se gli ideali proposti non vivono nel nostro animo
al servizio di ciascuno di noi sono destinati a venire traditi e le belle
cattedrali si trasformano in vuote conchiglie.
Progressivamente l’evoluzione può sfociare
nelle peggiori atrocità.
La Chiesa, con l’Inquisizione, il processo a
Giovanna d’Arco, la condanna di Galileo Galilei, non è stata risparmiata.
Santo Padre,
il mio nome è D, come Donna, Diritti, Doveri.
E, come scrive Fatima Naseef, in ogni tempo e in ogni luogo, “i miei doveri hanno, sempre, avuto la
meglio sui miei diritti”. Per nascita, educazione e caso, ho potuto, in
certa misura, sfuggire alle pressioni della società.
Sono una privilegiata.
Io non ho fatto l’esperienza del freddo e
della fame.
Io non ho subito la tortura.
Io non ho conosciuto la schiavitù.
Possiedo radici vaghe e culture multiple,
perché da quando sono nata mi hanno spostata o mi sono spostata da un luogo
all’altro. Da piccola ne ho sofferto. Oggi ne sono felice, perché le radici
forti alimentano una gabbia di soffocanti predestinazioni. L’educazione
cattolica delle scuole private mi aveva reso una bambina cupa, profondamente
infelice, che non mi somigliava. Mi avevano parlato del diavolo, dell’inferno,
raccomandandomi di essere giudiziosa, altrimenti sarei stata punita. Non ho,
mai, sentito associare le parole religione, amore e libertà. Tutte le cose che
mi rendevano viva erano peccato, veniale o mortale: leggere libri messi
all’indice, fare scorribande con i miei coetanei in bicicletta fino a sera.
Certe dottrine vengono insegnate con
l’imposizione. Forse, possono essere di aiuto per vivere meglio. Ma proprio
perché siamo stati costretti ad apprenderle, le rifiutiamo molto presto e
facilmente.
Mi liberai dalla religione cattolica!
La scoperta di altre culture, altri racconti
di storia, altre divinità trasformò il mio sguardo sul mondo da assoluto a
relativo. Non eravamo la verità, noi occidentali, noi cristiani, noi cultura
greco-romana. Eravamo una minoranza nel mondo. Se il potere era solo nostro,
era un potere d’élite, privo di democrazia. Se il regno dei cieli era
solo cattolico, era un regno disumano, giacché escludeva la maggioranza degli
uomini, delle donne e dei bambini del pianeta. La scoperta della relatività
della verità, della relatività della storia, della relatività dello stesso
concetto di religione o cultura o nazione è stata per me la via maestra verso
la libertà. Scoprivo che libertà è innamorarsi senza rimorso delle piccole
verità che ogni cultura contiene e che qualsiasi relazione può contenere.
Quale fede, alla mia età, rimane nel fondo
del mio spirito?
La parola atea mi è, sempre, dispiaciuta e,
con Thomas Henry Huxley, sono del parere che il termine
agnostica sia più corrispondente alla mia condizione spirituale, se è agnosticismo
dire che l’origine prima, la sostanza e il fine ultimo delle cose siano
inaccessibili all’intelletto umano. In ogni caso, quantunque l’idea di un Dio
come entità sia scomparsa dalla mia coscienza, mi rimane, ancora, la fede nello
sviluppo lento e graduale di una vita sociale più elevata, più nobile. Credo
sia dovere degli uomini obbedire a leggi di bontà e di amore, sforzarsi di
porre fine alle guerre e alle epidemie, alla povertà, alla miseria, alle
malattie, e crearsi, così, un Paradiso in terra, che trasformi il
pellegrinaggio della vita in una crociata, nella quale ogni croce sia coronata
di rose.
Ritengo di aver saputo trarre profitto da
tutti i naufragi della vita. E, se, talvolta, il prezzo è stato esorbitante,
era quello il prezzo che la vita esigeva. Chi ha paura di pagare un prezzo
troppo alto, muore a se stesso!
So che il corso del mondo è il tessuto stesso
della mia vita e ne seguo, con attenzione, il movimento. Un uomo o una donna
che scrive non appartiene più al suo sesso. Sfugge, perfino, all’umano.
Letteratura e potere non sono mai andati d’accordo. Il potere è dalla parte
dell’ordine e della responsabilità, la letteratura dalla parte del “disordine”
e dell’”irresponsabilità”. Il potere comanda, la letteratura “disobbedisce”. Il
potere inclina, per sua natura, alla perpetuazione, la letteratura al
rinnovamento. Rifiutando il passato, o più esattamente, legandosi al momento
presente, nella sua qualità essenziale, fugace, il moderno respinge la
tradizione, si lega alla sensazione dell’Hic
et nunc.
Viaggiando, per anni, in lungo e in largo per
il globo e assimilandone, senza mai staccarmi dalla mia terra di origine, le
lingue, i miti, i riti e i cibi, mi sono
chiesta se esistano, davvero, una cultura occidentale e una cultura orientale o
piuttosto, provenendo entrambe dallo stesso magma iniziale, che ha dato vita
alle varie etnie e alle varie classi sociali all’interno delle singole etnie,
chiamiamo cultura l’insieme di elementi specifici che il potere di turno ha
fatto emergere dal magma, ha valorizzato secondo canoni precostituiti, ha
rafforzato attraverso le leggi e ha tramandato nell’educazione attraverso una
deliberata manipolazione dei documenti storici, letterari, filosofici e
religiosi.
Non è necessario uscire dai confini del
proprio Paese per scoprire un’altra visione del mondo. Si può rivelare uno
straniero il proprio padre, il proprio fratello, il proprio marito, il proprio
figlio.
Alla fine di questo viaggio una certezza ha
trovato dimora in me. La scelta primaria di ogni essere umano, che va al di là
del proprio sesso, della propria etnia, della propria lingua, della propria
cultura, della propria religione e della propria classe sociale, è:
Da quale parte stare?
Dalla parte dei potenti o degli oppressi?
Dalla parte dei colonialisti o dei
colonizzati?
Dalla parte di chi scrive la storia, il
vincitore di turno, o dalla parte di chi non ha voce, pur avendo fatto,
egualmente, la storia?
A quali popolazioni e a quali classi sociali
si riferiscono i nostri governi, quando parlano dei popoli e dei loro bisogni?
L’Umanità sta laboriosamente cercando la sua
strada attraverso un agitato periodo di transizione. Le istituzioni politiche e
sociali debbono, ancora una volta, essere trasformate: un nuovo mondo sta per
nascere. Il vecchio mondo, da qualsiasi lato si guardi, appare nel suo letto di
morte. Non vediamo intorno a noi che diffidenza, incertezza e fanatismo.
Viviamo sotto il regime della grande paura. Per decine di milioni di esseri
umani la fame e la disperazione sono più che una paura, sono la realtà della
vita giornaliera. Per cecità da una parte, per impotenza dall’altra, le
soluzioni della disperazione sembrano essere le sole adottabili e realiste.
Che cosa dobbiamo pensare di tutto ciò?
Il problema dell’ordine internazionale è il
problema più urgente, quello che deve avere una priorità assoluta nella nostra
considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a
tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici,
spirituali che, oggi, si presentano nell’ambito dei singoli Stati. Se non
arriveremo a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a
ripetizione, che coinvolgono tutti i Paesi del mondo, non potremo salvare la
nostra civiltà: entreremo in un nuovo Medioevo.
La guerra non è più un urto tra eserciti. È
una conflagrazione tra popoli che, nella lotta, impegnano tutti i loro beni,
tutte le loro vite. È la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con
i più efficienti strumenti forniti dalla scienza moderna, di distruggere il
potenziale bellico e di abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto
per annientarne l’esercito. È la negazione di ogni sentimento umano, il
definitivo ripudio del diritto come regola di vita. È un turbine che sradica
intere popolazioni dalle terre sulle quali risiedevano da secoli, per gettarle
senza più case, senza più mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di
distanza; che non rispetta né ospedali, né luoghi di culto, né asili di
infanzia; che riduce in macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più
preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
La cosiddetta Intelligentia risulta composta di propagandisti e di esperti,
perché non si apprezzano più le opere di significato universale, né le ricerche
disinteressate, ma solo le opere che esaltano i sentimenti nazionalisti e i
ritrovati tecnici che possono tradursi in armi efficienti.
Discorsi, giornali, televisione, fanno
appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia
collettiva che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico
fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio. Non ci si deve neppure più domandare cosa la
vittoria possa significare. Si vuole la vittoria per la vittoria, si vuole la
distruzione del nemico, si vuole sopravvivere, anche se quello che di noi
sopravvivesse non meriterebbe, in alcun modo, essere difeso.
Le falsificazioni, le menzogne sono,
sistematicamente, adoperate come strumenti di guerra al pari delle bombe e dei
missili.
Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della
patria.
Tutti i valori morali sono sovvertiti: la
violenza, il misconoscimento di ogni regola di vita civile, l’odio che non
ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e
l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati,
divengono abiti spirituali, in luogo del rispetto della vita umana,
dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso
di responsabilità individuale.
Il mio padre confessore, un gesuita spagnolo,
faceva comprendere questa idea con una immagine semplice, ma molto forte.
Raccontava che un giorno, camminando, aveva visto su una collina di fronte, un
essere mostruoso, che, appressandosi, si era rivelato un uomo e, da vicino, suo
fratello. Aveva esercitato, per lunghi anni, il ministero in America Latina, in
condizioni austere e difficili, proprio come Lei, Santo Padre. Si era rivelato
un teologo eccezionale e la sua disquisizione sul Verbo Incarnato mi appassionò
profondamente. Iniziai, in quel periodo, a comprendere qualcosa del mistero di
Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, che, con la sua rivelazione, cambiava
radicalmente il volto di Dio:
“Il
Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua
vita in riscatto per molti.” [Marco 10, 45]
Questa affermazione mi ha, sempre,
colpito.
Da una scintilla accesa in Palestina si è
sprigionata una fiamma che è impossibile domare. Senza mai estinguersi, quale ultima ratio regum, ha compiuto il suo
percorso da nazione a nazione, e ha operato, silenziosamente, le sue conquiste.
L’Umanità se ne è ritrovata trasformata senza quasi avvedersene, ha acquistato
la conoscenza dei suoi diritti curando, secondo giustizia, i suoi interessi, e
ha scoperto, infine, che la forza e il potere del dispotismo consistono,
unicamente, nel timore di opporvi resistenza, e che, per essere liberi, è
sufficiente volerlo.
Qualunque sia la sua forma o la sua
costituzione, un governo non deve avere altro oggetto che il benessere
generale. Quando, al contrario, tende a creare e ad accrescere la miseria in
una parte della società, è basato su un sistema errato, che è necessario
riformare.
Il linguaggio abituale ha classificato la
condizione umana sotto le due categorie di vita civile e vita non civile. Alla
prima ha associato il benessere e l’opulenza; alla seconda, la miseria e
l’indigenza. Ma, per quanto le immagini e i paragoni possano colpire la nostra
immaginazione, è pur vero che una larga parte dell’Umanità, nei Paesi
cosiddetti civili, versa in condizioni di miseria e di indigenza.
È così in Italia.
È così nel resto del mondo.
La causa?
Non risiede in qualche difetto naturale dei
principi della civiltà, ma nell’impedire che questi principi abbiano una efficacia
universale; ne consegue un sistema perpetuo di guerre e di spese, che
esauriscono il Paese e distruggono il benessere generale che la civiltà è in
grado di generare.
Di tutti i governi, nessuno si fonda su un
principio di civiltà universale, ma sul suo opposto. Nei loro rapporti
reciproci, si trovano nelle stesse condizioni che noi immaginiamo essere quelle
della vita selvaggia e incivile e si pongono al di sopra sia delle leggi di Dio
sia di quelle umane, quanto ai loro principi e alla loro condotta reciproca, si
comportano come altrettanti individui in uno stato di natura.
In ogni Paese, sotto l’influenza
civilizzatrice delle leggi, gli abitanti comunicano, agevolmente, tra loro, ma
i governi, essendo ancora in uno stato incivile, e, ormai, continuamente in
guerra, distorcono il benessere prodotto dalla vita civile per promuovere la
parte incivile. Innestando, in tale modo, la sua barbarie sulla civiltà interna
di un Paese, il governo stesso trae da quest’ultimo e, in particolare, dai
poveri, una buona parte di quei profitti che dovrebbero essere impiegati per il
loro sostentamento e per il loro benessere. A parte ogni riflessione morale o
filosofica, è ben triste che più di un quarto della fatica umana sia consumato,
ogni anno, da questo sistema barbaro. Il tornaconto, che comporta, per tutti i
governi, il mantenimento di questo stato incivile, ha permesso che si
perpetuasse questo male. Fornisce, infatti, a quei governi pretesti per
ottenere maggiori poteri ed entrate, di cui non vi sarebbe necessità e
giustificazione se il cerchio della civiltà fosse, finalmente, completo. Da
solo, il governo civile o governo delle leggi non esige molte imposte; agisce
all’interno e direttamente sotto gli occhi del Paese e non permette troppi
inganni. Ma quando prendiamo in considerazione la contesa incivile tra i
governi, il campo delle pretese si estende, e il Paese, non esercitando più il
suo giudizio, è soggetto a ogni abuso che al governo piaccia compiere.
Solo chi si arresti all’apparenza esteriore
può immaginare che, nei Paesi cosiddetti civili, domini il benessere, ma,
nascosta all’occhio dell’osservatore comune, esiste una massa di infelici, che
non hanno quasi altra aspettativa che quella di perire nella povertà e
nell’infamia. Il loro ingresso nella vita è accompagnato dal presagio della
loro sorte. Un governo civile provvede
al sostegno degli anziani e alla istruzione dei giovani, così da preservare gli
uni dalla disperazione e gli altri dalla dispersione, per quanto è possibile.
Invece, le risorse della nazione vengono profuse per i “re”, per le “corti”,
per i “mercenari”, per gli “impostori” e per le “meretrici” e gli stessi
poveri, nonostante tutte le privazioni di cui soffrono, sono obbligati a
sostenere questo sistema fraudolento che li opprime. I milioni che si sprecano,
inutilmente, per i governi sarebbero più che sufficienti a sanare questi mali e
a migliorare le condizioni di ogni abitante di una nazione, che viva al di
fuori delle “corti”.
Avere fatto tirocinio della vita è tornato a
mio vantaggio: io conosco il valore della educazione morale, come conosco i
pericoli che la sua mancanza comporta. E, nel momento in cui, di fronte al
male, per proteggere i più deboli non si presentino strumenti alternativi, non
si può rifiutare la mischia. Se, in nome della mitezza, si ritenga che non sia
giusto battersi e si passi dall’altro lato della via, allora, non è vero che si
è miti.
Si è codardi!
Quello che io difendo non è elemosina, ma
diritto; non dono, ma giustizia!
Lo stato attuale della civiltà è odioso
quanto ingiusto. È l’opposto di quello che dovrebbe essere ed è necessario che
si effettui una “rivoluzione”.
Il contrasto tra ricchezza e povertà che
offende, continuamente, la vista è come lo spettacolo di un vivo e di un morto
incatenati l’uno all’altro. Per quanto mi interessi meno che a chiunque altro,
non demonizzo, certo, la ricchezza, perché è suscettibile di fare del bene. Non
mi importa quanto possano essere ricchi alcuni, purché nessuno sia povero per
causa loro.
Santo Padre,
conoscendo il mio cuore e sentendomi, come io
mi sento, superiore a ogni schermaglia di partito e all’odio di avversari
sviati dall’interesse o dall’errore, senza replicare alle falsità e agli
insulti, procederò all’esame dei difetti dei governi.
Inizierò dai privilegi e dalle caste.
Affermare che un privilegio conferisca dei
diritti significa pervertire i termini; ha un effetto opposto, vale a dire
quello di privare dei diritti. I diritti ineriscono a tutti i cittadini; ma i
privilegi, annullando tali diritti nella maggioranza, li lasciano, per
esclusione, nelle mani di pochi. Se i privilegi fossero istituiti in modo da
sancire, in termini espliciti, che ogni cittadino, che non fosse membro di una
casta, non potesse esercitare il diritto di voto, tali privilegi si presenterebbero,
evidentemente, non come delle concessioni di diritti, ma come esclusioni.
In passato, quando nascevano dei contrasti in
tema di governo, si ricorreva alla spada, dando luogo alla guerra civile.
Quella usanza barbara è stata estirpata dal nuovo sistema; ora, si fa appello
alle “larghe intese”. Arbitra della questione è la volontà generale, cui le
opinioni personali si sottomettono di buon grado e l’ordine è preservato da
ogni violazione.
“Immigrati
morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono
state una via di morte. Così il titolo nei giornali. Quando, alcune settimane
fa, ho appreso questa notizia, che, purtroppo, tante volte si è ripetuta, il
pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta
sofferenza. E, allora, ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare, a
compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze,
perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta, per favore. Prima,
però, vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi,
abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di
sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio
verso qualcosa di migliore.
Voi
siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà!
Grazie!”
Santo Padre,
senza se e senza ma, Lei ha deciso di
piacermi.
Il suo richiamo, nella omelia dell’8 luglio
scorso, sulla spiaggia di Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza, in
fedeltà alla parola di Cristo:
“Ero
forestiero e mi avete ospitato.” [Matteo 25, 35],
dovremmo sentirlo tutti come uno schiaffo per
ciò che non abbiamo fatto.
Che dire davanti al massacro di innocenti che
fuggono la guerra, la fame e la dittatura?
Che dire davanti alle salme di quei 300
disperati, morti per la sola ragione di aver avuto la folle idea di passare da
un continente all’altro, in nome del diritto alla libertà di circolazione?
Lei sogna “una
Chiesa povera, per i poveri” e non esita a denunciare nel capitalismo una “eutanasia silenziosa”. Come colpi di
cannone, che avvertono del pericolo, risuonano i Suoi accenti contro un “liberismo selvaggio [che] rende i forti più
forti, i deboli più deboli e gli esclusi più esclusi”.
Quelle vittime al largo della Spiaggia dei
Conigli erano i poveri dei poveri.
I leaders
europei non possono occultare la realtà cruda e ignobile. Quei 300 morti
accusano l’Europa di non-assistenza a persone in pericolo.
“Mi
viene la parola vergogna: è una vergogna!”
Questa idolatria del capitalismo e del potere
statale, martellata, ogni giorno, alle masse dai media, non è una eresia
aperta?
Non è in contraddizione totale con
l’atteggiamento di Cristo, che pregava sulla croce per i suoi persecutori?
Per tutta risposta alla miseria del mondo,
gli Stati ricchi non adottano che la via repressiva, erigono barriere e torri,
come a Ceuta e a Melilla; spendono centinaia di milioni, ogni anno, in
dispositivi Frontex ed Eurosur, per controllare e dare la caccia agli
immigrati; sovvenzionano gli Stati africani perché controllino, in pieno
deserto, i loro cittadini; sviluppano centri di accoglienza in Africa e in
Europa.
Come i muri eretti tra Grecia e Turchia, tra
Stati Uniti e Messico, tra Africa del Sud e Mozambico, tra Cina e Corea del
Nord, tra Uzbekistan e Afghanistan, tra Botswana e Zimbabwe…
E tutto ciò in pura perdita!
La generalizzazione di questi recinti e
reticolati antimigranti dovrebbe, tuttavia, farci riflettere.
Quale cortina di ferro o di bambù, quale
cordone culturale, etnico o religioso potrebbe mai contenere la pressione
crescente che i 5 miliardi di poveri del Sud del mondo esercitano verso il
miliardo di privilegiati del Nord?
A che servono questi ostacoli che non
dissuaderanno mai coloro che preferiscono rischiare la loro vita su barconi di
fortuna piuttosto che restare nei loro Paesi devastati dalla violenza e dalla
miseria?
Queste linee Maginot del XXI secolo sono
inutili oltre che illusorie. Servono, innanzitutto, a ingannare le popolazioni
degli Stati che li erigono e si rifiutano di ammettere una semplice verità: i
flussi migratori non sono invasioni, ma meri movimenti di popolazione, normali
in un mondo aperto. Non si può, al tempo stesso, erigere a dogma la libera
circolazione delle finanze e delle merci e vietare agli esseri umani di
circolare e, perfino, di insediarsi.
È negare il diritto di ospitalità, il diritto
di asilo, il diritto dei migranti!
Io so che mi si accuserà, ancora una volta,
di angelismo, incapace di comprendere le preoccupazioni popolari. Ma io
difenderò, sempre, una visione del mondo che rifiuta le finzioni ed esige la
verità. I migranti detti “illegali” non sono più nemici di quanto non lo siano
stati gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i francesi, i belgi, gli
olandesi, gli inglesi, gli irlandesi, gli scozzesi, i tedeschi, gli svedesi, i
polacchi, i russi, a partire dal XVI secolo.
Secondo le stime dell’ONU, nel 2003, i
migranti sono stati circa 175 milioni, circa il 3% dell’intera Umanità; nel
2013, 232 milioni, pari al 3,2%, di cui 35mila sbarcati in
Italia.
L’Occidente non si definisce per la sua
“bianchezza” o per la sua religione, ma per la sua storia e per la sua cultura,
prodotto della sua diversità. L’Occidente, è il crogiuolo di una civiltà
co-scritta da migranti. E ciò non ha, mai, cessato dai barbari ai romani, dagli
unni ai vichinghi, dai musulmani andalusi agli ebrei venuti dall’Europa
Centrale.
Oggi, l’Unione Europea si nasconde dietro le
sue mura per proteggere i suoi “ricchi” dai “dannati della Terra”.
Si è trasformata in fortezza.
Costituita per preservare la pace al suo
seno, fa la guerra ai poveri del resto del mondo… e ai suoi stessi cittadini.
Se una crisi esaspera, sempre, i sentimenti
di rigetto, questi stessi sentimenti di rigetto sono rafforzati dalla
situazione di ineguaglianza e di declassamento che incrudelisce in numerosi
Paesi europei.
Tuttavia, il modo di vita occidentale fa
sognare centinaia di milioni di uomini e di donne nel mondo. Le immagini
rimandate dagli schermi creano l’illusione di un mondo dove il lusso sia
facile; dove si trovi lavoro; dove si mangi, assecondando la propria fame; dove
si viva in sicurezza.
Noi sappiamo che non è così, ma, per i
giovani maghrebini, somali, eritrei, siriani, questa illusione permette di
conservare una speranza. Quando il mare non li inghiotte, li getta in una
avventura, alla fine della quale scoprono il rovescio della medaglia: una
Europa della paura e dello smarrimento, dove l’ultimo arrivato non è il
benvenuto, una Europa del “ciascuno per sé”.
Siamo o siamo stati tutti migranti, Ronald
Reagan, Barack Obama, Donald Henry Rumsfeld, Herbert Norman Schwarzkopf, Henry
Kissinger, Zbigniew Brzezinski, Colin Luther Powell, Paul Wolfowitz, Nicolas
Sarkozy, Manuel Carlos Valls, Benjamin Netanyahu…
Abramo, Mosè, Gesù, gli stessi Apostoli…
Lei, Santo Padre, e io…
I migranti sono sotto la protezione
internazionale, ma le leggi nazionali, redatte in fretta, sotto la pressione
della crisi e dell’opinione, creano le condizioni della tragedia di Lampedusa.
Se i migranti attraversano il Mediterraneo a
rischio della propria vita è perché i visti sono impossibili da ottenere.
Se i trafficanti li abbandonano in mare
aperto è perché non vogliono essere considerati responsabili del trasporto.
Se le barche non li soccorrono è perché i pescatori
temono di essere considerati complici.
Le catene dell’ipocrisia debbono essere
spezzate e le leggi illiberali rigettate.
Le diverse centinaia di milioni, che si
spendono per equipaggiare i Paesi rivieraschi e frontalieri, si potrebbero
impiegare meglio in progetti di co-sviluppo.
In luogo di vendere armi ai dittatori, si
potrebbero costruire ospedali.
Corridoi umanitari potrebbero essere
organizzati, a partire dalla Siria.
Il diritto di asilo potrebbe essere esteso,
meglio diviso da tutti i Paesi dell’Unione Europea…
Ma gli Stati dell’Unione Europea non faranno
mai nulla di tutto ciò.
Troppo difficile da “vendere” alle loro
opinioni rispettive, non abbastanza redditizio!
E si dimenticherà Lampedusa fino alla
prossima volta.
I dimenticati della Storia passeranno per
perdite e profitti, come sempre!
Siamo, ora, agli inizi di dicembre. Se
andassi in giro per la campagna, gli alberi si mostrerebbero nel loro aspetto
invernale: senza foglie. Si usa spezzare piccoli rami, camminando, e, forse, se
ne spezzassi uno anche io, potrei osservare su quel ramoscello una unica
piccola gemma iniziare a germogliare. Sarebbe presuntuoso e, perfino, insensato
se supponessi che quella piccola gemma fosse l’unica gemma nel mondo. Penserei,
al contrario, che quel miracolo della natura stia accadendo, anche, altrove.
Il letargo vegetativo di alcuni alberi si
protrarrà più a lungo rispetto ad altri e certi non fioriranno che tra due o
tre anni, ma, in estate, tutti saranno adorni di foglie, a eccezione dei morti.
Nessun pronostico può stabilire se l’estate
politica terrà il passo con quella naturale.
E nonostante ciò, non è difficile accorgersi
che la “Primavera” sia alle porte.
Buon Natale, Sua
Santità!
Assunta Daniela Zini, per tutti semplicemente
D
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