“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 28 giugno 2016

Anonymous - Message to the Citizens of America

Ragusa: padre orco massacra di botte i bambini e li lascia digiuni

sabato 25 giugno 2016

Anonymous - Message to the Citizens of America

venerdì 24 giugno 2016

Manifestation de soutien à Erol Onderoglu, Ahmet, Nesin et Sebnem Korur ...

martedì 21 giugno 2016

Taranto, maxi-operazione della Polizia: fermate 33 persone per associazi...

domenica 12 giugno 2016

XIII. GIORDANIA GERASA E PETRA LE CITTA' CAROVANIERE di Daniela Zini




“…né cristiano né pagano, saracino o tartero, né niuno huomo di niuna generazione non vide né cercò tante meravigliose cose del mondo come fece messer Marco Polo.”

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA  ALL’ALBA

DI UN NUOVO MILLENNIO SULLE STRADE

CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO




“Viaggiare per diventare senza patria.”
Henri Michaux


Agli asini e ai muli, senza i quali nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.

La mondializzazione ha modificato il rapporto con il tempo e con lo spazio.
Le evoluzioni tecnologiche, economiche, politiche hanno provocato, moltiplicato le relazioni tra le persone, le culture.
Ma se le genti si incrociano sempre più, possiamo dire che si incontrano?
La paura dell’Altro, alimentata dall’ignoranza, nutre il razzismo. Vivere con i propri simili rassicura, ma i comunitarismi chiudono, inquietano.
È una banalità affermare che l’incontro con l’Altro permetta l’incontro con noi stessi. È identificando l’Altro che identifichiamo noi stessi.
Chi viaggia  senza incontrare l’Altro non viaggia, si sposta.
Diverse ragioni mi legano all’Asia e, negli anni, mi sono specializzata nei territori legati anche a Marco Polo.
Così è nata l’idea di questo viaggio.

D



XIII. GIORDANIA
  I sovrani ‘Abd Allah II e Rania di Giordania


 I sovrani ‘Abd Allah II e Rania di Giordania


 La famiglia reale di Giordania
 

 La famiglia reale di Giordania

 “Vi è un significato più profondo nelle fiabe
che nella verità quale è insegnata dalla vita.”
Friedrich Schiller

In civiltà intimamente in contatto con le forze elementari della natura, la Fiaba non poteva che avere un grande ruolo: serviva, contemporaneamente, a evocare, a esorcizzare e a fornire una chiave di lettura per quei fenomeni naturali e soprannaturali che, tanta parte, avevano nella vita di ognuno. L’arte di raccontare le Fiabe, dicono alcuni, è morta e appartiene al passato. E le tradizioni orali sono destinate a perdersi, per sempre, quando la vena si esaurisce e i tempi mutano, se qualcuno non inizia, con amore e con pazienza, a raccogliere le ultime testimonianze disponibili. 
Che cosa ispirò Charles Perrault, Jacob Ludwig Karl Grimm, Wilhelm Karl Grimm, Hans Christian Andersen e Lewis Carroll a scrivere le loro fiabe?
Diciamo pure una sorta di sovversivismo. Anticonformisti, cercarono di modificare il mondo, educando gli unici esseri capaci un giorno di rivoluzionarlo: i Bambini. E i Bambini di tutte le età non hanno fatto che seguire, occhi spalancati e naso all’insù, il loro messaggio, sedotti dalla melodia di questi “Pifferai Magici”.
Portate da onde sonore, tra colori e mormorii, le fiabe si collocano in una zona del nostro essere di cui sappiamo poco: tra sogno e coscienza, tra follia e ragionevolezza, tra ferocia e dolcezza, tra estasi e tormento. Sono un mondo di immagini così vive e limpide, così naturali ed espressive, che dilettano la vista e suonano, deliziosamente, all’orecchio. Questo Mondo è il nostro Sogno, il nostro Sogno Dorato, il nostro Castello Incantato.
Questa “Fiaba” ha scopi diversi dai processi, che sono stati anche quelli dei Poeti, rimodellando il Mito o la Leggenda; la trasposizione volontaria e il dettaglio anacronistico hanno, qui, per scopo, non di attualizzare il passato, ma di volatilizzare ogni nozione del tempo. Ciò che conta nella Leggenda e nel Mito, è la loro capacità di servirci da pietra di paragone, da alibi se si vuole, o piuttosto da veicolo per condurre il più lontano possibile una esperienza personale, e, se si può, per superarla.
Una sorta di legame ha collegato, fino dall’antichità il femminile con le piante, la natura e il giardino, spazio narrativo per eccellenza. Quell’accordo segreto che, nell’avvicendarsi dei tempi, non è venuto a perdersi, ma conformandosi alle nuove istanze e ideologie, si è tramandato come cifra segreta dell’Anima. Le Donne hanno, sempre, avuto un passato da portare e un silenzio difficile da vivere, un giardino segreto dove nascono i fiori della speranza, quella cantata da Omar Khayyam “zefiro di primavera sulla fronte delle rose” e da Hafez “giardino, primavera e dolce commercio”. Ad alcune di loro la vocazione poetica non deve essere stata estranea, come non può mancare dove i sentimenti sono intensi e la coscienza è chiara. Nel filare, tessere, ricamare, cucinare, arredare, educare, favoleggiare, avevano occasione di percepire i segnali estetici che ai loro padri, fratelli, mariti, provenivano dall’armare navi, elevare templi, compiere massacri.
Quando si pensa alle donne arabe influenti, il primo nome che viene alla mente del 90% delle persone è, ovviamente, Rania di Giordania. Ed è normale che Rania sia influente in tutto il mondo arabo. È regina di Giordania, è nata in Kuwait, ha fatto studi in Egitto ed è di origine palestinese.
Un passato che non può essere che federativo!
Colei che vi apre le porte del Liber Mirabilis, conosce tutto ciò che incontrerete, conosce le risposte agli enigmi, scioglie gli indovinelli, disperde gli incantesimi, riconosce chi si nasconde in un corpo che una Magia ha trasformato, rintraccia le strade dei pellegrini, sa dove approdano i naufraghi e quali segnali svelino e nascondano le severe bizzarrie del Fato.
Kan ya ma kan...

Constantin Brancusi [1876-1957], Le Baiser, 1907-1908

I tuoi occhi sono notti
Senza stelle né luna
La tua plumbea capigliatura mi avviluppa
Due mondi oscuri
Io mi sono smarrito in me stesso
Rischiarato dalla fiamma del tuo Amore.
Mohammad Abu al-Rub
traduzione dall’arabo di Daniela Zini


GERASA E PETRA
le città carovaniere
Wadi Rum

Centro di mercati e commerci, Gerasa divenne, sotto l’imperatore Marco Ulpio Nerva Traiano [53 d.C.-117 d.C.], la metropoli carovaniera più ricca e più elegante, celebre per i suoi teatri, i suoi templi e la sua via colonnata. Una grande strada maestra la univa a Petra, la città tagliata nella roccia del deserto, capitale dei Nabatei e luogo di sacrifici pagani.

di
Daniela Zini

“All men dream: but not equally. Those who dream by night in the dusty recesses of their minds wake up in the day to find it was vanity, but the dreamers of the day are dangerous men, for they may act their dreams with open eyes, to make it possible.”
Thomas Edward Lawrence [1888-1935]


1.         Gerasa, la città dalle mille colonne

“Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto come nell’oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia, vergini e inviolate.”
Alberto Moravia [1907-1990]

A Nord-Est della punta settentrionale del Mar Morto e di Gerusalemme, in una valle ammantata di verde – un’oasi improvvisa tra gli aridi colli pietrosi della Giordania – si schiude, a un tratto, al viaggiatore una visione di pittoresche rovine. È la valle del Crisorroa, un sub-affluente del Giordano: una valle stretta tra dirupi aspri, in una zona selvaggia e quasi disabitata. Alte montagne la circondano, culminanti in vette eccelse come quelle del R’as Munif e del Jabal ‘Ajlun. A Occidente, attraverso un accavallarsi di colline, il paesaggio degrada verso piccoli villaggi, abitati da tribù di agricoltori, fino a giungere nella fertile vallata del Giordano. Verso Oriente, si stende uno sterminato tavolato, qui e là spaccato da radi wadi, quasi sempre asciutti, attraversato dagli oleodotti che portano l’“oro nero” dal deserto al mare. Nella valle verdeggiante sorgono le rovine di Gerasa, tagliata in due dal fiume e occupata, nella parte orientale, da un villaggio circasso. Ancora risultano chiarissimi il lungo corso a colonne, vera spina dorsale della città, il vasto tempio, che ne è il cuore, e il mercato, dove sostavano le carovane, un complesso urbanistico unitario ineguagliabile nel mondo antico.
Questo è il luogo dove sorse la grandiosa Antiochia dei Geraseni, così chiamata dal nome di una tribù nomade che abitava la regione. Di quei miseri pastori non è rimasto che il nome attuale della città: Gerasa, che fu, un tempo, una delle città più famose in tutto l’antico Oriente, al tempo dell’espansione romana, quando i generali conquistatori vollero creare una catena di dieci città – la Decapoli – per contrastare e frenare ogni eventuale focolaio ebraico in Palestina. Gerasa fu, pertanto, un centro di romanizzazione ed ellenismo, ma fu, anche, una della più importanti città commerciali dell’Oriente antico, servendo come stazione carovaniera tra l’Egitto e l’Africa, da una parte, e la Persia e la Mesopotamia, dall’altra, raccogliendo tutti i traffici diretti verso i numerosi e ben attrezzati porti della costa fenicia.



Ormai crollata, da tempo, l’idea di un impero universale, quale lo avevano concepito gli Achemenidi, i Seleucidi, successori di Alessandro Magno, non erano riusciti nell’intento di unificare l’Asia superiore e l’Asia inferiore. Con l’espansione degli eserciti di Roma verso Oriente il confine tra due grandi civiltà di Oriente e di Occidente andò oltrepassando i limiti stessi del deserto, finché giunse sull’Eufrate; ma le carovaniere, che confluivano a Palmira, a Dura Europos, a Petra, a Gerasa, valicavano ogni confine. Da Petra, nel cuore di uno dei deserti più inospitali del mondo, le carovane attraversavano la Palestina, la Siria, la Mesopotamia e raggiungevano la capitale dei Parti, quei misteriosi guerrieri e cavalieri che, di tempo in tempo, minacciavano gli avamposti romani. La grande conquista di Roma venne, a un certo punto, messa in serio pericolo dalla montante marea asiatica e dalle continue ribellioni interne. Ma, nei primi due secoli dopo Cristo, con il fiorire economico, il crescere degli scambi, l’aumento della popolazione, la struttura delle vecchie città subì profonde trasformazioni. Gerasa era stata, nella più remota antichità, un luogo di ritrovo di tribù beduine, fu, in seguito, una colonia greca, nel II secolo a.C., quando i Seleucidi vi avevano messo stabile piede, poi, era ricaduta preda dei nomadi del deserto, fino all’arrivo delle legioni di Roma. Per sopravvivere, mutò. Furono i legionari che le cambiarono volto: nuove strade, numerose fontane, ricchi templi, due teatri, splendide case residenziali. Numerosissime sorsero le botteghe lungo le strade fiancheggiate da colonnati. Divenne, forse, il miglior gioiello di quella collana di città carovaniere fortificate, che congiungevano, l’una all’altra, le fertili pianure lungo la grande strada, che univa Petra a Damasco e all’Eufrate, vale a dire l’Egitto e l’Africa all’India. Questa via di importanza eccezionale, storica e commerciale, durante tutta l’antichità fu tenuta aperta e controllata, per lunghissimi anni, dai Nabatei, il popolo di Petra, una razza del deserto forte e mai soggiogata da alcuno, i quali, trovandosi nel punto cruciale di transito tra due continenti – l’Africa e l’Asia – vedevano in essa la ragione e la fonte unica della loro vita. Tutto questo portò grande prosperità ai Paesi che con la strada comunicavano e, soprattutto, alle città che erano i centri di posta, di ristoro e di commercio. A Gerasa, si fermarono gruppi di veterani romani o ellenizzati; si presero misure per promuovere ogni specie di traffico, compreso quello degli schiavi; finché si assisté alla “promozione” della città al rango di colonia al tempo di Traiano e dei suoi successori. Fu questo il momento migliore per la grande città carovaniera, che divenne un’oasi di beatitudine e di riposo per soldati, viaggiatori, mercanti, avventurieri: un “Eldorado” dell’antichità, che aveva le sue sale da gioco, le sue case di piacere, i suoi divertimenti più lussuosi, quali si addicevano a una città di frontiera, oltre le cui colline circostanti attendevano, con la pazienza tenace degli uomini del deserto, i cavalieri persiani nomadi. Fu questa, per Gerasa, una epopea da Far West, con ricchezza, lusso e fasto entro le mura, e agguati, imboscate e uccisioni a poche miglia da essa, lungo la valle del Crisorroa e sulle montagne. Le incursioni dei cavalieri persiani si fecero, sempre, più frequenti, nel III secolo d.C., e, in molti casi, i Geraseni dovettero venire a patti. La città, poi, si riebbe e si sviluppò, in seguito, quale centro della cristianità, dopo che il sangue di numerosi martiri ebbe bagnato le piazze e le strade.


Tempio di Artemide

Dal IV secolo in poi, furono costruite modeste chiese accanto ai templi e, insieme a esse, apparvero anche delle sinagoghe, ma la vera rinascita di Gerasa avvenne solo con la pace di Giustiniano [483 d.C.-565 d.C.], con la ripresa del commercio carovaniero, con le strade del deserto sicure e libere dai predoni. Accanto alle rovine del Tempio di Artemide sorse la Cattedrale con una piscina sacra e splendidi propilei, che rivaleggiavano con le costruzioni pagane. Gli edifici dei culti precedenti furono mutati in chiese e, in essi, apparvero pitture e mosaici all’uso bizantino.

Ninfeo

Pur nella nuova fede, i Geraseni di antica stirpe celebravano, ancora, antichissimi riti pagani, alcuni a carattere licenzioso – come quello chiamato maiuma, che comprendeva l’immersione rituale di donne nude – che destarono lo sdegno dei Padri della Chiesa, soprattutto perché richiamavano una grande folla, anche di fedeli. Questa rinascita fu, però, assai breve. La città fu, improvvisamente, spazzata via da una marea che sconvolse tutte le regioni limitrofe: i cavalieri Sasanidi, provenienti dalla Persia, misero a ferro e fuoco ogni villaggio e città, incontrati sul loro cammino. La gente si rifugiò sui monti e visse, a lungo, in caverne; molte donne furono rapite e condotte negli harem persiani al di là dell’Eufrate; i discendenti dei nomadi ripresero la via del deserto; tra le rovine della città fecero nido gli sciacalli, i falchi e i serpenti.
Giungiamo, così, all’ultimo periodo della storia di Gerasa: quello che la vide entrare nell’orbita della espansione araba, quando i discendenti del profeta Maometto impugnarono le scimitarre contro tutti gli infedeli. Un decreto del califfo Yazid II [690-724], nel 720 d.C., ordinava che, nei suoi domini, fossero distrutte tutte le immagini di bronzo, di pietra, di mosaico o di pittura. Fu quasi la fine per la città, che vide, poi, distrutto quanto restava dei suoi monumenti da un terremoto, nel gennaio del 746 d.C. Ma la vera causa del suo tramonto fu il cambiamento di organizzazione del commercio carovaniero, che aveva, ora, come punti cruciali di ritrovo, i luoghi sacri del mondo arabo. Il colpo fatale ai muri, che ancora restavano in piedi, si abbatté sulla città, nel XIV secolo, quando una banda di soldati, condotti dal sovrano di Gerusalemme, rase al suolo le fortificazioni arabe insediate nei resti dei templi. Da quel giorno gli Arabi, quando volevano indicare qualcosa in estrema rovina, la paragonavano alle macerie di Gerasa. 
La riscoperta di Gerasa avvenne, nel 1920, quando la British School of Archaeology in Jerusalem vi condusse grandi scavi e restauri che, dopo il 1948, scaduto il mandato inglese, furono proseguiti, direttamente, dal Department of Antiquities of Jordan. Gli scavi archeologici rivelarono aspetti sconosciuti e inaspettati, a esempio circa i resti dell’abitato di età preistorica, e valorizzarono, di nuovo, la città.
Oggi, l’antico centro dei Geresani, che subì tante e diverse vicende, è meta di turisti e di amanti di cose d’arte: non pochi, tuttavia, sono coloro che vengono trascinati dal richiamo del deserto e delle antiche vie carovaniere ancora aperte e percorribili con relativa facilità.





2.         Petra, una città nella roccia
“Il deserto è un luogo privo di aspettative.”
Nadine Gordimer [1923-2014]


  Non sembra scaturita dalla mano dell’Uomo,
Costruita dall’opera elaborata di una fantasia irresoluta;
Ma sembra nata dalla roccia come per magia,
Eterna, silenziosa, stupenda, solitaria!

Petra si descrive meglio in poesia che in prosa!

Petra [1845]
John William Burgon

It seems no work of Man’s creative hand,
By labor wrought as wavering fancy planned;
But from the rock as if by magic grown,
Eternal, silent, beautiful, alone!
Not virgin-white like that old Doric shrine,
Where erst Athena held her rites divine;
Not saintly-grey, like many a minster fane,
That crowns the hill and consecrates the plain;
But rose-red as if the blush of dawn,
That first beheld them were not yet withdrawn;
The hues of youth upon a brow of woe,
Which Man deemed old two thousand years ago.
Match me such marvel save in Eastern clime,
A rose-red city half as old as time.

Nel 1845, quando John William Burgon [1813-1888] scrisse questi versi non si era ancora recato a Petra – avrebbe visitato la città solo sedici anni dopo! – e la conosceva, come molti suoi contemporanei, solo attraverso le litografie e le pitture dello scozzese David Roberts [1796-1864], che, nel 1839, le aveva pubblicate nel suo libro The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Nubia, and Egypt. In effetti, la città non era accessibile che agli europei accompagnati da guide locali e scorte armate. Ma, da allora, l’appellativo di Città Rosa sarebbe stato, per sempre, legato a Petra.

 
Nascosta in mezzo al deserto e, un tempo, inaccessibile al mondo esterno, Petra, uno dei tesori archeologici più preziosi del mondo intero, è stata dichiarata, il 6 dicembre 1985, Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.   
Ripercorriamo ora le vecchia pista del deserto, la strada che congiungeva due mondi così diversi tra loro.
Si incontra, ben presto, Amman, l’odierna capitale della Giordania, con 1,2 milioni di abitanti, anch’essa un’antica carovaniera, Philadelphia. La strada carovaniera passa sotto la via principale della città, in parte basata su volte che coprono il letto del fiume, fiancheggiata da portici, edifici, ninfeo, santuari.


Lasciata Amman, si percorrono oltre 400 chilometri di strada e pista per giungere alle montagne di Petra; si discende la profonda vallata del Wadi al-Mujib, al limite del Paese di Moab, si risale e, nella immensa solitudine, due miliari romani si ergono a ricordare la strada traianea. Su un’altura, il Castello di Kerak e poi quello di Shobak, segnano i punti più meridionali dell’avanzata dei Crociati, poi, è l’ultimo villaggio, Tafillah, e, infine, deviando dalla via per Aqaba, si giunge al Wadi Musa, Valle di Mosè, uno dei tanti luoghi in cui Mosè avrebbe fatto sgorgare l’acqua, colpendo la roccia [Numeri 20:10-11]. È l’abbeverata dei cammelli a un’acqua limpida che sgorga dalla montagna, presso un piccolo villaggio beduino.
Di qui, si inizia la cavalcata verso la mitica, favolosa Petra.
Si scende nella valle dove il fiume si è tagliato un passaggio tra le rocce rosso-scure, tra l’oro del deserto e il verde delle colline. La cavalcata scende, lentamente, tra le mura rocciose della gola che va, sempre, più restringendosi. Questa gola servì, per secoli, da strada maestra, calpestata da cammelli, muli e cavalli, da mercanti e da beduini; all’improvviso uno spiraglio si apre nel fondo valle su una fantastica architettura: Al-Khazneh, il Tesoro, il cosiddetto Tempio di Iside, forse, tempio di una dea locale. Con lei erano adorati i suoi due compagni di origine greca, i Dioscuri, che erano ambedue stelle, l’uno la stella mattutina, l’altro quella della sera. Queste stelle, che guidavano i Greci durante i loro viaggi per mare, servivano agli Arabi petrei da vere e proprie guide, attraverso il buio deserto. Poi, la gola rocciosa si allarga, vive, è popolata dalle facciate delle case dei morti, torri-altari con ornamenti dentellati di tipo assiro tagliati a profondo rilievo, e, accanto a queste facciate, che rappresentano lo stile indigeno più antico, ve ne sono altre, ellenistiche, composte di portici e colonne anche a tre ordini e adorne di statue.

Tomba di Sesto Fiorentino

Nella montagna sopra Petra, raggiungibile per scalinate tagliate nella roccia, è il grandioso Tempio di Ad-Deir, pure tagliato nella roccia con una facciata a colonne alta 45 metri e larga altrettanto. Dove si allarga la gola vi è un teatro scavato nella roccia, poi, segue la sfilata di tombe e santuari. Per sentieri scoscesi si sale ai picchi delle montagne dove, da tempo immemorabile, i beduini sogliono salire per rendere omaggio alle divinità sotto l’aperto del cielo: Dushara, dio del Sole, e Allat, dea della Luna. Ma oltre alla città dei morti, sviluppata anche in età romana con tombe-palazzi – come quella del governatore romano di Arabia, Sesto Florentino [130 d.C.], – è la città dei vivi, la città carovaniera assai singolare, della quale è ancora riconoscibile la pianta. Tre gole costituiscono le sue entrate principali. Forse, l’area di questa città non corrispondeva a quella della città più antica che era la fortezza e la città-caverna, resaci familiare dalla Bibbia sotto il nome di Sela. Gruppi di case nella roccia furono, poi, trasformati in tombe. Nei tempi ellenici e romani, Petra scese nella valle e mutò il suo carattere, da città sotterranea in città sulla superficie della terra, allorché fu racchiusa da mura. La pianta della città fu imposta dal commercio carovaniero; infatti, la via principale segue il fiume Wadi Musa. Petra conobbe periodi difficili e periodi aurei; grande fortuna ebbe, nell’ultimo periodo ellenistico, quando i mercanti nabatei arrivarono a Sidone e fino in Italia, a Pozzuoli, creando le loro comunità con propri templi; la loro ceramica dipinta a ornamenti rosso-bruni, sottile, bella e fragile si ritrova su largo raggio. Allora, la protezione di tutte le più importanti strade carovaniere era in mano dei Nabatei, che crearono un impero carovaniero, poiché le aspre e rocciose gole tra cui sorgeva Petra, sbarravano la strada battuta delle carovane, provenienti dall’India e dalla Persia attraverso l’Arabia meridionale. Questa epoca durò poco meno di tre secoli: dal 164 a.C. a Traiano. Poi, il centro del commercio passò a Bosra, che divenne anche centro politico. Così si spengeva, lentamente, la vita di quella strana città di roccia, dove l’ardente fede del solitario beduino, del capo carovaniero, si univa alla vita febbrile del mercante speculatore. Oggi, tra le rocce rosso-ocra venate di giallo, grigio e bianco, nella solitudine spettrale della città morta è annidato solo qualche nomade silenzioso, avvolto in un mantello nero. Di notte, si odono solo urla di sciacalli. Petra è, ancora, uno dei pochi luoghi sulla terra che riserbino la gioia della scoperta, perché niente di quanto se ne scrive e dice può dare un’idea della sua bellezza e delle profonde emozioni che suscita. Perduta la memoria dell’antica città, Petra fu riscoperta, nel 1812, durante un viaggio avventuroso, da un giovane che usò mille astuzie per convincere la guida araba a guidarlo nel luogo di cui si raccontavano meraviglie, ma che si teneva, religiosamente, segreto. 



Quando, nel 395 d.C., l’imperatore Teodosio I [347 d.C.-395 d.C.] divise, tra i suoi due figli, l’impero romano e le province orientali si trovarono raccolte intorno alla più vicina Costantinopoli, Petra aveva, ormai perduto, da molti decenni, la sua posizione privilegiata e il radicale cambiamento politico non dovette significare molto per i suoi abitanti. L’antica città carovaniera, che, in età ellenistica, controllava quasi tutti i traffici del Vicino e del Medio Oriente e che, ancora sotto i Cesari, era il principale centro di raccolta e di smistamento di tutte le merci provenienti dall’Arabia, dall’India e dalla lontana Cina, aveva perduto, ormai, la sua stessa ragione di esistere. La grande fortuna di questa città era dovuta non solo al genio commerciale e politico dei suoi abitanti, i Nabatei, ma anche alla sua stessa posizione geografica: imprendibile per la barriera rocciosa che la circonda, Petra si trovava, infatti, nel punto di incontro di tutte le vie carovaniere che, nel primo millennio a.C., attraversavano la regione. Ma, quando il centro degli affari e dei traffici si spostò più a Nord, a Gerasa e a Palmira, la città iniziò a declinare e gran parte dei facoltosi mercanti nabatei preferì trasferirsi dove il guadagno era, ancora, facile. Ora, agli inizi dell’età bizantina, la popolazione era in crescente diminuzione e i superstiti sentirono il bisogno di stringersi entro nuove mura, molto più ridotte delle precedenti. Data la debolezza del governo bizantino, la città ritornò, virtualmente, indipendente, ma le autorità locali non furono più in grado di difendere la città e, soprattutto, le strade dalle scorrerie dei predoni del deserto e dalla minaccia dei Parti. Neppure all’interno la situazione era tranquilla: il Cristianesimo, che, dal 333 d.C., era divenuto la religione ufficiale dell’impero, si era rivelato, ben presto, una causa di discordie e di lotte fratricide, che seguivano, immancabilmente, alle diversità ideologiche delle varie sette. 

Teatro romano

Il declino di Petra fu lento, ma il canto del cigno non fu glorioso: i risultati degli scavi mostrano, chiaramente, come, in questo suo ultimo periodo, la città vivesse tra le sue stesse rovine, i grandiosi palazzi di un tempo fossero degenerati in antri inabitabili e gli edifici pubblici fossero, ormai, frazionati in una miriade di piccoli locali di abitazione, se non addirittura coperti di casupole parassite, che si intrufolavano nella struttura originale, tanto da cancellarne la pianta originale. Un altro segno della decadenza di Petra è la totale assenza, in questo ultimo periodo, di iscrizioni in lingua nabatea, quasi che la popolazione superstite fosse composta, ormai, solo di quei forestieri poliglotti, che sono gli inevitabili parassiti di ogni grosso centro commerciale. Forse, i Nabatei avevano abbandonato la regione come erano venuti, in silenzio, alla spicciolata, inseguendo la speranza di un guadagno in terre lontane. Gli scavi archeologici ci fanno pensare che sia stata una catastrofe naturale a dare il colpo di grazia alla città. Si è tentati di pensare che si tratti dello stesso terremoto, che rovinò al suolo anche Gerasa e molte altre città palestinesi, verso il 750 d.C., ma dal momento che le mura crollarono in un soffice letto di sabbia del deserto, è probabile che la città sia stata abbandonata dagli ultimi abitanti, almeno duecento anni prima.
La prima espansione degli Arabi, che, da poco, avevano abbracciato la nuova fede, fece calare il sipario sull’antica città carovaniera e, per molti anni, non si seppe più nulla di Petra.
Quando i Crociati vennero in Terra Santa, costruirono un forte sui monti che dominano la città, utilizzando materiale sottratto alle rovine; sarebbe affascinante sapere come apparisse, allora, la valle di Petra, ma nessuno dei soldati ha lasciato scritte le sue memorie. Gli Arabi non se ne interessarono molto di più: con il venir meno del sapere classico, il Vicino Oriente conobbe un lungo periodo di oscurantismo, favorevole al formarsi di leggende e alla nascita di miti.
Era impensabile che la nuova cultura, nata dall’islam, dissipasse queste tenebre!
I nuovi valori erano, totalmente, diversi da quelli che avevano dominato il mondo classico e non vi poteva essere nessuna simpatia tra i due mondi. I grandiosi monumenti scavati nella valle di Petra erano per gli Arabi qualcosa di incomprensibile: i beduini di passaggio vedevano in queste imponenti rovine le miracolose creazioni di un mago, Faraone, che nella mentalità del tempo era l’equivalente del Diavolo della nostra mitologia medievale, lo stregone per eccellenza, che dimostrava la sua potenza con queste realizzazioni grandiose quanto incomprensibili.
Il 22 agosto 1812, in un angolo dimenticato dell’impero ottomano, due alteri cavalieri arabi scesero lungo il greto sassoso del Wadi Musa e si avvicinarono al campo di beduini che circondava le sorgenti. Uno dei due uomini era Ibrahim ibn Abdallah, pellegrino di origine indostana, noto in tutto il mondo arabo per la sua saggezza e la sua pietà, l’altro era la sua guida, che si trascinava dietro una riluttante capretta, che aveva, ancora, meno voglia di lui di scendere nella valle. Forse, l’animale indovinava cosa lo aspettasse: essere sacrificato sulla tomba del profeta Aronne, lassù in cima a quelle montagne che si profilavano oltre la valle. Questo, infatti, era lo scopo della spedizione e, dopo molte discussioni, la pia intenzione dei due cavalieri fu accettata anche dal gruppo di beduini, che avevano tutta l’aria di essere predoni, come si dice a Damasco della gente di queste parti. Ma anche i predoni rispettano la fede e i due cavalieri vennero lasciati liberi di inoltrarsi in una gola rocciosa, il Siq, che portava in fondo alla valle. Le pareti dello stretto corridoio sono alte centinaia di metri: solo, in pochi tratti, il sole arriva a baciare il suolo. Nella striscia di cielo, che si intravede sopra le rocce, roteano i falchi e le aquile. In questo luogo deserto e spettrale il Mago Faraone ha stabilito la sua dimora e la guida ha paura di andare avanti: meglio sacrificare qui la capra, ora che sono in vista della tomba. Ma la costanza del pellegrino Ibrahim non ha limiti: vuole oltrepassare la città e compiere il sacrificio sul vero luogo della tomba di Aronne, per esaudire il suo voto. Fa un caldo tremendo: in alto, sopra di loro, i cavalieri scorgono un arco di pietra, altissimo, che unisce roccia a roccia, collegando le due montagne. Per la guida è solo un rifugio di gufi e fantasmi, ma il pellegrino Ibrahim lo ammira estatico, rimanendo per mezz’ora con il naso all’insù, mentre il suo cavallo si spazientisce e scivola sui sassi. Finalmente il corridoio nella roccia sembra finire: dietro l’ultima spaccatura si intravede una macchia vivace di colore. Ai due cavalieri appare, nella luce di taglio del mattino, la facciata rosa di un gigantesco monumento:
“Al-Khazneh al-Faraun! [É il Tesoro di Faraone!]”,
grida la guida.
Tutti sanno che il potentissimo mago ha nascosto le sue ricchezze dentro quell’urna che sta in cima al palazzo scavato nella roccia. I due uomini scendono da cavallo e la guida, imbracciato il fucile, inizia a sparare dentro l’urna di pietra, sperando di vederla scoppiare facendo precipitare ai suoi piedi una pioggia di monete d’oro. Intanto, il pellegrino Ibrahim è, già, dentro al fantastico palazzo: ha tirato fuori il suo diario e, al riparo dagli sguardi indiscreti e sempre sospettosi del suo compagno, sta annotando ciò che ha visto e stende una precisa pianta dei luoghi e dei monumenti. Tra qualche mese quei fogli saranno a Londra e tutta l’Europa saprà che Johann Ludwig Burckhardt [1784-1817], l’esploratore svizzero, ha scoperto le rovine dell’antica città di Petra...
La descrizione di questi avventurosi momenti la troviano nei Travels in Syria and the Holy Land, pubblicato a Londra, nel 1822, cinque anni dopo la morte del suo autore, ora sepolto nel cimitero del Cairo, con il nome di Pellegrino Ibrahim ibn Abdallah, che aveva portato per metà della sua esistenza. Fu solo viaggiando, sotto mentite spoglie, che poté attraversare incolume le terre arabe, studiando e cercando di comprendere un mondo ostile e, diametralmente, opposto al suo. Insieme a Lawrence d’Arabia, Burckhardt è, forse, l’uomo che più si è avvicinato all’anima degli Arabi, riuscendo a superare quelle differenze culturali che, ancora oggi, separano l’islam dall’Occidente. Ma Burckhardt non è stato solo un sensibile interprete del mondo arabo: è uno dei pionieri dell’archeologia. La notizia della sua scoperta si sparse, certo, molto tempo prima della definitiva pubblicazione dei suoi viaggi, se, nel maggio del 1818, due alti ufficiali della Royal Navy, Charles Leonard Irby e James Mangles, accompagnati da alcuni esperti di antichità, trascorsero, diversi giorni, visitando le rovine. Si sarebbero fermati, certamente, più a lungo, se non fossero stati, continuamente, in ansia per i predoni e la popolazione locale. Per questo, anche loro, si erano travestiti da Arabi, ma, considerate le scarse cognizioni dell’Inghilterra romantica sul mondo arabo, si può ben ritenere che il loro camuffamento non fosse tale da garantire loro di non essere scambiati per spie o cercatori di tesori. Dal loro resoconto di viaggio, pubblicato a Londra, nel 1868, apprendiamo come i loro esperti non fossero molto convinti della bellezza dei monumenti di Petra: li trovavano barocchi, borrominiani e, nel complesso, molto poco corrispondenti a quello stile classico che si aspettavano di trovare. Ma la bellezza della scenografia naturale li travolse:
“Salvator Rosa stesso non immaginò scenario più selvaggio e più adatto per i suoi “banditi”...”
Nel 1826, arrivò un altro visitatore: era il marchese Léon de Laborde [1807-1869], direttore generale degli Archives de l’Empire, deputato e membro dell’Académie Française. La sua attenzione si appuntò, particolarmente, sui monumenti più antichi, quelli del cosiddetto periodo assiro. Le litografie, lasciate dall’incisore Louis-Maurice Adolphe Linant de Bellefonds [1799-1883], che era al suo seguito, colgono perfettamente, in maniera un po’ naïve, lo spirito di quei luoghi abbandonati e rappresentano, ancora oggi, una preziosa testimonianza per lo studio dei monumenti, irrimediabilmente, danneggiati, quali l’arco del Siq.

Al-Khazneh






Ancora più interessanti da questo punto di vista sono i disegni di David Roberts [1796-1864], che visitò Petra, nel 1829, pubblicando in seguito una raccolta di finissime illustrazioni.
Tra i primi visitatori di Petra vi è anche il grande Austen Henry Layard [1817-1894], il padre dell’archeologia come scienza e futuro scopritore di Ninive. Anche lui cadde nell’errore comune a quelli che lo avevano preceduto, e credé che la città fosse interamente in quelle facciate scavate nella roccia, senza accorgersi che si trattava solo di tombe o monumenti, mentre i resti dell’imponente centro abitato giacevano sepolti in mezzo alla valle.
Layard non apprezzò molto l’architettura di Petra, ma non poté fare a meno di notare che le rovine erano un fatto quanto meno unico in tutto il mondo antico.
In questo non si sbagliava, perché soltanto a Madain Saleh, l’antica Hegra, esiste qualcosa di comparabile alla impressionante miriade di facciate che copre le pareti della valle di Petra.
Dopo Layard molti altri visitatori e studiosi vennero a Petra, ma nessuno intraprese vere e proprie ricerche scientifiche. Ciò che attraeva quegli spiriti avventurosi, quei pionieri dell’archeologia romantica erano il fascino desolato dei luoghi, la grandiosità di panorama che unisce le memorie del passato a un paesaggio suggestivo e, non ultimo, il brivido di un viaggio ricco di pericoli e di difficoltà.
Per dissipare le leggende e le fantasie e ridare a Petra la sua giusta dimensione storica, si dovettero attendere gli inizi del secolo scorso, le prime esplorazioni veramente scientifiche, i primi rilevamenti accurati. In questo senso il vero pioniere di Petra fu il professor Alois Musil [1868-1944], che lavorò nella valle, nel 1896.
Ma il suo lavoro, Arabia Petraea, non fu pubblicato che, nel 1907, quando aveva, già, visto la luce la poderosa opera di due studiosi tedeschi, Rudolf Ernst Brünnow [1858-1917] e Alfred von Domaszewski [1856-1927].
Il loro lavoro è stato quello di redigere piante precise di tutti i monumenti, fornendone una accurata misurazione, una descrizione, una ipotesi del probabile uso e una analisi dello stile.
Sotto il profilo architettonico i monumenti di Petra si possono dividere in sei gruppi principali, che rappresentano le fasi di uno sviluppo stilistico, di una evoluzione, che ci può insegnare molte cose a proposito della storia culturale e politica della città. Il lavoro di descrizione e di catalogazione, prima ancora di quello di scavo, è stato, dunque, di capitale importanza.
Il primo gruppo è quello dello stile cosiddetto rettilineo, cui appartengono pochissime facciate intagliate nella roccia. È il più antico, il più semplice, che riproduce nella pietra l’architrave ligneo che coronava la porta delle abitazioni.
Il secondo stile, quello cosiddetto assiro, raggruppa quasi metà delle facciate scolpite di Petra. È la prima autentica espressione architettonica dei Nabatei e, probabilmente, riproduce l’aspetto esteriore delle case in muratura mesopotamiche. La caratteristica dominante è una banda di scalini, che corona la composizione della facciata, la quale, in origine, era, certamente, stuccata e dipinta. La quasi totalità dei monumenti è costituita da tombe, ma non è escluso che alcune di esse siano, prima o poi, servite quali abitazioni. In ogni caso, le facciate assire ci danno un’idea, abbastanza, precisa di come dovesse apparire l’agglomerato urbano di Petra, simile in certo modo alle città arabe. I Nabatei, che, prima di stabilirsi nell’area della Bassa Giordania, erano un popolo nomade del deserto arabo, avevano, probabilmente, appreso l’arte di costruire dai neo-Babilonesi, che avevano stabilito diverse colonie militari nell’Arabia settentrionale. Non ci deve, dunque, stupire l’aspetto mesopotamico della Petra più antica.
Nella fase stilistica seguente, cavetto, troviamo, invece, la presenza di un elemento, il cavetto appunto, molto frequente nell’architettura egizia. Le facciate si arricchiscono di pilastri e di altri elementi decorativi, che trovano, poi, il loro sviluppo più naturale nello stile doppia cornice, in cui salta, subito, all’occhio l’influsso dell’arte ellenistica. Questo periodo ci dimostra, infatti, un crescente desiderio da parte della locale cultura nabatea di assimilare e incorporare i nuovi elementi artistici e culturali propri di quelle civiltà con cui era venuta a contatto. Non vi è dubbio, tuttavia, che, al tempo stesso, si registrasse un certo conservatorismo, che tendeva a non eliminare quei risultati che erano, già, stati raggiunti in precedenza. Il compromesso tra queste opposte tendenze è la caratteristica precipua di tutta l’arte nabatea, che riesce, in questo modo, a raggiungere una sua strana originalità.
Una radicale rivoluzione stilistica si ebbe, a Petra, dopo la costruzione del Tesoro, il grande monumento posto all’uscita del Siq, che, con ogni probabilità, doveva trattarsi di un tempio. È un’opera squisitamente ellenistica e, senza dubbio, fu creata da artisti stranieri, invitati a Petra da Aretas III Filelleno [prima metà del I secolo a.C.]. Il Tesoro fece una grande impressione nel mondo artistico nabateo, che si sentì obbligato a emulare lo stile e le proporzioni. Vediamo così nascere lo stile cosiddetto nabateo classico, che abbandona, del tutto, quegli elementi orientali dei periodi precedenti e si estrinseca, invece, in un complesso monumentale di colonne, archi e architravi, che, non di rado, risulta di effetto piuttosto pesante.
Nell’ultima fase, quella romana classica, la tradizione locale è, ormai, completamente, sommersa dal lavoro standardizzato degli architetti romani. Ma lo studio di questi ultimi monumenti è, particolarmente, interessante dal punto di vista storico. Analizzando le grandiose ristrutturazioni urbanistiche del periodo dell’amministrazione romana si è, completamente, screditata l’opinione, un tempo abbastanza diffusa, che l’inserimento del regno nabateo nell’impero sia stato seguito da una immediata decadenza economica della città.
Gli studi di architettura, cui contribuirono considerevolmente anche i tedeschi Walter Bachmann, Carl Hans Watzinger [1908-1994] e Theodor Wiegand [1864-1936], Hermann Gustav Dolman [1908-1912] e l’inglese sir Alexander Blackie William Kennedy [1847-1928] e quelli di epigrafia, dovuti essenzialmente all’abbé Jean Starcky [1909-1988], non furono, tuttavia, sufficienti per realizzare una documentazione completa della complessa civiltà nabatea: occorreva una dettagliata ricerca archeologica. Questa fu iniziata soltanto, nel 1929, da due archeologi inglesi, George Horsfield [1882-1956] e sua moglie Agnes Ethel Conway [1885-1950], e proseguita da Margaret Alice Murray [1863-1963], nel 1937.
Entrambe queste spedizioni non si occuparono del centro della città, ma aprirono delle trincee di scavo nelle zone periferiche, mettendo in luce tratti di mura, strutture di abitazioni.
Gli scavi più importanti furono quelli del dopoguerra: dopo i primi lavori del Department of Antiquities of Jordan, diretti da Diana Kirkbride [1915-1997], che davano una sistemazione definitiva alla strada colonnata romana, la quale attraversava tutta la città di Petra, nel 1958, Peter J. Parr e Crystal-Marie Bennett della British School of Archaeology in Jerusalem condussero sistematiche esplorazioni in tutta l’area centrale della città.
Si poterono, così, aggiungere molte tessere mancanti al grande mosaico della storia di Petra, datare i monumenti principali e ottenere nuove preziose informazioni sulla storia economica e commerciale della città, che, per molti versi, è legata a quella di tutto l’Occidente.
È, ormai, chiara, infatti, l’importante posizione di Petra, proprio in età romana, come tramite tra Roma e il più lontano Oriente. Vi sono molte prove che il commercio con la Cina passasse attraverso le vie carovaniere dei Nabatei e le fonti cinesi riferiscono del luogo dove avvenivano gli scambi commerciali come Li-Kan, nome che potrebbe essere una corruzione di Reqem o Raqmu [la variopinta], l’antico nome di Petra nella lingua locale, o di Leuce Come [Villaggio Bianco] il porto più meridionale [sulla costa araba] del regno nabateo.


Gli scavi archeologici più recenti hanno fornito informazioni anche sul passato pre-nabateo di Petra.
La zona era, infatti, già, abitata, nel VII millennio e gli scavi sulla collina di Al-Beidha [La Bianca], condotti da Diana Kirkbride, nelle campagne 1958-1967, hanno messo in luce ben otto livelli di occupazione di un villaggio neolitico, occupazione che sembra essere stata interrotta dal 7000 al 6500 a.C.
La documentazione dell’evoluzione architettonica neolitica, eccezionalmente completa, è del massimo interesse.
Il passato biblico di Petra è stato, invece, investigato da Chrystal-Marie Bennett, che ha portato alla luce due stanziamenti edomiti, uno sulle colline di Tawilan e l’altro in cima alla roccia di Umm al-Biyara. Sui risultati di queste due spedizioni si basa gran parte della attuale conoscenza di questo popolo, più volte menzionato nella Bibbia come uno dei tre tradizionali nemici di Israele [Edom, Moab e Ammon].
Gli Edomiti, dunque, erano stanziati proprio nella zona della futura Petra, non nella valle, ma sulle colline circostanti. Per aver negato il permesso di passare attraverso la loro terra agli Ebrei, si guadagnarono una mortale inimicizia, e, in una serie di guerre, pressoché ininterrotte, furono quasi sterminati e fatti schiavi. Già, allora, era della massima importanza, dunque, la via carovaniera che collegava la Palestina al Mar Rosso e alle miniere del Sinai. E proprio per questo, Re Salomone fu costretto a lasciare liberi gli schiavi edomiti, perché andassero a ripopolare una zona strategicamente importante, che, altrimenti, avrebbe rischiato di essere inghiottita, nuovamente, dal deserto.
Quando i Nabatei, popolo nomade del deserto arabo iniziarono a migrare verso Nord, nel VI secolo a.C., assimilarono, gradatamente, gli originari abitanti della valle di Petra, dai quali appresero, certamente, molte tecniche e molte tradizioni. In pochi secoli, quell’informe agglomerato di abitazioni troglodite, attendamenti e villaggi arroccati sui monti si sarebbe trasformato grazie al genio commerciale dei Nabatei, in una delle più fiorenti città di tutto l’Oriente.  

Daniela Zini
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