500 anni fa moriva
LEONARDO
di Messer Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise,
2 maggio 1519]
a Vincent
“Che cos’è la Storia, se non una Favola su cui ci si è messi d’accordo?”
Dan Brown, Il Codice da Vinci
“La striscia Nord-Sud era nota come Linea della Rosa. Per secoli
il simbolo della Rosa era stato associato alle carte geografiche e a tutto ciò
che guidava le anime nella giusta direzione. La Rosa dei Venti, disegnata su
quasi tutte le carte indicava i quattro Punti Cardinali e quelli Intermedi, e quando
era completa suggeriva le trentadue direzioni ossia i trentadue venti che
soffiavano da quelle direzioni. Disegnate all’interno di un cerchio, quelle
trentadue direzioni della bussola o dei venti assomigliavano a una Rosa con
trentadue petali. Ancora oggi il cerchio che nelle carte geografiche indica le
direzioni è noto come Rosa dei Venti e il Nord vi è segnato con una freccia o
talvolta con il simbolo del Giglio, il Fleur-de-lis.”
Dan Brown, Il Codice da Vinci
“Gesù
stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a
parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di
Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demòni.” Altri poi, per
metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i
loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa
cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare
in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul.
Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di
chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io
scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
Quando
un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni
stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via
l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.
Chi
non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.”
Luca, 11, 14-23
Il Discepolo che Gesù ama è un personaggio misterioso che
compare solo nel Vangelo di Giovanni. Non viene mai chiamato per nome, ma solo
con questo titolo.
Quando Gesù viene arrestato e portato davanti ai Sommi Sacerdoti
, è il Discepolo che Gesù ama a seguirlo.
Quando Gesù viene crocifisso, è il Discepolo che Gesù ama ai
piedi della croce.
Quando le donne si recano
al sepolcro per ungere Gesù e trovano la pietra rotolata, è il Discepolo che Gesù
ama ad arrivare per primo alla tomba.
Gli altri Vangeli non parlano mai di lui.
Ma come può il Vangelo di Giovanni offrire una testimonianza di
questo Discepolo che Gesù ama, se non è esistito?
Io sono un mentitore.
Nato nella menzogna, educato nella menzogna, formato alla
menzogna da un servizio di cui è la ragione d’essere, rotto alla menzogna dal
suo mestiere di scrittore.
Le colpe più orribili possono
essere perdonate, ma non cancellate.
Crescere a Roma mi ha dato l’impressione
che il perdono venga concesso con facilità. Schiere di fedeli in fila davanti
ai confessionali, in attesa di accusarsi, mentre le luci rosse lampeggiano
senza sosta a segnalare che i sacerdoti all’interno hanno terminato con un
peccatore e sono pronti ad accogliere il successivo.
Le coscienze non si possono
sporcare quanto le stanze e i piatti, pensavo, dal momento che esigono molto
meno tempo a essere ripulite.
Alla
periferia orientale di Parigi, nella zona di Belleville, vi è un luogo che accoglie, ogni anno, oltre due milioni di
visitatori, è il Père Lachaise. Circa un milione di persone riposa nelle
migliaia di tombe disseminate sui suoi quarantatrè ettari.
Nei pressi della fossa
comune, lontano dal quartiere elegante di questa città dei sepolcri, lontano da
tutte quelle tombe di fantasia, che spiegano in presenza dell’Eternità le
esecrabili mode della Morte, vi è, in un angolo deserto, lungo il vecchio muro,
sotto un grande tasso, sul quale si inerpicano le campanule multicolori, tra la
gramigna e il muschio, una Pietra. Questa Pietra non è più indenne delle altre
dalla corruzione del tempo, della muffa, del lichene e degli escrementi degli
uccelli.
L’acqua la colora di
verde, l’aria di nero.
Non è vicina a sentiero
alcuno e si evita di andare da quella parte, perché l’erba è alta e i piedi si
bagnano.
Quando filtra un raggio
di Sole, le lucertole arrivano.
Tutto d’intorno vi è un
fremito di avena fatua.
In Primavera, le capinere
cantano tra gli alberi.
Questa Pietra è tutta
nuda.
Tagliandola, si è pensato
solo all’indispensabile per la Tomba, fare questa Pietra abbastanza lunga e
stretta per avvolgere un Uomo.
Non vi si legge nome
alcuno.
Una mano vi ha scritto a
matita quattro versi che sono divenuti, a poco a poco, illeggibili sotto la
pioggia e la polvere e, oggi, sono, ormai, cancellati:
Il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
Il vivait. Il mourut quand il n’eut plus son Ange;
La chose simplement d’elle-même arriva,
Comme la nuit se fait lorsque le jour s’en va.
Les Misérables, cinquième partie, livre IX, chap. 6.
Sono le ultime righe dell’immenso
romanzo di Victor Hugo.
Ingredienti per 1 litro:
1 litro di acqua
minerale,
2 limoni non trattati,
4 cucchiai di
zucchero,
4 cucchiai di
petali di Rosa essiccati,
una coppa di alcol
a 90°.
Preparazione
Disponete l’acqua minerale in una brocca capiente.
Spremete i limoni
non trattati e aggiungete il succo all’acqua insieme ai 4 cucchiai di zucchero,
ai 4 cucchiai di petali di Rosa essiccati e alla coppa di alcol 90°.
Agitate bene il
composto in modo che tutti gli ingredienti si mescolino bene tra loro e lo
zucchero si sciolga completamente.
Coprite la brocca
e lasciatela riposare per almeno 3 ore in un luogo fresco e buio.
Successivamente,
prendete una bottiglia di vetro e, usando un imbuto sul fondo del quale avrete
sistemato un paio di fogli di garza, filtrate il liquido dalla brocca alla
bottiglia.
Servite
leggermente fresca.
La ricetta dell’Acquarosa di Leonardo, una bevanda
afrodisiaca a base di estratto di Rosa, è descritta, con precisione negli ingredienti e nel sistema di filtraggio, al foglio 482 recto [ex-177 recto-a] del Codice Atlantico, conservato, a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana.
È databile agli ultimi anni di vita dell’artista-scienziato, intorno al 1517. La bevanda, riprodotta, per la prima volta, al Museo Ideale
Leonardo da Vinci, dopo 485 anni, doveva essere servita fresca ed era definita
da Leonardo adatta all’estate calda dei Turchi:
“È bevanda di Turchi
la state.”
Noi tutti siamo
esiliati
entro lo cornici di
uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da
grande,
Gli altri sono
insetti.
Leonardo
Ernesto Solari, artista e studioso
esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un
Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in
più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che
ne sarebbe venuto in possesso.
“Chi è solo è tutto
suo.”
Leonardo
“Amor ogni cosa vince.”
Leonardo
PUBLIO ELIO TRAIANO ADRIANO
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6. MAFIA: “UN MUOITTU
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JOHN
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Keynes,
profeta del New Deal
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MARTIN LUTHER KING
I
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LEONARDO
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2. Monna Lisa
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3. Leonardo e le donne
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4. Il Codice Atlantico
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MALCOLM
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candela nel vento
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I. Il processo di
Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
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Dopo 60 anni ancora un
enigma la fine di Masaryk
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Argentina I. La Tripla
A: un nome che semina morte
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LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev
Nicolaevic Tolstoj
di Daniela Zini
“I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità,
della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del
maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del
giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della
luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della
verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni
hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna
cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli
scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel
dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per
riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per
ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha
conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello
che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in
una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo
[1538-1592]
Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche
figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti
– possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità,
non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente,
la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua
artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete
di conoscenza, quantunque “omo senza
lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte
e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che,
chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle
sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del
discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di
profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse
all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose
naturali”.
È questo “filosofar”
la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale
eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale,
una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha,
certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della
mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il
ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il
dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o
di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro
dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi,
sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque
secoli dalla morte del Maestro.
In quel crogiolo di
menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della
Cultura, la figura di Leonardo campeggia
dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio
Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui
nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una
profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale
lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende
tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi
aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai
suoi contemporanei.
Non vi è materia che
non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state
alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti
architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in
questo secolo, che brucia gli ingegni, sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua
levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si
manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù,
condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della
successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si
configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è solo un vuoto
sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film dei fratelli Paolo e Vittorio
Taviani del 1967, I sovversivi,
appariva il personaggio di un regista cinematografico alle prese con la
biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava, soprattutto,
l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di rispecchiare,
con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale.
E il film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano
ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava
nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi,
raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette
anni, laureato in architettura, autore di films
famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava
realizzando per la RAI-TV un Leonardo
in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura,
con la consulenza di Cesare Brandi.
Vi sono figure della
Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario
biografico e psicologico e altre, che
viste da vicino, si rivelano ambigue e misteriose.
Tra queste ultime è
Leonardo.
La sua biografia si
fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e
di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori fa morire l’artista “in
braccio” a Francesco I e “nell’età
sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte
Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le
difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta
quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera,
diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più
di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno
quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per
il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più
che alcuni disegni; della grande Battaglia
di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una
piccola copia; i ricchissimi Codici
furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e
celeste” da Giorgio Vasari, Leonardo “era
tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”,
eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco.
E Leonardo stesso
parla pochissimo di sé, appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna
ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo
frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund
Freud,
nel 1910, pubblicando il saggio, Un
ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci [http://www.nilalienum.it/Sezioni/Freud/Opere/Leonardo%20ric.html], che fu accolto da proteste indignate. Parve, infatti, che il
fondatore della psicoanalisi avesse valicato i limiti dell’osservazione
scientifica, analizzando un sogno infantile riferito dall’artista: l’incubo di
un nibbio che si avventava sul suo letto e con la coda gli percuoteva la bocca.
“Questo scriver si
distintamente del nibbio par che sia mio destino perché nella prima
ricordazione della mia infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un
nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi
percotessi con tal coda dentro le labbra.”
Da questa immagine
notturna Freud risaliva alla malcerta condizione del sognatore come “figliuolo non legittimo” del notaio Ser
Piero da Vinci, coccolato dalla madre Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita,
Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli
ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso
di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo
Freud, con i dati della sessualità infantile.
“Se un tentativo
biografico intende realmente spingersi a fondo nella comprensione della vita psichica
del proprio eroe, non può passar sotto silenzio, come succede per discrezione o
falso pudore nella maggior parte delle biografie, l’attività e le
caratteristiche sessuali specifiche del soggetto. Ciò che sappiamo di Leonardo
a questo proposito è poco, ma questo poco è significativo. In un periodo che
vedeva in lotta tra loro una sensualità sfrenata e una cupa ascesi, Leonardo fu
un esempio di freddo rifiuto della sessualità, quale non ci si aspetterebbe in
un artista e in un interprete della bellezza femminile. Solmi cita di lui la
seguente espressione, che ne caratterizza la frigidità: “L’atto del coito e le
membra a quello adoprate son di tanta bruttura che, se non fusse la bellezza de’
volti e li ornamenti delli opranti e la sfrenata disposizione, la natura
perderebbe la spezie umana.” Gli scritti postumi, i quali non trattano
unicamente dei più alti problemi scientifici ma contengono anche contributi di
poco conto che anzi sembrano indegni di uno spirito cosi grande [una storia
naturale allegorica, favole di animali, facezie, profezie], sono di un tale
grado di castità — si sarebbe tentati di definirli astinenti — che desterebbe
anche oggi meraviglia in un’opera letteraria. Essi evitano risolutamente
qualsiasi accenno alla sessualità, come se Eros soltanto, che conserva ogni
cosa vivente, non fosse argomento degno della brama di sapere del ricercatore. [Forse le “facezie belle” [ossia: facezie
per soli uomini] da lui raccolte, che non sono state tradotte, costituiscono un’eccezione,
del resto senza importanza]. È ben noto quanto spesso i grandi artisti
si compiacciano di sfogare le loro fantasie in raffigurazioni erotiche e
addirittura grossolanamente oscene; di Leonardo per contro possediamo soltanto
alcuni disegni anatomici che si riferiscono ai genitali interni della donna,
alla posizione del bambino nel corpo materno, e cosi via. È incerto se Leonardo
abbia mai stretto una donna in amplesso amoroso; né si sa se abbia avuto mai
una profonda relazione spirituale, come quella di Michelangelo con Vittoria
Colonna. Quando ancora viveva come apprendista in casa del suo Maestro, il
Verrocchio, fu accusato con altri giovani di pratiche omosessuali illecite, ma
l’accusa si concluse con la sua assoluzione. Pare che incorresse in tale
sospetto perché si serviva come modello di un ragazzo di cattiva fama. [A quest’incidente si riferisce secondo
Scognamiglio un punto oscuro, e persino variamente letto, del Codice Atlantico:
“Quando io feci Domeneddio putto, voi mi metteste in prigione; ora s’io lo fo
grande, voi mi farete peggio”]. Divenuto maestro, si circondò di bei
ragazzi e giovanetti, che accoglieva come discepoli. L’ultimo di questi,
Francesco Melzi, lo accompagnò in Francia, rimase con lui sino alla sua morte e
fu da lui nominato suo erede. Senza condividere la sicurezza dei suoi moderni
biografi, che naturalmente respingono la possibilità di un rapporto sessuale
tra lui e i suoi allievi come un oltraggio infondato al grand’uomo, si può
ritenere molto più probabile che i rapporti affettuosi tra Leonardo e quei
giovani — che secondo la consuetudine del tempo condividevano la vita del Maestro
— non sfociassero in una attività sessuale. Inoltre non deve essergli
attribuito un alto grado di attività sessuale.
La singolarità di questa
vita sentimentale e sessuale si può comprendere, in connessione con la duplice
natura di Leonardo, artista e ricercatore, soltanto in un modo. Tra i biografi,
che spesso sono restii ad adottare punti di vista psicologici, soltanto uno,
Edmondo Solmi, si è accostato per quel che so alla soluzione dell’enigma; per
contro uno scrittore, Dmitrij Sergeevic Merezkovskij — che ha scelto Leonardo
come protagonista di un grande romanzo storico — ha fondato il suo ritratto su
una interpretazione analoga di quell’uomo eccezionale, esprimendo chiaramente
la sua concezione, se pur non in parole piane ma, alla maniera dei poeti, in
termini plastici. Il giudizio di Solmi su Leonardo è il seguente: “Ma la sete
inestinguibile di conoscere il mondo circostante e trovare col freddo esame il
segreto della perfezione aveva condannata l’opera di Leonardo a rimanere
imperfetta.” In un saggio delle “Conferenze fiorentine” viene citata un’espressione
di Leonardo che costituisce la sua professione di fede e fornisce la chiave
della sua natura:
...nessuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha
cognition di quella.
E questo egli ripete in
un punto del Trattato della Pittura, in cui sembra volersi difendere dal
rimprovero di irreligiosità:
Ma tacciano tali riprensori, che questo è il modo di conoscere l’operatore
di tante mirabili cose e questo è il modo di amare un tanto inventore, perché
invero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama, e se
tu non la conoscessi, poco o nulla la potrai amare.
Il valore di queste frasi
di Leonardo non va cercato nella comunicazione di un’importante verità
psicologica, poiché ciò che esse affermano è palesemente falso e Leonardo lo
sapeva certo altrettanto bene quanto noi. Non è vero che gli uomini aspettino
di amare o di odiare finché non abbiano studiato e conosciuto nella sua essenza
ciò che forma l’oggetto di questi affetti; piuttosto essi amano impulsivamente,
secondo motivi sentimentali che nulla hanno a che fare con la conoscenza e il
cui effetto è se mai fiaccato dalla ponderazione e dalla riflessione. Leonardo
poteva dunque voler dire soltanto che l’amore praticato dagli uomini non è l’amore
vero, ineccepibile; che si dovrebbe amare in modo da trattenere l’affetto, da
sottometterlo al travaglio del pensiero e da lasciarlo libero solo dopo che avesse
superato l’esame della riflessione. E allo stesso tempo noi comprendiamo che
egli vuol farci intendere che in lui è cosi: sarebbe desiderabile che tutti gli
altri trattassero l’amore e l’odio nello stesso suo modo.
E in lui sembra realmente
che le cose stessero cosi. I suoi affetti erano controllati, sottomessi alla
pulsione di ricerca; egli non amava né odiava, ma si chiedeva donde venisse ciò
che doveva amare o odiare, e che cosa significasse, e così doveva apparire a
prima vista indifferente verso il bene e il male, verso il bello e il brutto.
Durante questo sforzo di ricerca, amore e odio perdevano i loro connotati e si
trasformavano regolarmente in interesse intellettuale. In realtà Leonardo non
era privo di passione, non gli mancava la scintilla divina che direttamente o
indirettamente è la forza motrice — “il primo motore” — di ogni fare umano.
Egli aveva semplicemente convertito la passione in sete di sapere; si dedicava
alla ricerca con quella continuità, perseveranza e profondità che derivano dalla
passione, e al culmine dell’attività intellettuale, raggiunta la conoscenza,
lasciava prorompere l’affetto lungamente trattenuto, come un corso d’acqua
deviato è lasciato scorrere liberamente dopo che ha compiuto il suo lavoro. Al
culmine di una scoperta, quando il suo sguardo è in grado di abbracciare un
vasto settore di quel tutto di cui è parte, egli è afferrato dal pathos e
celebra con parole esaltate la magnificenza di quel frammento di creazione che
ha indagato oppure — in termini religiosi — la grandezza del suo Creatore.
Solmi ha esattamente compreso questo processo di trasmutazione che si verifica
in Leonardo. Dopo aver citato uno di quei punti in cui Leonardo celebra la
sublime costrizione cui la natura soggiace [“O mirabile Necessità...”], egli
scrive: “Tale trasfigurazione della scienza della natura in emozione, quasi
direi, religiosa, è uno dei tratti caratteristici de’ manoscritti vinciani, e
si trova cento e cento volte espressa...”
Per evitare i rischi
delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un
personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in
modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e
integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete
di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi
del cinema, dall’attore svedese Max von Sidow all’attore francese Laurent
Terzieff.
Sempre insoddisfatto,
il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e
che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era
stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti
Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di
cinquanta films dal giorno del 1960,
in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come
Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti
i giorni, a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.
E, il 24 ottobre 1971,
la RAI-TV mandava in onda la prima
delle cinque puntate dello sceneggiato La
vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani [dal 24 ottobre al 21 novembre 1971]. Fu girato a colori,
nonostante le trasmissioni di allora fossero ancora in bianco e nero ed ebbe un
cast di grandi volti del cinema, del
teatro e della televisione: da Giampiero Albertini a Ottavia Piccolo, da Bianca
Toccafondi a Glauco Onorato, da Bruno Cirino al piccolo Renato Cestiè. Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di
lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse,
ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva
toccato, nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per
citarne alcune. Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive
girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si
apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del
1519.
Il sessantasettenne
Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il re
di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé. Leonardo è nel suo letto,
indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente,
l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del re in persona,
preoccupato per le sue condizioni di salute. Tenta di sollevarsi dal letto, ma
il sovrano lo esorta a non sforzarsi:
“Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a
Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo
affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:
“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’
corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta,
strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una
maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina,
che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere
per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo
lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del
corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque
sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle
cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e
congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
5. IL CENACOLO
“Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò:
“In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà.” I discepoli si
guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei
discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon
Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Di’, chi è colui a cui si riferisce?” Ed
egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?” Rispose
allora Gesù: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò.” E
intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone.”
Giovanni 13, 21-26
È il 1495 quando
Leonardo inizia a dipingere quello che diverrà uno dei più celebri affreschi
del mondo, Il Cenacolo.
Celebri e sfortunati!
La storia
dei suoi restauri offre, se correlata alla storia della cultura e del gusto,
una buona chiave di lettura per meglio intendere molta parte della sua fortuna
o sfortuna.
Oggetto di
ben dieci interventi di restauro documentati, compreso quello che si è concluso
nel maggio 1999, il dipinto murale è sempre stato definito sul punto di
scomparire, per essere, poi, giudicato, dopo ogni intervento, restituito al
pubblico godimento, salvato per sempre, o risorto da morte sicura.
Passeranno appena venti anni e un visitatore, Antonio de
Beatis, annoterà:
“In lo monasterio di Santa Maria
de le Gratie, quale fo facto dal signor Ludovico Sforza, assai bello et bene
acteso, fo visto nel refectorio de frati, che son de l’ordine de San Domenico
de observantia; una cena picta al muro da messer Lunardo Vinci, qual trovaimo
in Amboes, che è excellentissima, benché incomincia ad guastarse, non sò si per
la humidità del muro o per altra inadvertentia.”
Leonardo, particolare del Cenacolo
con Gesù.
Nel Cenacolo, Gesù, il solo
personaggio veramente divino, è dipinto con le proporzioni divine, racchiuso in
un rettangolo aureo. Il volto del Redentore
appare come offuscato da un velo. Più che all’ingiuria del tempo, questa “stranezza”
sembra dovuta a un fatto intenzionale: il Maestro fiorentino avrebbe deciso di
ammantare le sembianze del Cristo di una vaga indeterminatezza.
Il luogo è il
refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, oggi, nel centro di Milano,
ma a metà del Quattrocento, quando una compagnia di Domenicani, proveniente da
Pavia, cerca un terreno dove insediarsi, lo stesso luogo è una distesa di prati
e di caserme per le truppe del duca Francesco Sforza. Proprietario del terreno
è un fedelissimo di Francesco Sforza il conte
Gaspare Vimercati [1410-1467], che fa la prima
donazione ai frati e lascia loro in eredità 6mila scudi d’oro. Poi, ad aiutare
i religiosi a costruire un convento e una chiesa, inrevengono Francesco Sforza
e i suoi successori, Galeazzo e Ludovico il Moro. Ludovico vorrà, perfino, fare
della nuova chiesa il santuario di famiglia e i lavori di costruzione,
proceduti, fino ad allora, con una certa lentezza, divengono, d’improvviso,
celeri. Donato Bramante [1444-1514] è chiamato a costruire l’abside e la cupola
e Leonardo è incaricato di affrescare il refettorio, come attesta una lettera del duca di Milano, Ludovico Sforza,
datata 30 luglio 1497, al segretario ducale Marchesino Stanga.
“Item de
solicitare Leonardo fiorentino perché finischa l’opera del Refetorio delle
Gratie principiata per attendere poy ad l’altra fazada d’esso Refetorio; et se
faciano con luy li capituli sottoscripti de mane sua che lo obligano ad finirlo
in quello tempo se convenerà con luy.”
Lettera di Ludovico il Moro a Marchesino Stanga.
Il soggetto voluto
dai Domenicani è l’ultima cena del Signore, un tema ritenuto più che adatto
alla sala dove i frati si raccolgono per il desinare. Un soggetto, che appare, sempre,
seppure inglobato nella trama di altri momenti evagelici, anche in luoghi di
culto paleocristiani. È con Giotto [1266-1337], nell’area
dell’antica arena romana di
Padova, che l’ultima cena inizia a essere dipinta come episodio a sé stante.
Grande fama hanno, poi, i dipinti, sullo stesso soggetto, di Andrea del
Castagno [1423-1457] e di
Domenico Ghirlandaio [1449-1494].
Giotto, Ultima Cena.
Cappella degli Scrovegni, Padova.
Andrea del Castagno, Ultima Cena.
Cenacolo di Santa Apollonia, Firenze.
Domenico Ghirlandaio, Ultima Cena.
Convento di San Marco,
Firenze.
Leonardo affronta il
nuovo compito con grande umiltà, con tremore, potremmo dire. Vi si prepara, è
stato notato, con “un febbrile lavorio interiore”.
Si isola.
Leonardo compose Il Cenacolo
impostando l’ambientazione con una fuga prospettica centrale, con il fuoco
posizionato vicino all’occhio destro di Gesù, seguendo, così, l’andamento del
refettorio, in cui l’opera è posizionata e conducendo lo sguardo dell’osservatore
in direzione del volto del Cristo. Tutti i personaggi sono privi di aureola,
compreso il Cristo, ma, se si nota bene, la porta centrale alle sue spalle ha
una lunetta superiore semicircolare, che, se mentalmente completata in un
cerchio, rende la luce che penetra dall’esterno e che incornicia il capo del Cristo,
una sorta di aureola di luce naturale.
Rilegge senza
stancarsi la narrazione evangelica. Riempie di schizzi i suoi fogli. Cerca
nelle strade di Milano i volti che possano essere di modello per gli Apostoli.
Fa progetti e subito
li modifica, li trasforma.
Di questo lavorio vi
è ampia testimonianza nei suoi scritti. Racconta, a esempio, che si svegliava,
anche, nel cuore della notte e, nel buio, gli pareva di vedere comporsi le
linee dei volti che cercava.
“Ho in me provato
esser di non poca utilità, quando ti truovi allo scuro nel letto, andare co’ la
imaginativa ripetendo i lineamenti superfìziali delle forme per l’adirieto
studiate o altre cose notabili, da sottile speculazione comprese; ed è questo
proprio un atto laudabile e utile a confermarsi le cose nella memoria.”
Studia e ristudia la
composizione delle figure.
E, su alcune pagine
del Codice Forster, databili, con una
certa approssimazione, intorno agli anni 1495-1496, troviamo le prime tracce
del progetto di Leonardo come una vera e propria sceneggiatura:
“Uno
che bevea e lasciò la zaina nel suo sito, e volse la testa verso il
proponitore. Un altro tesse le dita delle sue mani insieme e co’ rigide ciglia
si volta al compagno; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle e
alza le spalli inver li orecchi e fa la bocca della maraviglia. Un altro parla
nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui e gli
porge gli orecchi, tenendo un coltello ne l’una mano e nell’altra il pane mezzo
diviso da tal coltello. L’altro nel voltarsi tenendo un coltello in man versa
con tal mano una zaina sopra della tavola. L’altro posa le mani sopra della
tavola e guarda. L’altro soffia nel boccone. L’altro si china per vedere il
proponitore e farsi ombra colla mano alli occhi. L’altro si tira indietro a
quel che si china, e ‘l vede il proponitore infra ‘l muro e ‘l chinato.”
[Codice
Forster II, ff. 62v, 63r]
Se prendiamo questo
scritto e lo confrontiamo con il dipinto, ci troviamo disorientati: le
rispondenze non sono molte, perché Leonardo, continuamente, ripensa il suo
soggetto, e, continuamente, lo modifica nella ricerca di quel che ritiene la
perfezione. Vuol ridurre al minimo la mimica teatrale ed esprimere invece, di
ogni figura, “la passione del suo animo”.
Questa ricerca di
perfezione non si accorda, naturalmente, con la celerità.
E i frati
brontolano: è troppo lento!
Vedono arrivare Leonardo
a Santa Maria delle Grazie nelle ore più strane e, sovente, non lo vedono arrivare
affatto.
Vi è, tra i novizi,
un ragazzo, imparentato con il priore, che lo osserva con curiosità divertita:
Matteo Bandello [1485-1561], la cui
fama è legata alle sue Novelle, apprezzate più Oltralpe
che in Italia, che diedero la trama a molti drammi di Lope de Vega e al Romeo
e Giulietta di William Shakespeare.
Nella Novella LVIII [1497], il monaco domenicano, che, in quel
periodo, soggiornava per motivi di studio nell’edificio, fornisce, con estrema vivacità, una preziosa testimonianza di come
Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo:
“Soleva
[Leonardo] anco spesso, et io più volte l’ho veduto e considerato, andare la
mattina di buon’ora a montar su ‘l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da
terra alto; soleva [dico] dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi
mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo
dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe
messo mano, e tuttavia dimorava talora una o due al giorno, e solamente
contemplava, considerava et essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho
anche veduto [secondo che il capriccio o il ghiribizzo lo toccava] partirsi da
mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia ove quel stupendo
Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte
pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di
subito partirsene et andare altrove.”
Mentre è al lavoro
nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, Leonardo riceve la visita di molti
personaggi, anche quella del cardinale francese, Raymond Pérault, vescovo di
Gurk, che è accompagnato dal priore Vincenzo Bandello, zio del novelliere.
Leonardo scende dal
palco, per ossequiare l’ospite. Vi è uno scambio di cortesie. Si parla dell’affresco
che sta nascendo. E il cardinale, infine, domanda a Leonardo come sia ricompensata
dal Moro la sua fatica.
Leonardo non ha
problemi a rispondere:
“Duemila
ducati l’anno e aggiungetevi altri regali.”
Racconta Bandello
che, a questa risposta, del tutto ironica, il cardinale fosse ammutolito e avesse
lasciato la sala.
I borbottii per la
lentezza dei lavori raggiungono il Moro.
È lo stesso priore
che va a lamentarsi con il duca.
Racconta che
Leonardo, a volte, anziché continuare il lavoro, preferisce concedersi
passeggiate, anche al Borghetto, il quartiere più malfamato.
Ludovico fa venire a
palazzo Leonardo e, anche se tra molti complimenti, gli chiede il perché del
lento procedere dei lavori e di quelle passeggiate.
Leonardo comprende
che il duca lo rimprovera senza troppa convinzione, come comprende che, dietro
le cortesi lamentele del Moro, si celano le più astiose proteste del priore.
Cerca, allora, di
spiegare che la perfezione da lui sperata non si raggiunge, nell’Arte, con un
lavoro continuo, ma seguendo l’estro, badando all’ispirazione. E spiega che
questa ispirazione si può cercare anche con le passeggiate, se si tengono gli
occhi bene aperti e si cercano, tra la gente, quei volti che sembrano più
adatti a fare da modello per gli Apostoli. Leonardo aggiunge che in quel tal
Borghetto lui va a passeggiare perché spera di trovare, tra tante persone losche,
un soggetto che gli ispiri come raffigurare Giuda.
Poi, ha uno scatto.
Annuncia al duca di
avere trovato quello che cercava: prenderà a modello la faccia del priore.
Il Moro, a quell’uscita,
non sa che ridere e lascia a Leonardo piena libertà di scegliersi i tempi di
lavoro.
Probabilmente,
questo episodio è una leggenda. Su ogni figura del Cenacolo sono fiorite congetture e, di regola, sono congetture
radicate nella fantasia.
Leonardo,
Il Cenacolo, particolare con l’Apostolo Filippo.
Leonardo,
Il Cenacolo, particolare con l’Apostolo Giovanni.
Leonardo, Il Cenacolo,
particolare con gli Apostoli Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea [da sinistra].
Leonardo, Studio
per il braccio di Pietro.
Royal
Library, Windsor.
Il Cenacolo è una delle opere più
cariche di misteri e significati nascosti. Dan Brown afferma, a esempio, che
Leonardo avrebbe inserito nel dipinto un misterioso coltello tenuto da “una mano che non appartiene a nessuno in
particolare. È priva di corpo, Anonima”. E, in effetti vi è una strana mano
che impugna un coltello, e, a una prima occhiata, sembra, davvero, che nessuno
possa tenerlo in quel modo innaturale. Un Apostolo alza, perfino, le mani come
in gesto di resa di fronte all’arma.
Il priore Domenico Pino confuta la “ridevole diceria”, secondo la quale il coltello sarebbe stato
posto nella mano di Pietro dal ritoccatore Michelagnolo Bellotti, affermando
che “non pare in conto alcun verosimile
che la mano di questo Apostolo avesse da essere disposta in maniera da potervi
adattare un coltello senza cambiarla di molto [...]. Ma basta gittare uno
sguardo benché passeggero nella pittura per riconoscere di primo slancio la
naturalezza del disegno ideato senza meno da Leonardo medesimo, che per
esprimer San Pietro, il quale come tra gli Apostoli fu il più animoso, tagliò
nell’Orto di Getsemani l’orecchio al servo del Principe dei Sacerdoti, posto
gli ha in mano un coltello, come a Giuda ha posto nella mano la borsa per farnelo
ravvisare per lo traditore fellone che per trenta denari vendette il suo divino
Maestro”.
Pochi anni più tardi Giuseppe Bossi pubblicò un monumentale in-folio intitolato Del Cenacolo di
Leonardo, libri quattro. Nel primo libro, l’autore commenta i giudizi di
vari scrittori in riferimento al Cenacolo;
nel secondo, descrive l’opera; nel terzo, analizza le copie del Cenacolo; nel quarto, tratta della
tecnica di pittura del grande Maestro. Come Domenico Pino, anche Bossi fornisce
una dettagliata descrizione di ogni personaggio raffigurato e della figura di
Pietro scrive:
“Da quanto si è detto
delle figure antecedenti, si potrà con facilità immaginare l’attitudine del
Principe degli Apostoli. Acceso di onesta collera al suono delle divine parole,
egli s’alza alquanto dal luogo ove sedea, per interrogare il confidente di
Cristo, l’Apostolo Giovanni. Colla
sinistra indica il Salvatore in atto di chiedere il significato de’ suoi detti,
mentre la sua destra va quasi naturalmente verso una specie di coltello o breve
parazonio; con che il pittore diede cenno del desiderio in lui ardentissimo di
vendicare il Maestro e della sua prontezza a dar di mano alle armi, delle quali
ebbe poco dopo rimprovero da Cristo medesimo nell’Orto di Getsemani.
Anche Bossi confuta l’opinione
di un altro autore [in questo caso identificato con Bianconi] il quale,
basandosi probabilmente sull’incisione di Birago in cui nella mano di Pietro
non compare il coltello, riteneva questo oggetto una aggiunta fatta da uno dei
ritoccatori settecenteschi.
È singolare ed unica l’opinione
del Bianconi intorno a questo coltello. Egli lo crede un’aggiunta del temerario riattamento; quindi pare lo
attribuisca al primo generale ritoccatore Michelagnolo Bellotti. Sembra
impossibile come egli che visse sempre fra gli artisti e tra le cose delle
arti, non sapesse che il Cenacolo stette certamente più di un secolo e mezzo
senza che alle altre sue disgrazie si aggiungesse quella dei ritocchi, e che
nel gran numero delle copie da esso tratte anticamente non ve n’è una sola in
cui non si vegga questo distintivo di San Pietro. E non è meno strano ch’egli
lo supponga aggiunto unicamente perché non si vede in una rara bensì ma pessima
stampa che pare l’opera di un incisore che non ha visto l’originale, se pure
non fu fatta da qualche disegno o schizzo prima che l’originale fosse condotto
a fine. Sembra però che il Bianconi stesso si ricredesse di questa stranezza,
perché nella seconda edizione della sua Guida
cangiò la descrizione, e considerò come genuino ed originale l’attributo del
nostro Apostolo. Nel resto non potrei seguire a descrivere questa figura senza
ripetere quanto accennai descrivendo quella di Giovanni, o senza usurpare le
parole del cardinale Federico Borromeo, a cui rimetto il lettore. Bastimi
aggiungere che il suo movimento pronto, il furore del suo volto, il gesto dell’una
e dell’altra mano, tutto in somma il complesso della sua attitudine eccitata da
viva e súbita commozione, contrasta mirabilmente colla patetica e dolce
giacitura dell’Apostolo Giovanni, e richiama felicemente la dissimiglianza che
hanno tra di loro le due vite, l’attiva e la contemplativa, delle quali sono,
come si disse, simboli questi due primarj tra gli Apostoli. Il colore poi delle
sue vesti è il solito che volgarmente gli si attribuisce, e che si vede fino
nella cena di Cristo che Giotto dipinse in Santa Croce a Firenze; cioè di un
bel giallo è il pallio, e d’un vivace azzurro alquanto chiaro la tunica.”
Per risolvere il
mistero è sufficiente osservare i disegni preparatori che Leonardo fece prima
di realizzare Il Cenacolo. Nello
schizzo conservato alla Royal Library di Windsor, si vede, chiaramente, che l’Apostolo
Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena e la mano appoggiata all’anca
con il coltello rivolto all’indietro. È sufficiente confrontare questo dipinto
con le tante altre versioni realizzate da altri famosi artisti rinascimentali
come Domenico Ghirlandaio; Albrecht Dürer; Beato Angelico; Jacopo Bassano;
Taddeo Gaddi; Andrea del Castagno; Francesco di Cristofano, detto il Franciabigio Franciabigio; Giotto. In tutte, Pietro ha in mano il coltello,
a ricordare il fatto che, con quell’arma, avrebbe, poi, tagliato l’orecchio a
Malco, il servo del Sommo Sacerdote.
Nella versione
italiana del Vangelo di Giovanni
leggiamo che Pietro sguainò una spada, ma nell’originale greco si parla di máchaira,
parola che definisce un pugnale o uno stiletto.
Carlo Pedretti a
proposito dello Studio per il braccio di
Pietro scrive:
“Un braccio destro piegato al gomito, completamente coperto da
una manica aderente e rimboccata a formare diverse pieghe circolari, il polso bruscamente piegato come a trovare
sostegno sul fianco sporgente di una figura che si slancia in avanti
verso destra”.
Leonardo, Il Cenacolo,
particolare con gli Apostoli Pietro, Giuda e Giovanni [da sinistra].
Una ipotesi curiosa
è stata avanzata nel 1975.
Curiosa, almeno, per
i metodi scientifici sui quali ha mostrato di basarsi. Ad avanzarla è stato uno
studioso russo, Valentin Golovin. La sua attenzione si concentrò sugli studi
preparatori per la testa di San Bartolomeo. E si fece aiutare, per le sue
ricerche, da un calcolatore elettronico dell’Istituto dei Problemi di Trasmissione dell’Informazione dell’Accademia delle Scienze dell’URSS.
Golovin arrivò alla conclusione che “Leonardo non si
era ispirato per questi studi a un uomo ideale. Le caratteristiche dei suoi
profili, labbra sporgenti, menti prominenti e fronti spaziose, sono, infatti,
le stesse del suo unico autoritratto che conosciamo”, insomma,
il San Bartolomeo del Cenacolo
sarebbe un autoritratto, camuffato, di Leonardo. Golovin aggiunse di avere
compiuto un’altra scoperta: nel San Tommaso sarebbe da vedere la figura di Leon
Battista Alberti. Golovin raccontò di avere fatto girare di 180 gradi – sempre
con l’aiuto del calcolatore – il ritratto di Alberti per farlo guardare a
sinistra, come il Tommaso del Cenacolo,
e di avergli aggiunto la barba, ottenendo così due figure che combaciavano.
“Bartolomeo
e Tommaso erano fratelli e, se Leonardo ha dato il proprio volto a San
Bartolomeo, può benissimo avere scelto per San Tommaso, secondo una
consuetudine rinascimentale, un suo fratello spirituale.”
Il Cenacolo di
Santa Maria delle Grazie non ritrae, genericamente, il raduno conviviale di
Gesù e degli Apostoli, come avviene in altri dipinti con lo stesso tema, fissa un
momento particolare.
Quale?
Nel De divina proportione del monaco
francescano Luca Pacioli,
pubblicato nel 1498, al
cui interno sono presenti oltre sessanta illustrazioni di Leonardo, si legge:
“Non
è possibile con maggiore attenzione vivi gli Apostoli pensare al suono della
voce dell’ineffabile verità e quanto disse – Unus vestrum me traditurus est –.
De l’altro e l’uno con viva e afflicta admiratione par che parlino, si
degnamente con sua ligiadra mano el nostro Lionardo lo dispose.”
Leonardo, Il Cenacolo,
particolare con gli Apostoli Tommaso, Giacomo Maggiore e Filippo [da sinistra].
Leonardo, Il Cenacolo,
particolare con gli Apostoli Matteo, Taddeo e Simone [da sinistra].
È il momento in cui
il Redentore abbassa gli occhi e socchiude la bocca in una piega di tristezza,
dopo avere annunciato agli Apostoli, in un clima di altissimo turbamento:
“In
verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà.”
Se il volto degli
Apostoli impegna Leonardo in lunghe ricerche, dettagliati progetti e continui
rifacimenti, si può immaginare con quale tensione dipinga il volto di Gesù. Nelle
passeggiate alla ricerca di una ispirazione, gli è compagno un amico pittore,
Zenale.
A Zenale confida le
difficoltà che gli sembrano insormontabili.
Zenale non è solo un
buon pittore, è anche un uomo di profonda saggezza.
E Zenale dà a
Leonardo un consiglio che nessun altro avrebbe potuto offrirgli: lasciare
incompiuto il volto del Cristo. Dipingere una figura più soave e divina di San
Giacomo maggiore e di San Giacomo minore sarebbe impossibile e di fronte alla
loro bellezza, come alla bellezza di tutti gli Apostoli, nessun volto compiuto
potrebbe essere il Cristo.
Ma anche questo
colloquio potrebbe essere frutto di fantasie, una ipotesi per spiegare quel
velo di incompiutezza che sembra coprire – o proiettare in una più alta luce? –
il volto del Cristo.
È nel febbraio del
1498 che l’affresco può dirsi compiuto.
Ludovico il Moro e
la sua corte sono i primi ad ammirare il capolavoro e non si stancano di
ammirarlo e lodarlo. Dopo di loro, entra il popolo milanese. Poi, i viaggiatori,
artisti e scrittori di ogni Paese e di ogni tempo.
Domenico Pino, priore del Convento di
Santa Maria delle Grazie, pubblicò, nel 1796, uno studio intitolato Storia
genuina del Cenacolo insigne dipinto da Leonardo da Vinci, nel quale leggiamo:
“Alla destra di Cristo
vedesi San Giovanni, il discepolo prediletto, che pallido in volto, col capo
ripiegato sulla destra spalla, colle mani incrocicchiate sembra men poco che
svenuto all’annunzio del traditoresco attentato. Segue Giuda con truce aspetto,
come fosse abbronzito dal sole e situato avvedutamente quasi per contrapposto
vicino al bianco Giovanni. Si appoggia il fellone villanescamente col braccio
destro quasi in mezzo alla mensa, e guardando con occhio arditamente fisso il
divino Maestro, e colla sinistra allargata, pare che quanto stupisce nell’essere
scoperto per traditore, altrettanto stia fermo, per eseguire il suo tradimento.
Ei tien nella destra mano una borsa, perché si ravvisi per quello scellerato,
che per avarizia vendette il suo Signore. Pietro che viene appresso, e che si riconosce
per lo coltello che ha nella destra, come se si fosse dalla mensa
rialzato, stende la mano sinistra sopra la spalla di Giovanni, quasi voglia
interpellare da lui, come confidente di Cristo, chi possa essere il traditore.”
Ma, nel corso dei
secoli, in quello che i viaggiatori scrivono, dopo avere ammirato Il Cenacolo non vi è solo l’eco dello
stupore per l’opera sublime, vi è costante, anche, l’allarme per il degrado che
l’affresco subisce. Una specie di Muro del Pianto, lagnosissimo e impotente,
che culminerà con Ode per la morte di un
capolavoro di Gabriele D’Annunzio [1901]. L’Orbo Veggente si libererà,
così, in un solo colpo dalla fama di “veggente” e da quella di “menagramo”,
visto che, proprio in quegli anni milanesi, attivi e dinamici, decidono di
rimboccarsi le maniche e di iniziare ad agire per conto proprio.
Paolo Giovio,
nella sua Leonardi Vincii Vita, composta intorno al 1527, non nota alcun
segnale di rovina della pittura e riferisce dell’intenzione di Luigi XII, re di
Francia, di staccarla dal muro e trasferirla in Francia. Fortunatamente, nessun architetto dell’epoca, si disse in grado di tentare una
tale impresa.
“Leonardus e Vincio
ignobili Etruriæ vico magnam picturæ addidit claritatem, negans eam ab iis
recte posse tractari, qui disciplinas nobilesque antes veluti necessario
picturæ famulantes non attigissent, plasticem ante alia penicillo præponebat,
velut Archetypum ad planas imagines exprimendas. Optices vero præceptis nihil
antiquius duxit, quorum subsidiis fretus luminum ac umbrarum rationes vel in minimis custodivit. Secare quoque noxiorum hominum cadavera in ipsis
medicorum scholis inhumano fœdoque labore didicerat, ut varii membrorum flexus
et conatus ex vi nervorum vertebrarumque naturali ordine pingerentur. Propterea
particularum omnium formas in tabellis, usque ad exiles venulas, interioraque
ossium, mira solertia figuravit, ut ex eo tot annorum opere ad artis utilitatem typis æneis excuderentur.
Sed dum in quærendis
pluribus angustæ artis adminiculis morosius vacaret, paucissima opera, levitate
ingenii, naturalique fastidio, repudiatis semper initiis absolvit. In
admiratione tamen est Mediolani in pariete Christus cum discipulis discumbens,
cujus operis libidine adeo accensum Ludovicum Regem fuerunt, ut anxie spectando
proximos interrogarit, an circumciso pariete tolli posset, ut in Galliam vel
diruto eo insigni cœnaculo asportaretur. Extat et infans Christus in tabula cum
Matre Virgine Annaque una colludens, quam Franciscus Rex Galliæ cœptam in
sacrario collocavit. Manet etiam in Comitio Curiæ Florentinæ pugna atque
victoria de Pisanis præclare admodum, sed infeliciter inchoata vitio tectorii
colores juglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis. Cujus
inexpectatæ justissimus dolor interrupto operi gratiæ plurimum addidisse videtur. Finxit
etiam ex argilla colosseum equum Ludovico Sfortiæ, ut ab co pariter æneus
superstante Francisco patre illustri Imperatore funderetur, in cujus vehementer
incitati ac anhelantis habitu et statuariæ artis et rerum naturalium eruditio
summa prehenditur. Fuit ingenio valde comi, nitido, liberali, vultu autem longe
venustissimo, et cum elegantiæ omnis delitiarumque maxime theatralium mirificus
inventor ac arbiter esset, ad lyramque scite, caneret, cunctis per omnem ætatem
Principibus mire placuit. Sexagesimum et septimum agens annum in Gallia vita
functus est, eo majore amicorum luctu, quod in tanta adolescentium turba, qua
maxime officina ejus florebat, nullum celebrem discipulum reliquerit.”
Paolo Giovio , Leonardi Vincii
Vita
Nel 1568, cinquanta
anni dopo il citato allarme di Antonio de Beatis, Giorgio Vasari arriverà a
scrivere che il dipinto è “tanto male
condotto che non si vede più se non una macchia abbagliata”.
Nel 1589, Paolo
Moriggia, definì l’opera “rovinata tutta” e, circa mezzo secolo dopo, Carlo
Torre la definì “deperita oltre ogni dire”.
Per Francesco Scannelli [1616-1663], che descrisse Il Cenacolo, nel 1642, non erano rimaste
dell’originale che alcune tracce delle figure, e anche quelle così confuse che
solo a fatica se ne poteva ricavare una indicazione del soggetto.
“Mi
portai a Milano, dove, appena giunto, reso impaziente di scoprire gli effetti
straordinari del commendatissimo Cenacolo, tantosto mi avanzai nel refettorio
dei PP. Predicatori per ristorar una tanto avidità, e posso attestare in tal
caso che in riguardo d’incontro inaspettato mi restasse il gusto in estremo
istupidito, scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia delle
figure.”
Proprio perché considerato ormai
perduto, nel 1652, un priore domenicano di modi
sbrigativi, non esitò ad ampliare la porta di fondo del refettorio, tagliando le
gambe del Redentore e di due Apostoli. Nulla e nessuno lo fermarono, né il
timore di compiere un sacrilegio né il rispetto per l’Arte di Leonardo.
Ai restauri, eseguiti da malaccorti
pittori settecenteschi, che, di fatto, ridipinsero tutta l’opera, si
aggiunsero, poi, i vandalismi.
Durante l’occupazione di Milano, tra
il 1796 e il 1801, il refettorio venne trasformato in scuderia per i soldati
napoleonici. Lo racconta Stendhal, aggiungendo che i dragoni del reggimento trovassero
divertente lanciare des morceaux de
briques in testa agli Apostoli, la stessa sorte toccata a un’altra opera di
Leonardo, il cavallo per la statua equestre in onore di Francesco
Sforza, fondatore della casata che dominava Milano. I balestrieri di Guascogna, occupando Milano, dopo la cacciata del Moro,
si erano, infatti, divertiti a esercitarsi al tiro sul modello della grande
statua equestre.
Passano gli anni, i
secoli.
In una lettera a
Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, l’abate Francesco Maria Gallarati [1729-1806], miniatore dilettante e critico d’arte, scrive:
“In
certe giornate in cui dominava lo scilocco vedevasi steso su di essa pittura l’umidità,
come se vi fosse piovigginato sopra, onde riconoscere non vi si potevano
distintamente i tratteggiamenti e le ultime differenze delle figure: il perché
era d’uopo che l’asciugasse lievemente con una spugna, ovvero con un
sottilissimo pannolino: né giova per riparare il Cenacolo ricoprirlo con le cortine che vi si trovano;
se tengonsi chiuse nei tempi piovosi, a la parte destra del Salvatore in ispecie
vi si raccolta di sotto l’umidità in tanta copia, che l’acqua aggruppata si
vede insino scendere per lo muro come in piccioli canaletti; e la pittura, se
non le si dà aria, si copre di una sottilissima muffa bianchiccia, la quale
farebbe sempre più smortare i colori, e guastare il dipinto; per lo più che l’espediente
migliore egli è di lasciarla scoperta: tranne quel poco di tempo in cui scopasi
il refettorio.”
In visita a Milano nel 1867, il giovane
scrittore statunitense Samuel Langhorne Clemens, meglio conosciuto come Mark Twain,
annotava:
“I volti si sono
rovinati e squamati e hanno perso quasi ogni espressione. I capelli sono
diventati indistinte masse sulla parete e gli occhi non hanno più alcuna
vitalità.”,
equiparando i visitatori che
sprecavano incantati aggettivi a un uomo adorante una vecchia “baldracca, cieca, sdentata, sfigurata dal vaiolo”.
A queste
preoccupazioni hanno fatto riscontro i molti tentativi di restauro. Una lunga
storia, intessuta di malintesi e di pasticci: e, negli ultimi interventi, per
liberare l’antica pittura di Leonardo, si è dovuto, talvolta, togliere anche
cinque strati di coloriture aggiunte dai restauratori.
Nel 1982, quando si
stanno operando gli ultimi lavori e l’originale va, a poco a poco, svelando l’originale
bellezza, Giovanni Testori scrive:
“Quel
che vedevamo non era il resto d’una grandissima opera; era una sua stratificata
falsificazione.”
Il refettorio della Chiesa di Santa
Maria delle Grazie dopo il bombardamento dell’agosto del 1943. È possibile
vedere chiaramente la Crocifissione di Giovanni Donato Monfortano sulla
parete corta non crollata. Il Cenacolo di Leonardo è, esattamente, di
fronte, non visibile nella foto.
Nel 1800, una
inondazione colpì Milano e anche il refettorio della Chiesa di Santa Maria
delle Grazie si allagò.
E, nel 1943, un
bombardamento aereo per poco non mandò in briciole la parete dipinta. Le bombe
caddero sul convento e fecero rovinare i muri laterali del refettorio. Il Cenacolo e l’antistante Crocefissione di Giovanni Donato
Monfortano furono – si direbbe miracolosamente – risparmiate, protette appena
da teloni militari e da sacchetti di sabbia.
Milano ha corso il
pericolo di vedersi derubata di questo inarrivabile capolavoro.
Purtroppo, lo stato di conservazione
dell’opera è oggi assai precario. Leonardo, infatti, decise di dipingere a
secco sul muro, usando colori a tempera e a olio su una preparazione a gesso.
Questa tecnica sperimentale, diversamente dall’affresco tradizionale, consentì
all’artista di lavorare con la lentezza e la meticolosità che gli erano
necessarie, ma il colore, in origine brillantissimo, iniziò presto a cadere.
Fortunatamente, esistono alcune copie
del capolavoro vinciano, eseguite a pochi anni di distanza dall’originale, che
possono restituirci in modo abbastanza fedele il vero aspetto di un’opera che a
tutti apparve subito rivoluzionaria.
La copia più fedele, anche se
mancante della parte alta – un terzo superiore del dipinto venne in seguito
tagliato – è la copia di Giovan Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino,
assistente di Leonardo. L’opera proveniente dalla Certosa di Pavia [1520 circa]
fu acquistata, nel 1821, dalla Royal Academy of Arts di Londra, fu esposta per
venticinque anni al Magdalen College
di Oxford, per poi ritornare alla Royal
Academy of Arts, nel 2017, dove si trova tutt’ora esposta.
Il recente intervento restauro ha
potuto recuperare solo in parte l’originale di Leonardo, irrimediabilmente
rovinato sia a causa dei materiali utilizzati dall’artista, inadatti a un
dipinto su muro, che per opera dei molti “restauratori”, i quali, soprattutto,
nei secoli XVII e XVIII, avevano eseguito, come scrive la curatrice del recente
restauro scientifico Pinin Brambilla, “vere e proprie ridipinture volte alla “manutenzione
estetica” del dipinto”.
A proposito di questi devastanti
interventi scrive Kenneth Clark, nel 1983, nell’introduzione al catalogo a cura
di Carlo Pedretti, Leonardo: studi per il Cenacolo dalla Biblioteca Reale
nel Castello di Windsor:
“Pietro, con la fronte bassa da
criminale, è una delle figure che disturbano di più nell’intera composizione;
ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista
di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile
brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si
verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle
delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profìl perdu, un fatto confermato dal
disegno di Leonardo a Windsor [cat. 13]. Il restauratore l’ha rigirato,
collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l’effetto sinistro. Andrea
era quasi di profilo; il restauratore l’ha portato a una veduta convenzionale
di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo
spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente
opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine.»
Giovanni Donato Monfortano [1460-1502], Crocifissione.
Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Milano.
Leonardo, Il Cenacolo,
particolare di una ghirlanda nelle lunette.
Giovan Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino, Copia del Cenacolo.
Royal Academy of Arts, Londra.
Marco
d’Oggiono, Copia del Cenacolo.
Castello di Écouen, Musée de la Renaissance, Parigi.
Una Copia del Cenacolo, attribuita ad Anonimo
da Pietro Marani e a Cesare da Sesto
da Isidoro Marcionetti, è esposta nella Chiesa di Sant’Ambrogio
di Ponte Capriasca, vicino a Lugano.
Tullio Lombardo, Copia del Cenacolo.
Chiesa
di Santa Maria dei Miracoli, Venezia.
Anonimo
milanese del secolo XVI, Copia del
Cenacolo.
Pinacoteca di Brera.
Antonio
della Corna, Copia del Cenacolo.
Basilica
di S. Lorenzo, Milano.
Anonimo lombardo, Copia del Cenacolo.
Hermitage,
San Pietroburgo.
Una Copia del Cenacolo,
di cui sono ignoti l’autore e l’epoca, è stata scoperta nel refettorio del
Convento dei Cappuccini di Saracena [Cosenza], abbandonato da anni e ridotto a
rudere.
Arazzo di manifattura fiamminga, datato da Laure Fagnart tra il
1505 e il 1515. Pinacoteca Vaticana, Sala VIII, Città del
Vaticano.
Copia del Cenacolo, attribuita ad Anonimo
fiammingo o ad Andrea Solario],
esposta nell’Abbazia di Tongerlo, in Belgio.
Una delle ultime copie del Cenacolo
è questo Mosaico di Giacomo Raffaelli, basato sul disegno “dal vero” di
Giuseppe Bossi, conservato nella Chiesa dei Minoriti, a Vienna, e
commissionato, nel 1809, dal viceré del Regno d’Italia, Eugène de Beauharnais, che
intendeva farne dono a Napoleone Bonaparte per il Louvre.
A Torino, nella Basilica di San Giovanni Battista, sulla parete
opposta all’altare maggiore, è presente una copia del Cenacolo, opera del pittore vercellese Luigi Cagna.
Leonardo, Studio
per la testa dell’Apostolo Giacomo.
Royal Library, Windsor.
Leonardo, Studio per la
testa dell’Apostolo Giuda.
Leonardo, Studio del
Cenacolo.
Dopo tanti ritocchi,
ripassature, perfino, ridipinture a olio restauri e pseudorestauri, valutando,
rudemente, la materia pittorica ancora aderente al muro, in peso, quanti grammi
o centigrammi o milligrammi di opera leonardesca diretta, vale a dire, eseguita
dalla mano del Maestro, possiamo considerare autentica?
Avrei molta paura di
ascoltare una precisa risposta.
Daniela
Zini
Copyright © 16 giugno 2019 ADZ
Che Leonardo amasse le Rose è dato dal fatto che fu
lui a portarne una particolare specie alla corte di Francia, che da lui prese
il nome.
La sera del 17 ottobre 1909,
appena tornato dall’America, piuttosto inquieto per l’esperienza
insoddisfacente nel nuovo continente, Sigmund Freud scrive a Gustav Jung:
“Da quando sono tornato ho avuto un’idea.
Il mistero del carattere di Leonardo mi è divenuto improvvisamente trasparente.”
Il primo rischio di un approccio
psicanalitico deviante consiste nel considerare l’opera d’arte un semplice
documento o banco di prova per la verifica della teoria medica, una conferma, a
esempio, di certe esperienze cliniche.
Analizzando la Gradiva di
Wilhelm Jensen, nel 1907, Freud considerava i sogni del personaggio e le sue
azioni come se fossero i dati clinici di un individuo vivente.
“I poeti”,
diceva,
“sono alleati preziosi e la loro
testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sanno
in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere
accademico neppure sospetta.”
Più
interessante è il saggio, Un ricordo
d’infanzia di Leonardo da Vinci, pubblicato
nel 1910. Sarà, in seguito, rivisto e corretto nel 1919 e nel 1923. È uno dei
più illuminanti esempi di uso della nuova scienza psicoanalitica per una
ricerca biografica.
A
causa della scarsità di notizie sulla vita privata e sulla infanzia del grande Genio
rinascimentale, dell’incertezza e della frammentarietà del materiale
disponibile, il lavoro non ha l’ambizione di fornire spiegazioni definitive.
Alla fine del saggio Freud non manca, infatti, di ribadire i limiti della
psicoanalisi, che, per quanto possa disporre di dettagliate informazioni e
documenti storici, non potrà mai “farci
comprendere l’inevitabilità del fatto che la persona in questione abbia avuto
una determinata reazione e non un’altra… Dobbiamo ammettere qui un certo grado
di libertà che non si può ulteriormente risolvere con mezzi psicoanalitici”.
È
anzi chiaro in lui un prudente riserbo contro i pericoli di indebite
generalizzazioni, che purtroppo non mancarono nelle applicazioni dei suoi
seguaci.
Tuttavia,
malgrado le remore dichiarate ed esplicitate, Freud si lascia appassionare dal “caso
Leonardo” e lo tratta con un trasporto che difficilmente si ritroverà in altre
parti della sua opera.
Il
punto di partenza per la ricostruzione dell’infanzia del Genio, è una nota lasciata
sul Codice Atlantico [C-61r] dallo stesso Leonardo:
“Questo scriver si distintamente del
nibbio par che sia mio destino perché nella prima ricordazione della mia
infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi
aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi percotessi con tal coda
dentro le labbra.”
Freud,
innanzitutto, rammenta che i ricordi infantili sono, in realtà, fantasie nate
successivamente, quando l’infanzia viene, teoricamente, “ricostruita” e
rivestono importanza fondamentale per fare luce sui lati più controversi della
personalità dell’artista: la sua instabilità creativa, la incompiutezza di
molti dei suoi capolavori e la gentilezza pressoché femminea del suo carattere.
All’episodio
riferito da Leonardo fornisce due interpretazioni, riconducendolo sia a un atto
sessuale orale, marcatamente passivo, reminiscenza della memoria dell’allattamento,
sia all’immagine egizia della Dea-Madre Mut, raffigurata come
uccello-avvoltoio.
L’avvoltoio,
considerato nell’antichità di sola specie femminile, fecondato dalla forza del
vento, era divenuto simbolo, per la patristica cristiana, della nascita di
Cristo, concepito da Vergine per opera dello Spirito Santo.
Leonardo,
argomenta Freud, era figlio illegittimo del notaio Pietro da Vinci e della
giovane contadina Caterina, quindi, “figlio
di sola madre”, “figlio di avvoltoio”.
I
primi anni dell’infanzia, secondo la ricostruzione di Freud, Leonardo li
avrebbe trascorsi, esclusivamente, con la madre. Da fonti storiche si apprende che
poi, all’età di cinque anni, il bimbo andò a vivere con il padre e con la
giovane moglie di lui, Albiera.
Per
Freud, dunque, il nibbio-avvoltoio è la madre, mentre la coda è il pene che il
fanciullo ha pensato come attributo sessuale della madre. La scoperta che la
madre ne era priva, e la delusione conseguente, hanno prodotto un desiderio –
frustrato – di rintracciare in altre persone la tenerezza che aveva ispirato i
rapporti felici tra lui e la madre durante i primi anni d’infanzia:
“La concentrazione sull’oggetto che una
volta era così fortemente desiderato, il pene della donna, lascia tracce
indelebili sulla vita mentale del bambino che ha perseguito con particolare
accuratezza questa parte delle ricerche sessuali infantili.”
Freud
spiega, poi, quelle notizie circa la vita di Leonardo che lo vedrebbero come “sessualmente non attivo o omosessuale”,
cui lo indirizzarono proprio le prime esclusive tenerezze materne: l’amore per
la madre viene rimosso, ma il figlio prende il posto della madre e la sua
stessa persona diventa il modello dei suoi oggetti d’amore. Leonardo si
circonda di giovani, bellissimi assistenti, noti sicuramente più per la loro
prestanza che per le doti artistiche. Ama i giovinetti come sua madre ha amato
lui: il narcisismo è la base della sua scelta d’oggetto.
Questo
tipo di investimento oggettuale si può riscontrare non solo nella scelta dei
suoi allievi, ma anche nell’atteggiamento nei confronti delle sue opere, che,
spesso, trascura come il padre aveva trascurato lui all’inizio della sua vita.
Il momento della soddisfazione artistica viene differito così come viene
inibita la realizzazione fisica della sessualità, che, quindi, secondo Freud, sarebbe
rimasta inespressa, repressa, sublimata attraverso la curiosità intellettuale,
l’indagine, la sperimentazione.
Freud
crede all’assoluzione ottenuta da Leonardo – che a ventiquattro anni venne
incriminato e processato per sodomia a seguito di una denuncia anonima –
proprio sulla base delle testimonianze dei contemporanei, che lo descrivevano
assolutamente lontano da ogni passione che non fosse la brama di conoscenza, e
su quanto dedotto dalla sua analisi psico-biografica.
I risultati presentati da Freud si
dimostreranno, con il tempo, non del tutto veritieri. È noto l’errore di traduzione
che costituisce l’abbaglio più clamoroso di Freud. Le opere su cui si era
documentato, vale a dire il celebre romanzo di Dmitrij Sergeevic Merezkovskij sulla
vita di Leonardo, un saggio di Nino Smiraglia Scognamiglio, tradotto in tedesco
da Maria Herzfeld, traducevano il nibbio della fantasia leonardesca con la
parola tedesca Geier, che significa
avvoltoio,
anziché usare Milan.
Lo scambio di pennuti, in realtà, non è così grave, anche il nibbio, in quanto
uccello, è, innegabilmente, simbolo fallico.
Resta, pertanto, importante
sottolineare come una psicoanalisi “larvale” abbia provato ad espandersi in un
territorio fecondo di interpretazioni psicologiche.
Leonardo
era per lui il Genio indiscusso, che stimava enormemente. Il tributo a questo
grande artista fu, quindi, in un certo senso, doveroso nel momento in cui
decise di cimentarsi, nell’ambito della dibattuta relazione tra arte e
psicoanalisi, in una psico-biografia.
A dodici
anni, nel 1497, Matteo Bandello era a Milano ed entrava nel convento domenicano
retto dallo zio Vincenzo. Qui vide il grande Leonardo dipingere sulla parete
del refettorio Il Cenacolo e qui
pronunciò i voti nel 1500.
Durante il soggiorno a
Milano, presso la corte sforzesca di Ludovico il Moro, Leonardo ebbe modo di
conoscere il matematico Luca Pacioli, al quale si legò di profonda amicizia e di
reciproca collaborazione.
Nella
stesura del trattato De Divina Proportione, che
Pacioli compose intorno al 1498, Leonardo collaborò con la realizzazione
di oltre sessanta disegni esplicativi.
Questo
libro, pubblicato a Venezia nel 1509, influenzò, notevolmente, gli artisti e
gli architetti del tempo, ma anche delle epoche successive.