“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 28 giugno 2019

Mehler Engineered Defence special heavy sheild

lunedì 24 giugno 2019

https://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2019/06/24/sea-watch-chiede-aiuto-strasburgo_6m2lndjZUvikCQ3J5rUYvO.html?refresh_ce

La Sea Watch è una nave dell’omonima ONG tedesca che batte bandiera olandese e che, per non fare torto né alla Germania né all'Olanda, porta i migranti in Italia. Come dire io ti ospito, non nella mia casa di città o nella mia casa di campagna perché il resto della famiglia non vuole, ma nella casa del vicino, perché mi rimane più comodo e mi evita noie in casa. Non va bene così. Le opere buone non si lasciano a metà e, soprattutto, non si accollano agli altri, senza neppure consultarli ma prendendosene il merito. L’Olanda, nonostante il governo italiano l'abbia più volte indicata come Paese di approdo dei migranti, ha sempre respinto una tale ipotesi al mittente, ribadendo, a più riprese, la sua indisponibilità ad accettare il trasferimento di migranti con queste secche parole: "NOI OLANDESI NON SIAMO OBBLIGATI!" "E NOI ITALIANI PERCHE' LO SIAMO?", mi chiedo io. E lo chiedo, anche, agli italiani (soprattutto a quelli che si mettono in posa con tanto di cartelli, neppure stessero facendo della pubblicità a un prodotto commerciale, ma, forse, lo è!) e non-italiani, perché la bollatura di RAZZISTI e INTOLLERANTI è riservata dall'UE, dall'ONU, dal PAPA, solo agli italiani! Se certa gente facesse altri mestieri e frequentasse altri ambienti, si accorgerebbe che la GENTE COMUNE non conduce il suo stile di vita, non ha neppure il suo stile... semplicemente perché non ha la sua VITA, non ha una VITA, se al termine VITA diamo ancora un valore e un significato. Mi hanno stancato tutti questi benemeriti CATARI con il loro milionario conto in banca che vengono a fare la morale alla GENTE COMUNE che non ha né una casa né un lavoro e tantomeno un conto corrente.

Daniela Zini

giovedì 20 giugno 2019

LETTERA APERTA AI GIORNALISTI ITALIANI lettera aperta di un cane sciolto in nome della libertà di abbaiare di Daniela Zini


LETTERA APERTA
ai
giornalisti italiani
lettera aperta di un cane sciolto in nome della libertà di abbaiare
“Quando vado da qualcuno mi pare sempre di essere il più miserabile di tutti, e che tutti mi prendano per un buffone, e allora mi dico:
”Su, facciamo il buffone davvero, non ho paura del vostro giudizio, perché siete tutti più miserabili di me, dal primo fino all’ultimo!”
Ecco perché sono un buffone, per timidezza, nobile starec, per timidezza!”
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov

A Pompei, nella Casa del Poeta Tragico, vi è un celebre mosaico, raffigurante un cane ringhioso alla catena. Nella parte inferiore, compare la scritta:
“CAVE CANEM”, guardati dal cane.
Gli antichi Romani mettevano, così, in guardia il passante dal pericolo di violarne l’accesso.
Né le ceneri vulcaniche né i secoli hanno avuto la meglio su queste ellissi impresse sulla pietra.
A secondo di avere un cane o no, il nostro giudizio differirà, senza alcun dubbio, sulla necessità o no di legiferare per proteggerci da cani “ringhiosi”.
Anche una appassionata di escursioni come me, ha dovuto, più di una volta, serrare il bastone di marcia per ritrovare una sensazione di relativa sicurezza di fronte a cani “ringhiosi”. E uno degli spaventi più grandi della mia vita è stato, sicuramente, l’incontro di un cane da pastore a guardia di un gregge di pecore.
Avrei preferito incontrare un lupo!
Ma è risaputo, il cane è un animale domestico, che, opportunamente, “lisciato” e accarezzato e, abilmente, addestrato e manipolato dal suo padrone, sa mostrarsi molto obbediente.
“Non toccare il mio amico!”,
è la parola d’ordine.
La necessità fa legge, si deve pur guadagnare la gamella!
Il cane sa, infatti, per esperienza, che è meglio leccare la mano che non saprebbe mordere…
L’Italia è una grande e bella Democrazia.
Oh, io so che molti di voi ne dubitano.  
Io non li comprendo.  
È il popolo che governa, sì o no?
No?
Ebbene, per far tacere i più scettici, mi proverò a dimostrarlo con il rigore del ragionamento seguente. In Italia, sono in molti a guardare la televisione. Ora nessun programma televisivo è, veramente, sovversivo. Se ne deduce che gli italiani siano soddisfatti dei loro rappresentanti e che l’oligarchia, che tiene le redini del Paese, sia ben rappresentativa del popolo.  
L’Italia, è, dunque, una Democrazia!
In Les mains sales, Jean-Paul Sartre fa dire a uno dei suoi personaggi, Hoereder:  
Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani! Ebbene, resta puro! A che cosa servirà e perché vieni tra noi? La purezza è un ideale da fachiri e da monaci. Voialtri, intellettuali, anarchici, borghesi, ve ne servite come pretesto per non fare nulla. Non fare nulla, restare immobili, serrare i gomiti contro il corpo, portare i guanti. Io, io ho le mani sporche. Fino ai gomiti. Io le ho affondate nella merda e nel sangue. E del resto? Credi davvero che si possa governare innocentemente?  
Il dramma traccia la parabola di un gruppo rivoluzionario che, conquistato il potere con il consenso popolare ed eliminato il tiranno, si trova a fare i conti con la realtà del governare per ritrovarsi a ripetere le stesse azioni liberticide contro le quali aveva combattuto.
A destra come a sinistra uomini si sono sporcati le mani.
Ancora si deve sapere quali!
Il vento di “salubrità” pubblica che ha soffiato, venti anni fa, con Mani Pulite, raggiungerà ancora l’Italia?
Vi sottopongo per una riflessione questa testimonianza di Giorgio Bocca, raccolta dal settimanale francese Le Point, nell’edizione del 15-21 maggio 1993. A proposito di Giulio Andreotti, il più “divo” dei nostri uomini di Stato, Bocca procede, da esperto, a una analisi che, condividerete con me, non manca di pertinenza:
“Il mistero di Andreotti è un falso mistero, è il mistero del potere. Riposa su uno dei temi più vecchi del mondo: mentire freddamente, distrattamente, come se si trattasse di qualcun altro. Fintanto che l’autore conserverà il potere, la menzogna prevarrà su tutti i sospetti, perché non è la verità che è in gioco, ma il potere.” 
La vita, Niccolò Machiavelli, Sigmund Freud… mi hanno appreso che le menzogne più grosse permettono, sovente, agli impostori, ai demagoghi, ai manipolatori e ai pervertiti di fondare la propria legittimità, imponendo alle folle le loro tavole della legge.
È inaccettabile che politici moralizzatori e sedicenti virtuosi abbiano rapporti così colpevoli con il danaro. La lista dei loro misfatti avrebbe dovuto impedire loro di continuare a impiegare l’arma della “disonestà” e della “generosità” per distinguersi dai loro avversari, dai magistrati che li “perseguitano”, dai giornalisti che li guardano nel fondo degli occhi. La irresponsabilità è divenuta, nei loro ranghi, la regola comune. Solo qualche “subalterno” è abbandonato alla Giustizia.  
Spesso, noi non riusciamo a distinguere i contorni di quello che accade intorno a noi. La nettezza non è una caratteristica della vita: bianco o nero. Dobbiamo fare i conti con una scala infinita di grigi.
Il buon uso della Democrazia impone che si lasci la Giustizia stabilire come questi “deviamenti” abbiano avuto luogo e in quali proporzioni. Solo la Giustizia – e voi lo sapete – può dire se abbiano agito dietro ordine – del loro partito, a esempio – o per arricchirsi personalmente.
Come finirà?
“Lo scopriremo vivendo!”,
ritmava un motivetto di qualche anno fa.
La soluzione a questo problema è, innanzitutto, politica. È combattendo l’indifferenza generale, in primo luogo degli ambienti politici, circa questa nuova criminalità che la nostra Democrazia ritroverà la sua forza.
Uno sguardo sul problema della corruzione, di cui soffre la quasi totalità dei Paesi occidentali permette di affermare che, se non si presterà attenzione, se non si attueranno misure di urgenza, si perverrà alla destabilizzazione degli Stati e allo screditamento delle classi dirigenti, rafforzando, così, quell’estremismo di destra, cui si è contribuito a scavare un alveo e di cui si è saputo così bene servirsi.
L’Italia, in cui il pericolo politico-mafioso è stato spinto al parossismo, non è un caso isolato. In Grecia, ha devastato l’economia del Paese. In Spagna, in Portogallo, in Irlanda, fino in Francia… il saccheggio presenta le stesse caratteristiche. I nostri cugini europei sono stati serviti: affarismo e corruzione hanno “oliato” tutti gli ingranaggi dell’economia e dello Stato. A questi banchetti partecipa il fior fiore della finanza più avventuriera e avventurosa.
Noi viviamo in un Paese, in cui l’eguaglianza è rivendicata alta e forte, ogni giorno, da tutti i politici, da tutti gli intellettuali, da tutti i giornalisti e da tutti coloro che hanno accesso allo spazio pubblico. Messo in tutte le salse, più o meno, il termine eguaglianza è stato innalzato a quasi dogma dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante la prima visita ufficiale a Papa Francesco I, lo scorso 8 giugno [http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/06/09/napolitano-papa-ora-dell-uguaglianza-francesco-scherza-qui.html, http://www.huffingtonpost.it/2013/06/08/papa-francesco-incontra-napolitano_n_3408412.html, http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2013/6/8/DIRETTA-STREAMING-Video-l-incontro-tra-Papa-Francesco-e-Giorgio-Napolitano/401076/]. E, tuttavia, una eguaglianza non è rivendicata da alcuno delle personalità citate: l’eguaglianza mediatica.
La causa?
Buona parte di loro ne soffrirebbe direttamente, perché sono i beneficiari, i privilegiati, i ricchi del tempo di parola, a detrimento dei poveri, degli esclusi, degli emarginati della radio e della televisione.
Tutte queste riflessioni mi hanno indotto a un gesto di “spontanea immodestia”, quale quello di scrivere una lettera aperta ai giornalisti italiani, non con la pretesa di dare lezioni a qualcuno, non ne avrei né il titolo né la capacità, ma con il solo scopo di offrire l’occasione a chi – da semplice cittadina come me, ritenga opportuno vivere in mezzo agli altri con maggiore coscienza dei propri diritti in pieno rispetto di quelli degli altri.
Per me non vi è dubbio alcuno che il giornalista – almeno chi meriti tale nome – debba scrivere tutto ciò che vuole, come vuole, dove vuole e quando vuole. Nell’era, in cui chiunque può divenire redattore capo del suo blog o inviato speciale di una newsletter e la comunicazione si trova al centro di tutte le strategie, vi propongo di riflettere su questa domanda:
Un giornalista può essere indipendente?”


È la stampa, bellezza!

in memoria di Anna Stepanovna Politkovskaja
assassinata dalla menzogna, il 7 ottobre 2006
“Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare.  L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede. Le parole possono salvare delle vite.”, sosteneva Anna Politkovskaja in una delle sue ultime interviste all’Eco di Mosca [Эхо Москвы], seppure consapevole che: “Alcune volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.”
E, per questo credo, la giornalista russa ha dato la propria vita.
L’articolo 21, comma 1, della Costituzione italiana riconosce a tutti il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Per questa ragione, la stessa corte costituzionale ha definito questa norma “pietra angolare” (sentenza n. 84/1969) per l’attuazione del sistema democratico. In virtù dei diritti garantiti dall’articolo 21, tutti gli addetti all’informazione hanno il diritto di esprimere le proprie idee in assoluta libertà, anche se divergono dalle “aspettative” dei governanti di turno. 
Sono al servizio dei cittadini ed è a loro che debbono rendere conto!
Tuttavia, le loro funzioni influenzano, direttamente, il popolo, la sua educazione, la sua apertura mentale e la sua libertà.

di
Daniela Zini


Esiste una ineguaglianza mediatica in questo Paese, che niente giustifica e che non è più sopportabile.
Così l’indipendenza, altamente rivendicata, non esita a farsi muta, quando si tratta di mangiare dalla greppia. Come diceva un giornalista in vista, si tratta di “lisciare” l’informazione. Da qui a cadere nel servilismo, non vi è che un passo, al punto da poter dire che il giornalismo è l’arte di far credere al popolo ciò che il governo giudica opportuno fargli ammettere. Cosa che riconosceva, apertamente,lo stesso Napoleone III:
“Io non leggo mai i giornali francesi, non stampano che ciò che voglio.”
I mass media hanno preso una tale importanza che è impossibile voler fare con o senza di loro. Sono onnipresenti, onnipotenti e quasi onniscienti. Fanno il buono e il cattivo tempo, determinano ciò che esiste e ciò che non esiste, stabiliscono il vero e il falso, il bene e il male, il nuovo e il vecchio.
In Italia, è ben radicato l’assunto del giornalista disposto a scendere a compromessi di fronte alle pressioni del potere e incapace di resistere alle pressioni del danaro. Autoreferenziali, servi del potere, senza etica, lontani dal “Paese reale”… il repertorio di accuse mosse alla categoria si arricchisce di nuovi epiteti, anno dopo anno, sulla scia di sospetti, insinuazioni, critiche deontologiche e, all’occorrenza, di insulti. Lo dimostra il rapporto Censis-Ucsi del 2013, secondo cui i principali appunti, che vengono mossi agli operatori della informazione, riguardano la mancanza di veridicità nelle notizie riportate e l'inadeguatezza rispetto al ruolo. Alla categoria vengono mossi rilievi anche circa l'approssimazione, l'esagerazione, la mancanza di autonomia e di indipendenza, la partigianeria con cui vengono riportate le notizie. In coda alla classifica le definizioni, forse, più oltraggiose, vale a dire, il narcisismo e l'autoreferenzialità e la scarsa comprensibilità. Il rapporto dice, infatti, che per 7 persone su 10 – con leggera prevalenza tra i giovani e i 45-60enni – “gli apparati di informazione tradizionale tendono a manipolare le notizie”. Viceversa, solo un terzo degli italiani – percentuale che sale al 41% tra gli anziani – ritiene valida l’equazione non professionale = non attendibile per l’informazione che si diffonde in rete. Secondo lo stesso rapporto, è, sempre, la televisione a farla da padrona, mentre crescono i cosiddetti mobile internet devices e continua il calo inesorabile della carta stampata. Al riguardo, vi sono due dati che meritano essere estrapolati per fotografare la crisi dei giornali:
1) nella fascia di età compresa tra i 14 e i 29 anni – per intenderci, i lettori di oggi e di domani – la percentuale che si tiene informata attraverso i quotidiani non raggiunge il 23%;
2) nel corso degli ultimi sei anni, dal 2007 al 2013, il consumo di quotidiani a pagamento è sceso dal 67% al 43% della popolazione.
Se il trend dovesse rimanere costante, la carta stampata non avrebbe più di 10 anni di vita!
Le responsabilità di questa disfatta sono divise. Un manipolo di grandi gruppi editoriali hanno il monopolio dell’informazione, ciò che mette in pericolo l’indipendenza dei media di fronte al potere economico, ma anche a quello politico, perché queste due dimensioni si intersecano come non mai. Vi è, poi, la concorrenza di internet e della stampa gratuita. Di fronte a questi due nuovi attori i media hanno reagito, investendo sul marketing e sulla pubblicità e non sulla qualità. Infine, la massa salariale, vale a dire i giornalisti, è diminuita negli ultimi dieci anni.
Celebriamo, dunque, le esequie del giornalismo?
Niente affatto!
Prepariamoci, al contrario, a festeggiarne una nuova vita. Secondo l'83% degli intervistati esistono alcune significative eccezioni e nuovi modelli referenziali. Una nostalgia per i reporters, i freelance, in una parola, per un sistema di informazione non pilotato. Lo stesso rapporto Censis-Ucsi ci conferma un dato rilevante: dal 2011 a oggi, la percentuale degli italiani, che ha usato almeno uno dei tanti mezzi di informazione disponibili, è lievitata del 5,6%, passando dall’89,8% al 95,4%. Ciò significa che la domanda di informazione – e quindi di giornalismo, in senso lato – non è affatto mediocre, anzi si avvantaggia dei numerosi canali a disposizione.
Oltreoceano, negli Stati Uniti – come rivela un sondaggio Gallup del dicembre dello scorso anno [ http://www.gallup.com/poll/159035/congress-retains-low-honesty-rating.aspx] – la situazione non è migliore: solo il 25% degli americani ritiene i giornalisti affidabili ed eticamente onesti. Per il restante 75%, i dubbi sono, via via, più consistenti, al punto che nella classifica della affidabilità, i giornalisti si posizionano al 12° posto, dietro i banchieri, i chiropratici e gli psichiatri.


Cara stampa, carissimi giornalisti radio-televisivi,

vi scrivo, oggi, per esprimervi tutta la mia ammirazione per il vostro operato.
I miei Amici e io lo avevamo preannunciato, avevamo posto in voi immense aspettative e l’ora della constatazione è, ormai, venuta: non ci avete delusi.
Noi sappiamo, voi e io, che la stampa italiana è criticata all’estero, in particolare nei Paesi anglo-sassoni, per il suo eccessivo fair-play, per la prudenza di cui fa bella mostra nel trattare l’informazione, quella politica soprattutto.
Noi sappiamo, voi e io, che il soffocamento di una sollevazione non si fa con la forza, con eventuali pressioni dirette del tipo “fai questo” o “non fare quello”, ma passa, piuttosto, attraverso la riproduzione sociale, da una parte, e attraverso il discredito dei punti di vista non consensuali, dall’altra. Queste due condotte sono, del resto, i due pilastri della Democrazia all’italiana. È noto che il sistema scolastico di accesso al lavoro, da una parte, e i professionisti dell’editoria e del giornalismo, dall’altra, si completano a meraviglia, per assicurare una certa perfezione nella riproduzione, che io non ho mai osato immaginare nei miei sogni più folli. Nel vostro ambiente, non si accetta, del resto, che la gente nella quale ci si riconosce e io me ne felicito perché queste strategie, più o meno coscienti, assicurano il mantenimento della qualità del vostro lavoro. Certo, se faceste letame, sarebbe inquietante, per l’impossibilità di uscire dal processo defecatore, ma state tranquilli, voi siete bene i rappresentanti dell’élite intellettuale dell’Italia.  
La prova?
Voi siete molto più conosciuti di altri pseudo-pensatori e parassiti a corto di riconoscimenti.
È tempo di ritrovare la giusta misura delle cose!
Da buoni praticanti della vita pubblica, voi non avete mai oltrepassato la linea gialla, non avete mai mostrato la tenacia implacabile, di cui danno prova i giornalisti anglosassoni, in cerca di verità. Non è, certo, qui da noi, che i giornalisti potrebbero andare così lontano e così veloce come nell’Affare Watergate, quello che ha permesso alla stampa americana di mettere alla porta della Casa Bianca, in pieno mandato, il presidente Richard Nixon.
Qualcuno ve ne ha parlato?
Per tutte queste ragioni, io mi felicito di non appartenere, alla sublime casta degli intellettuali intelligenti, che, soffocando nei loro ranghi ogni sollevazione, assicurano la fabbricazione di una opinione omogenea nella popolazione italiana e, così, la formazione della futura casta di intellettuali intelligenti, di cui non dubito di vedere, un giorno, farne parte i vostri figli.
Noi sappiamo, voi e io, che, senza essere giornalisti, senza essere grandi storici, si può, egualmente, leggere l’attualità in modo abbastanza preciso, è sufficiente impiegare un pò di tempo per analizzarla, per cogliere il mondo in cui viviamo. Voi, il cui mestiere è decodificare le sfere di influenza dei poteri mondiali, politico, economico ed energetico, voi sembrate incapaci di vedere e di sentire i molteplici indizi e parametri dell’attualità, attraverso i quali è possibile abbozzare un ritratto abbastanza fedele della realtà. I vostri reportages sono divenuti dei discorsi da pappagallo che ripetono, instancabilmente, un sermone che elude i fatti evidenti.
Come se vi avessero amputato della vostra etica o, peggio, come se vi avessero letteralmente disumanizzato!
Noi sappiamo, voi e io, che si può, per un certo tempo, imbellettare la realtà, ma… ma che, inevitabilmente, come l’erba cattiva, finisce sempre per imporsi. Si ha un bel ripetere, incessantemente, una menzogna, per darle il sembiante di una verità nella testa della gente, prima o poi, la menzogna viene a galla.
Noi sappiamo, voi e io, che la realtà ha, sempre, l’ultima parola.
Viva la Democrazia e viva l’Italia giornalistica!

ostinatamente vostro
cane sciolto, in nome della libertà di abbaiare


Daniela Zini
Copyright © 15 novembre 2013 ADZ



domenica 16 giugno 2019

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 500 ANNI FA MORIVA LEONARDO 5. IL CENACOLO di Daniela Zini


500 anni fa moriva
 LEONARDO
di Messer Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519]


a Vincent
 
“Che cos’è la Storia, se non una Favola su cui ci si è messi d’accordo?”
Dan Brown, Il Codice da Vinci





“La striscia Nord-Sud era nota come Linea della Rosa. Per secoli il simbolo della Rosa era stato associato alle carte geografiche e a tutto ciò che guidava le anime nella giusta direzione. La Rosa dei Venti, disegnata su quasi tutte le carte indicava i quattro Punti Cardinali e quelli Intermedi, e quando era completa suggeriva le trentadue direzioni ossia i trentadue venti che soffiavano da quelle direzioni. Disegnate all’interno di un cerchio, quelle trentadue direzioni della bussola o dei venti assomigliavano a una Rosa con trentadue petali. Ancora oggi il cerchio che nelle carte geografiche indica le direzioni è noto come Rosa dei Venti e il Nord vi è segnato con una freccia o talvolta con il simbolo del Giglio, il Fleur-de-lis.”
Dan Brown, Il Codice da Vinci




“Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebul, capo dei demoni, che egli scaccia i demòni.”  Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demoni in nome di Beelzebul. Ma se io scaccio i demoni in nome di Beelzebul, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.
Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino.
Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde.”
Luca, 11, 14-23
  
 
Il Discepolo che Gesù ama è un personaggio misterioso che compare solo nel Vangelo di Giovanni. Non viene mai chiamato per nome, ma solo con questo titolo.
Quando Gesù viene arrestato e portato davanti ai Sommi Sacerdoti , è il Discepolo che Gesù ama a seguirlo.
Quando Gesù viene crocifisso, è il Discepolo che Gesù ama ai piedi della croce.
Quando le donne si recano al sepolcro per ungere Gesù e trovano la pietra rotolata, è il Discepolo che Gesù ama ad arrivare per primo alla tomba.
Gli altri Vangeli non parlano mai di lui.
Ma come può il Vangelo di Giovanni offrire una testimonianza di questo Discepolo che Gesù ama, se non è esistito?
Io sono un mentitore.
Nato nella menzogna, educato nella menzogna, formato alla menzogna da un servizio di cui è la ragione d’essere, rotto alla menzogna dal suo mestiere di scrittore.
Le colpe più orribili possono essere perdonate, ma non cancellate.
Crescere a Roma mi ha dato l’impressione che il perdono venga concesso con facilità. Schiere di fedeli in fila davanti ai confessionali, in attesa di accusarsi, mentre le luci rosse lampeggiano senza sosta a segnalare che i sacerdoti all’interno hanno terminato con un peccatore e sono pronti ad accogliere il successivo.
Le coscienze non si possono sporcare quanto le stanze e i piatti, pensavo, dal momento che esigono molto meno tempo a essere ripulite.
Alla periferia orientale di Parigi, nella zona di Belleville, vi è un luogo che accoglie, ogni anno, oltre due milioni di visitatori, è il Père Lachaise. Circa un milione di persone riposa nelle migliaia di tombe disseminate sui suoi quarantatrè ettari.
Nei pressi della fossa comune, lontano dal quartiere elegante di questa città dei sepolcri, lontano da tutte quelle tombe di fantasia, che spiegano in presenza dell’Eternità le esecrabili mode della Morte, vi è, in un angolo deserto, lungo il vecchio muro, sotto un grande tasso, sul quale si inerpicano le campanule multicolori, tra la gramigna e il muschio, una Pietra. Questa Pietra non è più indenne delle altre dalla corruzione del tempo, della muffa, del lichene e degli escrementi degli uccelli.
L’acqua la colora di verde, l’aria di nero.
Non è vicina a sentiero alcuno e si evita di andare da quella parte, perché l’erba è alta e i piedi si bagnano.
Quando filtra un raggio di Sole, le lucertole arrivano.
Tutto d’intorno vi è un fremito di avena fatua.
In Primavera, le capinere cantano tra gli alberi.
Questa Pietra è tutta nuda.
Tagliandola, si è pensato solo all’indispensabile per la Tomba, fare questa Pietra abbastanza lunga e stretta per avvolgere un Uomo.
Non vi si legge nome alcuno.
Una mano vi ha scritto a matita quattro versi che sono divenuti, a poco a poco, illeggibili sotto la pioggia e la polvere e, oggi, sono, ormai, cancellati:

Il dort. Quoique le sort fût pour lui bien étrange,
Il vivait. Il mourut quand il n’eut plus son Ange;
La chose simplement d’elle-même arriva,
Comme la nuit se fait lorsque le jour s’en va.
Les Misérables, cinquième partie, livre IX, chap. 6.

Sono le ultime righe dell’immenso romanzo di Victor Hugo.


L’Acquarosa di Leonardo[1]


Ingredienti per 1 litro:
1 litro di acqua minerale,
2 limoni non trattati,
4 cucchiai di zucchero,
4 cucchiai di petali di Rosa essiccati,
una coppa di alcol a 90°.

Preparazione
Disponete l’acqua minerale in una brocca capiente.
Spremete i limoni non trattati e aggiungete il succo all’acqua insieme ai 4 cucchiai di zucchero, ai 4 cucchiai di petali di Rosa essiccati e alla coppa di alcol 90°.
Agitate bene il composto in modo che tutti gli ingredienti si mescolino bene tra loro e lo zucchero si sciolga completamente.
Coprite la brocca e lasciatela riposare per almeno 3 ore in un luogo fresco e buio.
Successivamente, prendete una bottiglia di vetro e, usando un imbuto sul fondo del quale avrete sistemato un paio di fogli di garza, filtrate il liquido dalla brocca alla bottiglia.
Servite leggermente fresca.
 

La ricetta dell’Acquarosa di Leonardo, una bevanda afrodisiaca a base di estratto di Rosa, è descritta, con precisione negli ingredienti e nel sistema di filtraggio, al foglio 482 recto [ex-177 recto-a] del Codice Atlantico, conservato, a Milano, nella Biblioteca Ambrosiana. È databile agli ultimi anni di vita dell’artista-scienziato, intorno al 1517. La bevanda, riprodotta, per la prima volta, al Museo Ideale Leonardo da Vinci, dopo 485 anni, doveva essere servita fresca ed era definita da Leonardo adatta all’estate calda dei Turchi:
“È bevanda di Turchi la state.”
 



Noi tutti siamo esiliati
entro lo cornici di uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da grande,
Gli altri sono insetti.
Leonardo




Ernesto Solari, artista e studioso esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che ne sarebbe venuto in possesso.
   



 “Chi è solo è tutto suo.”
Leonardo
 
“Amor ogni cosa vince.”
Leonardo
  

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“I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità, della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo [1538-1592]


Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti – possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità, non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente, la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete di conoscenza, quantunque “omo senza lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che, chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”. 
È questo “filosofar” la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale, una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha, certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi, sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque secoli dalla morte del Maestro.



In quel crogiolo di menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della Cultura, la figura di Leonardo campeggia  dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo, che brucia gli ingegni, sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù, condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è solo un vuoto sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani del 1967, I sovversivi, appariva il personaggio di un regista cinematografico alle prese con la biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava, soprattutto, l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di rispecchiare, con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale.
E il film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi, raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette anni, laureato in architettura, autore di films famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava realizzando per la RAI-TV un Leonardo in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura, con la consulenza di Cesare Brandi. 
 


Vi sono figure della Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario biografico e psicologico e  altre, che viste da vicino, si rivelano ambigue e misteriose.
Tra queste ultime è Leonardo.
La sua biografia si fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori fa morire l’artista “in braccio” a Francesco I e “nell’età sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera, diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più che alcuni disegni; della grande Battaglia di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una piccola copia; i ricchissimi Codici furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e celeste” da Giorgio Vasari, Leonardo “era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”, eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco.
E Leonardo stesso parla pochissimo di sé, appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund Freud[2], nel 1910, pubblicando il saggio, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci  [http://www.nilalienum.it/Sezioni/Freud/Opere/Leonardo%20ric.html], che fu accolto da proteste indignate. Parve, infatti, che il fondatore della psicoanalisi avesse valicato i limiti dell’osservazione scientifica, analizzando un sogno infantile riferito dall’artista: l’incubo di un nibbio che si avventava sul suo letto e con la coda gli percuoteva la bocca.
“Questo scriver si distintamente del nibbio par che sia mio destino perché nella prima ricordazione della mia infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi percotessi con tal coda dentro le labbra.”
Da questa immagine notturna Freud risaliva alla malcerta condizione del sognatore come “figliuolo non legittimo” del notaio Ser Piero da Vinci, coccolato dalla madre Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita, Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo Freud, con i dati della sessualità infantile.    
“Se un tentativo biografico intende realmente spingersi a fondo nella comprensione della vita psichica del proprio eroe, non può passar sotto silenzio, come succede per discrezione o falso pudore nella maggior parte delle biografie, l’attività e le caratteristiche sessuali specifiche del soggetto. Ciò che sappiamo di Leonardo a questo proposito è poco, ma questo poco è significativo. In un periodo che vedeva in lotta tra loro una sensualità sfrenata e una cupa ascesi, Leonardo fu un esempio di freddo rifiuto della sessualità, quale non ci si aspetterebbe in un artista e in un interprete della bellezza femminile. Solmi cita di lui la seguente espressione, che ne caratterizza la frigidità: “L’atto del coito e le membra a quello adoprate son di tanta bruttura che, se non fusse la bellezza de’ volti e li ornamenti delli opranti e la sfrenata disposizione, la natura perderebbe la spezie umana.” Gli scritti postumi, i quali non trattano unicamente dei più alti problemi scientifici ma contengono anche contributi di poco conto che anzi sembrano indegni di uno spirito cosi grande [una storia naturale allegorica, favole di animali, facezie, profezie], sono di un tale grado di castità — si sarebbe tentati di definirli astinenti — che desterebbe anche oggi meraviglia in un’opera letteraria. Essi evitano risolutamente qualsiasi accenno alla sessualità, come se Eros soltanto, che conserva ogni cosa vivente, non fosse argomento degno della brama di sapere del ricercatore. [Forse le “facezie belle” [ossia: facezie per soli uomini] da lui raccolte, che non sono state tradotte, costituiscono un’eccezione, del resto senza importanza]. È ben noto quanto spesso i grandi artisti si compiacciano di sfogare le loro fantasie in raffigurazioni erotiche e addirittura grossolanamente oscene; di Leonardo per contro possediamo soltanto alcuni disegni anatomici che si riferiscono ai genitali interni della donna, alla posizione del bambino nel corpo materno, e cosi via. È incerto se Leonardo abbia mai stretto una donna in amplesso amoroso; né si sa se abbia avuto mai una profonda relazione spirituale, come quella di Michelangelo con Vittoria Colonna. Quando ancora viveva come apprendista in casa del suo Maestro, il Verrocchio, fu accusato con altri giovani di pratiche omosessuali illecite, ma l’accusa si concluse con la sua assoluzione. Pare che incorresse in tale sospetto perché si serviva come modello di un ragazzo di cattiva fama. [A quest’incidente si riferisce secondo Scognamiglio un punto oscuro, e persino variamente letto, del Codice Atlantico: “Quando io feci Domeneddio putto, voi mi metteste in prigione; ora s’io lo fo grande, voi mi farete peggio”]. Divenuto maestro, si circondò di bei ragazzi e giovanetti, che accoglieva come discepoli. L’ultimo di questi, Francesco Melzi, lo accompagnò in Francia, rimase con lui sino alla sua morte e fu da lui nominato suo erede. Senza condividere la sicurezza dei suoi moderni biografi, che naturalmente respingono la possibilità di un rapporto sessuale tra lui e i suoi allievi come un oltraggio infondato al grand’uomo, si può ritenere molto più probabile che i rapporti affettuosi tra Leonardo e quei giovani — che secondo la consuetudine del tempo condividevano la vita del Maestro — non sfociassero in una attività sessuale. Inoltre non deve essergli attribuito un alto grado di attività sessuale.
La singolarità di questa vita sentimentale e sessuale si può comprendere, in connessione con la duplice natura di Leonardo, artista e ricercatore, soltanto in un modo. Tra i biografi, che spesso sono restii ad adottare punti di vista psicologici, soltanto uno, Edmondo Solmi, si è accostato per quel che so alla soluzione dell’enigma; per contro uno scrittore, Dmitrij Sergeevic Merezkovskij — che ha scelto Leonardo come protagonista di un grande romanzo storico — ha fondato il suo ritratto su una interpretazione analoga di quell’uomo eccezionale, esprimendo chiaramente la sua concezione, se pur non in parole piane ma, alla maniera dei poeti, in termini plastici. Il giudizio di Solmi su Leonardo è il seguente: “Ma la sete inestinguibile di conoscere il mondo circostante e trovare col freddo esame il segreto della perfezione aveva condannata l’opera di Leonardo a rimanere imperfetta.” In un saggio delle “Conferenze fiorentine” viene citata un’espressione di Leonardo che costituisce la sua professione di fede e fornisce la chiave della sua natura:
...nessuna cosa si può amare né odiare, se prima non si ha cognition di quella.
E questo egli ripete in un punto del Trattato della Pittura, in cui sembra volersi difendere dal rimprovero di irreligiosità:
Ma tacciano tali riprensori, che questo è il modo di conoscere l’operatore di tante mirabili cose e questo è il modo di amare un tanto inventore, perché invero il grande amore nasce dalla gran cognizione della cosa che si ama, e se tu non la conoscessi, poco o nulla la potrai amare.
Il valore di queste frasi di Leonardo non va cercato nella comunicazione di un’importante verità psicologica, poiché ciò che esse affermano è palesemente falso e Leonardo lo sapeva certo altrettanto bene quanto noi. Non è vero che gli uomini aspettino di amare o di odiare finché non abbiano studiato e conosciuto nella sua essenza ciò che forma l’oggetto di questi affetti; piuttosto essi amano impulsivamente, secondo motivi sentimentali che nulla hanno a che fare con la conoscenza e il cui effetto è se mai fiaccato dalla ponderazione e dalla riflessione. Leonardo poteva dunque voler dire soltanto che l’amore praticato dagli uomini non è l’amore vero, ineccepibile; che si dovrebbe amare in modo da trattenere l’affetto, da sottometterlo al travaglio del pensiero e da lasciarlo libero solo dopo che avesse superato l’esame della riflessione. E allo stesso tempo noi comprendiamo che egli vuol farci intendere che in lui è cosi: sarebbe desiderabile che tutti gli altri trattassero l’amore e l’odio nello stesso suo modo.
E in lui sembra realmente che le cose stessero cosi. I suoi affetti erano controllati, sottomessi alla pulsione di ricerca; egli non amava né odiava, ma si chiedeva donde venisse ciò che doveva amare o odiare, e che cosa significasse, e così doveva apparire a prima vista indifferente verso il bene e il male, verso il bello e il brutto. Durante questo sforzo di ricerca, amore e odio perdevano i loro connotati e si trasformavano regolarmente in interesse intellettuale. In realtà Leonardo non era privo di passione, non gli mancava la scintilla divina che direttamente o indirettamente è la forza motrice — “il primo motore” — di ogni fare umano. Egli aveva semplicemente convertito la passione in sete di sapere; si dedicava alla ricerca con quella continuità, perseveranza e profondità che derivano dalla passione, e al culmine dell’attività intellettuale, raggiunta la conoscenza, lasciava prorompere l’affetto lungamente trattenuto, come un corso d’acqua deviato è lasciato scorrere liberamente dopo che ha compiuto il suo lavoro. Al culmine di una scoperta, quando il suo sguardo è in grado di abbracciare un vasto settore di quel tutto di cui è parte, egli è afferrato dal pathos e celebra con parole esaltate la magnificenza di quel frammento di creazione che ha indagato oppure — in termini religiosi — la grandezza del suo Creatore. Solmi ha esattamente compreso questo processo di trasmutazione che si verifica in Leonardo. Dopo aver citato uno di quei punti in cui Leonardo celebra la sublime costrizione cui la natura soggiace [“O mirabile Necessità...”], egli scrive: “Tale trasfigurazione della scienza della natura in emozione, quasi direi, religiosa, è uno dei tratti caratteristici de’ manoscritti vinciani, e si trova cento e cento volte espressa...”
 




 
Per evitare i rischi delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi del cinema, dall’attore svedese Max von Sidow all’attore francese Laurent Terzieff.
Sempre insoddisfatto, il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di cinquanta films dal giorno del 1960, in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti i giorni, a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.  
E, il 24 ottobre 1971, la RAI-TV mandava in onda la prima delle cinque puntate dello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani [dal 24 ottobre al 21 novembre 1971]. Fu girato a colori, nonostante le trasmissioni di allora fossero ancora in bianco e nero ed ebbe un cast di grandi volti del cinema, del teatro e della televisione: da Giampiero Albertini a Ottavia Piccolo, da Bianca Toccafondi a Glauco Onorato, da Bruno Cirino al piccolo Renato Cestiè. Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse, ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato, nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune. Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del 1519.


Il sessantasettenne Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il re di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé. Leonardo è nel suo letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del re in persona, preoccupato per le sue condizioni di salute. Tenta di sollevarsi dal letto, ma il sovrano lo esorta a non sforzarsi:
“Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:

“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
 


 
5. IL CENACOLO

Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà.” I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: “Di’, chi è colui a cui si riferisce?” Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: “Signore, chi è?” Rispose allora Gesù: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò.” E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone.”   
Giovanni 13, 21-26



È il 1495 quando Leonardo inizia a dipingere quello che diverrà uno dei più celebri affreschi del mondo, Il Cenacolo.
Celebri e sfortunati!
La storia dei suoi restauri offre, se correlata alla storia della cultura e del gusto, una buona chiave di lettura per meglio intendere molta parte della sua fortuna o sfortuna.
Oggetto di ben dieci interventi di restauro documentati, compreso quello che si è concluso nel maggio 1999, il dipinto murale è sempre stato definito sul punto di scomparire, per essere, poi, giudicato, dopo ogni intervento, restituito al pubblico godimento, salvato per sempre, o risorto da morte sicura.
Passeranno  appena venti anni e un visitatore, Antonio de Beatis, annoterà:

In lo monasterio di Santa Maria de le Gratie, quale fo facto dal signor Ludovico Sforza, assai bello et bene acteso, fo visto nel refectorio de frati, che son de l’ordine de San Domenico de observantia; una cena picta al muro da messer Lunardo Vinci, qual trovaimo in Amboes, che è excellentissima, benché incomincia ad guastarse, non sò si per la humidità del muro o per altra inadvertentia.”


Leonardo, particolare del Cenacolo con Gesù.
 
Nel Cenacolo, Gesù, il solo personaggio veramente divino, è dipinto con le proporzioni divine, racchiuso in un rettangolo aureo. Il volto del Redentore appare come offuscato da un velo. Più che all’ingiuria del tempo, questa “stranezza” sembra dovuta a un fatto intenzionale: il Maestro fiorentino avrebbe deciso di ammantare le sembianze del Cristo di una vaga indeterminatezza.

Il luogo è il refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, oggi, nel centro di Milano, ma a metà del Quattrocento, quando una compagnia di Domenicani, proveniente da Pavia, cerca un terreno dove insediarsi, lo stesso luogo è una distesa di prati e di caserme per le truppe del duca Francesco Sforza. Proprietario del terreno è un fedelissimo di Francesco Sforza il conte Gaspare Vimercati [1410-1467], che fa la prima donazione ai frati e lascia loro in eredità 6mila scudi d’oro. Poi, ad aiutare i religiosi a costruire un convento e una chiesa, inrevengono Francesco Sforza e i suoi successori, Galeazzo e Ludovico il Moro. Ludovico vorrà, perfino, fare della nuova chiesa il santuario di famiglia e i lavori di costruzione, proceduti, fino ad allora, con una certa lentezza, divengono, d’improvviso, celeri. Donato Bramante [1444-1514] è chiamato a costruire l’abside e la cupola e Leonardo è incaricato di affrescare il refettorio, come attesta una lettera del duca di Milano, Ludovico Sforza, datata 30 luglio 1497, al segretario ducale Marchesino Stanga.

“Item de solicitare Leonardo fiorentino perché finischa l’opera del Refetorio delle Gratie principiata per attendere poy ad l’altra fazada d’esso Refetorio; et se faciano con luy li capituli sottoscripti de mane sua che lo obligano ad finirlo in quello tempo se convenerà con luy.”
 
  Lettera di Ludovico il Moro a Marchesino Stanga.

Il soggetto voluto dai Domenicani è l’ultima cena del Signore, un tema ritenuto più che adatto alla sala dove i frati si raccolgono per il desinare. Un soggetto, che appare, sempre, seppure inglobato nella trama di altri momenti evagelici, anche in luoghi di culto paleocristiani. È con Giotto [1266-1337], nell’area dell’antica arena romana di Padova, che l’ultima cena inizia a essere dipinta come episodio a sé stante. Grande fama hanno, poi, i dipinti, sullo stesso soggetto, di Andrea del Castagno [1423-1457] e di Domenico Ghirlandaio [1449-1494].


Giotto, Ultima Cena.
Cappella degli Scrovegni, Padova.


Andrea del Castagno, Ultima Cena.
Cenacolo di Santa Apollonia, Firenze.
  


Domenico Ghirlandaio, Ultima Cena.
Convento di San Marco, Firenze.

 
Leonardo affronta il nuovo compito con grande umiltà, con tremore, potremmo dire. Vi si prepara, è stato notato, con “un febbrile lavorio interiore”.  Si isola.


Leonardo compose Il Cenacolo impostando l’ambientazione con una fuga prospettica centrale, con il fuoco posizionato vicino all’occhio destro di Gesù, seguendo, così, l’andamento del refettorio, in cui l’opera è posizionata e conducendo lo sguardo dell’osservatore in direzione del volto del Cristo. Tutti i personaggi sono privi di aureola, compreso il Cristo, ma, se si nota bene, la porta centrale alle sue spalle ha una lunetta superiore semicircolare, che, se mentalmente completata in un cerchio, rende la luce che penetra dall’esterno e che incornicia il capo del Cristo, una sorta di aureola di luce naturale.

Rilegge senza stancarsi la narrazione evangelica. Riempie di schizzi i suoi fogli. Cerca nelle strade di Milano i volti che possano essere di modello per gli Apostoli.
Fa progetti e subito li modifica, li trasforma.
Di questo lavorio vi è ampia testimonianza nei suoi scritti. Racconta, a esempio, che si svegliava, anche, nel cuore della notte e, nel buio, gli pareva di vedere comporsi le linee dei volti che cercava.

“Ho in me provato esser di non poca utilità, quando ti truovi allo scuro nel letto, andare co’ la imaginativa ripetendo i lineamenti superfìziali delle forme per l’adirieto studiate o altre cose notabili, da sottile speculazione comprese; ed è questo proprio un atto laudabile e utile a confermarsi le cose nella memoria.”

Studia e ristudia la composizione delle figure.
E, su alcune pagine del Codice Forster, databili, con una certa approssimazione, intorno agli anni 1495-1496, troviamo le prime tracce del progetto di Leonardo come una vera e propria sceneggiatura:

“Uno che bevea e lasciò la zaina nel suo sito, e volse la testa verso il proponitore. Un altro tesse le dita delle sue mani insieme e co’ rigide ciglia si volta al compagno; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle e alza le spalli inver li orecchi e fa la bocca della maraviglia. Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui e gli porge gli orecchi, tenendo un coltello ne l’una mano e nell’altra il pane mezzo diviso da tal coltello. L’altro nel voltarsi tenendo un coltello in man versa con tal mano una zaina sopra della tavola. L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda. L’altro soffia nel boccone. L’altro si china per vedere il proponitore e farsi ombra colla mano alli occhi. L’altro si tira indietro a quel che si china, e ‘l vede il proponitore infra ‘l muro e ‘l chinato.”
[Codice Forster II, ff. 62v, 63r]

Se prendiamo questo scritto e lo confrontiamo con il dipinto, ci troviamo disorientati: le rispondenze non sono molte, perché Leonardo, continuamente, ripensa il suo soggetto, e, continuamente, lo modifica nella ricerca di quel che ritiene la perfezione. Vuol ridurre al minimo la mimica teatrale ed esprimere invece, di ogni figura, “la passione del suo animo”.
Questa ricerca di perfezione non si accorda, naturalmente, con la celerità.
E i frati brontolano: è troppo lento!
Vedono arrivare Leonardo a Santa Maria delle Grazie nelle ore più strane e, sovente, non lo vedono arrivare affatto.
Vi è, tra i novizi, un ragazzo, imparentato con il priore, che lo osserva con curiosità divertita: Matteo Bandello [1485-1561][3], la cui fama è legata alle sue Novelle, apprezzate più Oltralpe che in Italia, che diedero la trama a molti drammi di Lope de Vega e al Romeo e Giulietta di William Shakespeare.
Nella Novella LVIII [1497], il monaco domenicano, che, in quel periodo, soggiornava per motivi di studio nell’edificio, fornisce, con estrema vivacità, una preziosa testimonianza di come Leonardo lavorasse attorno al Cenacolo:

“Soleva [Leonardo] anco spesso, et io più volte l’ho veduto e considerato, andare la mattina di buon’ora a montar su ‘l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva [dico] dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talora una o due al giorno, e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto [secondo che il capriccio o il ghiribizzo lo toccava] partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirsene et andare altrove.”

Mentre è al lavoro nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, Leonardo riceve la visita di molti personaggi, anche quella del cardinale francese, Raymond Pérault, vescovo di Gurk, che è accompagnato dal priore Vincenzo Bandello, zio del novelliere.
Leonardo scende dal palco, per ossequiare l’ospite. Vi è uno scambio di cortesie. Si parla dell’affresco che sta nascendo. E il cardinale, infine, domanda a Leonardo come sia ricompensata dal Moro la sua fatica.
Leonardo non ha problemi a rispondere:
“Duemila ducati l’anno e aggiungetevi altri regali.”
Racconta Bandello che, a questa risposta, del tutto ironica, il cardinale fosse ammutolito e avesse lasciato  la sala.    
I borbottii per la lentezza dei lavori raggiungono il Moro.
È lo stesso priore che va a lamentarsi con il duca.
Racconta che Leonardo, a volte, anziché continuare il lavoro, preferisce concedersi passeggiate, anche al Borghetto, il quartiere più malfamato.
Ludovico fa venire a palazzo Leonardo e, anche se tra molti complimenti, gli chiede il perché del lento procedere dei lavori e di quelle passeggiate.
Leonardo comprende che il duca lo rimprovera senza troppa convinzione, come comprende che, dietro le cortesi lamentele del Moro, si celano le più astiose proteste del priore.
Cerca, allora, di spiegare che la perfezione da lui sperata non si raggiunge, nell’Arte, con un lavoro continuo, ma seguendo l’estro, badando all’ispirazione. E spiega che questa ispirazione si può cercare anche con le passeggiate, se si tengono gli occhi bene aperti e si cercano, tra la gente, quei volti che sembrano più adatti a fare da modello per gli Apostoli. Leonardo aggiunge che in quel tal Borghetto lui va a passeggiare perché spera di trovare, tra tante persone losche, un soggetto che gli ispiri come raffigurare Giuda.
Poi, ha uno scatto.
Annuncia al duca di avere trovato quello che cercava: prenderà a modello la faccia del priore.
Il Moro, a quell’uscita, non sa che ridere e lascia a Leonardo piena libertà di scegliersi i tempi di lavoro.
Probabilmente, questo episodio è una leggenda. Su ogni figura del Cenacolo sono fiorite congetture e, di regola, sono congetture radicate nella fantasia.
Leonardo, Il Cenacolo, particolare con l’Apostolo Filippo.
  
Leonardo, Il Cenacolo, particolare con l’Apostolo Giovanni.
 

Leonardo, Il Cenacolo, particolare con gli Apostoli Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea [da sinistra].

Leonardo, Studio per il braccio di Pietro.
Royal Library, Windsor.
Il Cenacolo è una delle opere più cariche di misteri e significati nascosti. Dan Brown afferma, a esempio, che Leonardo avrebbe inserito nel dipinto un misterioso coltello tenuto da “una mano che non appartiene a nessuno in particolare. È priva di corpo, Anonima”. E, in effetti vi è una strana mano che impugna un coltello, e, a una prima occhiata, sembra, davvero, che nessuno possa tenerlo in quel modo innaturale. Un Apostolo alza, perfino, le mani come in gesto di resa di fronte all’arma.
Il priore Domenico Pino confuta la “ridevole diceria”, secondo la quale il coltello sarebbe stato posto nella mano di Pietro dal ritoccatore Michelagnolo Bellotti, affermando che “non pare in conto alcun verosimile che la mano di questo Apostolo avesse da essere disposta in maniera da potervi adattare un coltello senza cambiarla di molto [...]. Ma basta gittare uno sguardo benché passeggero nella pittura per riconoscere di primo slancio la naturalezza del disegno ideato senza meno da Leonardo medesimo, che per esprimer San Pietro, il quale come tra gli Apostoli fu il più animoso, tagliò nell’Orto di Getsemani l’orecchio al servo del Principe dei Sacerdoti, posto gli ha in mano un coltello, come a Giuda ha posto nella mano la borsa per farnelo ravvisare per lo traditore fellone che per trenta denari vendette il suo divino Maestro”.
Pochi anni più tardi Giuseppe Bossi pubblicò un monumentale in-folio intitolato Del Cenacolo di Leonardo, libri quattro. Nel primo libro, l’autore commenta i giudizi di vari scrittori in riferimento al Cenacolo; nel secondo, descrive l’opera; nel terzo, analizza le copie del Cenacolo; nel quarto, tratta della tecnica di pittura del grande Maestro. Come Domenico Pino, anche Bossi fornisce una dettagliata descrizione di ogni personaggio raffigurato e della figura di Pietro scrive:
“Da quanto si è detto delle figure antecedenti, si potrà con facilità immaginare l’attitudine del Principe degli Apostoli. Acceso di onesta collera al suono delle divine parole, egli s’alza alquanto dal luogo ove sedea, per interrogare il confidente di Cristo, l’Apostolo Giovanni. Colla sinistra indica il Salvatore in atto di chiedere il significato de’ suoi detti, mentre la sua destra va quasi naturalmente verso una specie di coltello o breve parazonio; con che il pittore diede cenno del desiderio in lui ardentissimo di vendicare il Maestro e della sua prontezza a dar di mano alle armi, delle quali ebbe poco dopo rimprovero da Cristo medesimo nell’Orto di Getsemani.
Anche Bossi confuta l’opinione di un altro autore [in questo caso identificato con Bianconi] il quale, basandosi probabilmente sull’incisione di Birago in cui nella mano di Pietro non compare il coltello, riteneva questo oggetto una aggiunta fatta da uno dei ritoccatori settecenteschi.
È singolare ed unica l’opinione del Bianconi intorno a questo coltello. Egli lo crede un’aggiunta del temerario riattamento; quindi pare lo attribuisca al primo generale ritoccatore Michelagnolo Bellotti. Sembra impossibile come egli che visse sempre fra gli artisti e tra le cose delle arti, non sapesse che il Cenacolo stette certamente più di un secolo e mezzo senza che alle altre sue disgrazie si aggiungesse quella dei ritocchi, e che nel gran numero delle copie da esso tratte anticamente non ve n’è una sola in cui non si vegga questo distintivo di San Pietro. E non è meno strano ch’egli lo supponga aggiunto unicamente perché non si vede in una rara bensì ma pessima stampa che pare l’opera di un incisore che non ha visto l’originale, se pure non fu fatta da qualche disegno o schizzo prima che l’originale fosse condotto a fine. Sembra però che il Bianconi stesso si ricredesse di questa stranezza, perché nella seconda edizione della sua Guida cangiò la descrizione, e considerò come genuino ed originale l’attributo del nostro Apostolo. Nel resto non potrei seguire a descrivere questa figura senza ripetere quanto accennai descrivendo quella di Giovanni, o senza usurpare le parole del cardinale Federico Borromeo, a cui rimetto il lettore. Bastimi aggiungere che il suo movimento pronto, il furore del suo volto, il gesto dell’una e dell’altra mano, tutto in somma il complesso della sua attitudine eccitata da viva e súbita commozione, contrasta mirabilmente colla patetica e dolce giacitura dell’Apostolo Giovanni, e richiama felicemente la dissimiglianza che hanno tra di loro le due vite, l’attiva e la contemplativa, delle quali sono, come si disse, simboli questi due primarj tra gli Apostoli. Il colore poi delle sue vesti è il solito che volgarmente gli si attribuisce, e che si vede fino nella cena di Cristo che Giotto dipinse in Santa Croce a Firenze; cioè di un bel giallo è il pallio, e d’un vivace azzurro alquanto chiaro la tunica.”
Per risolvere il mistero è sufficiente osservare i disegni preparatori che Leonardo fece prima di realizzare Il Cenacolo. Nello schizzo conservato alla Royal Library di Windsor, si vede, chiaramente, che l’Apostolo Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena e la mano appoggiata all’anca con il coltello rivolto all’indietro. È sufficiente confrontare questo dipinto con le tante altre versioni realizzate da altri famosi artisti rinascimentali come Domenico Ghirlandaio; Albrecht Dürer; Beato Angelico; Jacopo Bassano; Taddeo Gaddi; Andrea del Castagno; Francesco di Cristofano, detto il Franciabigio Franciabigio; Giotto. In tutte, Pietro ha in mano il coltello, a ricordare il fatto che, con quell’arma, avrebbe, poi, tagliato l’orecchio a Malco, il servo del Sommo Sacerdote.
Nella versione italiana del Vangelo di Giovanni leggiamo che Pietro sguainò una spada, ma nell’originale greco si parla di máchaira, parola che definisce un pugnale o uno stiletto.
Carlo Pedretti a proposito dello Studio per il braccio di Pietro scrive:
“Un braccio destro piegato al gomito, completamente coperto da una manica aderente e rimboccata a formare diverse pieghe circolari, il polso bruscamente piegato come a trovare sostegno sul fianco sporgente di una figura che si slancia in avanti verso destra”.
 


Leonardo, Il Cenacolo, particolare con gli Apostoli Pietro, Giuda e Giovanni [da sinistra].

Una ipotesi curiosa è stata avanzata nel 1975.
Curiosa, almeno, per i metodi scientifici sui quali ha mostrato di basarsi. Ad avanzarla è stato uno studioso russo, Valentin Golovin. La sua attenzione si concentrò sugli studi preparatori per la testa di San Bartolomeo. E si fece aiutare, per le sue ricerche, da un calcolatore elettronico dell’Istituto dei Problemi di Trasmissione dell’Informazione dell’Accademia delle Scienze dell’URSS. Golovin arrivò alla conclusione che “Leonardo non si era ispirato per questi studi a un uomo ideale. Le caratteristiche dei suoi profili, labbra sporgenti, menti prominenti e fronti spaziose, sono, infatti, le stesse del suo unico autoritratto che conosciamo”, insomma, il San Bartolomeo del Cenacolo sarebbe un autoritratto, camuffato, di Leonardo. Golovin aggiunse di avere compiuto un’altra scoperta: nel San Tommaso sarebbe da vedere la figura di Leon Battista Alberti. Golovin raccontò di avere fatto girare di 180 gradi – sempre con l’aiuto del calcolatore – il ritratto di Alberti per farlo guardare a sinistra, come il Tommaso del Cenacolo, e di avergli aggiunto la barba, ottenendo così due figure che combaciavano.
“Bartolomeo e Tommaso erano fratelli e, se Leonardo ha dato il proprio volto a San Bartolomeo, può benissimo avere scelto per San Tommaso, secondo una consuetudine rinascimentale, un suo fratello spirituale.”
Il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie non ritrae, genericamente, il raduno conviviale di Gesù e degli Apostoli, come avviene in altri dipinti con lo stesso tema, fissa un momento particolare.
Quale?
Nel De divina proportione del monaco francescano Luca Pacioli[4], pubblicato nel 1498, al cui interno sono presenti oltre sessanta illustrazioni di Leonardo,  si legge:
“Non è possibile con maggiore attenzione vivi gli Apostoli pensare al suono della voce dell’ineffabile verità e quanto disse – Unus vestrum me traditurus est –. De l’altro e l’uno con viva e afflicta admiratione par che parlino, si degnamente con sua ligiadra mano el nostro Lionardo lo dispose.”
 
Leonardo, Il Cenacolo, particolare con gli Apostoli Tommaso, Giacomo Maggiore e Filippo [da sinistra].
 


Leonardo, Il Cenacolo, particolare con gli Apostoli Matteo, Taddeo e Simone [da sinistra].

È il momento in cui il Redentore abbassa gli occhi e socchiude la bocca in una piega di tristezza, dopo avere annunciato agli Apostoli, in un clima di altissimo turbamento:
“In verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà.”  
Se il volto degli Apostoli impegna Leonardo in lunghe ricerche, dettagliati progetti e continui rifacimenti, si può immaginare con quale tensione dipinga il volto di Gesù. Nelle passeggiate alla ricerca di una ispirazione, gli è compagno un amico pittore, Zenale.
A Zenale confida le difficoltà che gli sembrano insormontabili.
Zenale non è solo un buon pittore, è anche un uomo di profonda saggezza.
E Zenale dà a Leonardo un consiglio che nessun altro avrebbe potuto offrirgli: lasciare incompiuto il volto del Cristo. Dipingere una figura più soave e divina di San Giacomo maggiore e di San Giacomo minore sarebbe impossibile e di fronte alla loro bellezza, come alla bellezza di tutti gli Apostoli, nessun volto compiuto potrebbe essere il Cristo. 
Ma anche questo colloquio potrebbe essere frutto di fantasie, una ipotesi per spiegare quel velo di incompiutezza che sembra coprire – o proiettare in una più alta luce? – il volto del Cristo.
È nel febbraio del 1498 che l’affresco può dirsi compiuto.
Ludovico il Moro e la sua corte sono i primi ad ammirare il capolavoro e non si stancano di ammirarlo e lodarlo. Dopo di loro, entra il popolo milanese. Poi, i viaggiatori, artisti e scrittori di ogni Paese e di ogni tempo.
Domenico Pino, priore del Convento di Santa Maria delle Grazie, pubblicò, nel 1796, uno studio intitolato Storia genuina del Cenacolo insigne dipinto da Leonardo da Vinci, nel quale leggiamo:

“Alla destra di Cristo vedesi San Giovanni, il discepolo prediletto, che pallido in volto, col capo ripiegato sulla destra spalla, colle mani incrocicchiate sembra men poco che svenuto all’annunzio del traditoresco attentato. Segue Giuda con truce aspetto, come fosse abbronzito dal sole e situato avvedutamente quasi per contrapposto vicino al bianco Giovanni. Si appoggia il fellone villanescamente col braccio destro quasi in mezzo alla mensa, e guardando con occhio arditamente fisso il divino Maestro, e colla sinistra allargata, pare che quanto stupisce nell’essere scoperto per traditore, altrettanto stia fermo, per eseguire il suo tradimento. Ei tien nella destra mano una borsa, perché si ravvisi per quello scellerato, che per avarizia vendette il suo Signore. Pietro che viene appresso, e che si riconosce per lo coltello che ha nella destra, come se si fosse dalla mensa rialzato, stende la mano sinistra sopra la spalla di Giovanni, quasi voglia interpellare da lui, come confidente di Cristo, chi possa essere il traditore.”

Ma, nel corso dei secoli, in quello che i viaggiatori scrivono, dopo avere ammirato Il Cenacolo non vi è solo l’eco dello stupore per l’opera sublime, vi è costante, anche, l’allarme per il degrado che l’affresco subisce. Una specie di Muro del Pianto, lagnosissimo e impotente, che culminerà con Ode per la morte di un capolavoro di Gabriele D’Annunzio [1901]. L’Orbo Veggente si libererà, così, in un solo colpo dalla fama di “veggente” e da quella di “menagramo”, visto che, proprio in quegli anni milanesi, attivi e dinamici, decidono di rimboccarsi le maniche e di iniziare ad agire per conto proprio.
Paolo Giovio, nella sua Leonardi Vincii Vita, composta intorno al 1527, non nota alcun segnale di rovina della pittura e riferisce dell’intenzione di Luigi XII, re di Francia, di staccarla dal muro e trasferirla in Francia. Fortunatamente, nessun architetto dell’epoca, si disse in grado di tentare una tale impresa.

“Leonardus e Vincio ignobili Etruriæ vico magnam picturæ addidit claritatem, negans eam ab iis recte posse tractari, qui disciplinas nobilesque antes veluti necessario picturæ famulantes non attigissent, plasticem ante alia penicillo præponebat, velut Archetypum ad planas imagines exprimendas. Optices vero præceptis nihil antiquius duxit, quorum subsidiis fretus luminum ac umbrarum rationes vel in minimis custodivit. Secare quoque noxiorum hominum cadavera in ipsis medicorum scholis inhumano fœdoque labore didicerat, ut varii membrorum flexus et conatus ex vi nervorum vertebrarumque naturali ordine pingerentur. Propterea particularum omnium formas in tabellis, usque ad exiles venulas, interioraque ossium, mira solertia figuravit, ut ex eo tot annorum opere ad artis utilitatem typis æneis excuderentur.
Sed dum in quærendis pluribus angustæ artis adminiculis morosius vacaret, paucissima opera, levitate ingenii, naturalique fastidio, repudiatis semper initiis absolvit. In admiratione tamen est Mediolani in pariete Christus cum discipulis discumbens, cujus operis libidine adeo accensum Ludovicum Regem fuerunt, ut anxie spectando proximos interrogarit, an circumciso pariete tolli posset, ut in Galliam vel diruto eo insigni cœnaculo asportaretur. Extat et infans Christus in tabula cum Matre Virgine Annaque una colludens, quam Franciscus Rex Galliæ cœptam in sacrario collocavit. Manet etiam in Comitio Curiæ Florentinæ pugna atque victoria de Pisanis præclare admodum, sed infeliciter inchoata vitio tectorii colores juglandino oleo intritos singulari contumacia respuentis. Cujus inexpectatæ justissimus dolor interrupto operi gratiæ plurimum addidisse videtur. Finxit etiam ex argilla colosseum equum Ludovico Sfortiæ, ut ab co pariter æneus superstante Francisco patre illustri Imperatore funderetur, in cujus vehementer incitati ac anhelantis habitu et statuariæ artis et rerum naturalium eruditio summa prehenditur. Fuit ingenio valde comi, nitido, liberali, vultu autem longe venustissimo, et cum elegantiæ omnis delitiarumque maxime theatralium mirificus inventor ac arbiter esset, ad lyramque scite, caneret, cunctis per omnem ætatem Principibus mire placuit. Sexagesimum et septimum agens annum in Gallia vita functus est, eo majore amicorum luctu, quod in tanta adolescentium turba, qua maxime officina ejus florebat, nullum celebrem discipulum reliquerit.”
Paolo Giovio , Leonardi Vincii Vita

Nel 1568, cinquanta anni dopo il citato allarme di Antonio de Beatis, Giorgio Vasari arriverà a scrivere che il dipinto è “tanto male condotto che non si vede più se non una macchia abbagliata”.    
Nel 1589, Paolo Moriggia, definì l’opera “rovinata tutta” e, circa mezzo secolo dopo, Carlo Torre la definì “deperita oltre ogni dire”.
Per Francesco Scannelli [1616-1663], che descrisse Il Cenacolo, nel 1642, non erano rimaste dell’originale che alcune tracce delle figure, e anche quelle così confuse che solo a fatica se ne poteva ricavare una indicazione del soggetto.
“Mi portai a Milano, dove, appena giunto, reso impaziente di scoprire gli effetti straordinari del commendatissimo Cenacolo, tantosto mi avanzai nel refettorio dei PP. Predicatori per ristorar una tanto avidità, e posso attestare in tal caso che in riguardo d’incontro inaspettato mi restasse il gusto in estremo istupidito, scoprendo opera tale non conservare che poche vestigia delle figure.”     

Proprio perché considerato ormai perduto, nel 1652, un priore domenicano di modi sbrigativi, non esitò ad ampliare la porta di fondo del refettorio, tagliando le gambe del Redentore e di due Apostoli. Nulla e nessuno lo fermarono, né il timore di compiere un sacrilegio né il rispetto per l’Arte di Leonardo.
Ai restauri, eseguiti da malaccorti pittori settecenteschi, che, di fatto, ridipinsero tutta l’opera, si aggiunsero, poi, i vandalismi.
Durante l’occupazione di Milano, tra il 1796 e il 1801, il refettorio venne trasformato in scuderia per i soldati napoleonici.  Lo racconta Stendhal, aggiungendo che i dragoni del reggimento trovassero divertente lanciare des morceaux de briques in testa agli Apostoli, la stessa sorte toccata a un’altra opera di Leonardo, il cavallo per la statua equestre in onore di Francesco Sforza, fondatore della casata che dominava Milano. I balestrieri di Guascogna, occupando Milano, dopo la cacciata del Moro, si erano, infatti, divertiti a esercitarsi al tiro sul modello della grande statua equestre.
Passano gli anni, i secoli.
In una lettera a Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, l’abate Francesco Maria Gallarati [1729-1806], miniatore dilettante e critico d’arte, scrive:

“In certe giornate in cui dominava lo scilocco vedevasi steso su di essa pittura l’umidità, come se vi fosse piovigginato sopra, onde riconoscere non vi si potevano distintamente i tratteggiamenti e le ultime differenze delle figure: il perché era d’uopo che l’asciugasse lievemente con una spugna, ovvero con un sottilissimo pannolino: né giova per riparare il Cenacolo  ricoprirlo con le cortine che vi si trovano; se tengonsi chiuse nei tempi piovosi, a la parte destra del Salvatore in ispecie vi si raccolta di sotto l’umidità in tanta copia, che l’acqua aggruppata si vede insino scendere per lo muro come in piccioli canaletti; e la pittura, se non le si dà aria, si copre di una sottilissima muffa bianchiccia, la quale farebbe sempre più smortare i colori, e guastare il dipinto; per lo più che l’espediente migliore egli è di lasciarla scoperta: tranne quel poco di tempo in cui scopasi il refettorio.”

In visita a Milano nel 1867, il giovane scrittore statunitense Samuel Langhorne Clemens, meglio conosciuto come Mark Twain, annotava:
“I volti si sono rovinati e squamati e hanno perso quasi ogni espressione. I capelli sono diventati indistinte masse sulla parete e gli occhi non hanno più alcuna vitalità.”,
equiparando i visitatori che sprecavano incantati aggettivi a un uomo adorante una vecchia “baldracca, cieca, sdentata, sfigurata dal vaiolo”.
A queste preoccupazioni hanno fatto riscontro i molti tentativi di restauro. Una lunga storia, intessuta di malintesi e di pasticci: e, negli ultimi interventi, per liberare l’antica pittura di Leonardo, si è dovuto, talvolta, togliere anche cinque strati di coloriture aggiunte dai restauratori.
Nel 1982, quando si stanno operando gli ultimi lavori e l’originale va, a poco a poco, svelando l’originale bellezza, Giovanni Testori scrive:
“Quel che vedevamo non era il resto d’una grandissima opera; era una sua stratificata falsificazione.” 
  
Il refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie dopo il bombardamento dell’agosto del 1943. È possibile vedere chiaramente la Crocifissione di Giovanni Donato Monfortano sulla parete corta non crollata. Il Cenacolo di Leonardo è, esattamente, di fronte, non visibile nella foto.

Nel 1800, una inondazione colpì Milano e anche il refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie si allagò.
E, nel 1943, un bombardamento aereo per poco non mandò in briciole la parete dipinta. Le bombe caddero sul convento e fecero rovinare i muri laterali del refettorio. Il Cenacolo e l’antistante Crocefissione di Giovanni Donato Monfortano furono – si direbbe miracolosamente – risparmiate, protette appena da teloni militari e da sacchetti di sabbia.
Milano ha corso il pericolo di vedersi derubata di questo inarrivabile capolavoro.
 


Purtroppo, lo stato di conservazione dell’opera è oggi assai precario. Leonardo, infatti, decise di dipingere a secco sul muro, usando colori a tempera e a olio su una preparazione a gesso. Questa tecnica sperimentale, diversamente dall’affresco tradizionale, consentì all’artista di lavorare con la lentezza e la meticolosità che gli erano necessarie, ma il colore, in origine brillantissimo, iniziò presto a cadere.
Fortunatamente, esistono alcune copie del capolavoro vinciano, eseguite a pochi anni di distanza dall’originale, che possono restituirci in modo abbastanza fedele il vero aspetto di un’opera che a tutti apparve subito rivoluzionaria.
La copia più fedele, anche se mancante della parte alta – un terzo superiore del dipinto venne in seguito tagliato – è la copia di Giovan Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino, assistente di Leonardo. L’opera proveniente dalla Certosa di Pavia [1520 circa] fu acquistata, nel 1821, dalla Royal Academy of Arts di Londra, fu esposta per venticinque anni al Magdalen College di Oxford, per poi ritornare alla Royal Academy of Arts, nel 2017, dove si trova tutt’ora esposta.
Il recente intervento restauro ha potuto recuperare solo in parte l’originale di Leonardo, irrimediabilmente rovinato sia a causa dei materiali utilizzati dall’artista, inadatti a un dipinto su muro, che per opera dei molti “restauratori”, i quali, soprattutto, nei secoli XVII e XVIII, avevano eseguito, come scrive la curatrice del recente restauro scientifico Pinin Brambilla, “vere e proprie ridipinture volte alla “manutenzione estetica” del dipinto”.
A proposito di questi devastanti interventi scrive Kenneth Clark, nel 1983, nell’introduzione al catalogo a cura di Carlo Pedretti, Leonardo: studi per il Cenacolo dalla Biblioteca Reale nel Castello di Windsor:

“Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle figure che disturbano di più nell’intera composizione; ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profìl perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a Windsor [cat. 13]. Il restauratore l’ha rigirato, collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l’effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il restauratore l’ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine.»
 


Giovanni Donato Monfortano [1460-1502], Crocifissione.
Chiesa di Santa Maria delle Grazie, Milano.


Leonardo, Il Cenacolo, particolare di una ghirlanda nelle lunette.
 










Giovan Pietro Rizzoli, detto il Giampietrino, Copia del Cenacolo.
Royal Academy of Arts, Londra.

 
  Marco d’Oggiono, Copia del Cenacolo.
Castello di Écouen, Musée de la Renaissance, Parigi.


Una Copia del Cenacolo,  attribuita ad Anonimo da Pietro Marani e a Cesare da Sesto da Isidoro Marcionetti, è esposta nella Chiesa di Sant’Ambrogio di Ponte Capriasca, vicino a Lugano.  
 


Tullio Lombardo, Copia del Cenacolo.
Chiesa di Santa Maria dei Miracoli, Venezia.

  

Anonimo milanese del secolo XVI, Copia del Cenacolo.
 Pinacoteca di Brera.





Antonio della Corna, Copia del Cenacolo.
Basilica di S. Lorenzo, Milano.
 


Anonimo lombardo, Copia del Cenacolo.
Hermitage, San Pietroburgo.

Una Copia del Cenacolo, di cui sono ignoti l’autore e l’epoca, è stata scoperta nel refettorio del Convento dei Cappuccini di Saracena [Cosenza], abbandonato da anni e ridotto a rudere.
Il convento, raggiungibile solo a piedi, fu fondato nel 1588 e acquisì particolare importanza nei secoli XVII e XVIII  [http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Una-copia-dell-Ultima-Cena-ritrovata-in-convento-abbandonato-in-Calabria-d1a95487-3f47-41c4-8a3b-63d499fb2ef5.html#foto-1].


Arazzo di manifattura fiamminga, datato da Laure Fagnart tra il 1505 e il 1515. Pinacoteca Vaticana, Sala VIII, Città del Vaticano.

 
Copia del Cenacolo, attribuita ad Anonimo fiammingo o ad Andrea Solario], esposta nell’Abbazia di Tongerlo, in Belgio.
 
 


Una delle ultime copie del Cenacolo è questo Mosaico di Giacomo Raffaelli, basato sul disegno “dal vero” di Giuseppe Bossi, conservato nella Chiesa dei Minoriti, a Vienna, e commissionato, nel 1809, dal viceré del Regno d’Italia, Eugène de Beauharnais, che intendeva farne dono a Napoleone Bonaparte per il Louvre.


A Torino, nella Basilica di San Giovanni Battista, sulla parete opposta all’altare maggiore, è presente una copia del Cenacolo, opera del pittore vercellese Luigi Cagna. 
 


 
Leonardo, Studio per la testa dell’Apostolo Giacomo.
Royal Library, Windsor.


 
  Leonardo, Studio per la testa dell’Apostolo Giuda.


Leonardo, Studio del Cenacolo.

Dopo tanti ritocchi, ripassature, perfino, ridipinture a olio restauri e pseudorestauri, valutando, rudemente, la materia pittorica ancora aderente al muro, in peso, quanti grammi o centigrammi o milligrammi di opera leonardesca diretta, vale a dire, eseguita dalla mano del Maestro, possiamo considerare autentica?
Avrei molta paura di ascoltare una precisa risposta.
      

Daniela Zini
Copyright © 16 giugno 2019 ADZ


[1] Che Leonardo amasse le Rose è dato dal fatto che fu lui a portarne una particolare specie alla corte di Francia, che da lui prese il nome.

[2] La sera del 17 ottobre 1909, appena tornato dall’America, piuttosto inquieto per l’esperienza insoddisfacente nel nuovo continente, Sigmund Freud scrive a Gustav Jung:
“Da quando sono tornato ho avuto un’idea. Il mistero del carattere di Leonardo mi è divenuto improvvisamente trasparente.”
Il primo rischio di un approccio psicanalitico deviante consiste nel considerare l’opera d’arte un semplice documento o banco di prova per la verifica della teoria medica, una conferma, a esempio, di certe esperienze cliniche. Analizzando la Gradiva di Wilhelm Jensen, nel 1907, Freud considerava i sogni del personaggio e le sue azioni come se fossero i dati clinici di un individuo vivente.
“I poeti”,
diceva,
“sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sanno in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta.”
Più interessante è il saggio, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, pubblicato nel 1910. Sarà, in seguito, rivisto e corretto nel 1919 e nel 1923. È uno dei più illuminanti esempi di uso della nuova scienza psicoanalitica per una ricerca biografica.
A causa della scarsità di notizie sulla vita privata e sulla infanzia del grande Genio rinascimentale, dell’incertezza e della frammentarietà del materiale disponibile, il lavoro non ha l’ambizione di fornire spiegazioni definitive. Alla fine del saggio Freud non manca, infatti, di ribadire i limiti della psicoanalisi, che, per quanto possa disporre di dettagliate informazioni e documenti storici, non potrà mai “farci comprendere l’inevitabilità del fatto che la persona in questione abbia avuto una determinata reazione e non un’altra… Dobbiamo ammettere qui un certo grado di libertà che non si può ulteriormente risolvere con mezzi psicoanalitici”.
È anzi chiaro in lui un prudente riserbo contro i pericoli di indebite generalizzazioni, che purtroppo non mancarono nelle applicazioni dei suoi seguaci.
Tuttavia, malgrado le remore dichiarate ed esplicitate, Freud si lascia appassionare dal “caso Leonardo” e lo tratta con un trasporto che difficilmente si ritroverà in altre parti della sua opera.
Il punto di partenza per la ricostruzione dell’infanzia del Genio, è una nota lasciata sul Codice Atlantico [C-61r] dallo stesso Leonardo:
“Questo scriver si distintamente del nibbio par che sia mio destino perché nella prima ricordazione della mia infanzia e mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venisse a me e mi aprissi la bocca con la sua cosa e molte volte mi percotessi con tal coda dentro le labbra.”
Freud, innanzitutto, rammenta che i ricordi infantili sono, in realtà, fantasie nate successivamente, quando l’infanzia viene, teoricamente, “ricostruita” e rivestono importanza fondamentale per fare luce sui lati più controversi della personalità dell’artista: la sua instabilità creativa, la incompiutezza di molti dei suoi capolavori e la gentilezza pressoché femminea del suo carattere.
All’episodio riferito da Leonardo fornisce due interpretazioni, riconducendolo sia a un atto sessuale orale, marcatamente passivo, reminiscenza della memoria dell’allattamento, sia all’immagine egizia della Dea-Madre Mut, raffigurata come uccello-avvoltoio.
L’avvoltoio, considerato nell’antichità di sola specie femminile, fecondato dalla forza del vento, era divenuto simbolo, per la patristica cristiana, della nascita di Cristo, concepito da Vergine per opera dello Spirito Santo.
Leonardo, argomenta Freud, era figlio illegittimo del notaio Pietro da Vinci e della giovane contadina Caterina, quindi, “figlio di sola madre”, “figlio di avvoltoio”.
I primi anni dell’infanzia, secondo la ricostruzione di Freud, Leonardo li avrebbe trascorsi, esclusivamente, con la madre. Da fonti storiche si apprende che poi, all’età di cinque anni, il bimbo andò a vivere con il padre e con la giovane moglie di lui, Albiera.
Per Freud, dunque, il nibbio-avvoltoio è la madre, mentre la coda è il pene che il fanciullo ha pensato come attributo sessuale della madre. La scoperta che la madre ne era priva, e la delusione conseguente, hanno prodotto un desiderio – frustrato – di rintracciare in altre persone la tenerezza che aveva ispirato i rapporti felici tra lui e la madre durante i primi anni d’infanzia:
“La concentrazione sull’oggetto che una volta era così fortemente desiderato, il pene della donna, lascia tracce indelebili sulla vita mentale del bambino che ha perseguito con particolare accuratezza questa parte delle ricerche sessuali infantili.”
Freud spiega, poi, quelle notizie circa la vita di Leonardo che lo vedrebbero come “sessualmente non attivo o omosessuale”, cui lo indirizzarono proprio le prime esclusive tenerezze materne: l’amore per la madre viene rimosso, ma il figlio prende il posto della madre e la sua stessa persona diventa il modello dei suoi oggetti d’amore. Leonardo si circonda di giovani, bellissimi assistenti, noti sicuramente più per la loro prestanza che per le doti artistiche. Ama i giovinetti come sua madre ha amato lui: il narcisismo è la base della sua scelta d’oggetto.
Questo tipo di investimento oggettuale si può riscontrare non solo nella scelta dei suoi allievi, ma anche nell’atteggiamento nei confronti delle sue opere, che, spesso, trascura come il padre aveva trascurato lui all’inizio della sua vita. Il momento della soddisfazione artistica viene differito così come viene inibita la realizzazione fisica della sessualità, che, quindi, secondo Freud, sarebbe rimasta inespressa, repressa, sublimata attraverso la curiosità intellettuale, l’indagine, la sperimentazione.
Freud crede all’assoluzione ottenuta da Leonardo – che a ventiquattro anni venne incriminato e processato per sodomia a seguito di una denuncia anonima – proprio sulla base delle testimonianze dei contemporanei, che lo descrivevano assolutamente lontano da ogni passione che non fosse la brama di conoscenza, e su quanto dedotto dalla sua analisi psico-biografica.
I risultati presentati da Freud si dimostreranno, con il tempo, non del tutto veritieri. È noto l’errore di traduzione che costituisce l’abbaglio più clamoroso di Freud. Le opere su cui si era documentato, vale a dire il celebre romanzo di Dmitrij Sergeevic Merezkovskij sulla vita di Leonardo, un saggio di Nino Smiraglia Scognamiglio, tradotto in tedesco da Maria Herzfeld, traducevano il nibbio della fantasia leonardesca con la parola tedesca Geier, che significa avvoltoio, anziché usare Milan. Lo scambio di pennuti, in realtà, non è così grave, anche il nibbio, in quanto uccello, è, innegabilmente, simbolo fallico.
Resta, pertanto, importante sottolineare come una psicoanalisi “larvale” abbia provato ad espandersi in un territorio fecondo di interpretazioni psicologiche.
Leonardo era per lui il Genio indiscusso, che stimava enormemente. Il tributo a questo grande artista fu, quindi, in un certo senso, doveroso nel momento in cui decise di cimentarsi, nell’ambito della dibattuta relazione tra arte e psicoanalisi, in una psico-biografia.

[3] A dodici anni, nel 1497, Matteo Bandello era a Milano ed entrava nel convento domenicano retto dallo zio Vincenzo. Qui vide il grande Leonardo dipingere sulla parete del refettorio Il Cenacolo e qui pronunciò i voti nel 1500.
[4] Durante il soggiorno a Milano, presso la corte sforzesca di Ludovico il Moro, Leonardo ebbe modo di conoscere il matematico Luca Pacioli, al quale si legò di profonda amicizia e di reciproca collaborazione. 
Nella stesura del trattato De Divina Proportione, che Pacioli  compose intorno al 1498, Leonardo collaborò con la realizzazione di  oltre sessanta  disegni esplicativi.
Questo libro, pubblicato a Venezia nel 1509, influenzò, notevolmente, gli artisti e gli architetti del tempo, ma anche delle epoche successive.