“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 20 giugno 2019

LETTERA APERTA AI GIORNALISTI ITALIANI lettera aperta di un cane sciolto in nome della libertà di abbaiare di Daniela Zini


LETTERA APERTA
ai
giornalisti italiani
lettera aperta di un cane sciolto in nome della libertà di abbaiare
“Quando vado da qualcuno mi pare sempre di essere il più miserabile di tutti, e che tutti mi prendano per un buffone, e allora mi dico:
”Su, facciamo il buffone davvero, non ho paura del vostro giudizio, perché siete tutti più miserabili di me, dal primo fino all’ultimo!”
Ecco perché sono un buffone, per timidezza, nobile starec, per timidezza!”
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov

A Pompei, nella Casa del Poeta Tragico, vi è un celebre mosaico, raffigurante un cane ringhioso alla catena. Nella parte inferiore, compare la scritta:
“CAVE CANEM”, guardati dal cane.
Gli antichi Romani mettevano, così, in guardia il passante dal pericolo di violarne l’accesso.
Né le ceneri vulcaniche né i secoli hanno avuto la meglio su queste ellissi impresse sulla pietra.
A secondo di avere un cane o no, il nostro giudizio differirà, senza alcun dubbio, sulla necessità o no di legiferare per proteggerci da cani “ringhiosi”.
Anche una appassionata di escursioni come me, ha dovuto, più di una volta, serrare il bastone di marcia per ritrovare una sensazione di relativa sicurezza di fronte a cani “ringhiosi”. E uno degli spaventi più grandi della mia vita è stato, sicuramente, l’incontro di un cane da pastore a guardia di un gregge di pecore.
Avrei preferito incontrare un lupo!
Ma è risaputo, il cane è un animale domestico, che, opportunamente, “lisciato” e accarezzato e, abilmente, addestrato e manipolato dal suo padrone, sa mostrarsi molto obbediente.
“Non toccare il mio amico!”,
è la parola d’ordine.
La necessità fa legge, si deve pur guadagnare la gamella!
Il cane sa, infatti, per esperienza, che è meglio leccare la mano che non saprebbe mordere…
L’Italia è una grande e bella Democrazia.
Oh, io so che molti di voi ne dubitano.  
Io non li comprendo.  
È il popolo che governa, sì o no?
No?
Ebbene, per far tacere i più scettici, mi proverò a dimostrarlo con il rigore del ragionamento seguente. In Italia, sono in molti a guardare la televisione. Ora nessun programma televisivo è, veramente, sovversivo. Se ne deduce che gli italiani siano soddisfatti dei loro rappresentanti e che l’oligarchia, che tiene le redini del Paese, sia ben rappresentativa del popolo.  
L’Italia, è, dunque, una Democrazia!
In Les mains sales, Jean-Paul Sartre fa dire a uno dei suoi personaggi, Hoereder:  
Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani! Ebbene, resta puro! A che cosa servirà e perché vieni tra noi? La purezza è un ideale da fachiri e da monaci. Voialtri, intellettuali, anarchici, borghesi, ve ne servite come pretesto per non fare nulla. Non fare nulla, restare immobili, serrare i gomiti contro il corpo, portare i guanti. Io, io ho le mani sporche. Fino ai gomiti. Io le ho affondate nella merda e nel sangue. E del resto? Credi davvero che si possa governare innocentemente?  
Il dramma traccia la parabola di un gruppo rivoluzionario che, conquistato il potere con il consenso popolare ed eliminato il tiranno, si trova a fare i conti con la realtà del governare per ritrovarsi a ripetere le stesse azioni liberticide contro le quali aveva combattuto.
A destra come a sinistra uomini si sono sporcati le mani.
Ancora si deve sapere quali!
Il vento di “salubrità” pubblica che ha soffiato, venti anni fa, con Mani Pulite, raggiungerà ancora l’Italia?
Vi sottopongo per una riflessione questa testimonianza di Giorgio Bocca, raccolta dal settimanale francese Le Point, nell’edizione del 15-21 maggio 1993. A proposito di Giulio Andreotti, il più “divo” dei nostri uomini di Stato, Bocca procede, da esperto, a una analisi che, condividerete con me, non manca di pertinenza:
“Il mistero di Andreotti è un falso mistero, è il mistero del potere. Riposa su uno dei temi più vecchi del mondo: mentire freddamente, distrattamente, come se si trattasse di qualcun altro. Fintanto che l’autore conserverà il potere, la menzogna prevarrà su tutti i sospetti, perché non è la verità che è in gioco, ma il potere.” 
La vita, Niccolò Machiavelli, Sigmund Freud… mi hanno appreso che le menzogne più grosse permettono, sovente, agli impostori, ai demagoghi, ai manipolatori e ai pervertiti di fondare la propria legittimità, imponendo alle folle le loro tavole della legge.
È inaccettabile che politici moralizzatori e sedicenti virtuosi abbiano rapporti così colpevoli con il danaro. La lista dei loro misfatti avrebbe dovuto impedire loro di continuare a impiegare l’arma della “disonestà” e della “generosità” per distinguersi dai loro avversari, dai magistrati che li “perseguitano”, dai giornalisti che li guardano nel fondo degli occhi. La irresponsabilità è divenuta, nei loro ranghi, la regola comune. Solo qualche “subalterno” è abbandonato alla Giustizia.  
Spesso, noi non riusciamo a distinguere i contorni di quello che accade intorno a noi. La nettezza non è una caratteristica della vita: bianco o nero. Dobbiamo fare i conti con una scala infinita di grigi.
Il buon uso della Democrazia impone che si lasci la Giustizia stabilire come questi “deviamenti” abbiano avuto luogo e in quali proporzioni. Solo la Giustizia – e voi lo sapete – può dire se abbiano agito dietro ordine – del loro partito, a esempio – o per arricchirsi personalmente.
Come finirà?
“Lo scopriremo vivendo!”,
ritmava un motivetto di qualche anno fa.
La soluzione a questo problema è, innanzitutto, politica. È combattendo l’indifferenza generale, in primo luogo degli ambienti politici, circa questa nuova criminalità che la nostra Democrazia ritroverà la sua forza.
Uno sguardo sul problema della corruzione, di cui soffre la quasi totalità dei Paesi occidentali permette di affermare che, se non si presterà attenzione, se non si attueranno misure di urgenza, si perverrà alla destabilizzazione degli Stati e allo screditamento delle classi dirigenti, rafforzando, così, quell’estremismo di destra, cui si è contribuito a scavare un alveo e di cui si è saputo così bene servirsi.
L’Italia, in cui il pericolo politico-mafioso è stato spinto al parossismo, non è un caso isolato. In Grecia, ha devastato l’economia del Paese. In Spagna, in Portogallo, in Irlanda, fino in Francia… il saccheggio presenta le stesse caratteristiche. I nostri cugini europei sono stati serviti: affarismo e corruzione hanno “oliato” tutti gli ingranaggi dell’economia e dello Stato. A questi banchetti partecipa il fior fiore della finanza più avventuriera e avventurosa.
Noi viviamo in un Paese, in cui l’eguaglianza è rivendicata alta e forte, ogni giorno, da tutti i politici, da tutti gli intellettuali, da tutti i giornalisti e da tutti coloro che hanno accesso allo spazio pubblico. Messo in tutte le salse, più o meno, il termine eguaglianza è stato innalzato a quasi dogma dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante la prima visita ufficiale a Papa Francesco I, lo scorso 8 giugno [http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/06/09/napolitano-papa-ora-dell-uguaglianza-francesco-scherza-qui.html, http://www.huffingtonpost.it/2013/06/08/papa-francesco-incontra-napolitano_n_3408412.html, http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2013/6/8/DIRETTA-STREAMING-Video-l-incontro-tra-Papa-Francesco-e-Giorgio-Napolitano/401076/]. E, tuttavia, una eguaglianza non è rivendicata da alcuno delle personalità citate: l’eguaglianza mediatica.
La causa?
Buona parte di loro ne soffrirebbe direttamente, perché sono i beneficiari, i privilegiati, i ricchi del tempo di parola, a detrimento dei poveri, degli esclusi, degli emarginati della radio e della televisione.
Tutte queste riflessioni mi hanno indotto a un gesto di “spontanea immodestia”, quale quello di scrivere una lettera aperta ai giornalisti italiani, non con la pretesa di dare lezioni a qualcuno, non ne avrei né il titolo né la capacità, ma con il solo scopo di offrire l’occasione a chi – da semplice cittadina come me, ritenga opportuno vivere in mezzo agli altri con maggiore coscienza dei propri diritti in pieno rispetto di quelli degli altri.
Per me non vi è dubbio alcuno che il giornalista – almeno chi meriti tale nome – debba scrivere tutto ciò che vuole, come vuole, dove vuole e quando vuole. Nell’era, in cui chiunque può divenire redattore capo del suo blog o inviato speciale di una newsletter e la comunicazione si trova al centro di tutte le strategie, vi propongo di riflettere su questa domanda:
Un giornalista può essere indipendente?”


È la stampa, bellezza!

in memoria di Anna Stepanovna Politkovskaja
assassinata dalla menzogna, il 7 ottobre 2006
“Il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare.  L'unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede. Le parole possono salvare delle vite.”, sosteneva Anna Politkovskaja in una delle sue ultime interviste all’Eco di Mosca [Эхо Москвы], seppure consapevole che: “Alcune volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare.”
E, per questo credo, la giornalista russa ha dato la propria vita.
L’articolo 21, comma 1, della Costituzione italiana riconosce a tutti il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Per questa ragione, la stessa corte costituzionale ha definito questa norma “pietra angolare” (sentenza n. 84/1969) per l’attuazione del sistema democratico. In virtù dei diritti garantiti dall’articolo 21, tutti gli addetti all’informazione hanno il diritto di esprimere le proprie idee in assoluta libertà, anche se divergono dalle “aspettative” dei governanti di turno. 
Sono al servizio dei cittadini ed è a loro che debbono rendere conto!
Tuttavia, le loro funzioni influenzano, direttamente, il popolo, la sua educazione, la sua apertura mentale e la sua libertà.

di
Daniela Zini


Esiste una ineguaglianza mediatica in questo Paese, che niente giustifica e che non è più sopportabile.
Così l’indipendenza, altamente rivendicata, non esita a farsi muta, quando si tratta di mangiare dalla greppia. Come diceva un giornalista in vista, si tratta di “lisciare” l’informazione. Da qui a cadere nel servilismo, non vi è che un passo, al punto da poter dire che il giornalismo è l’arte di far credere al popolo ciò che il governo giudica opportuno fargli ammettere. Cosa che riconosceva, apertamente,lo stesso Napoleone III:
“Io non leggo mai i giornali francesi, non stampano che ciò che voglio.”
I mass media hanno preso una tale importanza che è impossibile voler fare con o senza di loro. Sono onnipresenti, onnipotenti e quasi onniscienti. Fanno il buono e il cattivo tempo, determinano ciò che esiste e ciò che non esiste, stabiliscono il vero e il falso, il bene e il male, il nuovo e il vecchio.
In Italia, è ben radicato l’assunto del giornalista disposto a scendere a compromessi di fronte alle pressioni del potere e incapace di resistere alle pressioni del danaro. Autoreferenziali, servi del potere, senza etica, lontani dal “Paese reale”… il repertorio di accuse mosse alla categoria si arricchisce di nuovi epiteti, anno dopo anno, sulla scia di sospetti, insinuazioni, critiche deontologiche e, all’occorrenza, di insulti. Lo dimostra il rapporto Censis-Ucsi del 2013, secondo cui i principali appunti, che vengono mossi agli operatori della informazione, riguardano la mancanza di veridicità nelle notizie riportate e l'inadeguatezza rispetto al ruolo. Alla categoria vengono mossi rilievi anche circa l'approssimazione, l'esagerazione, la mancanza di autonomia e di indipendenza, la partigianeria con cui vengono riportate le notizie. In coda alla classifica le definizioni, forse, più oltraggiose, vale a dire, il narcisismo e l'autoreferenzialità e la scarsa comprensibilità. Il rapporto dice, infatti, che per 7 persone su 10 – con leggera prevalenza tra i giovani e i 45-60enni – “gli apparati di informazione tradizionale tendono a manipolare le notizie”. Viceversa, solo un terzo degli italiani – percentuale che sale al 41% tra gli anziani – ritiene valida l’equazione non professionale = non attendibile per l’informazione che si diffonde in rete. Secondo lo stesso rapporto, è, sempre, la televisione a farla da padrona, mentre crescono i cosiddetti mobile internet devices e continua il calo inesorabile della carta stampata. Al riguardo, vi sono due dati che meritano essere estrapolati per fotografare la crisi dei giornali:
1) nella fascia di età compresa tra i 14 e i 29 anni – per intenderci, i lettori di oggi e di domani – la percentuale che si tiene informata attraverso i quotidiani non raggiunge il 23%;
2) nel corso degli ultimi sei anni, dal 2007 al 2013, il consumo di quotidiani a pagamento è sceso dal 67% al 43% della popolazione.
Se il trend dovesse rimanere costante, la carta stampata non avrebbe più di 10 anni di vita!
Le responsabilità di questa disfatta sono divise. Un manipolo di grandi gruppi editoriali hanno il monopolio dell’informazione, ciò che mette in pericolo l’indipendenza dei media di fronte al potere economico, ma anche a quello politico, perché queste due dimensioni si intersecano come non mai. Vi è, poi, la concorrenza di internet e della stampa gratuita. Di fronte a questi due nuovi attori i media hanno reagito, investendo sul marketing e sulla pubblicità e non sulla qualità. Infine, la massa salariale, vale a dire i giornalisti, è diminuita negli ultimi dieci anni.
Celebriamo, dunque, le esequie del giornalismo?
Niente affatto!
Prepariamoci, al contrario, a festeggiarne una nuova vita. Secondo l'83% degli intervistati esistono alcune significative eccezioni e nuovi modelli referenziali. Una nostalgia per i reporters, i freelance, in una parola, per un sistema di informazione non pilotato. Lo stesso rapporto Censis-Ucsi ci conferma un dato rilevante: dal 2011 a oggi, la percentuale degli italiani, che ha usato almeno uno dei tanti mezzi di informazione disponibili, è lievitata del 5,6%, passando dall’89,8% al 95,4%. Ciò significa che la domanda di informazione – e quindi di giornalismo, in senso lato – non è affatto mediocre, anzi si avvantaggia dei numerosi canali a disposizione.
Oltreoceano, negli Stati Uniti – come rivela un sondaggio Gallup del dicembre dello scorso anno [ http://www.gallup.com/poll/159035/congress-retains-low-honesty-rating.aspx] – la situazione non è migliore: solo il 25% degli americani ritiene i giornalisti affidabili ed eticamente onesti. Per il restante 75%, i dubbi sono, via via, più consistenti, al punto che nella classifica della affidabilità, i giornalisti si posizionano al 12° posto, dietro i banchieri, i chiropratici e gli psichiatri.


Cara stampa, carissimi giornalisti radio-televisivi,

vi scrivo, oggi, per esprimervi tutta la mia ammirazione per il vostro operato.
I miei Amici e io lo avevamo preannunciato, avevamo posto in voi immense aspettative e l’ora della constatazione è, ormai, venuta: non ci avete delusi.
Noi sappiamo, voi e io, che la stampa italiana è criticata all’estero, in particolare nei Paesi anglo-sassoni, per il suo eccessivo fair-play, per la prudenza di cui fa bella mostra nel trattare l’informazione, quella politica soprattutto.
Noi sappiamo, voi e io, che il soffocamento di una sollevazione non si fa con la forza, con eventuali pressioni dirette del tipo “fai questo” o “non fare quello”, ma passa, piuttosto, attraverso la riproduzione sociale, da una parte, e attraverso il discredito dei punti di vista non consensuali, dall’altra. Queste due condotte sono, del resto, i due pilastri della Democrazia all’italiana. È noto che il sistema scolastico di accesso al lavoro, da una parte, e i professionisti dell’editoria e del giornalismo, dall’altra, si completano a meraviglia, per assicurare una certa perfezione nella riproduzione, che io non ho mai osato immaginare nei miei sogni più folli. Nel vostro ambiente, non si accetta, del resto, che la gente nella quale ci si riconosce e io me ne felicito perché queste strategie, più o meno coscienti, assicurano il mantenimento della qualità del vostro lavoro. Certo, se faceste letame, sarebbe inquietante, per l’impossibilità di uscire dal processo defecatore, ma state tranquilli, voi siete bene i rappresentanti dell’élite intellettuale dell’Italia.  
La prova?
Voi siete molto più conosciuti di altri pseudo-pensatori e parassiti a corto di riconoscimenti.
È tempo di ritrovare la giusta misura delle cose!
Da buoni praticanti della vita pubblica, voi non avete mai oltrepassato la linea gialla, non avete mai mostrato la tenacia implacabile, di cui danno prova i giornalisti anglosassoni, in cerca di verità. Non è, certo, qui da noi, che i giornalisti potrebbero andare così lontano e così veloce come nell’Affare Watergate, quello che ha permesso alla stampa americana di mettere alla porta della Casa Bianca, in pieno mandato, il presidente Richard Nixon.
Qualcuno ve ne ha parlato?
Per tutte queste ragioni, io mi felicito di non appartenere, alla sublime casta degli intellettuali intelligenti, che, soffocando nei loro ranghi ogni sollevazione, assicurano la fabbricazione di una opinione omogenea nella popolazione italiana e, così, la formazione della futura casta di intellettuali intelligenti, di cui non dubito di vedere, un giorno, farne parte i vostri figli.
Noi sappiamo, voi e io, che, senza essere giornalisti, senza essere grandi storici, si può, egualmente, leggere l’attualità in modo abbastanza preciso, è sufficiente impiegare un pò di tempo per analizzarla, per cogliere il mondo in cui viviamo. Voi, il cui mestiere è decodificare le sfere di influenza dei poteri mondiali, politico, economico ed energetico, voi sembrate incapaci di vedere e di sentire i molteplici indizi e parametri dell’attualità, attraverso i quali è possibile abbozzare un ritratto abbastanza fedele della realtà. I vostri reportages sono divenuti dei discorsi da pappagallo che ripetono, instancabilmente, un sermone che elude i fatti evidenti.
Come se vi avessero amputato della vostra etica o, peggio, come se vi avessero letteralmente disumanizzato!
Noi sappiamo, voi e io, che si può, per un certo tempo, imbellettare la realtà, ma… ma che, inevitabilmente, come l’erba cattiva, finisce sempre per imporsi. Si ha un bel ripetere, incessantemente, una menzogna, per darle il sembiante di una verità nella testa della gente, prima o poi, la menzogna viene a galla.
Noi sappiamo, voi e io, che la realtà ha, sempre, l’ultima parola.
Viva la Democrazia e viva l’Italia giornalistica!

ostinatamente vostro
cane sciolto, in nome della libertà di abbaiare


Daniela Zini
Copyright © 15 novembre 2013 ADZ



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