Viva la dipendenza affettiva!
“L’amore è sempre nuovo. Non importa che amiamo una, due, dieci
volte nella vita: ci troviamo sempre davanti a una situazione che non
conosciamo. L’amore può condurci all’inferno o in paradiso, comunque ci porta
sempre in qualche luogo.”
Paulo Coelho
“Il existe, dans de nombreuses langues, un
mot qui désigne à la fois l’acte de donner et celui de prendre, la charité et l’avidité,
la bienfaisance et la convoitise – c’est le mot: amour. Le désir ardent qu’a un
être de tout ce qui peut le combler et l’abnégation sans réserve convergent
paradoxalement dans un même vocable. On parle d’amour pour l’apothéose du souci
de soi, et pour le souci de l’Autre poussé à son paroxysme.
Mais qui croît encore au désintéressement?
Qui prend pour argent comptant l’existence de comportements bénévoles?”
scrive Alain
Finkielkraut in La Sagesse
de l’Amour.
E ancora :
“L’amour fait de vous l’otage d’un absent
que vous ne pouvez ni fixer, ni esquiver, ni éconduire. Cette emprise est le
désespoir de l’amoureux, et son trésor le plus cher. Elle est la violence dont
il souffre et la valeur qu’il affirme en lui-même.”
L’amore è cambiato per l’azione del
femminismo?
I rapporti uomo-donna sono gli
stessi?
L’amore non resta sempre,
profondamente, lo stesso fenomeno, pieno di contraddizioni, di dolori e di
felicità?
Le parole delle canzoni possono
chiarirci a tale riguardo?
Quando Edith Piaf, alla fine degli
anni 1950, sentì, per la prima volta, la canzone di Jacques Brel Ne me
quitte pas, esclamò con tono scandalizzato:
“Un homme ne devrait jamais chanter ça.”
Per lei, un uomo non doveva mai
manifestare la sua dipendenza affettiva, doveva dominare. Era destino della
donna aggrapparsi all’amore.
Ma se si ascoltano le canzoni d’amore
da Jacques Brel, Léo Ferré e Georges Brassens a Daniel Bélanger, Paul Piché e
Vincent Delerm, passando per Charles Aznavour e tanti altri, si vede che i
rapporti uomo-donna sono profondamente cambiati in meglio.
Durante gli anni 1950, Boris Vian non
faceva dire alle sue interpreti femminili:
“Johnny, fais-moi mal…”?
Oggi Carla Bruni
canta soavemente:
“L’amour, j’en veux pas. Je préfère (…) le goût
étrange et doux de la peau de mes amants. Mais l’amour… pas vraiment.”
Quels délices!
Ho appena finito di rileggere Le
donne che amano troppo di Robin Norwood nell’edizione Feltrinelli.
Ecco quello che è scritto sul dorso
del libro:
“Perché amare diviene “amare troppo”, e quando questo accade?
Perché le donne a volte pur riconoscendo il loro partner come inadeguato o non
disponibile non riescono a liberarsene? Mentre sperano o desiderano che “lui”
cambi, di fatto si coinvolgono sempre più profondamente in un meccanismo di
assuefazione.
Donne che amano troppo, un bestseller che ha raggiunto il record
di cinque milioni di copie vendute, offre una casistica nella quale sono
lucidamente individuate le ragioni per cui molte donne si innamorano dell’uomo
sbagliato e spendono inutilmente le loro energie per cambiarlo.”
Ho letto questo libro come un
documento, un’illustrazione perfetta delle tendenze, al tempo stesso,
individualiste, psicologiche, gestionali e femministe importate dall’America,
ma penso che la coppia, l’amore, il matrimonio possano e debbano essere
trattati in modo più vasto e aprire a una riflessione socio-storica, se
auspichiamo fare le scelte giuste.
Questo libro non ha potuto vedere la
luce che sul fondo della società atomizzata dove ciascuno deve farsi da sé,
indipendentemente dagli altri – tipica è questa fobia moderna delle relazioni di
dipendenza – in risposta a un ideale sociale, nel quale si crede che l’essere
umano, in quanto individuo, viene prima del legame sociale e il legame sociale un
intralcio al suo sviluppo. È una visione tendenzialmente più diffusa in America
che in Europa, dove prevaleva fino agli anni 1970-1980 una visione dell’uomo
piuttosto instituée: l’uomo deve passare per un’educazione, necessita di
essere institué da altri e la sua natura, profondamente sociale e
dipendente, richiede, dunque, limiti, leggi, istituzioni per organizzare le diverse
dipendenze. Questa si chiama société solidaire. In questo tipo di
società, la coppia è molto fortemente sostenuta dalle istituzioni perché non è
solo il luogo dello sviluppo individuale ma è anche un’istituzione e il perno della
società attraverso la famiglia.
Il femminismo ha rimesso questa
struttura in discussione per promuovere un’idea della coppia e della famiglia
basata sullo sviluppo individuale, da qui l’esplosione delle pratiche di lavoro
su di sé e della psicologia a fine emancipatore.
Io non aderisco a questa concezione
della coppia perché mi sembra troppo instabile e questo modo di ricercare la
dipendenza, insita nella natura umana, mi sembra irrealista. Gli uomini
descritti nel libro di Robin Norwood sembrano essere uomini fuyants, che
cercano non una moglie ma una madre, dunque, prodotti di una società che evacua
la funzione paterna e li esorta a restare eterni bambini.
La prima volta che ho letto il libro,
ci ho riso su e l’ho gettato.
Tuttavia, ho ripreso il libro, l’ho
letto, riletto, ririletto… e ho compreso perché avevo avuto quel primo momento
di rigetto.
Una ragione politica, innanzitutto:
non posso impedirmi di vedere nel modo in cui questo problema è affrontato, une
avancée dell’americanismo nelle culture europee in rapporto al ritorno del
freudismo in Europa una volta volgarizzato, semplificato, deformato dalla sua
americanizzazione (conferenza di Freud negli Stati Uniti nel 1909).
In breve, direi che la cultura
americana ha messo un sapere che era appannaggio di una élite – la cultura
psicanalitica – al servizio di “tutti”, in modo confacente al suo ideale
liberale del “tutto è possibile” e “tutti possono” e diffuso il sapere
freudiano con uno scopo pragmatico e gestionale che ha più affinità con la gouvernance
attuale.
In America, autori come Abraham Maslow, Carl Rogers
hanno contribuito alla diffusione di un’idea dell’uomo “buona ma ostacolata
da fattori esterni” in contraddizione con l’idea freudiana “l’uomo è la
sede di pulsioni contraddittorie e di conflitti”. Secondo Rogers, Maslow e
i loro successori, ostacoli inconsci ma volontari, che avrebbero la loro
origine nel passato, impedirebbero lo sviluppo individuale – la donna che ama
troppo avrebbe inconsciamente cercato un imbecille –, ostacoli, di cui
bisognerebbe liberarsi attraverso pratiche volontarie, messe alla portata di
tutti, che negano, nel loro sconvolgente semplicismo, la complessità dell’animo
umano, davanti al quale Freud aveva tanto rispetto.
Come constaterete dalla lettura di
questo articolo, io non ho la stessa visione di questa problematica e delle sue
soluzioni. Comprenderete perché deploro, dunque, l’esistenza di questa diagnosi
di “dipendenza affettiva” in quanto etichetta di comportamento maladif.
Tutto quello che si dice della
dipendenza affettiva nei media provoca molta inquietudine. Molte persone si
domandano se soffrano di “questa grave malattia”, poiché riconoscono nella sua descrizione
quello che vivono e credono di avere trovato la spiegazione alle loro
insoddisfazioni, attribuendosi questa etichetta. Ma questa insicurezza ha un
altro effetto, ancora più grave, induce queste persone a rimettere in
discussione i loro bisogni affettivi. Tutto quello che concerne il loro
attaccamento, la loro sete di relazione, il loro bisogno di amare e di essere
amati appare loro come patologico. Queste persone si domandano perfino se sono
normali ad avere relazioni emotive forti.
Questa messa in discussione viene in
parte dal fatto che l’autrice di Donne che amano troppo assimila la
forte attrattiva del dipendente affettivo a un’assuefazione patologica come la
dipendenza all’alcol o alla droga dell’alcolista o del tossicomane. Questo accostamento
è, a mio avviso, pericoloso e largamente ingiustificato. In realtà, l’alcolista
e il tossicomane fanno ricorso agli stupefacenti e agli euforizzanti per
evitare il contatto con i loro bisogni affettivi. Consumando sostanze tossiche
si distraggono dai loro bisogni affettivi e dalla loro sofferenza, occasionata
dalla loro mancanza, analogamente all’assetato nel deserto, che si iniettasse l’eroina
per non soffrire più la sete e morisse disidratato, ma, forse, senza provare
chiaramente sofferenza.
È certo che gli stupefacenti e gli
stimolanti non colmeranno mai i loro bisogni affettivi. Perfino gli alcolisti e
i tossicomani non si lasciano ingannare, ma hanno spesso paura e si sentono
diminuiti davanti all’ampiezza dei loro bisogni. Sfortunatamente, l’accento che
si mette sulla dipendenza fisica nel caso di queste assuefazioni contribuisce a
deviare l’attenzione dalle vere ragioni che hanno condotto alla consumazione
abusiva.
Lasciando credere che la dipendenza
affettiva equivale a un’assuefazione, si impedisce di trovare soluzioni sane
alle insoddisfazioni affettive. Si lascia credere che si tratti di una malattia
piuttosto che di un tentativo maldestro di trovare soddisfazione. Si priva la
persona di ogni mezzo reale per porvi rimedio da se stessa. Si lascia intendere
che si tratta di una forma di assuefazione che non può essere risolta che
attraverso un controllo della volontà e una sottrazione sistematica alle
tentazioni. Questo impedisce al dipendente affettivo di rispondere ai suoi
bisogni emotivi fondamentali.
Gli esseri viventi hanno bisogno di
aria e di acqua per sopravvivere. Dipendono da questi elementi e dall’ambiente
dove li trovano. Possono perfino divenire ossessionati da questi elementi in
certe circostanze. Immaginiamoci nel deserto alla fine delle nostre riserve d’acqua.
Se noi non abbiamo mezzi per approvvigionarci nelle vicinanze, è certo che
diverremo ossessionati dall’acqua. Più la mancanza si farà sentire, più la
nostra vita, i nostri pensieri e tutti i nostri sforzi saranno orientati verso
un solo fine: trovare un’oasi.
Si potrebbe qualificare il nostro
gruppo di dipendenti fisici?
Non lo penseremmo certo, perché ci
sembrerebbe normale avere bisogno di acqua e mobilitarci per trovarne. È normale,
se manca drammaticamente, che la sua ricerca divenga la priorità della nostra
vita. Quello che troveremmo anormale sarebbe danzare per far cadere la pioggia,
girare in tondo sperando di trovare l’acqua o implorare l’acqua di apparire… Si
considererebbe certamente come patologico il comportamento di un membro del
gruppo che restasse passivo, sperando, ardentemente, che l’acqua si rechi alla
sua bocca. Se persistesse in questo atteggiamento, fino a rischiare la propria
vita, lo crederemmo autodistruttore.
Gli esseri viventi
non hanno solo bisogni fisici, hanno anche bisogni affettivi. Questi non sono
così palpabili e sono ancora poco conosciuti. Ma se ne sa abbastanza, al momento,
per arguirne l’importanza di rispondervi.
Il bambino ha
bisogno per svilupparsi armoniosamente di essere trattato come una persona a
parte intera e di avere l’opportunità di rispondere ai suoi bisogni. È perfino
indispensabile alla sua sanità mentale. Parimenti per gli adulti. Noi
continuiamo ad avere bisogni affettivi lungo tutta la nostra vita. Dobbiamo soddisfarli
per conservare il nostro equilibrio affettivo e la nostra sanità mentale. È
perfino importante per la nostra sanità fisica. Sempre di più, si scopre l’effetto
nefasto delle mancanze affettive sulla sanità fisica.
Senza questo fattore di dipendenza –
che chiamerò piuttosto interdipendenza o complementarità – nessuno tollererebbe
le difficoltà della vita a due. È perché ciascuno apporta qualcosa che si
instaura un legame che può essere più permanente. Si mettono le proprie forze
in comune a profitto dei due, ciò che permette di minimizzare le proprie
debolezze. È questo il vero partenariato: una specie di patto, più grande degli
altri, che lega l’Essere in quello che vi è di più intimo, nel quotidiano, la
malattia, gli alti e i bassi, i momenti di angoscia. Abbiamo tutti bisogno di
un’ancora, di radici, di basamenti che passano generalmente per una relazione
durevole con un Essere, sul quale si può contare e che può contare su di noi.
Qualcuno di cui si ha bisogno e che ha bisogno di noi. Se non vi è dipendenza là-dessous.
È osservando l’altro reagire a suo
modo, attraverso ogni sorta di circostanze, avere gioie e dolori, barcollare,
cadere e rimettersi in piedi che si instaura un legame che va più lontano della
passione. Fondato su una profonda conoscenza e riconoscenza di chi vive al
nostro fianco, questo legame cresce sul filo delle esperienze comuni nella
misura in cui si mantiene un legame di contatto che ci porta a conoscerci
meglio vicendevolmente. Questo legame porta a forgiare lentamente un modo di
vivere tutto fatto di piccole… dipendenze. Con il tempo, ciascuno fa propri
certi ruoli, certi compiti, secondo i propri talenti, le proprie disponibilità
e le proprie priorità. In caso di rottura, come si accorgono che devono, di
nuovo, apprendere a fare cose che, senza troppo rendersene conto, avevano
lasciate all’Altro. E quanto sono stupiti di constatare il numero dei
dettagli, più o meno insignificanti, che rimpiangono subito.
“Aimer et avoir besoin de l’Autre
signifient que nous nous exposons non seulement au risque de rejet, mais aussi
au retrait de l’appui et de la protection apportée par l’Autre.”
scrive John
Wright in Survival Strategies for Couples:
“È impossibile innamorarsi
se non si è pronti a essere scossi.”,
afferma Rose-Marie Charest che
preferisce parlare di interdipendenza piuttosto che di dipendenza come
componente della relazione amorosa. Per amare ed essere amato bisogna volere il
cambiamento, accettare di fare posto, consentire a modificare le abitudini, a rammollire
il proprio ego, ad aprirsi e scegliere di dedicarvi tempo ed energia.
Bisogna accettare di svelarsi. È
quello che si chiama la vulnerabilità. Una parola che spaventa molti, in
particolare quelli che hanno paura di amare troppo –, forse, perché li
associamo alla debolezza.
È un fatto: non è facile mettersi a
nudo con i tempi che corrono.
“Il faut prendre le risque d’aimer et d’être
aimé.”
dit Sheryl
Gaudet.
“Ne pas se priver de se dévoiler sous
prétexte de peur. Il s’agit plutôt d’observer ce que l’autre fait de ce qu’on
lui confie.”
Nel suo Intimità Willy Pasini scrive:
“Intimità vuol dire mettersi nella pelle dell’altro senza
smarrire il senso della propria identità. Vuole dire ricevere l’altro nel
proprio territorio intimo senza sentirsi invasi o contaminati.”
A differenza della simbiosi, l’intimità
reclama il mantenimento di un senso acuto dell’individualità: solo la persona
sicura di sé può navigare con il vento largo, affrontare il mare aperto.
Rischiare l’amore è anche accettare di vivere una dipendenza. Ma non una
dipendenza cieca. Completamente autonomo, l’Uno appaga i bisogni dell’Altro. Bisogni
affettivi, bisogni sessuali, bisogni economici, bisogno di tenerezza, bisogno
di attenzione, bisogno di compagnia, bisogno di…
Non facile, nell’epoca attuale,
confessare di avere bisogno di qualcuno. Ma se non è affatto vero, perché mai
si accetterebbe di vivere con qualcuno, quando si conoscono tutte le
concessioni che questo esige?
“C’est la différence entre se masturber et
faire l’amour.”
osserva Sheryl
Gaudet,
“On peut assouvir seul ses besoins et être
satisfait, mais il manque quelque chose.”
Catherine
Bensaid scrive in Aime-toi, la vie t’aimera:
“Ceux qui, parce qu’ils se sentent
incapables d’affronter la moindre déception éventuelle et excluent d’emblée l’idée
d’une remise en question, s’enferment peu à peu dans une logique de l’échec:
ils préfèrent l’attente, avec son éventail de possibilités toujours ouvert à l’infini,
à ce que la réalité, même si elle peut être source de plaisirs, vient leur
imposer comme limites définies.”
“ Il n’y a pas d’amour heureux.”
scriveva Louis Aragon, il poeta.
Sheryl Gaudet, da parte sua, constata
che perfino un amore felice porta sofferenza:
“On n’a jamais de garantie. Tout ce que l’on
sait, c’est que ça change, ça évolue et que, pour maintenir le fil, on
traversera des passes éprouvantes.”
Niente può proteggerci dalle sventure
dell’amore. Che lo si tenga per detto, la felicità asettica non esiste. Tanto
saperlo subito, amare significa prendere dei rischi. Perché certe crisi
verranno a turbare il nostro cielo, perché si vivrà una parte delle angosce e
degli smarrimenti dell’Altro.
Una realtà che, in fondo, non è, poi,
così drammatica!
“L’alternance du bien-être et du malaise
est à la base de l’énergie d’être. Vouloir tout transformer en bonheur et en
harmonie, c’est nier le droit d’être temporairement fou, un droit qui fait du
bien. Une société qui a cet objectif produit en série des angoissés de la
perfection, des pervers de la propreté mentale, des obsédés de la “bibite noire”. ”
scrive Michel Trudeau in Pour en
finir avec les psy, che denuncia l’emprise di quella che definisce l’idéologie
psy sulle nostre vite e i nostri pensieri.
“L’idéologie psy raye définitivement de la
carte du Tendre le grand fantasme romantique en tant que tel pour le remplacer
par l’efficacité amoureuse, par la communication, par la gestion des
sentiments.
Quand on en est là, on est au plus loin de
l’amour.”
“L’idéologie psy n’a qu’une seule et unique
visée: propulser les amoureux le plus rapidement possible dans l’ordinaire,
dans une mécanique des rapports où tout est prévisible, dans une absolue
propreté des états d’âme.”
“L’idéologie psy met l’amour sous haute
tension, sous haute surveillance aussi, Le couple s’autoobserve sans relâche. C’est
ça le pire. Quand on vit dans une société dominée par une idéologie qui laisse
entendre que la propreté de l’esprit est un objectif en soi, on a peine à
persévérer dans la simplicité de la sensation. L’amour se nourrit de l’imprévu;
le psy de la planification stratégique.”
Chi ha paura di un GRANDE AMORE?”
È vero che dopo aver letto tutto
quello che è stato pubblicato sulle devastazioni dell’amore, la riconquista del
nostro io profondo e l’ascolto del nostro bambino ferito, dopo aver compreso
che le donne venivano da Venere e gli uomini da Marte, che si amava troppo…
troppo, che si amava male, che si amavano gli uomini che si disprezzavano, si
può essere afferrati dall’irreprimibile desiderio di sbattere la porta in
faccia all’amore, per paura di esserne inghiottiti.
Come si può essere incapaci di sentir
parlare di dipendenza senza digrignare i denti?
Questo non favorisce affatto le
relazioni amorose.
“Une aversion profonde à l’égard de la
dépendance peut entraîner une variété de conséquences négatives. Ainsi, nous
pouvons sentir le besoin d’exercer une retenue sur tous nos sentiments amoureux
de façon à ne tomber dans un état de trop grande dépendance envers l’autre. Ou
encore, nous pouvons éviter tout à fait les relations intimes, ou ne nous
engager que superficiellement, sans établir de racines émotives.”
scrive John
Wright in La survie du couple.
A temere troppo la dipendenza, a
voler essere troppo invulnerabili e a non aver bisogno di niente e di nessuno,
si giunge a fuggire l’amore, a moltiplicare le avventure senza domani o a
sviluppare una visione così pragmatica della vita a due che ogni eventuale
incontro è all’insegna di esigenze impossibili. Si vuole che l’amore si
inserisca sans vague tra tre riunioni, due sedute in palestra e la cena
con le amiche il giovedì.
Ferite di vecchi amori, non del tutto
guarite, o culto dell’io spinto allo zenit, ci si attende dall’Altro che non
sia niente di meno che perfetto, che si mostri docile e discreto in ogni
momento. Si mira a un’oasi “ovattata” che si integri alla nostra vita già piena,
senza cambiare niente. Ci si augura il meglio senza il peggio, la felicità
senza sofferenza né compromesso.
L’amore senza la dipendenza.
In breve, l’AMORE senza la sua ESSENZA.
Daniela دانیلا Zini زینی
Copyright © 2009 ADZ