“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 29 giugno 2018

LA LIBERTA' SENZA GIUSTIZIA SOCIALE











"La libertà, senza giustizia sociale non è che una conquista fragile, che si risolve per molti, nella libertà di morire di fame!"

giovedì 28 giugno 2018

Michel Polnareff Una Bambolina Che Fà No No

Michel Polnareff - La poupee qui fait non ( Rare Original Video 1966 )

lunedì 25 giugno 2018

EMIGRANTI I. ARRIVARONO A MILIONI MA NON TROVARONO L'AMERICA di Daniela Zini


EMIGRANTI
“Io mi sento responsabile
appena un uomo posa 
il suo sguardo su di me.”
Fëdor Dostoevskij [1821-1881]


al mio Reverendo Padre Confessore dell’Ordine Certosino

Se fosse possibile sondare un Cuore umano, che cosa vi scopriremmo?
La sorpresa sarebbe di scoprirvi la silenziosa attesa di una presenza.


La quercia chiese al mandorlo:
“Parlami di Dio.”
E il mandorlo fiorì.
Nikos Kazantzakis [1883-1957]



I.                ARRIVARONO A MILIONI
MA NON TROVARONO L’AMERICA
Sfruttamento e razzismo, ghetti 
e sottosalari per gli schiavi 
bianchi che varcarono l’Atlantico.


di
Daniela Zini


Non esistono dati certi relativi all’entrata degli emigranti negli Stati Uniti d’America anteriormente al 1820. Fu, infatti, solo, in quell’anno, che si iniziarono a tenere statistiche ufficiali sui nuovi arrivati. Il controllo, inizialmente, fu, peraltro, solo contabile. Dal 1820 a poco dopo il 1920, infatti, chiunque lo desiderasse, era libero di entrare negli Stati Uniti d’America, indipendentemente dalla sua etnia o dalla sua religione.
Agli inizi del XIX secolo, l’emigrante che non poteva pagarsi il viaggio firmava un contratto con il quale, in cambio del costo della traversata, si consegnava, fisicamente, al futuro padrone.
Dopo la grande ondata dei sottoproletari dell’Europa Meridionale e Orientale, scattò la legge del National Origins Act, in virtù della quale potevano entrare negli Stati Uniti d’America 60mila inglesi, ma solo 6mila italiani. Va, tuttavia, segnalato che, dopo il 1882, alcuni provvedimenti discriminatori furono adottati a danno degli emigranti di etnia asiatica.
Dalla metà dell’ultima decade del 1800 all’inizio della Prima Guerra Mondiale, fiorì – se così si può dire – la grande stagione dell’emigrazione italiana: dei 13 milioni di stranieri entrati negli Stati Uniti d’America,  dal 1895 al 1914, si può calcolare che oltre 3 milioni siano giunti a Ellis Island dall’Italia. Nel periodo tra le due guerre, anche a seguito della legislazione americana sui “contingenti”, il flusso migratorio calò decisamente per riprendere, con gradualità, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
“For many, the American dream
has become a nightmare.”
Bernie Sanders


Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore,
Send these, the homeless, tempest-tossed to me,
I lift my lamp beside the golden door![1]


Questo, in tutta la sua enfasi, il benvenuto dato agli emigranti al loro arrivo in terra d’America: i versi della poetessa Emma Lazarus [https://www.independent.co.uk/news/world/americas/emma-lazarus-poem-the-new-colossus-give-me-your-poor-your-tired-teeming-refuse-shore-history-new-a7598766.html], sono scolpiti sul basamento della Statua della Libertà, innalzante la sua mole nella rada di New York.

Emma Lazarus [1849-1887]

Ma era veramente d’oro la porta che veniva aperta alle masse che lasciavano il Vecchio Continente, fuggendo da persecuzioni politiche e religiose, da una vita di stenti, sovente, da un vero e proprio destino di fame?
Si stenta a crederlo se si pensa che lo spirito con il quale venne accolta l’immigrazione europea negli Stati Uniti d’America ebbe dall’inizio caratteristiche assai meno filantropiche di quelle suggerite dai versi della poetessa ebrea.
Già, all’inizio del 1800, scozzesi dell’Ulster di confessione presbiteriana e, pertanto, malvisti dal governo di Londra, appartenente alla Chiesa Anglicana, ugonotti francesi e mennoniti tedeschi – un’altra setta protestante duramente perseguitata dai principi cattolici di quel Paese – avevano iniziato a cercare rifugio sulle coste della Nuova Inghilterra: si trattava, in larga parte, di esperti contadini e di abili artigiani, mani preziose per quelle terre ancora tutte da colonizzare, eppure il prezzo pagato perché costoro potessero essere ammessi a fare parte della nuova società, che si andava formando, fu altissimo, spesso, crudele.
A danno di quanti non disponevano della somma necessaria a pagarsi il passaggio marittimo venne, infatti, studiato un tipo di contratto, avente peculiarità particolarmente esecrabili: l’emigrante firmava un documento, con il quale riconosceva il suo debito nei confronti del capitano della nave che effettuava il trasporto e lo autorizzava a recuperare il danaro anticipato “rivendendo il suo lavoro” a un piantatore d’Oltreoceano.
Nella realtà, oggetto del contratto non erano tanto le prestazioni dell’emigrante quanto la sua stessa persona fisica dal momento che il piantatore, per garantirsi che il lavoro venisse, effettivamente, prestato, aveva il diritto di privarlo delle libertà personali fino a quando non avesse recuperato, ovviamente con i debiti interessi, la somma rischiata.
Si calcola che, in questo modo, uno schiavo bianco – il termine non è improprio, perché, in definitiva, di vera schiavitù, anche se temporanea, si trattava –, ingaggiato in Europa e trasportato in America, per la cifra media complessiva di una decina di sterline, potesse venire ceduto a un proprietario terriero per il quadruplo; il proprietario terriero prima di procedere all’affrancatura – conferendo insieme alla libertà di potersi trasferire altrove, di prendere moglie e tutti gli elementari diritti della persona umana, anche qualche attrezzo e, a volte, un piccolo appezzamento di terreno –, a sua volta, riusciva a spremere in lavoro dall’immigrato una cifra che, spesso, poteva rappresentare il triplo dell’investimento fatto.  
Il reclutamento e l’impiego di schiavi bianchi rappresentarono, dunque, un ottimo affare per gli uomini di mare e i proprietari di terre; della redditività della speculazione fanno fede lo svolgimento di vere e proprie campagne pubblicitarie sui luoghi di emigrazione da parte di agenti assoldati allo scopo e il non infrequente ricorso a forme di reclutamento forzato.
Dei 150mila scozzesi, 100mila tedeschi e 20mila ugonotti, emigrati in America fino alla metà del 1800, oltre la metà si pagarono il viaggio con il tipo di lavoro coatto descritto: a proposito della vitalità di tale istituto nel Paese, che si avviava a divenire la cosiddetta “Culla della Democrazia”, vale ricordare come ancora nel 1783, quando la Guerra d’Indipendenza era, già, conclusa e alcuni Stati, quali il Massachusetts e il New Hampshire, promulgavano leggi per l’abolizione della schiavitù di colore, continuasse a venire, regolarmente, praticato.
Il flusso migratorio non aveva, tuttavia, rappresentato fino ad allora un reale fenomeno di massa. Iniziò a divenire tale solo dopo la fine della Guerra di Secessione, conclusasi nel 1865, con la sconfitta dei confederati sudisti, quando fu, definitivamente, aperto il cancello – questo veramente d’oro – verso i territori agricoli e minerari del West e del Middle West.
Con il miraggio di un pezzo di terra da assegnarsi, a titolo gratuito, a ogni pioniere, secondo quanto stabiliva lo Homestead Act del 20 maggio 1862, le moltitudini furono spinte alla conquista del West. Ma le terre demaniali, distribuite gratuitamente, erano, il più delle volte, in posizioni inaccessibili e molto esposte agli attacchi delle tribù indiane in rivolta contro la politica di genocidio praticata nei loro confronti dal governo di Washington.
In pratica, le proprietà che gli emigranti tedeschi, in testa anche a questa seconda ondata, scandinavi e olandesi ebbero la effettiva possibilità di colonizzare furono quelle comperate, a caro prezzo, dalle grandi compagnie ferroviarie, che se le erano accaparrate a mano a mano che da Oriente e da Occidente avanzava il nastro della strada ferrata transcontinentale, destinato a venire saldato, nel 1869, dal Golden Spike, il chiodo d’oro posto a commemorare il ciclopico progetto finalmente ultimato.
In tale modo, veniva portata avanti un’altra delle più lucrose speculazioni nella Storia degli Stati Uniti d’America: i risparmi degli immigrati, finiti nelle rapaci casse delle compagnie ferroviarie a pagamento di terreni all’Ovest, messi in vendita con campagne pubblicitarie estremamente ben studiate, consolidarono le fortune del grande capitale americano, già, avviato per la sua strada trionfale.    
Intanto, proprio per la presenza negli Stati Uniti d’America di questo capitale, il cui dinamismo era pari alla mancanza di scrupoli, nel Paese andava maturando con prodigiosa rapidità un grande processo di trasformazione: da una economia prevalentemente agricola stava, infatti, scaturendo la più grande potenza industriale del mondo moderno.
Anche in questa circostanza, l’emigrazione europea fu chiamata a svolgere un ruolo di enorme importanza: da un lato, fornì la manodopera a buon mercato, indispensabile per portare al successo i nuovi procedimenti di massa; dall’altro, servì ad alimentare, direttamente, quell’incremento di popolazione, necessario a sostenere la domanda di quei beni che, in sempre maggiore quantità, la nuova industria andava sfornando.
Ma proprio perché questa volta quello che veniva fatto balenare non era la fertile terra sulla quale essere liberi e padroni, bensì la semplice speranza di un posto di lavoro, con il quale guadagnarsi il pane, la grande maggioranza di coloro che, in quegli anni, sul finire dell’800, si trovarono ad approdare negli Stati Uniti d’America, risultò formata da emigranti più ignoranti, più poveri, meno dotati di abilità specifiche rispetto a quelli che li avevano preceduti.
Fu la volta dei diseredati: oltre 10 milioni di italiani, di polacchi, di ebrei dei Paesi orientali in fuga dall’orrore dei pogrom, di slavi abbandonarono l’Europa per il Nordamerica, lasciando alle loro spalle un passato di miserie e guardando agli Stati Uniti come alla terra promessa, nella quale le loro pene avrebbero trovato fine.
L’America tradì le loro speranze: retribuiti con salari il più delle volte inferiori al livello della mera sopravvivenza furono, infatti, relegati negli slums, i nuovi ghetti che andavano sorgendo intorno alle grandi città della costa atlantica e del Middle West. Qui si ricrearono condizioni ambientali a quelle dei loro Paesi di origine.
Troppo lontana per cultura, religione, ceppo linguistico, la nuova emigrazione proveniente dai Paesi dell’Europa Sudorientale – diversamente da quella che l’aveva preceduta – non seppe penetrare il tessuto della società americana.
Nel fallimento di questo processo di integrazione giocò un ruolo determinante l’atteggiamento razzista della Nazione.
Gli americani di ceppo anglosassone vedevano nei nuovi emigranti un elemento contaminatore della loro identità etnica e rimprovera loro,  ipocritamente, la loro “diversità”.
In realtà, facevano di tutto per accentuarla.
Retribuiti con salari miserabili e relegati in condizioni di isolamento culturale e morale, gli emigranti lasciarono che questo scopo venisse facilmente raggiunto.
Nel giro di pochi anni, la corruzione, il delitto, il vizio furono di casa negli slums e si ponevano le premesse per una nuova e ben più temibile forma di criminalità.
Ma oltre al razzismo e allo sfruttamento del proletariato di origine europea, va segnalato anche un terzo fattore che giocò un ruolo non secondario ai danni degli emigranti della seconda ondata: i sindacati americani, organizzati su base corporativa, considerarono, sempre, con sospetto e paura, questa gran massa di braccia, pronte a offrirsi a buon mercato, e si guardarono bene dal mettere al suo servizio la loro organizzazione. Di fatto, solo le frange violente e rivoluzionarie del movimento sindacale americano e, in primo luogo, la Industrial Workers of the World [IWW], si presero cura di loro e, purtroppo, con nessun migliore risultato che coinvolgerli nel destino di emarginazione a loro stessi prescritto.    
Il flusso migratorio dall’Europa Sudorientale continuò fino all’inizio del 1900 con un ritmo che i “veri” americani valutarono come sempre più preoccupante: oltre 14 milioni di nuovi venuti tra il 1900 e il 1915[2].


Andava, ormai, prendendo piede un vasto movimento di opinione che asseriva essere giunto il momento di mettere mano ai freni: il pensiero di quei pochi che avevano guardato con simpatia all’immigrazione, pensando gli Stati Uniti come a “una Nazione fatta di tante Nazioni”, un melting pot ovvero un crogiolo, come volle chiamarli, nel 1909, Israel Zangwill in una sua opera teatrale di successo, si era rivelata una povera utopia di fronte a quello che, nella realtà, era stato nient’altro che il gretto calcolo di sfruttare una manodopera pressoché gratuita, ma che, ora, iniziava a divenire incomoda.
Nel 1913, passò, così, la prima legge contro l’immigrazione indiscriminata per la quale si proibiva l’ingresso negli Stati Uniti a quanti, sottoposti a un esame, risultassero analfabeti.      

 Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il numero di coloro che aspiravano a entrare negli Stati Uniti d’America iniziò a salire, superando ogni precedente previsione.
Fu, pertanto, necessario introdurre in materia una legislazione ancora più restrittiva.
Il National Origins Act, approvato dal Congresso, nel 1924, cercava di favorire l’immigrazione dai Paesi dell’Europa Nordoccidentale, nel convincimento che, in questo modo, sarebbe stata più facile l’integrazione dei nuovi arrivati. Conteneva, invece, dei principi gravemente discriminanti a sfavore di quanti provenivano dalle Nazioni del Sud e dell’Est dell’Europa, assegnando quote percentuali annue sulla base della composizione etnica della popolazione degli Stati Uniti alla data del 1920.
La stessa legge vietava, assolutamente, l’ingresso a chi non fosse bianco.
Il provvedimento, per il quale, nel 1925, si stabiliva che negli Stati Uniti potessero entrare 60mila inglesi – pari a una quota del 42% – e solo 6mila italiani – pari a una quota inferiore al 4% – metteva, praticamente, fine al movimento migratorio che aveva procurato al Nordamerica decine di milioni di cittadini.
Oggi, il mito del melting pot si conferma come uno dei più tragicamente illusori dell’intera Storia americana.
Negli Anni Sessanta, i vari movimenti per i diritti della gente di colore portavano il primo colpo decisivo contro il paternalismo della società statunitense.
Da allora, le infinite minoranze etniche, eredi degli emigranti del 1800, iniziavano ad agitarsi per il riconoscimento da parte dello Stato dei loro diritti.
Gli ispano-americani, gli italiani, i polacchi, i portoghesi, gli armeni, gli asiatici domandavano stanziamenti dal governo federale, insegnamento bilingue nelle scuole, spazio nella stampa, tempo nelle emissioni radiotelevisive e, soprattutto, il diritto di essere rappresentati nelle amministrazioni locali.

Orlando Patterson

Perduta ogni fiducia nella omogeneità della Nazione americana, il sociologo Orlando Patterson interpretava il prosperare dei movimenti delle nuove minoranze etniche, considerate nella loro globalità rispetto alla maggioranza dei bianchi di discendenza anglosassone, come una inarrestabile tendenza verso l’ulteriore frammentazione di un tessuto sociale già gravemente compromesso. 

 Daniela Zini
Copyright © 25 giugno 2018 ADZ


[1] Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri,
Le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi,
I rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate.
Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste,
E io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata.

[2] Le compagnie di navigazione, che trasportavano gli emigranti negli Stati Uniti d’America, avevano i loro agenti disseminati ovunque. Erano gli stessi agenti che, in molti casi, anticipavano ai più disgraziati il danaro per il biglietto con un salatissimo tasso d’interesse.

I milioni di europei, che, in pochi decenni, attraversarono l’Oceano, rappresentarono per le compagnie di navigazione, grandi e piccole, la possibilità di ingenti profitti, in tempi brevi, rispetto agli investimenti.
Anche in Italia,  le compagnie armatoriali crearono una fitta rete di agenti  per accaparrarsi gli emigranti. Coloro che volevano abbandonare l’Italia erano moltissimi e le tangenti che gli armatori pagavano, per ogni biglietto venduto, erano elevatissime.
Il governo, in seguito alle ripetute denunce di abusi e truffe fu costretto a diffondere una serie di opuscoli per mettere in guardia gli emigranti. In uno di questi si legge:
“Il vettore è tenuto a non chiedere altro che il prezzo del biglietto e in caso di infrazione a pagare il doppio del prezzo del biglietto, o a risarcire i danni.”
Nel 1900, gli investimenti delle compagnie di navigazione europee avevano, già, raggiunto i 118 milioni di dollari.
Si trattava di investimenti che rendevano bene!
Il costo del biglietto si aggirava, mediamente, sulle 150 lire per arrivare a 190 lire per le navi migliori, una cifra che corrispondeva, nel 1904, a 100 giornate lavorative di un bracciante agricolo.
Uno dei motivi che spiega il crescente numero di emigranti che si recavano negli Stati Uniti d’America e l’affollamento eccessivo delle navi è il costo ridotto del biglietto via mare. All’epoca, per viaggiare in terre così lontane si spendeva notevolmente meno che per viaggiare in Europa. 
Ma le navi, che gli agenti delle compagnie di navigazione descrivevano agli emigranti, non erano, certo, le carcasse utilizzate alla bisogna da imprenditori navali privi di scrupoli!

domenica 24 giugno 2018

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LE JOURNAL DU 23 AVRIL 2018 : MACRON, LOI ASILE-IMMIGRATION, PRISONS

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL'ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO alla scoperta del Nuovo Mondo ARGENTINA I. La Tripla A: un nome che semina morte