“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 14 giugno 2015

SOCIETA' SEGRETE III. I SAMURAI 3. CHANOYU, L'ARTE DEL TE' di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.

He who controls the present controls the past.”

George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE


“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”

Franklin D. Roosevelt


de la part d’un pauvre ronin, moi
 












[…]
Vous avez vécu des moments très difficiles, commandant et je comprends que votre état d’esprit est changé. N’oubliez jamais qu’à la MOC, nous sommes tous solidaires. C’est pour cette raison que je suis ici avec vous, au risque de passer à la trappe. C’est pour cette même raison que vous avez déserté. Vous voulez retrouver votre chef au péril de votre vie et de votre carrière. J’ai décidé de vous aider au mieux de mes possibilités. Si on découvre jamais que nous avons allègrement transgressé les règlements – et on le saura certainement – ça sentira mauvais pour nous deux! Je ne sais plus qui a dit que la vie est une marmite de merde de laquelle chaque jour, il nous faut ingurgiter une cuillerée. Je pense que sur ce coup-ci, on aura droit à une pleine louche. Vous êtes un vrai samouraï, commandant. Je ne suis qu’un pauvre ronin, mais nous sommes faits du même bois. Vive la MOC. Vive Sa Majesté l’Empereur!
[…]
Max-Maxence
OPERATION BERBERA
Une aventure des officiers de la Michiko Ogura Corporation


  A moi
Daniela Zini

A moi, qui vis loin de chez moi,
Quelle que soit la raison,
Quelle que soit la saison,
Qui aimerais rentrer à la maison.
Je parle d’une enfance.
Je parle d’une chance.
Fugue sur fugue,
Coups sur coups,
Voilà mon parcours!



 Une  carte du monde qui n’inclurait pas l’Utopie
n’est pas digne d’un regard.

Oscar Wilde

Les utopies apparaissent comme bien plus réalisables qu’on ne le croyait autrefois. Et nous nous trouvons actuellement devant une question bien autrement angoissante: comment éviter leur réalisation définitive?
L’homme n’est homme que dans le mouvement qui le porte vers lui-même. Utopie rappelle aux hommes que le lieu parfait n’existe pas dans l’histoire, qu’il est ailleurs, irréductible à toutes les cités humaines, mais inconcevable en dehors d’elles, comme irréductible à tout autre est le lieu d’intériorité où les hommes s’affranchissent de leurs certitudes, s’indignent de leurs défaillances, renoncent au mirage du meilleur des mondes pour concevoir le projet d’un monde meilleur.

La tête et le genou ne me font mal que lorsque j’essaie de marcher.
Allongée, je n’éprouve aucune douleur.
Je reste donc au lit et je rêve les yeux ouverts.
Mon enfance se détache de plus en plus clairement dans ma mémoire, comme si les années s’accumulaient sur toutes les autres époques de ma vie, en n’épargnant que le commencement.
Tout est net au lointain.
J’avais l’initiative des évasions, les après-midi d’été quand tout le monde reposait dans la maison, les volets clos, enfouis dans la profonde fraîcheur des chambres. On m’obligeait à me coucher ou, au moins, à passer deux heures allongée, les jours de canicule. Moi, je faisais semblant de dormir et quand tout bruit avait cessé, je sortais par la fenêtre, en invitant Adèle à me suivre. Pieds nus, pour ne pas nous faire entendre, nous traversions en grimaçant de douleur la cour pavée dont les pierres chauffaient à blanc sous le soleil. Nous entrions dans le verger, par une porte en bois, qu’on ouvrait avec mille précautions car elle grinçait à vous casser les oreilles et pénétrions dans le royaume interdit. Le verger bruissait d’insectes et d’effluves, on le voyait mûrir presque et s’épandre au soleil comme un pain à la chaleur du four.
La première tentation était le figuier, tout au fond du verger où en grimpant sur les branches lisses nous faisions fuir les lézards. Nous choisissions toujours les figues larmoyantes, déjà piquées par la langue des lézards, et dont le jus formait en coulant une larme claire au bout inférieur du fruit. La douceur chaude me remplissait la bouche et toute ma vie se concentrait dans cette sensation de bonheur, de paix, de satisfaction suprême que j’allais retrouver plus tard dans l’Amour.
Nous abandonnions vite le figuier, car ses feuilles rares laissaient passer le soleil qui nous mordait la nuque. Nous passions donc, les paumes chargées de figues, sous les voûtes fraîches de la vigne, nous prenions les grappes mûres en les détachant d’un coup sec et précis, là où la tige formait une enflure, comme un nœud fragile, nous nous asseyions dans l’herbe pour croquer à l’aise, entre les dents, les grains savoureux.
Deux grains de raisins et une figue.
C’était la règle.
Puis deux figues et quatre grains, et ainsi de suite.
C’était un festin en proportion géométrique.
Nous n’en pouvions plus.
Le ventre pesait sur mon corps comme un poids qui ne m’appartenait pas.
Les cigales, ivres de chaleur, faisaient vibrer l’air élastique.
Nous parlions garçons, poésie, j’éblouissais mon Amie de mes connaissances.
Je trouvais des rimes à tout et j’inventais des histoires.
Elle admirait mes poésies et savait que j’aurais été l’une de celles qui, tôt ou tard, auraient choisi le chemin de la liberté. Elle ne me l’a jamais dit, mais je n’avais pas de peine à le lire dans son cœur.
Elle n’a pas changé.
La vie éternelle ne laisse pas de traces sur les visages! 
Ces deux heures paraissaient sans fin, tant elles coulaient lentement, sous le temps de l’enfance.
Nous sautions la palissade, au fond du verger et nous nous trouvions sur une place, peu fréquentée, déserte à cette heure, où poussait l’herbe parmi les pierres du pavé.
C. dormait dans le grande silence, bercée par le chant des cigales.
Nous étions les seuls êtres vivants au milieu d’un village qui nous appartenait.
L’enfance nous pesait comme une honte. Le temps qui nous séparait encore de l’âge des adultes nous semblait immense et insupportable.
J’avais envie de pleurer, de rage et de désir. 
Pythagore disait que la vie est divisée en quatre périodes:
“L’enfance, jusqu’à vingt ans; l’adolescence, de vingt à quarante ans; la jeunesse, de quarante à soixante; et la vieillesse, de soixante à quatre-vingts.
J’ai perdu ma jeunesse à vingt ans, au moment où, selon lui, elle ne fait que commencer.
Le soleil est encore haut dans le ciel.
Et moi, je sens la même ferveur, la même audace qu’un jeune général avant sa première bataille.

D





Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 



  


SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini


III. I SAMURAI
di
Daniela Zini

HANA WA SAKURA GI
HITO WA BUSHI[2]

 

Fino all’XI secolo, erano chiamati samurai i soldati di guardia al palazzo imperiale. Questo nome fu, poi, esteso, anche, a coloro che combattevano per mestiere. Nel Medioevo, divenendo vassalli dei daimyo, nobili signori feudali, i samurai formarono una vera e propria casta. I Tokugawa, che avevano creato una gerarchia di quattro caste: guerrieri-funzionari, contadini, artigiani e mercanti, fecero dei samurai, guerrieri-funzionari, una nuova e chiusa aristocrazia, culturalmente abbastanza elevata e tenuta rigorosamente in disparte dalle altre classi. Soggetto a severe regole, in cui erano stati fusi confucianesimo e buddismo, il samurai doveva conoscere e osservare il non mai scritto codice morale, filosofico e religioso, il bushido[3], che mirava a migliorare l’individuo attraverso la onestà, la giustizia, la gentilezza, la insensibilità al dolore fisico e, soprattutto, al culto della fedeltà e della lealtà assolute verso il proprio nobile signore.
Debito morale che lo impegnava, pena l’onore, a vendicarne la morte a costo della propria vita.
I samurai vivevano con le famiglie nelle terre circostanti il castello del loro nobile signore. Portavano quale segno distintivo gli emblemi familiari e per simboli sacri due spade, una lunga, katana, e una corta, wakizashi, che non dovevano, mai, lasciare. Quando, nel 1869, i feudi furono aboliti e i daimyo nominati governatori dei loro domini, al nuovo governo imperiale [Meiji] non fu facile liberarsi dei samurai, che formavano il 6% della popolazione e presiedevano sia il potere militare sia gran parte della vita politica e culturale. Abolita la loro classe di aristocratici guerrieri privati della spada, molti samurai si incorporarono nelle caste nobiliari, alcuni rimasero nei posti direttivi del nuovo governo, altri divennero uomini di affari o insegnanti. I più giovani affollarono i quadri del nuovo esercito, della marina da guerra e della polizia. La maggioranza si riversò, tuttavia, nella massa dei lavoratori e, nel giro di una generazione, cadde ogni distinzione tra samurai e cittadino comune. Ma gli irriducibili, i non rassegnati non mancarono. Unitisi in gruppi ribelli, provocarono, spesso, rivolte e disordini nei domini dei nuovi capi. La loro più grave sfida al governo avvenne, nel 1877, e fu l’ultima. I coscritti del servizio militare, istituito cinque anni prima, li sconfissero duramente, facendo crollare, per sempre, il vecchio mondo dei samurai.    


Sapere uccidere e sapere morire era il credo dei samurai. Per questa casta, la spada simboleggiava “l’anima dei samurai” e il fiore di ciliegio la disponibilità al sacrificio della vita. Il loro tramonto iniziò, nel XVI secolo, quando l’arma bianca fu eclissata da nuove tecniche di guerra. Sono stati i kamikaze gli ultimi eredi dei samurai.




Invictus
William Ernest Henley

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.[4]



“La memoria è come un coltello: ti potrebbe ferire.”

Murasaki Shikibu


3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
 

Il tè è ottenuto dalle foglie giovani della Camellia sinensis, un piccolo arbusto sempreverde, che può raggiungere 12 metri di altezza,  appartenente alla classe delle Dicotiledoni, all’ordine delle Guttiferales e alla famiglia delle Theacee.

 Camellia sinensis

Qui, tuttavia, non intendiamo soffermarci sulle proprietà dell’infuso di tali foglie, ma sul Chanoyu, l’Arte del té.
Sarebbe necessario chiarire, qui, che cosa sia lo Zen – impresa disperata per noi occidentali! – perché lo Zen non ha regole né catechismi, non è religione e non è filosofia, si può conoscerlo veramente solo sperimentandolo.
Nel Daodejing[5], Il Libro della Via e della Virtù, si legge:
Chi sa non parla, chi parla non sa.
In sostanza, lo Zenismo rafforza gli insegnamenti del Taoismo [Zen, in sanscrito, significa meditazione] e il Taoismo è considerato l’arte di stare al mondo, perché si occupa del presente, di noi stessi, in un continuo sforzo di adattamento all’ambiente, accettandolo come è, cercando la bellezza in un mondo di sofferenza.
Alan Wilson Watts [1915-1973], autore di un eccellente libro sullo Zen, The Way of Zen [1957], La Via dello Zen, afferma che, se il Cristianesimo è il vino e l’Islam il caffé, il Buddismo è, con assoluta certezza, il té.
Se riflettiamo sul fatto che la meditazione era considerata una delle sei vie che conducono allo stato di Buddha, comprenderemo meglio l’importanza del té nella Storia dell’Estremo Oriente.
 

Lu Yu [733-804 d.C.]



Lu Yu [733-804 d.C.]
Da quando l’Oriente cinese e giapponese ha creato una estetica sulle foglie della pianta chiamata Camellia sinensis e ha coltivato fino alla più squisita perfezione il rito della degustazione dell’infuso, molti trattati sono stati scritti sulla difficilissima arte di preparare il tè, ma uno solo è rimasto nei secoli l’archetipo, la summa del sapere, la base di tutti i testi: il Chajing, Il Canone del Tè, il più antico e il più importante trattato al mondo sulla coltivazione, la preparazione, l’uso e gli echi letterari del tè.
Fu composto intorno al 758 d.C., sotto la Dinastia Tang, dal letterato e poeta Lu Yu, che con questo libro dette un fondamentale impulso alla cultura del tè e ne fissò lo spirito.
Alieno da ogni preoccupazione per l’esteriorità, Lu Yu insegna che le circostanze e il luogo della degustazione non sono che accessori, ed è, quindi, possibile variare l’etichetta in accordo all’ambiente, al numero degli ospiti e al loro rango: accanto a un torrente tra i pini, si può fare a meno di molte cose, “ma se, in una città, alla presenza di un re o di un duca, manca anche uno solo dei ventiquattro strumenti prescritti, allora è meglio rinunciare del tutto a preparare il tè”. La perfezione, infatti, va ricercata, essenzialmente, nella scelta accurata degli ingredienti e degli strumenti, nell’attento rispetto delle procedure di preparazione e nell’accorto equilibrio tra gli elementi che vengono chiamati in causa – l’acqua, il fuoco, il legno, il metallo, la terra – per rispecchiare in una tazza di tè l’ordine che governa l’Universo.
Le pagine de Il Canone del Tè, che l’autore consigliava di ricopiare su rotoli di seta da appendere alle pareti per non perderlo, mai, di vista e ricordare, costantemente, ogni aspetto della materia del trattato, si configurano, così, come un affascinante e rigoroso manuale tecnico di milleduecento anni fa e costituiscono un’opera di sottile poesia e un sacro testo dell’Antico Oriente.

Originaria del Sud della Cina, la pianta del té era altamente apprezzata per le sue virtù: alleviava la fatica, dilettava l’anima, rafforzava la volontà e, perfino, la vista. Sovente, era, anche, applicata quale rimedio esterno, se ne ricavava, infatti, una pasta per curare i reumatismi.
Tra il secolo IV e il secolo V d.C., già, i poeti cantavano la loro adorazione per la spuma di giada liquida. E gli imperatori, in ricompensa di servigi importanti, avevano l’abitudine di fare dono di ricette rare per la preparazione del tè. Eppure erano tempi in cui il tè veniva usato in maniera quanto meno strana: le foglie, trattate con il vapore e, quindi, pestate, erano, poi, messe a bollire con riso, ginepro, sale, scorza di arancia, spezie, latte e, talvolta, con cipolla. Come si usa fare, ancora, oggi, nel Tibet e presso alcune tribù della Mongolia. L’uso delle fette di limone, appreso, poi, dai russi nei caravanserragli cinesi, potrebbe essere una sopravvivenza di queste antiche ricette.
 


Sotto la Dinastia Tang [618-907][6], nel secolo VIII, visse il poeta Lu Yu[7], autore di un’opera famosa, che potremmo considerare la Bibbia del tè: il Chajing, Il Canone del Tè, arbitro del gusto nelle molte arti che, con il Chanoyu, sono, strettamente, collegate, architettura, ceramica e, soprattutto, Ikebana o Arte di disporre i fiori.
 


Lu Yu aveva scoperto nella preparazione del té, l’ordine e l’armonia che sono in tutte le cose.

“Il suolo migliore per la coltivazione del tè è quello costituito dalle rocce che il tempo ha eroso fino a farne sabbia. La pianta cresce abbastanza bene anche sulla ghiaia, mentre il meno adatto al suo sviluppo si rivela il terreno argilloso.
È raro che l’arbusto del tè cresca bene, se non è coltivato da mani esperte. Il seme va piantato come quello di una zucca. Dopo tre anni si può procedere al primo raccolto.
Il tè proveniente da terreni incolti è migliore di quello che proviene dai  giardini.
Il tè a foglie violette che cresce all’ombra di  un bosco su un pendio esposto al sole è migliore del tè a foglie verdi.
Le foglioline più piccole, simili a germogli di bambù, sono migliori delle foglie più sviluppate.
Le foglie accartocciate sono migliori di quelle lisce.
Il tè, che cresce sui pendii orientati a mezzanotte, non merita di essere raccolto. Esso tende a ristagnare nello stomaco e a ostruire l’intestino.
Quando viene assunto a fini terapeutici, il tè appartiene alla categoria delle “medicine fredde”.
Come bevanda, esso va molto bene per le persone attente, capaci, frugali e virtuose.
In presenza di febbre, sete, senso di oppressione al petto, mal di testa, occhi secchi,  pesantezza delle braccia e delle gambe e rigidezza delle articolazioni, bastano  cinque o sei sorsi di tè per produrre un effetto tonificante come quello  della dolce rugiada caduta dal cielo.
Qualora il tè sia stato raccolto fuori stagione o non sia stato trattato correttamente o, ancora,  sia stato mescolato con altre erbe, il suo consumo può provocare indisposizioni e indigestioni.”

Il Chajing è diviso in 3 libri e 10 capitoli. Il primo libro racchiude i primi tre capitoli, il secondo solo il quarto e il terzo i restanti sei.
Il primo capitolo, Origine [一之源],  è dedicato alla natura della pianta del tè.
Il secondo, Strumenti [二之具], descrive gli utensili più idonei alla raccolta delle foglie.
Il terzo, Preparazione [三之造], raccomanda la scelta delle foglie, che debbono piegarsi come gli stivali di cuoio dei cavalieri tartari, torcersi come le corna di un poderoso bue, svolgersi come la nebbia che sale dai fossati, luccicare come lago sfiorato dallo zeffiro, essere umide e molli come terra di fresco bagnata dalla pioggia.
Nel quarto, Strumenti [四之器], sono elencati e descritti i ventotto pezzi necessari per preparare il tè, dal treppiede per la teiera, allo scrigno nel quale si conservano gli utensili. Da Lu Yu sono descritti anche colori e qualità delle porcellane, nelle quali il tè veniva servito. Colore ideale era l’azzurro che dava al liquido una tinta verdastra. Ma, al tempo di Lu Yu, il té era ancora usato in pasta. In seguito, quando i Maestri del tè introdussero l’uso di quello in polvere, si preferirono ciotole blu o marrone. Sotto i Ming, le tazzine furono di porcellana bianca.
Nel quinto capitolo, Ebollizione [五之煮], si leggono le regole per la perfetta preparazione del té. Abolito ogni altro ingrediente eccetto il sale, si insiste sulla questione della scelta dell’acqua e del grado di ebollizione. Stabilito che l’acqua di montagna è la migliore, segue la delicata, stupenda descrizione dei tre gradi di ebollizione:
-          primo grado: quando piccole bolle, simili a occhi di pesce, iniziano a salire alla superficie;
-          secondo grado: quando le bolle zampillano come perle di cristallo in una fontana;
-          terzo grado: quando l’acqua si agita con furia.
Ed ecco la preparazione, secondo Lu Yu: si faccia arrostire la pasta del tè vicino al fuoco e la si polverizzi, poi, tra due sottili fogli di carta. Al primo grado di ebollizione si lasci cadere il sale nell’acqua, al secondo il tè, al terzo si versi nella teiera un cucchiaino di acqua fredda per rendere all’acqua la sua giovinezza.
Il sesto capitolo, Degustazione [六之飲], descrive le proprietà del tè, la storia e le principali tipologie conosciute nel secolo VIII d.C.
Il settimo, Storia [七之事], raccoglie alcune delle numerose leggende cinesi sull’origine del tè, da Shennong[8] alla Dinastia Tang.
L’ottavo, Regioni di coltivazione [八之出], si sofferma sulle aree di coltivazione e sulla comparazione tra le diverse qualità di tè secondo la loro provenienza.
Il nono, Semplificazione [九之略], indica le procedure che possono essere omesse e altri metodi improvvisati, quando si è sprovvisti degli strumenti appositi.
Il decimo, Raffigurazione [十之圖], consiste in cinque pagine di seta, che riassumono i nove capitoli precedenti.
Durante la Dinastia Song[9] si iniziò a usare il tè battuto: è la cosiddetta “Seconda Epoca del Tè. Si polverizzavano le foglie in un piccolo mulino di pietra e si batteva la polvere nell’acqua calda, con un pennello di bambù. Gli utensili subirono delle modifiche e si abbandonò l’uso del sale.
L’amore per il tè sfiorò la mania: si organizzarono, perfino, tornei, nei quali vincitore era colui che preparava il tè migliore. In questa epoca, Buddisti Zen, nel Sud, si spinsero a formulare le regole per un completo rituale del tè, da cui è derivato, nel secolo XVI, il cerimoniale del tè che, importato in Giappone, vi è rimasto, invariato, fino ai nostri giorni.
La Cina, diversamente, ebbe lunghi anni di gravi disordini politici e di invasioni.
Tempi oscuri..
Terminarono le raffinatezze e si giunse alla “Terza Epoca del Tè, in cui si concepì di preparare la bevanda, mettendo le foglie in fusione direttamente nell’acqua calda. Ed è questo il modo di preparare il tè che gli europei conobbero, importarono e adottarono.
Nel corso del secolo XV, l’Oriente e il Giappone, in particolare, elevarono il tè, al rango di una vera e propria religione estetica: il Teismo, fondato sull’adorazione del bello. Vera Arte, mediante la quale, nel culto della purezza e della raffinatezza, si giunse a una funzione quasi sacra, in cui ospite e invitati cercavano di realizzare un istante di grande serenità, di grande felicità. Questa piccola cerimonia, fatta con alcuni utensili e poca acqua, ebbe il potere di sconvolgere l’architettura classica giapponese, creando uno stile nuovo.
Nacque la Camera del Tè, la Sukiya, Casetta della Fantasia, costruzione effimera per servire di asilo a sensazioni poetiche. Nei primissimi tempi, la Camera del Tè era una parte del salotto, limitata da paraventi, che la separavano dal resto dell’ambiente. Poi, il primo grande Maestro del tè, creò la Camera del Tè isolata, la Sukiya vera e propria. È questa, una stanza piccolissima, fornita di anticamera per preparare e lavare gli utensili, un portico, dove gli ospiti attendono di essere invitati a entrare, e un sentiero che unisce il portico alla Camera del Tè. I materiali, con cui la stanza è fatta, possono dare agli occidentali una impressione di sconcertante povertà; in realtà, una buona Camera del Tè costa molto più di una intera casa, poiché ogni particolare è il risultato di una raffinata tradizione artistica, e gli artigiani che lavorano per i Maestri del tè formano una particolare e stimata classe di specialisti.
Semplicità e purezza, i canoni, cui si rifa l’architettura della Sukiya, sono ispirate al modello dei monasteri Zen, che si differenziavano dagli altri, perchè erano esclusivamente abitazioni monastiche, ove la cappella era solo una sala di studio, di riunione per dibattiti ed esercizi spirituali, davanti a un disadorno altare, che ospitava la statua di Bodhidharma[10], fondatore della setta. Tale altare divenne, nella Sukiya, il Tokonoma, posto d’onore, ove vengono disposte pitture e fiori per la gioia spirituale degli ospiti.

Una speciale tradizione esterna alle scritture
Non dipendente dalle parole e dalle lettere
Che punta direttamente alla mente-cuore dell’uomo
Che vede dentro la propria natura e raggiunge la buddhità
Bodhidharma

Poiché tutti i grandi Maestri del tè furono zenisti, la Camera del Tè e tutto ciò che vi è contenuto, riflettono le dottrine Zen. Quindi, misura e disposizione degli oggetti si rifanno ai passaggi del Sutra e delle altre scritture Zen, nella maggior parte enigmatiche per noi occidentali. Il sentiero che attraversa il giardino, a esempio, simboleggia il primo stadio della meditazione, un passaggio alla chiarificazione interiore, il luogo dove cessa ogni legame con il mondo esterno. 
Chiunque ha percorso questo sentiero, non potrà dimenticare come il suo spirito si elevava al di sopra dei pensieri comuni camminando, nella penombra delle folte piante sempreverdi, sulla regolare asperità della ghiaia… seguendo le lanterne del granito coperte di muschio. Anche nel cuore della città si aveva la sensazione di trovarsi in una grande foresta.,
scrive Kakuzo Okakura[11], vissuto tra il 1862 e il 1913, ardente difensore delle tradizioni e dei costumi giapponesi.
Se l’ospite era un samurai, lasciava la sua spada nel portico, perché la Camera del Tè è anche la Casa della Pace.
Nella Sukiya si entra curvandosi, perché la porta è alta solo tre piedi: tale modo di entrare è precetto di umiltà.
Quando, in silenzio, gli ospiti sono entrati salutano il Tokonoma e si siedono.
Dopo giungerà il Maestro.
Regna il silenzio e si sente la musica dell’acqua che bolle dentro la teiera di ferro nella quale dei pezzetti di metallo producono, con l’ebollizione, una melodia arcana.

Ci si può ritrovare l’eco remota di una cataratta o di un mare che, lontano, si frange sugli scogli, o anche di un temporale che fa tremare la foresta di bambù, oppure, infine, il sospiro dei pini, sulla collina.[12]

Anche in pieno giorno la luce è filtrata dal tetto spiovente. I colori sono sobrii, sia nell’ambiente sia nell’abbigliamento dei partecipanti alla cerimonia.
Niente luccica come se fosse nuovo, tranne il lungo cucchiaio di bambù, e l’asciugatoio è immacolato.
Ogni cosa è pulitissima e il tutto personalmente curato dal Maestro del tè, dal pavimento agli oggetti più preziosi, perché anche quella di spazzare e pulire è un’Arte, ricca anch’essa di tradizione, storia e aneddoti.
Il recipiente per il tè è, sovente, di argento o anche di lacca nera;  talvolta, si adoperano vecchi vasi per medicinali, tutti oggetti scelti dal Maestro per la loro bellezza.
Bevuto il tè, gli ospiti possono, se lo desiderano, esaminare gli utensili per poterne apprezzare la bellezza.
Lo Zenismo, al pari del Buddismo, considerava la casa come rifugio temporaneo del corpo e ciò viene suggerito dalla fragilità della Sukiya: tetto di paglia, travi di bambù, esili colonnine. Con ciò non è detto che lo Zen fornisca modelli precisi da ripetere nel corso degli anni; al contrario, è prescritto che la Casa del Tè debba essere costruita per adattarsi al gusto individuale e, pertanto, non vi sono, né vi furono due Sukiya eguali.
La Camera del Tè è completamente vuota [un altro dei suoi molti nomi è Casa del Vuoto, nome che allude al concetto Taoista dello spazio che tutto comprende].
Di volta in volta, vi si porta un oggetto d’arte, uno solo.

Non si possono ascoltare due musiche contemporaneamente, allo stesso modo non si può comprendere a fondo la bellezza, che concentrandosi su un solo motivo.[13]

Concezione insolita per gli occidentali, dei quali Kakuzo Okakura deplora la volgare ostentazione di ricchezza, che, troppo spesso, si verifica nelle loro case, convertite in musei, permanentemente piene di quadri, sculture, oggetti antichi… è già necessaria una grande dote di comprensione artistica per godere costantemente di un solo capolavoro; ma quale deve essere la capacità comprensiva di coloro che, giorno dopo giorno, vivono in mezzo a una confusione di colori e di cose!
Soggetto da proporre alla meditazione di noi occidentali, abituati a credere che si possa visitare, in un solo giorno, un intero museo!
Un altro concetto, infine, è espresso nella Casa del Tè: quello della asimmetria e, infatti, un altro nome della Sukiya è Casa della Asimmetria.
L’Arte dell’Estremo Oriente – e in ciò possiamo scorgere una ulteriore tendenza Zen – evita, deliberatamente, la simmetria, vedendo in essa, non solo la espressione del completo, ma anche della ripetizione. La concezione Taoista e Zen della perfezione è diversa dalla nostra. Per la loro filosofia è più importante la ricerca della perfezione che non la perfezione stessa.

Solo chi ha mentalmente completato l’incompleto, può scoprire la vera bellezza.[14]
 


La forza dell’Arte risiede nelle sue possibilità di sviluppo.
Nella Camera del Tè, ognuno degli invitati può, secondo i suoi gusti personali, completare con la immaginazione l’effetto dell’insieme.
Pertanto, nella Sukiya non vi sono ripetizioni.
Se la teiera è tonda il recipiente per l’acqua sarà angolato; un oggetto nero non verrà accostato a un altro dello stesso colore.
Nessuna cosa verrà collocata esattamente nel centro del Tokonoma, accanto a un fiore vivo non troveremo fiori dipinti.
A noi,
dice Kakuzo Okakura,
riesce difficile parlare con una persona [in occidente], il cui ritratto, magari in grandezza naturale, ci guarda da dietro le sue spalle… Quante volte ci siamo trovati a tavola, costretti a contemplare, non senza pericolo per la nostra digestione, le raffigurazioni dell’abbondanza con cui, in Occidente, si usa decorare le pareti delle sale da pranzo? Perchè queste esibizioni di argenterie di famiglia?
Molti sono, infatti, gli equivoci sull’Arte.
A volte, si apprezza un oggetto più per quello che costa, che per la sua bellezza; a volte, il nome dell’artista ci fa desiderare un’opera che non comprendiamo e, infine, confondiamo l’Arte con l’archeologia e teniamo in casa oggetti soltanto perché sono antichi.
I Maestri del tè erano e sono anche Maestri dei fiori. Mai un fiore viene da questi colto a caso, ma ogni ramo è scelto con cura. E con i fiori vi saranno sempre le foglie.

“Quando un Maestro del tè ha disposto un fiore in un modo che lo soddisfa, lo colloca nel Tokonoma, il posto d’onore nella stanza giapponese. Accanto a esso non metterà nulla che possa interferire con l’effetto prodotto, neppure un dipinto, a meno che non abbia un particolare motivo estetico per accostarli. Il fiore nel Tokonoma è come un principe sul trono; gli ospiti o i discepoli che entrano nella stanza lo saluteranno con un profondo inchino, prima di rivolgersi al padrone di casa. Quando il fiore appassisce lo affida teneramente al fiume, oppure lo seppellisce con ogni cura. Talvolta vengono, perfino, eretti monumenti in sua memoria.”[15]

Le leggende narrano che le prime composizioni di fiori furono opera dei vecchi saggi buddisti, che, pietosamente, raccoglievano i fiori strappati dalla tempesta e li mettevano in recipienti con l’acqua. Il Maestro prepara fiori e foglie, quando li espone sul Tokonoma, dove la composizione sta come il principe sul trono, niente vicino che possa nuocere all’effetto. E, come abbiamo detto, la composizione floreale è la prima a essere salutata dagli ospiti.
L’Ikebana, l’Arte di disporre i fiori, non si sottrae alle regole generali che presiedono all’arredamento della Camera del Tè. Difficile, a esempio, che si possano trovare fiori bianchi nella Stanza del Tè, se, fuori, vi è, ancora, la neve. Difficile anche che l’a solo sul Tokonoma sia affidato a un fiore dai colori troppo vivaci. In sostanza, il Maestro si limita alla scelta del fiore e lascia che, una volta collocato al suo posto, si esprima da sé.
Grande è il contributo portato dal Chanoyu, l’Arte del Tè, all’Arte vera e propria e a tutta la vita giapponese in generale.
Molti tra i cibi più delicati e la maniera di presentarli, la sobrietà dell’abbigliamento, il gusto per la semplicità, caratteristiche peculiari della esistenza in Giappone, provengono dagli insegnamenti dei Maestri del tè, sono nati meditando sul filo profumato del vapore, che si sprigiona dalla tazzina contenente la straordinaria bevanda.

"Nella gioia come nella tristezza, i fiori sono i nostri amici fedeli. Con i fiori mangiamo, beviamo, danziamo e amoreggiamo. Con i fiori ci sposiamo e ci battezziamo. Senza di loro non osiamo morire. Abbiamo venerato con il giglio  e meditato con il loto, ci siamo lanciati in battaglia con la rosa e il crisantemo. Abbiamo perfino tentato di parlare il linguaggio dei fiori. Come potremmo vivere senza loro? L’idea di un mondo privo della loro presenza fa paura. Quale conforto arrecano al capezzale del malato, quale luce di beatitudine nelle tenebre degli spiriti afflitti! La loro serena dolcezza ci restituisce la fiducia nell’Universo quand’essa sta per svanire, così come lo sguardo intenso di un bimbo fa rinascere in noi le speranze perdute. E quando veniamo calati nella terra, sono loro che restano a piangere sulle nostre tombe.
Per quanto triste, non possiamo nascondere che, nonostante la nostra amicizia con i fiori, non ci siamo sollevati  di molto al di sopra della condizione di bruti. Grattate via la pelle di pecora e il lupo che è in noi non tarderà a digrignare i denti. Qualcuno ha detto che l’uomo a dieci anni è un animale, a venti un pazzo, a trenta un fallito, a quaranta un truffatore e a cinquanta un delinquente. Forse, diventa un delinquente perchè non ha, mai, smesso di essere un animale. Per noi non vi è niente di reale al di fuori della fame e non vi è niente di sacro tranne le nostre brame. Tutti i templi, uno dopo l’altro, sono crollati sotto i nostri occhi; un unico altare si conserva in eterno, quello su cui bruciamo incensi all’idolo supremo: noi stessi. Il nostro Dio è grande e il denaro è il suo profeta. Ci vantiamo di aver conquistato la materia, dimenticando che è stata questa a ridurci in schiavitù. Quali atrocità siamo capaci di perpetrare in nome della cultura e della raffinatezza! "[16]    

Coloro tra noi,
dice Okakura Kokuzo,
che ignorano il segreto di adeguare la propria esistenza al tumultuoso mare di insensate irrequietudini che noi chiamiamo vita, vivono in stato di perpetua sofferenza... Noi vacilliamo nel tentativo di conservare il nostro equilibrio morale e vediamo un annuncio di tempesta in ogni nuvola che appare all’orizzonte.,
e più avanti:
Oggi l’industrializzazione rende sempre più difficile ogni vera raffinatezza. Abbiamo bisogno più che mai di Camere del Tè. Se si considera come è piccola la coppa della gioia umana e come è facile che, nella nostra inestinguibile sete dell’infinito, la vuotiamo fino al fondo, non ci si potrà fare appunto se diamo tanta importanza a una tazza di tè!,     
concludendo:   
“Oriente e Occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistare il gioiello della vita... Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose.”






The Warrior’s Prayer
Stuart Wilde

I am what I am.
In having faith in the
beauty within me I develop trust.
In softness I have strength.
In silence I walk with the gods.
In peace I understand myself and the world.
In conflict I walk away.
In detachment I am free.
In respecting all living things I respect myself.
In dedication I honour the courage within me.
In eternity I have compassion for the nature of all things.
In love I unconditionally accept the evolution of others.
In freedom I have power.
In my individuality I express the God-Force within me.
In service I give of what I have become.
I am what I am:
Eternal, immortal, universal, and infinite.
And so be it.
[17]


Daniela Zini
Copyright © 14 giugno 2015 ADZ


Vento Divino


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] TRA I FIORI IL CILIEGIO
TRA GLI UOMINI IL GUERRIERO

[3] Bushido è un termine giapponese composto da bushi [guerriero] e do [via], che significa Via del Guerriero. Il bushido si fonda su sette concetti fondamentali, ai quali il samurai deve, scrupolosamente, attenersi:

, Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero samurai non ha incertezze sulla questione della onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

, Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

, Jin: Compassione
L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere di aiuto ai propri simili e se la opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una. La compassione di un samurai va dimostrata soprattutto nei riguardi delle donne e dei fanciulli.

, Rei: Gentile Cortesia
I samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini. Il miglior combattimento è quello evitato.

, Makoto: Completa Sincerità
Quando un samurai esprime la intenzione di compiere una azione, questa è, praticamente, già, compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine la intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di "dare la parola" né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

名誉, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell’onore del samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
Per il samurai compiere una azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.
 
[4] Invincibile
William Ernest Henley

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Buia come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per l’indomabile anima mia.

Nella feroce stretta delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo d’ira e di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

[5] Il Daodejing è un testo cinese di prosa, talvolta, rimata, la cui composizione risale a un periodo compreso tra il IV e il III secolo a.C.
Il libro è di difficile interpretazione. A ciò si aggiunge il sospetto che le tavolette, da cui era composto, mal rilegate, si slegassero frequentemente, in modo tale che blocchi di caratteri si mescolassero nel tramandarlo: da qui il sorgere di numerose questioni critiche e interpretative. Il testo permette di affrontare diversi piani di lettura e di interpretazione.

[6] La Dinastia Tang [唐朝 618-907] seguì la Dinastia Sui, che aveva riportato l’unità politica in Cina, e fu seguita da un’epoca di disunione, nota come il periodo delle cinque dinastie e dieci regni.

[7] Abbandonato, alla nascita, dai genitori sulla sponda di un fiume, Lu Yu venne, fortunatamente, trovato da un abate del Monastero Zen del Dragone della Nuvola, il Maestro Chi Ch’an, che lo adottò. 

[8] Considerato il padre dell’agricoltura cinese, il leggendario imperatore Shennong o Shen Nung, il cui nome significa “Contadino Divino”, avrebbe insegnato al suo popolo come coltivare i cereali per sfamarsene ed evitare, così, la uccisione di animali. Si narra che abbia sperimentato su di sé l’efficacia di erbe e che sia l’autore del Pen Ts’ao Chin [Trattato medico o Studio delle erbe], un’opera di inestimabile valore, in cui sono evidenti le tracce dell’antica filosofia cinese del Tao, con i suoi principi eterni e immutabili, che si manifestano nei segni opposti dello ying e dello yang e nei cinque elementi naturali: terra, acqua, fuoco, legno e metallo, tra loro interconnessi. Le piante vi sono catalogate e descritte con la loro storia, le loro dosi medicinali e i loro metodi di preparazione.
Il tè, che agisce da antidoto a una settantina di erbe velenose, è considerato una sua scoperta. Secondo la leggenda, nel 2737 a.C., delle foglie provenienti da un ramoscello di tè in fiamme sarebbero cadute nel calderone, in cui stava bollendo dell’acqua.
Shen Nung è, anche, considerato il padre della medicina cinese e inventore dell’agopuntura.
 
[9] La Dinastia Song regnò sulla Cina dal 960 al 1279. La sua fondazione riportò l’unità politica in Cina, che si era persa con la caduta della Dinastia Tang, nel 907. Gli anni compresi in questo intervallo sono noti come il periodo delle cinque dinastie e dieci regni.

[10] Bodhidharma [483 d.C. circa-540 d.C.] è stato un monaco buddista indiano.

[11] Kakuzo Okakura, discendente di una famiglia di samurai, studiò alla Tokyo Imperial University, cuore a quei tempi della occidentalizzazione del Giappone, dove, tuttavia, scoprì il valore della tradizione nipponica. Consacrò, quindi, la propria vita alla missione di tutela della civiltà, dei modi di pensiero e di vita dell’Oriente contro l’Occidente. Fondò il Japan Art Institute e visse, per lungo tempo, negli Stati Uniti, dove fu accolto con entusiasmo e divenne consulente del Museum of Fine Arts di Boston.

[12] Kakuzo Okakura, Lo Zen e la Cerimonia del Tè.

[13] Kakuzo Okakura, Lo Zen e la Cerimonia del Tè.

[14] Kakuzo Okakura, Lo Zen e la Cerimonia del Tè.

[15] Kakuzo Okakura, Lo Zen e la Cerimonia del Tè.

[16] Kakuzo Okakura, Lo Zen e la Cerimonia del Tè.

[17] La preghiera del guerriero
Stuart Wilde

Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me, sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli dei.
In pace comprendo me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente, rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di me.
In eternità ho pietà per la natura di tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza Divina che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.
E così sia.