“On voyage pour changer, non de lieu, mais d’idées.”
Hippolyte Taine [1828-1893]
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLA ROTTA
DI CRISTOFORO COLOMBO
“La lingua non è
sufficiente a dire e la mano a scrivere tutte le meraviglie del mare.”
Cristoforo Colombo
[1451-1506]
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
alla scoperta del Nuovo Mondo:
ARGENTINA
I. La Tripla A: un nome che semina morte
Se una Rosa Smarrita è l’inizio della
Primavera, un Amico Ritrovato è la fine della separazione.
Un Amico ci consiglia, ci guida e,
spesso, anche ci nutre.
Questo giornale di bordo è dedicato al
mio Amico Ritrovato.
“Le voyage n’est nécessaire qu’aux imaginations courtes.”
Colette
[1873-1954]
L’avventura umana non ha più orizzonti
geografici. Non ha più continenti vergini, più oceani sconosciuti, più isole
misteriose. E, tuttavia, i popoli restano, per molti aspetti, stranieri gli uni
agli altri e i costumi, le speranze segrete, le convinzioni intime di ciascuno
di loro continuano a essere, largamente, ignorate dagli altri.
Ulisse non ha, dunque, più uno spazio
fisico da percorrere, ma una nuova odissea da intraprendere, urgentemente:
l’esplorazione dei mille e un paesaggio culturale, dell’infinita varietà dei
pensieri e delle saggezze viventi; la scoperta delle molteplicità dell’uomo.
Nella Grecia Antica, lo straniero era
accolto come un inviato degli Dei.
Nell’India rurale contemporanea, è,
sempre, ricevuto come una divinità.
Tra i beduini, diviene il protetto del
suo ospite e del suo clan. Dividere
con lo sconosciuto di passaggio il pane e il sale, sedersi accanto al fuoco o
all’ombra di una veranda, offrirgli un giaciglio, per la notte, sono, dall’alba
dei tempi, un dovere sacro.
Nel tempo in cui non era, ancora,
protetto da leggi, lo straniero poteva, grazie all’ospitalità, trovare rifugio
in una casa o in una città.
Nelle regioni dal clima rude, dalla
natura ostile – deserti, alte montagne, steppe – l’ospitalità era una necessità
vitale.
Con lo sviluppo degli scambi e dei
viaggi su vasta scala, l’ospitalità si è estesa ai pellegrini, ai mercanti,
agli agenti diplomatici, che si garantivano dalle esazioni, le violenze.
I grandi viaggiatori, quali Marco Polo
o Abu ‘Abd Allah Mohammad ibn
Battuta, ci offrono, nei loro racconti, molteplici esempi di ospitalità loro
accordata, senza la quale non avrebbero potuto attraversare l’Europa, l’Africa
o l’Asia.
Dell’ospitalità di un tempo, che sussiste,
oggi?
Persiste ancora, forse, una
convivialità erosa dalla vita frenetica delle grandi città, dalla mancanza di
spazio vitale, dalla banalizzazione dei viaggi, dal turismo di massa. Ma,
soprattutto, l’ospitalità è istituzionalizzata, entra nelle leggi, diviene più
anonima. Trattati bilaterali e convenzioni internazionali supportano lo status di straniero, nell’esilio o
l’immigrazione, salvaguardano la sua persona e i suoi diritti.
Così, la tradizione di ospitalità
sposa i nuovi valori della libertà e della democrazia.
Nei principi, in ogni caso, se non
sempre nei fatti.
Lo straniero si scontra, infatti,
molto sovente, con l’incomprensione e il disprezzo della società dove passa.
Daniela
Zini
The Men Who Don't Fit In
Robert William Service [1874 -1958]
There’s a race of men that don’t fit in,
A race that can’t stay still;
So they break the hearts of kith and kin,
And they roam the world at will.
They range the field and they rove the flood,
And they climb the mountain’s crest;
Theirs is the curse of the gypsy blood,
And they don’t know how to rest.
If they just went straight they might go far;
They are strong and brave and true;
But they’re always tired of the things that are,
And they want the strange and new.
They say: “Could I find my proper groove,
What a deep mark I would make!”
So they chop and change, and each fresh move
Is only a fresh mistake.
And each forgets, as he strips and runs
With a brilliant, fitful pace,
It’s the steady, quiet, plodding ones
Who win in the lifelong race.
And each forgets that his youth has fled,
Forgets that his prime is past,
Till he stands one day, with a hope that’s dead,
In the glare of the truth at last.
He has failed, he has failed; he has missed his chance;
He has just done things by half.
Life’s been a jolly good joke on him,
And now is the time to laugh.
Ha, ha! He is one of the Legion Lost;
He was never meant to win;
He’s a rolling stone, and it’s bred in the bone;
He’s a man who won’t fit in.
“Qui
all’osservazione dei fatti si mescola necessariamente un certo grado di
immaginazione poetica. Una civiltà è, infatti, la trasposizione traslucida che
un Popolo fa di se stesso nell’infinito; è simile al cono d’ombra che
l’inconsapevole terra proietta negli spazi. La formano le forze inconsce, e le
visioni che ne nascono.”
Guido Piovene
[1907-1974], De America
Per la Nazione americana il decennio più
tormentato della sua storia dopo l’unificazione e il New Deal è, certamente, quello che va sotto la denominazione di Sixties, anni Sessanta. Una rivoluzione
di carattere politico, economico, sociale, intellettuale, artistico e
nichilistico, dalle diramazioni più sottili e tentacolari, è in atto sia nella
vita del sottosuolo sia alla luce aperta e in sé avvolge, travolge e rigenera
vecchie istituzioni e coscienze, modi di vivere, di pensare, di agire, di
ribellarsi e, in pratica, di essere.
Gli anni 1960 hanno generato e testimoniato di un
confronto a viso aperto, dalle corte sfumature tragiche, tra America e Russia
sul pretesto di Cuba, America e Asia del Sud-Est sulla tragedia del Vietnam, America
ed Europa sulla politica finanziaria del dollaro e dell’oro; dell’assassinio di
un presidente; dell’assassinio di un senatore; dell’assassinio di uno dei più
grandi fautori dei diritti sociali, civili ed economici per l’uomo di colore;
della recrudescenza della violenza nel ghetto, alla televisione e
sull’autostrada percorsa da centinaia di moderni selvaggi in motocicletta;
della lotta razziale; del misticismo lisergico; della droga e degli assassinii
più freddi e assurdi; della protesta degli studenti nei campuses delle università e, infine, del clero, la lotta della
sinistra cattolica americana contro le antiche impalcature della Chiesa, per
una riforma ancora più radicale di liturgia e attitudine di quelle, già, proposte
dal Concilio Ecumenico Vaticano II.
L’America è uno strano Paese, ma è, soprattutto
un Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È un Paese in crisi.
È il riflesso e, perfino, il quadrante di tutto
un mondo in crisi.
I suoi peccati, smisuratamente grandi quanto le
sue virtù, sono i peccati dell’idealismo e della democrazia, ma sono anche i
peccati di un sistema economico-politico-tecnologico, che investe
responsabilità extra umane, astratte, mondiali, senza via di uscita,
apparentemente. Il peccato originale dell’America è quello di essersi accollata
i guai di molta gente, di molti Popoli. Ma dal paternalismo idealistico allo
sfruttamento e alla schiavitù corporativistica il passo è breve.
L’ingiustizia è molto più palese della Giustizia.
E l’ingiustizia, non solo in America, assume le
forme del fascismo quando si intende conservare lo status quo.
Non vi sono più nomi, ormai, da offrire al
disprezzo della Storia.
Coloro che hanno un nome sono, oggi, le prime
vittime, i primi a cadere.
Il carnefice è impersonale.
È la macchina.
Il mondo assurdo di Albert Camus [1913-1960]
troverebbe una giustificazione nel mondo carnale del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade [1740-1814].
Ma neppure questo esiste.
E allora?
Che fare?
Dove andare?
Come vivere?
Rileggiamoci Niccolò Machiavelli [1469-1527], se
vogliamo trarre conclusioni più precise e drastiche.
Questo giornale di bordo è fatto di umori e
malumori.
Si è fatto da sé negli anni e riflette le poche
gioie e i molti travagli di una viaggiatrice europea all’alba di un nuovo
millennio sulla rotta di Cristoforo Colombo.
È un giornale di crisi in anni di crisi.
alla scoperta del Nuovo Mondo:
PERU’
I. Il Nido del Falco Felice
Piedra negra sobre una piedra blanca
César Abraham Vallejo Mendoza [1892-1938]
Me moriré en París con aguacero,
Un día del cual tengo ya el recuerdo.
Me moriré en París – y no me corro –
Tal
vez un jueves, como es hoy, de otoño.
Jueves
será, porque hoy, jueves, que proso
Estos
versos, los húmeros me he puesto
A la mala y, jamás como hoy, me he
vuelto,
Con todo mi camino, a verme solo.
César Vallejo ha muerto, le pegaban
Todos sin que él les haga nada;
Le daban duro con un palo y duro
También con una soga; son testigos
Los
días jueves y los huesos húmeros,
La soledad, la lluvia y los caminos…
Sacsayhuamán
Sacsayhuamán
[in quechua Saksaq Waman,
Falco Felice] è
il nome che gli Inca diedero alla grandiosa fortezza da loro eretta sulla
sommità di una catena montagnosa, che domina la via di accesso a Cuzco e si eleva a circa 4mila
metri di altezza.
“Sacsayhuamán supera tutte le sette meraviglie del mondo
antico. Se, infatti, si può dire in quale modo siano sorte le Piramidi, il
Colosso di Rodi, i Giardini Pensili di Babilonia, tutto in Sacsayhuamán è un mistero.”,
scrive Garcilaso de la Vega [1539-1616], il
primo storico peruviano.
Cuzco - Plaza de Armas
Cuzco - Plaza de Armas
Para el alma imposible de mi amada
César Abraham Vallejo Mendoza
Amada: no has querido plasmarte jamás
Como lo ha pensado mi divino amor.
Quédate en la hostia,
Ciega e impalpable,
Como existe Dios.
Si he cantado mucho, he llorado más
Por ti ¡oh mi parábola excelsa de amor!
¡Quédate en el seso,
Y en el mito inmenso
De mi corazón!
Es la fe, la fragua donde yo quemé
El terroso hierro de tanta mujer;
Y en un yunque impío te quise pulir.
Quédate en la eterna
Nebulosa, ahí,
En la multiesencia de un dulce no ser.
Y si no has querido plasmarte jamás
En mi metafísica emoción de amor,
Deja que me azote,
Como un pecador.
Sacsayhuamán
E noi possiamo aggiungere alle sue parole, che
neppure, oggi, gli studiosi siano riusciti a svelare il mistero che avvolge la
costruzione del Nido del Falco.
La leggenda vuole che la poderosa fortificazione sia
stata costruita da giganti, all’epoca del diluvio, ma gli studiosi hanno
accertato che fu eretta dall’uomo, nel XV secolo. A quel tempo, regnava sugli
Inca il re Pachacútec
Yupanqui, il quale per difendere la capitale e città sacra per eccellenza,
Cuzco, da ogni possibile attacco proveniente dal Nord, volle costruire una
possente fortificazione.
Sacsayhuamán è una muraglia di tipo megalitico, ossia a
immense pietre perfettamente squadrate, poste l’una sull’altra senza l’aiuto di
fango, né di malte di genere alcuno.
Narra, ancora, la leggenda che alla erezione della
fortezza abbiano lavorato ben tre generazioni di operai, non schiavi, ma uomini
liberi, sottoposti, tuttavia, secondo il sistema di governo incaico, a un lavoro
obbligatorio. Oltre 50mila uomini si alternarono nell’immane fatica, senza
l’aiuto di animali. Con il solo utilizzo di enormi corde, di gigantesche
grossolane leve, questi sventurati sollevarono fino all’immane altezza di 4mila
metri blocchi di pietra, talvolta, alti 6 metri e larghi fino a 3 metri.
Schiere di operai di ogni età si dovettero succedere
per le impervie vie di montagna, trascinando solo con la forza dei propri
muscoli e della propria disperazione, le gigantesche pietre di granito. E, se
moltissimi massi giunsero al loro posto e furono sistemati sulla muraglia con
una tale perfezione, che tra masso e masso non è possibile introdurre la lama
di un coltello, moltissime pietre non giunsero mai a destinazione. Chi sale,
oggi, per queste regioni, vede sovente, lungo la via, enormi macigni
sprofondati nel terreno. E chi ne chiede la provenienza ai nativi, si sente
rispondere che sono le “pietre stanche”. Una definizione quanto mai poetica,
per ricordare che quelle sono le pietre che gli operai non riuscirono mai a
portare a destinazione. Sopraffatti dal loro immane peso, di tanto in tanto,
perdevano, evidentemente, le forze e rimanevano schiacciati senza possibilità
di salvezza dai massi, che precipitavano lungo i ripidi pendii.
Sacsayhuamán
Pietra dopo pietra, fatica dopo fatica, giorno dopo
giorno, decennio dopo decennio, migliaia di uomini faticarono, sudarono,
morirono per costruire la loro fortezza e realizzarono un’opera grandiosa e
immane.
La
fortezza di Sacsayhuamán è costituita
da tre immense mura megalitiche di granito, che, ancora oggi, impressionano i
visitatori per la loro grandezza. Dal lato dell’antica Cuzco, per l’estrema
impraticabilità del terreno, si pensò che un solo muro fosse sufficiente alla
difesa. Sugli altri lati, invece, le tre muraglie sono di altezza discendente
verso l’esterno, e si estendono per circa 3 chilometri.
All’interno della fortificazione si ergono tre immense torri, alte più di 20 metri, una rotonda e le
altre due di forma quadrata. Al di sotto si estendono, per chilometri, sale,
corridoi, opere difensive che, in buona parte, gli archeologi non sono ancora
riusciti a studiare.
L’impressione che suscita ai visitatori l’insieme
della fortificazione è veramente straordinaria e studiosi di ogni epoca e di
ogni Paese, da archeologi a ingegneri, ancora oggi si chiedono, esterefatti,
come abbiano potuto uomini, con la sola forza delle loro braccia, sollevare a
quella altezza simili macigni e, soprattutto, come abbiano potuto posarli l’uno
sull’altro e farli combaciare con tanta perfezione insuperata e, si ritiene,
insuperabile.
Huayna Cápac morì senza vedere se la fortezza,
voluta dal suo predecessore, potesse difendere la capitale da attacchi esterni.
Ma, pochi anni dopo la sua scomparsa, nel Regno scoppiò una violenta lotta
fratricida tra suo figlio legittimo, Huáscar, e
l’illegittimo Atahualpa, desiderosi
entrambi di dominare da soli su tutto il Regno. Huáscar, rinchiusosi con i suoi
soldati a Cuzco, credette che il Sacsayhuamán potesse, validamente, difendere i suoi
diritti; ma non pensò che, per poter essere di qualche utilità, la grande
fortezza avrebbe avuto bisogno di migliaia di soldati da dislocare lungo le sue
mura. Il giovane re aveva con sé solo pochi uomini e le schiere di Atahualpa,
con abile tattica, riuscirono a prevalere.
Huáscar, caduto prigioniero del fratellastro, fu,
così, il primo a sperimentare l’inutilità tattica del “Nido del Falco”.
Pochi mesi dopo, i Conquistadores di Francisco Pizarro [1475-1541] mettevano
piede in terra peruviana [1532] e 110
soldati e 67 cavalieri poterono compiere la straordinaria impresa di soggiogare
un popolo di centinaia di migliaia di persone [1533].
Anche questa volta, le mura di Cuzco non salvarono
la città dalla violenza nemica.
Passò ancora un anno e gli Inca, perso il
superstizioso terrore dei Conquistadores,
che, in un primo tempo, li aveva come paralizzati, si prepararono a una
ribellione, che avrebbe potuto essere fatale per gli uomini di Francisco Pizarro.
Conquistato facilmente Sacsayhuamán, i soldati Inca si apprestavano a sferrare l’attacco
decisivo contro gli Spagnoli, rinchiusi nella capitale; ma questi ultimi,
guidati da due fratelli di Francisco Pizarro, Juan e Herman, intuirono la
necessità, per loro, di riconquistare la grande fortezza. Nonostante la strenua
e disperata difesa, gli assediati furono annientati.
Prima che gli Spagnoli potessero catturarlo, il capo
Inca, l’eroico Manco Cápac II si
diede la morte, gettandosi da “Falco Felice” e chiudendo, così, una vita libera
e quanto mai coraggiosa.
Da quel giorno, Sacsayhuamán terminò la sua breve esistenza di fortezza protettrice
di Cuzco.
Oggi, non è che una delle maggiori attrattive del
Perù, che cattura, con la sua favolosa storia, la sua mole immane, visitatori
curiosi ed escursionisti attenti da ogni parte del mondo.
Los
heraldos negros
César Abraham Vallejo Mendoza
Hay golpes en la vida, tan fuertes... ¡Yo
no sé!
Golpes como del odio de Dios; como si
ante ellos,
La resaca de todo lo sufrido
Se empozara en el alma... ¡Yo no sé!
Son pocos; pero son... Abren zanjas
oscuras
En el rostro más fiero y en el lomo más
fuerte.
Serán
tal vez los potros de bárbaros Atilas;
O los heraldos negros que nos manda la
Muerte.
Son
las caídas hondas de los Cristos del alma
De alguna fe adorable que el Destino
blasfema.
Esos
golpes sangrientos son las crepitaciones
De algún pan que en la puerta del horno
se nos quema.
Y el hombre... Pobre... ¡Pobre! Vuelve
los ojos, como
Cuando por sobre el hombro nos llama una
palmada;
Vvuelve los ojos locos, y todo lo vivido
Se empoza, como charco de culpa, en la
mirada.
Hay golpes en la vida, tan fuertes... ¡Yo
no sé!
Daniela Zini
Copyright © 25 gennaio 2015 ADZ
Accanto a Pablo Neruda, César Abraham Vallejo Mendoza rappresenta una delle
voci più significative della poesia ispano-americana, nonostante la sua opera
non sia molto conosciuta oltreoceano. Muore a Parigi, nel 1938, in un giorno di
pioggia, come aveva profetizzato in Pietra
bianca su una pietra nera, una delle sue poesie più famose.
Pietra nera su una pietra bianca
César Abraham Vallejo Mendoza
Morirò a Parigi mentre fuori diluvia
Un giorno del quale possiedo già il
ricordo.
Morirò a Parigi – e non mi confondo
–
Forse un giovedì, come oggi, d’autunno.
Sarà di giovedì, perché oggi, giovedì,
che scrivo
Questi versi, gli omeri mi si son messi
Alla meno peggio e, mai come oggi, son
tornato
Con tutto il mio cammino, a vedermi solo.
César Vallejo è morto, lo picchiavano
Tutti senza che lui avesse fatto nulla
Gli davano duro con un bastone e duro
Anche con una corda: testimoni
I giorni giovedì e gli ossi omeri
La solitudine, la pioggia e le strade…
Garcilaso de la Vega
era figlio del conquistador spagnolo
Sebastián Garcilaso de la Vega y Vargas
e della principessa Isabel
Suárez Chimpu Ocllo, discendente del potente sovrano Inca Huayna Cápac e
dell’imperatore Túpac Yupanqui. Morì nella stessa data della morte di Miguel de Cervantes Saavedra e di
William Shakespeare, il 23 aprile 1616, all’età di 77 anni. E l’UNESCO ha scelto il 23 aprile per
celebrare, annualmente, la Giornata
Mondiale del Libro e di Diritto di Autore.
Manco Cápac II era figlio di
Huayna Cápac e della principessa Mama Runtu. Dopo la morte di Huáscar e di Tupac Huallpa, restava l’unico principe di sangue vivente e
diveniva, pertanto, il legittimo pretendente al trono degli Inca.