“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 25 gennaio 2015

ALLA SCOPERTA DEL NUOVO MONDO: PERU' I. IL NIDO DEL FALCO FELICE di Daniela Zini



“On voyage pour changer, non de lieu, mais d’idées.”
Hippolyte Taine [1828-1893]

UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
La lingua non è sufficiente a dire e la mano a scrivere tutte le meraviglie del mare.”
Cristoforo Colombo [1451-1506]


UNA VIAGGIATRICE EUROPEA
ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO
SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
alla scoperta del Nuovo Mondo:
ARGENTINA
I. La Tripla A: un nome che semina morte


Se una Rosa Smarrita è l’inizio della Primavera, un Amico Ritrovato è la fine della separazione.
Un Amico ci consiglia, ci guida e, spesso, anche ci nutre.
Questo giornale di bordo è dedicato al mio Amico Ritrovato. 

 “Le voyage n’est nécessaire qu’aux imaginations courtes.”
Colette [1873-1954]

L’avventura umana non ha più orizzonti geografici. Non ha più continenti vergini, più oceani sconosciuti, più isole misteriose. E, tuttavia, i popoli restano, per molti aspetti, stranieri gli uni agli altri e i costumi, le speranze segrete, le convinzioni intime di ciascuno di loro continuano a essere, largamente, ignorate dagli altri.
Ulisse non ha, dunque, più uno spazio fisico da percorrere, ma una nuova odissea da intraprendere, urgentemente: l’esplorazione dei mille e un paesaggio culturale, dell’infinita varietà dei pensieri e delle saggezze viventi; la scoperta delle molteplicità dell’uomo.
Nella Grecia Antica, lo straniero era accolto come un inviato degli Dei.
Nell’India rurale contemporanea, è, sempre, ricevuto come una divinità.
Tra i beduini, diviene il protetto del suo ospite e del suo clan. Dividere con lo sconosciuto di passaggio il pane e il sale, sedersi accanto al fuoco o all’ombra di una veranda, offrirgli un giaciglio, per la notte, sono, dall’alba dei tempi, un dovere sacro.
Nel tempo in cui non era, ancora, protetto da leggi, lo straniero poteva, grazie all’ospitalità, trovare rifugio in una casa o in una città.
Nelle regioni dal clima rude, dalla natura ostile – deserti, alte montagne, steppe – l’ospitalità era una necessità vitale.
Con lo sviluppo degli scambi e dei viaggi su vasta scala, l’ospitalità si è estesa ai pellegrini, ai mercanti, agli agenti diplomatici, che si garantivano dalle esazioni, le violenze.
I grandi viaggiatori, quali Marco Polo o Abu ‘Abd Allah Mohammad ibn Battuta, ci offrono, nei loro racconti, molteplici esempi di ospitalità loro accordata, senza la quale non avrebbero potuto attraversare l’Europa, l’Africa o l’Asia.  
Dell’ospitalità di un tempo, che sussiste, oggi?
Persiste ancora, forse, una convivialità erosa dalla vita frenetica delle grandi città, dalla mancanza di spazio vitale, dalla banalizzazione dei viaggi, dal turismo di massa. Ma, soprattutto, l’ospitalità è istituzionalizzata, entra nelle leggi, diviene più anonima. Trattati bilaterali e convenzioni internazionali supportano lo status di straniero, nell’esilio o l’immigrazione, salvaguardano la sua persona e i suoi diritti.
Così, la tradizione di ospitalità sposa i nuovi valori della libertà e della democrazia.
Nei principi, in ogni caso, se non sempre nei fatti.
Lo straniero si scontra, infatti, molto sovente, con l’incomprensione e il disprezzo della società dove passa.

Daniela Zini
 
 
The Men Who Don't Fit In
Robert William Service [1874 -1958]

There’s a race of men that don’t fit in,
A race that can’t stay still;
So they break the hearts of kith and kin,
And they roam the world at will.
They range the field and they rove the flood,
And they climb the mountain’s crest;
Theirs is the curse of the gypsy blood,
And they don’t know how to rest.
 
If they just went straight they might go far;
They are strong and brave and true;
But they’re always tired of the things that are,
And they want the strange and new.
They say: “Could I find my proper groove,
What a deep mark I would make!”
So they chop and change, and each fresh move
Is only a fresh mistake.
 
And each forgets, as he strips and runs
With a brilliant, fitful pace,
It’s the steady, quiet, plodding ones
Who win in the lifelong race.
And each forgets that his youth has fled,
Forgets that his prime is past,
Till he stands one day, with a hope that’s dead,
In the glare of the truth at last.
 
He has failed, he has failed; he has missed his chance;
He has just done things by half.
Life’s been a jolly good joke on him,
And now is the time to laugh.
Ha, ha! He is one of the Legion Lost;
He was never meant to win;
He’s a rolling stone, and it’s bred in the bone;
He’s a man who won’t fit in.
 
“Qui all’osservazione dei fatti si mescola necessariamente un certo grado di immaginazione poetica. Una civiltà è, infatti, la trasposizione traslucida che un Popolo fa di se stesso nell’infinito; è simile al cono d’ombra che l’inconsapevole terra proietta negli spazi. La formano le forze inconsce, e le visioni che ne nascono.”
Guido Piovene [1907-1974], De America

Per la Nazione americana il decennio più tormentato della sua storia dopo l’unificazione e il New Deal è, certamente, quello che va sotto la denominazione di Sixties, anni Sessanta. Una rivoluzione di carattere politico, economico, sociale, intellettuale, artistico e nichilistico, dalle diramazioni più sottili e tentacolari, è in atto sia nella vita del sottosuolo sia alla luce aperta e in sé avvolge, travolge e rigenera vecchie istituzioni e coscienze, modi di vivere, di pensare, di agire, di ribellarsi e, in pratica, di essere.
Gli anni 1960 hanno generato e testimoniato di un confronto a viso aperto, dalle corte sfumature tragiche, tra America e Russia sul pretesto di Cuba, America e Asia del Sud-Est sulla tragedia del Vietnam, America ed Europa sulla politica finanziaria del dollaro e dell’oro; dell’assassinio di un presidente; dell’assassinio di un senatore; dell’assassinio di uno dei più grandi fautori dei diritti sociali, civili ed economici per l’uomo di colore; della recrudescenza della violenza nel ghetto, alla televisione e sull’autostrada percorsa da centinaia di moderni selvaggi in motocicletta; della lotta razziale; del misticismo lisergico; della droga e degli assassinii più freddi e assurdi; della protesta degli studenti nei campuses delle università e, infine, del clero, la lotta della sinistra cattolica americana contro le antiche impalcature della Chiesa, per una riforma ancora più radicale di liturgia e attitudine di quelle, già, proposte dal Concilio Ecumenico Vaticano II.   
L’America è uno strano Paese, ma è, soprattutto un Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È un Paese in crisi.
È il riflesso e, perfino, il quadrante di tutto un mondo in crisi.
I suoi peccati, smisuratamente grandi quanto le sue virtù, sono i peccati dell’idealismo e della democrazia, ma sono anche i peccati di un sistema economico-politico-tecnologico, che investe responsabilità extra umane, astratte, mondiali, senza via di uscita, apparentemente. Il peccato originale dell’America è quello di essersi accollata i guai di molta gente, di molti Popoli. Ma dal paternalismo idealistico allo sfruttamento e alla schiavitù corporativistica il passo è breve.
L’ingiustizia è molto più palese della Giustizia.
E l’ingiustizia, non solo in America, assume le forme del fascismo quando si intende conservare lo status quo.
Non vi sono più nomi, ormai, da offrire al disprezzo della Storia.
Coloro che hanno un nome sono, oggi, le prime vittime, i primi a cadere.
Il carnefice è impersonale.      
È la macchina.
Il mondo assurdo di Albert Camus [1913-1960] troverebbe una giustificazione nel mondo carnale del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade [1740-1814].
Ma neppure questo esiste.
E allora?
Che fare?
Dove andare?
Come vivere?
Rileggiamoci Niccolò Machiavelli [1469-1527], se vogliamo trarre conclusioni più precise e drastiche.
Questo giornale di bordo è fatto di umori e malumori.
Si è fatto da sé negli anni e riflette le poche gioie e i molti travagli di una viaggiatrice europea all’alba di un nuovo millennio sulla rotta di Cristoforo Colombo.
È un giornale di crisi in anni di crisi. 

alla scoperta del Nuovo Mondo:
PERU’
I. Il Nido del Falco Felice
 


Piedra negra sobre una piedra blanca
César Abraham Vallejo Mendoza [1892-1938][1]

Me moriré en París con aguacero,
Un día del cual tengo ya el recuerdo.
Me moriré en París – y no me corro –
Tal vez un jueves, como es hoy, de otoño.

Jueves será, porque hoy, jueves, que proso
Estos versos, los húmeros me he puesto
A la mala y, jamás como hoy, me he vuelto,
Con todo mi camino, a verme solo.

César Vallejo ha muerto, le pegaban
Todos sin que él les haga nada;
Le daban duro con un palo y duro

También con una soga; son testigos
Los días jueves y los huesos húmeros,
La soledad, la lluvia y los caminos…[2]



Sacsayhuamán

Sacsayhuamán [in quechua Saksaq Waman, Falco Felice] è il nome che gli Inca diedero alla grandiosa fortezza da loro eretta sulla sommità di una catena montagnosa, che domina la via di accesso a Cuzco e si eleva a circa 4mila metri di altezza.
Sacsayhuamán supera tutte le sette meraviglie del mondo antico. Se, infatti, si può dire in quale modo siano sorte le Piramidi, il Colosso di Rodi, i Giardini Pensili di Babilonia, tutto in Sacsayhuamán è un mistero.”,
scrive Garcilaso de la Vega [1539-1616][3], il primo storico peruviano.


 

Cuzco - Plaza de Armas

 Cuzco - Plaza de Armas


Para el alma imposible de mi amada
César Abraham Vallejo Mendoza

Amada: no has querido plasmarte jamás
Como lo ha pensado mi divino amor.
Quédate en la hostia,
Ciega e impalpable,
Como existe Dios.

Si he cantado mucho, he llorado más
Por ti ¡oh mi parábola excelsa de amor!
¡Quédate en el seso,
Y en el mito inmenso
De mi corazón!

Es la fe, la fragua donde yo quemé
El terroso hierro de tanta mujer;
Y en un yunque impío te quise pulir.
Quédate en la eterna
Nebulosa, ahí,

En la multiesencia de un dulce no ser.
Y si no has querido plasmarte jamás
En mi metafísica emoción de amor,
Deja que me azote,
Como un pecador.
  

Sacsayhuamán

E noi possiamo aggiungere alle sue parole, che neppure, oggi, gli studiosi siano riusciti a svelare il mistero che avvolge la costruzione del Nido del Falco.
La leggenda vuole che la poderosa fortificazione sia stata costruita da giganti, all’epoca del diluvio, ma gli studiosi hanno accertato che fu eretta dall’uomo, nel XV secolo. A quel tempo, regnava sugli Inca il re Pachacútec Yupanqui, il quale per difendere la capitale e città sacra per eccellenza, Cuzco, da ogni possibile attacco proveniente dal Nord, volle costruire una possente fortificazione.
Sacsayhuamán è una muraglia di tipo megalitico, ossia a immense pietre perfettamente squadrate, poste l’una sull’altra senza l’aiuto di fango, né di malte di genere alcuno.
Narra, ancora, la leggenda che alla erezione della fortezza abbiano lavorato ben tre generazioni di operai, non schiavi, ma uomini liberi, sottoposti, tuttavia, secondo il sistema di governo incaico, a un lavoro obbligatorio. Oltre 50mila uomini si alternarono nell’immane fatica, senza l’aiuto di animali. Con il solo utilizzo di enormi corde, di gigantesche grossolane leve, questi sventurati sollevarono fino all’immane altezza di 4mila metri blocchi di pietra, talvolta, alti 6 metri e larghi fino a 3 metri.
Schiere di operai di ogni età si dovettero succedere per le impervie vie di montagna, trascinando solo con la forza dei propri muscoli e della propria disperazione, le gigantesche pietre di granito. E, se moltissimi massi giunsero al loro posto e furono sistemati sulla muraglia con una tale perfezione, che tra masso e masso non è possibile introdurre la lama di un coltello, moltissime pietre non giunsero mai a destinazione. Chi sale, oggi, per queste regioni, vede sovente, lungo la via, enormi macigni sprofondati nel terreno. E chi ne chiede la provenienza ai nativi, si sente rispondere che sono le “pietre stanche”. Una definizione quanto mai poetica, per ricordare che quelle sono le pietre che gli operai non riuscirono mai a portare a destinazione. Sopraffatti dal loro immane peso, di tanto in tanto, perdevano, evidentemente, le forze e rimanevano schiacciati senza possibilità di salvezza dai massi, che precipitavano lungo i ripidi pendii.


Sacsayhuamán

Pietra dopo pietra, fatica dopo fatica, giorno dopo giorno, decennio dopo decennio, migliaia di uomini faticarono, sudarono, morirono per costruire la loro fortezza e realizzarono un’opera grandiosa e immane.   
 

La fortezza di Sacsayhuamán è costituita da tre immense mura megalitiche di granito, che, ancora oggi, impressionano i visitatori per la loro grandezza. Dal lato dell’antica Cuzco, per l’estrema impraticabilità del terreno, si pensò che un solo muro fosse sufficiente alla difesa. Sugli altri lati, invece, le tre muraglie sono di altezza discendente verso l’esterno, e si estendono per circa 3 chilometri. All’interno della fortificazione si ergono tre immense torri, alte più di 20 metri, una rotonda e le altre due di forma quadrata. Al di sotto si estendono, per chilometri, sale, corridoi, opere difensive che, in buona parte, gli archeologi non sono ancora riusciti a studiare. 



L’impressione che suscita ai visitatori l’insieme della fortificazione è veramente straordinaria e studiosi di ogni epoca e di ogni Paese, da archeologi a ingegneri, ancora oggi si chiedono, esterefatti, come abbiano potuto uomini, con la sola forza delle loro braccia, sollevare a quella altezza simili macigni e, soprattutto, come abbiano potuto posarli l’uno sull’altro e farli combaciare con tanta perfezione insuperata e, si ritiene, insuperabile.



Huayna Cápac morì senza vedere se la fortezza, voluta dal suo predecessore, potesse difendere la capitale da attacchi esterni. Ma, pochi anni dopo la sua scomparsa, nel Regno scoppiò una violenta lotta fratricida tra suo figlio legittimo, Huáscar[4], e l’illegittimo Atahualpa[5], desiderosi entrambi di dominare da soli su tutto il Regno. Huáscar, rinchiusosi con i suoi soldati a Cuzco, credette che il Sacsayhuamán potesse, validamente, difendere i suoi diritti; ma non pensò che, per poter essere di qualche utilità, la grande fortezza avrebbe avuto bisogno di migliaia di soldati da dislocare lungo le sue mura. Il giovane re aveva con sé solo pochi uomini e le schiere di Atahualpa, con abile tattica, riuscirono a prevalere.
Huáscar, caduto prigioniero del fratellastro, fu, così, il primo a sperimentare l’inutilità tattica del “Nido del Falco”.
Pochi mesi dopo, i Conquistadores di Francisco Pizarro [1475-1541][6] mettevano piede in terra peruviana [1532]  e 110 soldati e 67 cavalieri poterono compiere la straordinaria impresa di soggiogare un popolo di centinaia di migliaia di persone [1533].
Anche questa volta, le mura di Cuzco non salvarono la città dalla violenza nemica.
Passò ancora un anno e gli Inca, perso il superstizioso terrore dei Conquistadores, che, in un primo tempo, li aveva come paralizzati, si prepararono a una ribellione, che avrebbe potuto essere fatale per gli uomini di Francisco Pizarro. 


Conquistato facilmente Sacsayhuamán, i soldati Inca si apprestavano a sferrare l’attacco decisivo contro gli Spagnoli, rinchiusi nella capitale; ma questi ultimi, guidati da due fratelli di Francisco Pizarro, Juan e Herman, intuirono la necessità, per loro, di riconquistare la grande fortezza. Nonostante la strenua e disperata difesa, gli assediati furono annientati.



Prima che gli Spagnoli potessero catturarlo, il capo Inca, l’eroico Manco Cápac II[7] si diede la morte, gettandosi da “Falco Felice” e chiudendo, così, una vita libera e quanto mai coraggiosa.
Da quel giorno, Sacsayhuamán terminò la sua breve esistenza di fortezza protettrice di Cuzco.
Oggi, non è che una delle maggiori attrattive del Perù, che cattura, con la sua favolosa storia, la sua mole immane, visitatori curiosi ed escursionisti attenti da ogni parte del mondo. 
 



Los heraldos negros
César Abraham Vallejo Mendoza[8]

Hay golpes en la vida, tan fuertes... ¡Yo no sé!
Golpes como del odio de Dios; como si ante ellos,
La resaca de todo lo sufrido
Se empozara en el alma... ¡Yo no sé!

Son pocos; pero son... Abren zanjas oscuras
En el rostro más fiero y en el lomo más fuerte.
Serán tal vez los potros de bárbaros Atilas;
O los heraldos negros que nos manda la Muerte.

Son las caídas hondas de los Cristos del alma
De alguna fe adorable que el Destino blasfema.
Esos golpes sangrientos son las crepitaciones
De algún pan que en la puerta del horno se nos quema.

Y el hombre... Pobre... ¡Pobre! Vuelve los ojos, como
Cuando por sobre el hombro nos llama una palmada;
Vvuelve los ojos locos, y todo lo vivido
Se empoza, como charco de culpa, en la mirada.

Hay golpes en la vida, tan fuertes... ¡Yo no sé![9]


Daniela Zini
Copyright © 25 gennaio 2015 ADZ
 


[1] Accanto a Pablo Neruda, César Abraham Vallejo Mendoza rappresenta una delle voci più significative della poesia ispano-americana, nonostante la sua opera non sia molto conosciuta oltreoceano. Muore a Parigi, nel 1938, in un giorno di pioggia, come aveva profetizzato in Pietra bianca su una pietra nera, una delle sue poesie più famose.

[2] Pietra nera su una pietra bianca
César Abraham Vallejo Mendoza

Morirò a Parigi mentre fuori diluvia
Un giorno del quale possiedo già il ricordo.
Morirò a Parigi – e non mi confondo – 
Forse un giovedì, come oggi, d’autunno.

Sarà di giovedì, perché oggi, giovedì, che scrivo
Questi versi, gli omeri mi si son messi
Alla meno peggio e, mai come oggi, son tornato
Con tutto il mio cammino, a vedermi solo.

César Vallejo è morto, lo picchiavano
Tutti senza che lui avesse fatto nulla
Gli davano duro con un bastone e duro

Anche con una corda: testimoni
I giorni giovedì e gli ossi omeri
La solitudine, la pioggia e le strade…
 
[3] Garcilaso de la Vega era figlio del conquistador spagnolo Sebastián Garcilaso de la Vega y Vargas  e della principessa Isabel Suárez Chimpu Ocllo, discendente del potente sovrano Inca Huayna Cápac e dell’imperatore Túpac Yupanqui. Morì nella stessa data della morte di Miguel de Cervantes Saavedra e di William Shakespeare, il 23 aprile 1616, all’età di 77 anni. E l’UNESCO ha scelto il 23 aprile per celebrare, annualmente, la Giornata Mondiale del Libro e di Diritto di Autore.

[4] Huáscar era figlio di Huayna Cápac e della di lui sorella e moglie principale Rahua Ocllo.

[5] Atahualpa è stato il tredicesimo e ultimo sovrano dell’Impero Inca.

[6] Francisco Pizarro era figlio illegittimo del colonnello di fanteria, Gonzalo Pizarro Rodríguez de Aguila, dal quale venne riconosciuto, potendone assumere il nome.

[7] Manco Cápac II era figlio di Huayna Cápac e della principessa Mama Runtu. Dopo la morte di Huáscar e di Tupac Huallpa, restava l’unico principe di sangue vivente e diveniva, pertanto, il legittimo pretendente al trono degli Inca.

[9] Gli araldi neri
César Abraham Vallejo Mendoza

Ci sono colpi nella vita, tanto forti... Io non so!
Colpi come dell'odio di Dio; come se di fronte ad essi,
La risacca di tutto il sofferto
Ristagnasse nell'anima... Io non so!

Sono pochi; ma ci sono...Aprono solchi scuri
Nel volto più fiero e nella carne più forte.
Saranno forse i puledri di barbari attila;
O gli araldi neri che ci manda la Morte.

Son le cadute profonde dei Cristi dell'anima,
Di qualche fede da adorare che il Destino bestemmia.
Questi colpi sanguinosi sono i crepitii
Di qualche pane che sulla porta del forno ci si brucia.

E l'uomo... Povero... Povero! Gira gli occhi, come
Quando una pacca sulla spalla ci chiama;
Gira gli occhi pazzi, e tutto il vissuto ristagna, come pozzanghera di
Colpa, nello sguardo.

Ci sono colpi nella vita, così forti... Io non so!