“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 7 febbraio 2017

FIERA DI ESSERE DONNA! di Daniela Zini

FIERA DI ESSERE DONNA!

di
Daniela Zini


Io sono fiera di essere una donna.
Una persona a parte intera con pensieri, un percorso di vita e attributi fisici, che fanno di me una persona unica.
Io sono contornata da persone, egualmente, distinte e formiamo un tutto, una comunità, una società.
Una società in cui tutti hanno un loro posto e fanno parte di un tutto.
Ogni essere umano dovrebbe avere pari importanza e pari valore.
Ogni essere umano dovrebbe essere apprezzato per la sua diversità.
Io amo la vita.
Io mi incanto davanti al ciclo naturale di tutto ciò che vive sulla Terra.
Io rispetto me, rispetto gli Altri, rispetto l’ambiente.
Più gli anni passano e più sono sbalordita dai progressi tecnologici e scientifici.
Più gli anni passano e più sono triste, inquieta, perfino, agitata di fronte alla coscienza sociale e morale di una buona parte della nostra società.
Sembrerebbe che, nel 2016, la collettività si sia divisa sulle sfide sociali. In particolare, sul considerare il valore di una persona in base alla analisi della sua provenienza, della sua fede religiosa o, semplicemente, del suo DNA.
Si dimentica che gli uomini sono nati tutti eguali.
E che ogni essere vivente merita rispetto.
Nel 2016, diversi movimenti hanno denunciato la cultura dello stupro, che è, purtroppo, onnipresente nella nostra società.
Sondaggi, studi, testimonianze, denunce, arresti e, talvolta, condanne, dimostrano che una buona parte della popolazione è stata o sarà vittima di una aggressione sessuale.
Probabilmente, perché le nozioni di rispetto e di consenso sono state pressoché statiche, nel corso dei secoli.
Vi è stato un tempo in cui si diceva a una vittima di tacere, di mantenere il segreto.
Non si doveva rovinare la vita dell’aggressore e della sua famiglia!
E si perpetuava questo circolo vizioso, non facendo nulla…
Oggi, si incoraggiano le vittime a denunciare, è un passo avanti!
Wow!
Attenzione, gli anni sono passati, ma i costumi non sono cambiati.
Così, nel 2017, a seguito di una denuncia di una presunta vittima di aggressione sessuale, le reazioni saranno molte e molteplici.
Non si parla qui di voci di paese.
Se si tratta di violenze a bambini, perfino, ad animali, le reazioni delle persone saranno chiare e senza ambiguità:
Certe cose non si fanno!
L’aggressore sarà, sicuramente, colpevole dell’aggressione e di avere commesso un gesto inammissibile. Ma, quando si tratta di una aggressione sessuale a una donna, le riflessioni cambiano tenore. Si insinua che le presunte vittime “se la siano cercata”, che vogliano vendicarsi o spillare danaro.
Si mettono in dubbio le vittime.
Quale idea di avere consumato alcol?
Di essere una donna?
Di essere bella?
Di portare una minigonna?
Di essere salita in una camera di albergo?
Di non avere sbarrato la porta?
Prego?!?
Perché la gente, quando viene a sapere che una donna “si è fatta aggredire”, si affretta a criticarla, a degradarla, perfino, ad attribuirle la responsabilità, come se non avesse subito a sufficienza.
Si deve rincarare la dose?!?
Questo genere di commenti di una dabbenaggine e di una bassezza equipollenti sono, malauguratamente, espressi da molti.
Commenti propalati dagli uomini e, con mio grande rammarico, da molte donne.
I media pullulano di commenti velenosi nei confronti delle vittime. Come se un qualunque errore o una qualsiasi situazione potessero spiegare uno stupro. Come se le vittime avessero bisogno di farsi dire che avrebbero dovuto agire altrimenti anziché avere una spalla su cui appoggiarsi e avere un minimo di sostegno.
A tutte le vittime, presunte o accertate, io dico: IO VI CREDO.
Io continuerò a difendervi e a sostenervi, costi quello che costi!
Io ringrazio e incoraggio tutte le donne e tutti gli uomini che avranno il coraggio di replicare a chi fa commenti offensivi o esprime opinioni degradanti di avere torto.
Si deve sradicare questa mentalità per cui le vittime sono responsabili di ciò che accade loro.
L’aggressore ha, inevitabilmente, torto.
SENZA SI’, E’ NO!
Alle donne e agli uomini che pensano che la condizione femminile non sia una sfida, nel 2017, e dovrebbe essere messa nel dimenticatoio, io debbo ricordare loro che, ogni giorno, l’attualità e la cronaca dimostrano che vi è, ancora, molta sensibilizzazione da fare, sia negli ambienti familiari sia negli ambienti lavorativi e sociali.
Io sono una donna, io sono io.
Diversa, ma importante al pari di voi.
Siamo forti e uniti per rimuovere la cultura dello stupro che è propagata da tutti, ma che subiscono, soprattutto, le donne.

Daniela Zini di Donne in Divenire

lunedì 6 febbraio 2017

SUICIDIO II. QUANDO LO STRESS UCCIDE A POCO A POCO di Daniela Zini



SUICIDIO
10 settembre 2017
Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio

ai miei Amici in Uniforme

Il suicidio rappresenta il 50% delle morti violente tra gli uomini e il 71% tra le donne.
Ogni anno, il 10 settembre, la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, organizzata dall’International Association for Suicide Prevention, ricorda che è possibile salvare delle vite, semplicemente restando all’ascolto dei familiari e tendendo la mano alle persone a rischio.
Più di 800mila persone muoiono, ogni anno, per suicidio, in tutto il mondo. 
Molti di questi decessi sono evitabili.
L’attenzione, l’ascolto e la vicinanza verso le persone che hanno, già, una storia di tentativi di suicidio possono avere un impatto significativo e ridurre il numero dei tentativi di suicidio e dei decessi legati al suicidio.
La solitudine favorisce il rischio di suicidio; le relazioni familiari, amicali e sociali proteggono contro il rischio.
Il suicidio è, profondamente, legato all’ambiente e alla qualità della vita: la storia familiare nel rischio di trasmissione dei comportamenti suicidari, gli effetti della crisi e della disoccupazione. 
Nuovi strumenti di ricerca sono stati sviluppati, dal test psicologico ai tests sanguigni, in particolare genetici.
Biomarcatori del rischio iniziano a essere identificati.
Lavorare sul suicidio è, anche, lavorare sulla depressione.
La ricerca avanza con progressi nella comprensione del legame tra l’infiammazione del cervello e la depressione maggiore, nella identificazione di certi fattori patogeni o ancora in una migliore conoscenza delle zone cerebrali implicate nella regolazione dell’umore.
Segniamoci questa data sul calendario: 10 SETTEMBRE.

II. QUANDO LO STRESS UCCIDE A POCO A POCO



I. Perché i poliziotti sono sovraesposti?
di Daniela Zini

Suicidi, assassinii, incendi mortali, incursioni in zone di guerra: gli operatori in uniforme debbono sopportare una pressione indicibile. E, per alcuni, il livello di stress diviene insostenibile.
Poliziotti, pompieri e militari sono sottoposti a una tangibile usura da stress per il loro lavoro. E, seppure siano addestrati a gestire particolari situazioni, questo non significa che siano insensibili a contesti, che possono causare, con il tempo, accumulo, insonnia, impulsività, violenza, depressione.

Io amavo il mio lavoro, ma l’adattamento all’ambiente era difficile.
… anni fa, io sono caduto in profonda depressione.
Io che ero, sempre, stato convinto che la depressione non esistesse!
“Sono persone deboli, incapaci di superare le prove…”,
mi dicevo.
Nel mese di novembre del …, il mio mondo crollava.
La depressione esisteva e faceva male, molto male ed era accaduto a me.
Da mesi, sentivo che qualcosa non andava in me.
Impossibile chiudere gli occhi.
Insonnia.
La tristezza aveva fatto il nido, insidiosamente.
Una tristezza senza lacrime, come una nube nera che aleggiava al di sopra della mia testa.
Sarebbe passata!
Il senso del dovere e la lealtà verso i colleghi mi spingevano a continuare.
Poi, fu la rottura.
Il mio  corpo e il mio spirito mi abbandonarono.
Mai, avrei pensato che una parte di me avrebbe voluto morire.
Mi dibattevo tra il rifiuto, la vergogna, il dolore e il bisogno di aiuto.
Il disturbo post-traumatico da stress [DPTS] mi rodeva dall’interno.
Nel …, tentai il primo suicidio con la mia arma di servizio.
Fui disarmato e trasportato da alcuni colleghi in ospedale, dove fui ricoverato in un reparto psichiatrico. 
L’alcol mi permetteva di lenire la mia sofferenza e di dormire senza terribili pensieri.
Così, mi prescrissi una ricetta di alcol a volontà, che avrebbe dovuto porre fine a questa maledetta depressione.
Ritornato al lavoro, io ero, ormai, nella trappola: l’alcol si era avvinghiato a me.
La mia volontà e la mia tenacia non erano sufficienti a sbarazzarmene.
Il lavoro era divenuto secondario.
Nel …, tentavo il secondo suicidio.
Quella volta, fu il mio comandante a disarmarmi.
Ritorno rapido in servizio…
Giudizio affrettato dei colleghi.
Nei due anni successivi, fui trasferito più di una dozzina di volte.
Soffrivo della poca considerazione dei colleghi nei miei confronti e, sovente, anche prima di arrivare sul posto.
Può arrivare un momento in cui il salvatore debba essere salvato.
Perso ogni riferimento.
Persa ogni speranza.
La mia vita divenne un incubo.
Io vivo, costantemente, con un fantasma, un nemico invisibile, che condiziona le mie emozioni, le mie reazioni e ogni sfera della mia vita, familiare, sociale e professionale.
È un fantasma che mi ha portato al ripiego, l’isolamento, la paura di me stesso e degli Altri, la perdita di memoria, a breve, medio e lungo termine, varie fasi di difficoltà di eloquio, la perdita di autostima, l’agitazione notturna e l’ipervigilanza, per citare solo alcuni dei volti del disturbo post-traumatico da stress. È questo mix negativo ed esplosivo che mi ha spinto ai tentativi di suicidio.
Compresi che avevo bisogno di sostegno per superare certe sofferenze, cui non trovavo spiegazione alcuna.
Di più, compresi che avevo sviluppato una dipendenza dall’alcol per anestetizzare, inconsciamente, il dolore quotidiano di confrontarmi con ogni forma di violenza: morti, incidenti gravi, separazioni di bambini, violenze coniugali, miserie, ingiustizie…

Questa testimonianza ci illustra a qual punto il malessere possa, a poco a poco, distruggere gli operatori in uniforme e indurli a mettere fine alle loro sofferenze, non sapendo che esiste una via di uscita, una soluzione diversa da quella di prendere la propria arma di servizio e tirarsi un colpo alla testa.
Questo malessere, prima di spingere gli operatori in uniforme al suicidio, ne precipita molti nel baratro del burn-out, che tendono a nascondere lo stress di una professione, il cui malessere inizia, fortunatamente, a farsi conoscere.
Perché, come le ragioni del loro stress guadagnano terreno?
Soffrono per essere non compresi e mal considerati, sia dalla opinione pubblica sia dalla giustizia e dai media.
Sono, anche, indicate le difficili condizioni di lavoro: più del pericolo, sono il carico di lavoro sfibrante e la scarsezza delle retribuzioni, che logorano, a livello emotivo, gli operatori in uniforme.
I fattori organizzativi, infine, sono messi in evidenza: equipaggiamenti inadatti, mancanza di risorse, pastoie burocratiche.
A tutto questo, si può aggiungere uno sfasamento destabilizzante tra l’ideale perseguito e la realtà di terreno.
Si diviene operatori in uniforme come si viene ordinati sacerdoti?
La vocazione ha, di certo, voce in capitolo nella scelta di una professione, indubbiamente, pericolosa e rigida, ma che parla a certi idealisti, i cui valori sono solidi e il cui senso del dovere è affilato.
Si tratta, per molti, di migliorare la sorte del mondo.
Ma la disillusione è in agguato.
Sul terreno, è dura più dura di quanto si pensasse.
E ci si accorge, dopo qiualche tempo, che nulla cambia.
Si prende anche coscienza di altre realtà: il distacco con cui si trattano, sempre più, le situazioni drammatiche – ed è evidente, ci si protegge! –; la gerarchia che pesa più di quanto ci si aspettasse; la misurazione dell’efficacia che non ci si attendeva…
Lo stress è agli angoli di strada che sorveglia, non dimora, unicamente, nelle situazioni pericolose cui si è confrontati.
Si insinua, di fatto, ovunque.
E demotiva i più impegnati.
Dall’impegno al logoramento.
I più impegnati, parliamone!
Perché sono loro, maggiormente, le vittime del logoramento professionale. Si danno corpo e anima al dovere, sormontano ostacoli, affrontano difficoltà con coraggio. Ma lo stress incessante, al quale, più di altri, forse, sono confrontati per il loro sovrainvestimento, li forza, infine, a blindarsi.
Per proteggersi, barattano, nel corso del tempo, la loro motivazione con una sorta di indifferenza e di distacco di fronte alle situazioni.
Si sentono fisicamente al limite, divengono cinici.
Il burn-out li attende.
Il suicidio è un problema sociale, che uccide più di 800mila persone, ogni anno, in tutto il mondo. 
E tutte queste persone non sono operatori in uniforme.
Vi sono stress e burn out in tutte le professioni e in tutti i lavori.
Sapere affrontare è importante.
L’aiuto esiste, si deve andare a cercarlo prima di averne bisogno.
Si deve parlarne prima di isolarsi per sempre, prima di fare fuoco…


Daniela Zini
Copyright © 6 febbraio 2017 ADZ

sabato 4 febbraio 2017

GENOCIDIO II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL'UOMO 1. HOLOCAUST di Daniela Zini



GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
πατία σεμνή, τῶν  λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς  σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 δεκαετία 390 ή 430]


“Que le XXIe ne soit plus, comme ce siècle
qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
Yves Ternon[1]

di
Daniela Zini

al mio Angelo Guardiano

“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario dei genocidi armeno[2] e assiro-caldeo[3] e dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[4] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
“Perché?”



Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire[5], comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.  
La potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il genocidio appartiene, incontestabilmente, a questa categoria “di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità” e minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo” [Preambolo dello Statuto di Roma,  http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti-ue/Documents/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf]. È il crimine più grave riconosciuto dal diritto internazionale, ma anche uno dei più dificili da provare da un punto di vista legale, perché si deve riuscire a provare questa intenzione specifica.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.

“Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79

Vi era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva che “in base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
2 anni dopo, il 9 dicembre 1948, alla vigilia dell’adozione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo [http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm], veniva approvata, dalla maggioranza dei rappresentanti degli Stati, la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19994549/201406110000/0.311.11.pdf], che all’articolo 2 recita:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)             uccisione di membri del gruppo;
b)             lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)               il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)             misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e)              trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”[Principi di Norimberga]
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità[6].
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e  non si potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale,  era reale. Le milizie massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò, puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva, allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del  XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel 1908. A dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò, rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione.

“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”

La prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi. Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i  Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.


In tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi. In Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva. Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite. Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo. Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!

II.                       LA SHOAH
per ricordare la vergogna dell’uomo
https://www.youtube.com/watch?v=afoSWxHAnrU

Grido di disperazione e ammonimento all’Umanità sia per sempre questo luogo dove i nazisti uccisero un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari Paesi d’Europa.
Auschwitz - Birkenau 1940-1945

Sera di domenica 17 dicembre 1922, a Torino.
Nella nebbia che avvolge le strade della Barriera di Nizza, periferia operaia della città, una squadraccia fascista è alla ricerca del tranviere Francesco Prato, militante del PCI, per “dargli una lezione”. Lo incontra verso le 23 in via Demonte; nel buio, solo a tratti, spezzato dall’alone luminoso dei lampioni a gas, vi è un breve conflitto a fuoco. Prato spara e uccide Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani; poi, anche lui è ferito a una gamba. L’eco delle revolverata richiama la gente del quartiere – ma Prato si è già nascosto, di là a due mesi, fuggirà in URSS e là sparirà durante le “purghe” –; la notizia giunge in centro dove il console fascista Piero Brandimarte ha appena consegnato il nuovo gagliardetto alla squadraccia “Baracca”. Nella notte la decisione è presa e sui muri di Torino appaiono scritte minacciose:
“I nostri morti non si piangono, si vendicano. Brandimarte”
La strage inizia lunedì mattina.
La squadraccia “Toti”, dopo avere occupato la Camera del Lavoro di corso Galileo Ferraris, percossi a sangue il deputato socialista Vincenzo Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della FIOM, Pietro Ferrero, irrompe nell’ufficio “controllo prodotti” delle Ferrovie, in corso Re Umberto. Un fascista si rivolge a due impiegati, il socialista Enrico Fanti e il comunista Carlo Berruti:
“Tu e tu, venite con noi.”
In strada, salgono su una Lancia che va verso Nichelino, ma, dopo qualche chilometro, fermano, ordinando a Fanti di scendere.
“Addio!”,
mormora Fanti a Berruti. L’auto prosegue, raggiunge la campagna e si arresta di nuovo:
“Siamo arrivati.”
Berruti, che ha capito, si infila tranquillamente la pistola in bocca e scende: mentre cammina, gli sparano alle spalle.
Da questo momento, altre 10 vittime cadranno.
L’oste Leone Mazzola è dietro il banco della sua mescita, in via Nizza, quando piombano nel locale gli squadristi:
“Su le mani! Generalità!”,
urlano. Mazzola protesta per l’intrusione, ma lo trascinano nel retrobottega e lo perquisiscono: in tasca ha una scheda elettorale con il simbolo della falce e del martello e, allora, lo crivellano di pugnalate.
Verso sera, il fattorino del tram Matteo Chiolero, trentenne, simpatizzante comunista, sta cenando in casa con la moglie: bussano alla porta, lui apre e viene ucciso con tre revolverate al petto.
L’operaio comunista Andrea Chiomo, 25 anni, a notte tarda è in un appartamento di via San Rocchetto e gioca a carte con gli amici. Arrivano sette fascisti, lo prendono, lo portano in via Pinelli e là gli sparano 10 colpi.
A mezzanotte il comunista Matteo Tarizzo, trentaquattrenne ed ex-operaio FIAT, è svegliato in casa da tre squadristi.
“Ti vogliono di sotto.”
Lui si veste e va. Lo picchiano fino a stordirlo, lo spingono nei prati e lo uccidono con una bastonata alla testa.
Intorno alla stessa ora, alla Cascina Maletto di via San Paolo, è assassinato a revolverate l’ex-manovale delle Ferrovie Giovanni Massaro, di 34 anni.
La mattina dell’indomani, martedì 19, al “controllo prodotti” di corso Re Umberto l’impiegato Angelo Quintaglié, quarantatrenne, ex-brigadiere dei carabinieri, chiede a un collega fascista:
“Che cosa ne avete fatto, ieri, di Berruti?”
“Lo abbiamo sistemato per sempre.”,
risponde l’altro.
“Assassini!”,
prorompe Quintaglié,
“Aveva 40 anni e due figli da mantenere.”
L’altro tace ed esce in silenzio. Poco più tardi, compaiono 5 squadristi della “Campiglio” e puntano le pistole sul gruppo degli impiegati:
“Chi è di voi Quintaglié?”
Nessuno risponde.
“Bene, allora, spariamo a tutti.”
“Sono io Quintaglié.”,
dice, infine, l’ex-brigadiere. In due gli saltano addosso e lo pugnalano, un terzo gli spara. Morirà il giorno dopo.
A mezzogiorno, Cesare Pochettino, 26 anni, e suo cognato Stefano Zurletti, trentaquattrenne, stanno pranzando nella loro casa di via Balangero. I fascisti, giunti in auto, li obbligano a seguirli prima alla sede del fascio di via Cairoli e, poi, in collina, a Valsalice; là, li scaraventano sul ciglio di un burrone e iniziano a sparare all’impazzata. Pochettino è ucciso sul colpo. Zurletti, ferito quattro volte, scivola nella scarpata e viene ritenuto morto. Si salverà.   
Un’altra squadraccia fascista, verso le 18, fa irruzione in una osteria di via Nizza, carica sul camion a spintoni e a botte, l’operaio Evasio Becchio, venticinquenne, e il muratore Ernesto Arnaud e li porta in corso Bramante, dove, a quel tempo, finiva la città.
Becchio, fatto scendere per primo, è assassinato con una scarica alle spalle; Arnaud, colpito più volte, si finge morto e riesce a scamparla.
Intorno alla mezzanotte, mentre rientra a casa, l’operaio Erminio Andreoni, di 24 anni, è aggredito, trascinato a forza su un’auto, portato alla Cascina Ceresa e ucciso. Vicino al suo corpo martoriato, verrà trovato un cartello che dice:
“Tu sei uno di quelli che ha pagato per il nostro Dresda.”
La notte, verso le 23, Pietro Ferrero – il trentenne segretario della FIOM che il giorno prima, era stato aggredito e percosso – sale in bicicletta e va in corso Ferraris, per vedere se la Camera del Lavoro è ancora occupata dalle squadracce. Un fascista lo scorge e, con altri due o tre, gli balza addosso. Lo spingono dentro all’edificio e iniziano a massacrarlo, mentre gli aguzzini cantano una specie di nenia funebre:
“Ferrero, Ferrero, Ferrero, ei fu!”
Già moribondo per le percosse, Ferrero è legato per un piede a una lunga corda attaccata al retro di un camion: l’autocarro si mette in moto e il corpo del sindacalista è trascinato fino al monumento a Vittorio Emanuele e, poi, ancora, su e giù, lungo corso Vittorio. Mentre Ferrero muore straziato, i fascisti incendiano la Camera del Lavoro – lo avevano, già, fatto nel novembre precedente – e gettano decine di bombe a mano nel rogo.
“Abbiamo colpito i sovversivi nei loro covi di Barriera di Nizza.”,
dichiara l’indomani Brandimarte al giornale Il Secolo di Milano;
“I comunisti sono avvertiti: abbiamo l’elenco di tutti loro.” 
Questa di Torino fu l’ultima strage compiuta dai fascisti, dopo la conquista del potere, ma non l’ultimo delitto del regime: lo squadrismo picchiatore, nato, nel 1919, dalle ceneri degli arditi, durerà, infatti, un ventennio e troverà una figura militare e “legale” nelle Brigate Nere di Salò. Così, le squadracce fasciste – quelle di Roberto Farinacci nel Cremonese, di Giulio Caradonna in Puglia, di Italo Balbo nel Ferrarese, di Leandro Arpinati nel Bolognese, di Cesare Forni in Lomellina, di Cesare Maria De Vecchi in Piemonte, di Renato Ricci e Tullio Tamburini in Toscana – impartirono la loro “lezione del terrore” con la caccia ai “rossi” per le piazze delle città e i mercati dei paesi, gli assalti e le distruzioni delle cooperative operaie, gli incendi delle Case del Popolo, Camere del Lavoro, biblioteche popolari, sedi di giornali, con le sparatorie e le aggressioni ai cortei di scioperanti e alle riunioni sindacali.


All’origine del terrorismo squadrista vi furono, naturalmente, gli interessi di classe dell’industria e del latifondismo, la paura della borghesia, la debolezza del potere liberale, l’indifferenza e l’acquiescenza della polizia e della magistratura, ma determinanti furono le direttive di Mussolini, talvolta, mascherate nei suoi discorsi, così gonfi di retorica e di goffi neologismi, spesso esplicite.
Benito Mussolini dichiarò che, se violenza doveva esservi, avesse “uno stile aristocratico” e il 3 gennaio 1925, in Parlamento, affermò che “la violenza deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca”. Ma a Torino, Piero Gobetti fu bastonato a sangue, dopo un telegramma di Mussolini al prefetto:
“Gobetti continua nella sua velenosa campagna contro il fascismo. Prego prendere provvedimenti per rendere la vita impossibile a questo insulso oppositore.”
E il deputato socialista Giacomo Matteotti venne ucciso a percosse solo quando, all’indomani del suo discorso alla Camera del 30 maggio 1924, in cui aveva denunciato i brogli e le violenze fasciste nelle elezioni generali del 6 aprile, Mussolini disse ai propri fidi che le parole di Matteotti erano state “una inaudita provocazione” e che “quell’uomo, dopo questo discorso, non dovrebbe più circolare”. Il sottosegretario agli interni, Aldo Finzi, scriverà nel proprio testamento, pur smentendolo in seguito, che il duce aveva dato ordini di “far scomparire i maggiori capi dell’opposizione”.
Diversa nella dinamica, identica nell’origine, fu l’uccisione dei fratelli Rosselli, un “tipico delitto del regime fascista” – così lo definì Luigi Salvatorelli – e, per i suoi legami con la Cagoule francese [https://unaxe.wordpress.com/2012/04/21/francois-mitterrand-et-la-cagoule-societe-secrete-fasciste-ou-pourquoi-mitterrand-etait-un-grand-ami-des-collaborateurs-pro-nazi-du-regime-de-vichy/, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/09/02/quando-mitterrand-era-razzista.html, http://www.blitzquotidiano.it/politica-mondiale/tranfaglia-fratelli-rosselli-mitterand-francia-743462/, https://books.google.it/books?id=BjQbDQAAQBAJ&pg=PT97&lpg=PT97&dq=cagoule+mitterand+rosselli&source=bl&ots=NCmr04Xh2-&sig=k3B9sIhGiGxpl4Y0YJLtINMFaMY&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjjmLGMt_TRAhXDaRQKHQ5MAEYQ6AEISzAH#v=onepage&q=cagoule%20mitterand%20rosselli&f=false], del fascismo internazionale. È noto che Galeazzo Ciano, tramite Mario Roatta, avesse promesso ai Cagoulards, se lo avessero sbarazzato dei Rosselli, una fornitura clandestina di armi – cento mitra automatici da consegnarsi, a delitto avvenuto, alla frontiera di Bardonecchia – sicché nell’estate del 1937, Carlo Rosselli, capo del gruppo antifascista Giustizia e Libertà e suo fratello Nello, studioso di storia del movimento operaio italiano, furono soppressi a pugnalate a Bagnoles-sur-l’Orne, in Normandia, dove si erano, appena, incontrati. Gli assassini vennero scoperti pochi mesi dopo. Erano membri di una società segreta di estrema destra, il CSAR o Comité Secret d’Action Révolutionnaire – più noto come Cagoule [Cappuccio], un simbolo preso in prestito dal Ku Klux Klan americano – che, già, dal 1935, si proponevano di rovesciare il Governo del Fronte Popolare, costituito da comunisti, socialisti, radicali e repubblicani, arrestando Léon Blum e scatenando in Francia una ondata generalizzata di delitti politici e di attentati dinamitardi. Così, aveva cercato di fare, nel 1923, il nazismo con il Putsch di Monaco[7], fallito davanti alle fucilate della polizia di Weimar, alla Feldherrnhalle, prendendosi, tuttavia, la rivincita, 11 anni più tardi, con il massacro del 30 giugno 1934, la Notte dei Lunghi Coltelli [https://www.youtube.com/watch?v=8whKFKufMZo], quando Adolf Hitler, per liberarsi della opposizione interna del partito, diretta dal capo delle SA, Ernst Julius Günther Röhm, diede il via a una strage senza precedenti, più di 1000 assassinati in soli tre giorni, di cui 149 a Berlino. Nel 1946, il Processo di Norimberga ne fisserà il totale preciso in 1.076. Con quella “purga di sangue” il Führer fece scomparire, di un colpo solo, sia i promotori della “seconda rivoluzione” – vale a dire quei nazisti che, dalla conquista del potere, non avevano ottenuto il soddisfacimento delle loro ambizioni personali – sia i personaggi che gli davano fastidio; il generale Kurt Ferdinand Friedrich Hermann von Schleicher; l’ex-presidente del Governo bavarese Gustav Ritter von Kahr; il capo dell’Azione Cattolica Eric Klausener; il deputato Karl Ernst, l’asso dell’aviazione Daniel Gerth.
Ma la vera lezione del terrore dei nazisti giunse nel 1938, allorché, alla ricerca di uno strumento di pressione per spingere gli ebrei tedeschi a emigrare e potere, così, impadronirsi dei loro enormi beni – gli ebrei, in Germania, rappresentavano più dell’1% della popolazione –, Hitler colse il pretesto nell’uccisione, a Parigi, da parte del ragazzo ebreo Herschel Feibel Grynszpan, diciassettenne, del consigliere di legazione Ernst Eduard von Rath.
Da un capo all’altro del Paese, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 – la Notte dei Cristalli – si scatenarono pogrom, organizzati con devastazioni di case e di negozi ebraici, bestiali maltrattamenti fisici, arresti, deportazioni, saccheggi, stupri e più di 100 assassinii. Già il giorno seguente, un rapporto di Reinhard Tristan Eugen Heydrich a Hermann Wilhelm Göring parlò di 7.500 negozi distrutti e di 10.454 ebrei chiusi in campi di concentramento: là vennero torturati al punto che – scrive Eugen Kogon – “a Buchenwald 68 impazzirono sicché vennero gettati in una baracca e uccisi dallo Hauptsurmscharfuhrer-SS Sommer mentre un altoparlante del lager scandiva un terribile invito: “Ogni ebreo che desidera impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdursi in bocca un pezzo di carta recante il proprio nome al fine di poter procedere all’identificazione.”  
Il terrorismo nazista, accompagnando la politica di conquista e di espansione, fu la feroce applicazione dei principi razzistici mediante le più umilianti misure di discriminazione delle cosiddette “razze inferiori”, lo sfruttamento sistematico della manodopera straniera e delle risorde economiche dei Paesi soggiogati, le rappresaglie e gli eccidi per chiunque, non tedesco, commettesse azioni rivolte contro il Drittes Reich e le sue forze di occupazione: il boia della Polonia, Hans Michael Frank, dichiarò ai propri collaboratori che non aveva deciso di sterminare i 14 milioni di polacchi del suo Governatorato Generale solo perché ciò avrebbe comportato un apparato terroristico e un numero di uomini di cui non disponeva. Il genocidio sistematico della Polonia – questo Paese perse oltre 6 milioni di uomini, il 22% della popolazione – fu, particolarmente, significativo della pratica del terrore applicata nel resto dell’Europa Occidentale. In Francia, il comandante generale militare, Carl-Heinrich von Stülpnagel, in un ordine segreto del 1941, emesso in seguito all’uccisione di un militare della Wehrmacht, stabilì che, da quel momento, tutti i francesi detenuti per qualsiasi motivo dovessero essere “considerati ostaggi” e tra questi, ne sarebbe stato fucilato, di volta in volta, un certo numero. Si giunse fino a 50 francesi per un tedesco ucciso.
In Italia, il feldmaresciallo Albert Konrad Kesselring, che fece trucidare, alle Fosse Ardeatine, 10 italiani per ogni tedesco morto nell’attentato del marzo del 1944, in via Rasella, a Roma, dichiarò di “coprire” qualunque dei suoi comandanti avesse ecceduto la consueta misura della rappresaglia – infatti, le vittime delle Ardeatine, secondo quella feroce e macabra contabilità, avrebbero dovuto essere 330, ma risultarono, poi, 5 di più, 335:
“Fu un errore,”,
ammise, cinicamente, Herbert Kappler al processo,
“tuttavia, poiché, ormai, erano là…”
Da questo punto di vista, dalla Notte dei Cristalli del 9-10 novembre 1938 alle Fosse Ardeatine e più oltre ancora, nella pratica del terrorismo non vi fu alcuna differenza con la distruzione del Ghetto di Varsavia, le Stragi di Oradour, di Marzabotto, di Lidice: se sull’Appennino tosco-emiliano, nell’agosto del 1944, il maggiore delle SS Walter Reder [http://anpi.it/media/uploads/patria/2007/10/10-15_RICORDO_BIAGI.pdf] fece la terra bruciata, nelle zone partigiane di Marzabotto, con una marcia della morte durante la quale incendiò villaggi e borghi e uccise oltre 1830 civili inermi e innocenti; a Lidice, per il mortale attentato a Reinhard Tristan Eugen Heydrich del giugno del 1942, i nazisti distrussero il piccolo paese cecoslovacco, fucilarono uomini, deportarono donne, rapirono i suoi bimbi.
Dalla strage di Torino a quella di Lidice nell’arco di 20 anni e nel quadro di due dittature, lo squadrismo fascista e quello nazista furono le due facce di un’unica medaglia, quella del terrore eretto a sistema.     


1.  HOLOCAUST
“Il connubio di odio e tecnologia è il massimo pericolo che sovrasti l’Umanità. E non mi riferisco alla sola grande tecnologia della bomba atomica, mi riferisco, anche, alla piccola tecnologia della vita di ogni giorno: conosco persone che stanno per ore davanti alla televisione perché hanno disimparato a comunicare tra loro.”
Simon Wiesenthal


Aprile 1978.
Più di 120 milioni di americani seguono con grande apprensione Holocaust[8], lo sceneggiato televisivo mandato in onda dalla NBC, che racconta sotto forma romanzata lo sterminio, da parte nazista di 6 milioni di ebrei. La trasmissione, traumatizza letteralmente l’opinione pubblica. Mentre sul canale in concorrenza viene diffusa una innocua serie di vecchi films di James Bond, davanti agli occhi agghiacciati del pubblico americano, appaiono, a poco a poco, i particolari più spietati e le scene più crude – anche dal vero – della “soluzione finale del problema ebraico”, vale a dire il programma di sterminio nazista di tutti gli ebrei d’Europa.
“Una tragedia che tutti conoscevamo, ma di fronte alla quale siamo ancora una volta rimasti stupiti, inorriditi, umiliati.”,
scrive, il 12 aprile 1978, sull’autorevole Washington Post, Tom Shales[9][https://www.washingtonpost.com/archive/lifestyle/1978/04/12/nbcs-powerful-holocaust/8a69fe9d-6e03-4a32-b1e2-dc38b06ea4ce/?utm_term=.573f11358cea], la cui critica si esprime a netto favore della trasmissione. Dopo lo choc, recentemente subito da un altro sceneggiato di grande successo, Roots [Radici], l’americano medio torna, così, a far sentire tutta la sua indignazione.
“Holocaust, inchiodando milioni di persone davanti alla televisione, li ha fatti inorridire, ma anche meditare.”,
rileva prontamente la stampa. Con un crescendo di interesse inspiegabile, che aumenta a ogni nuova puntata, già dalle prime immagini, nascono polemiche a non finire, dibattiti, prese di posizione a favore o contro. L’indice di ascolto dello sceneggiato è tra i più alti mai registrati in America e pari soltanto a quello riscontrato da Roots e dal leggendario Christmas Show di Bob Hope.

“La Shoah, come in ambito ebraico viene chiamato l’Olocausto, termine a suo modo improprio, fu un evento senza precedenti perché mai era stato deciso a tavolino lo sterminio, l’annientamento di un popolo in quanto tale.”
Elena Loewenthal

“Il dramma di Holocaust ha portato luce nella annosa controversia tra chi sostiene che lo sterminio degli ebrei sia una cruda pagina della nostra Storia e coloro che affermano, invece, sia il frutto di una lungimirante propaganda sionista.”
è il primo commento a caldo che appare in una nota dell’agenzia di stampa americana UPI. A New York, la stessa sera in cui viene trasmessa la prima puntata della serie, circa 700 telefonate raggiungono gli studi della NBC; ma, il giorno dopo, decine di giovani, convinti che Holocaust sia un completo inganno, presidiano la sede dell’emittente.
“La maggior parte delle accuse di sterminio contenute in Holocaust sono false. È provato che non è mai esistito un vero e proprio programma nazista di genocidio. Le camere a gas sono una pura e semplice invenzione.”,
riferisce ai cronisti il portavoce di questo gruppo.

“Se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi iniziarono la loro campagna, l’Umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale.” 
Herbert Marcuse

Per protestare contro lo sceneggiato, a Los Angeles 35 membri del National Socialist White People’s Party sfilano in perfetta divisa nazista davanti a un’altra sede della NBC:
“Una campagna di protesta iniziata già prima dell’inizio delle trasmissioni.”,
commenta, amaramente, il responsabile delle programmazioni dell’emittente televisiva.

“La gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l’abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva “sterminio” ma “soluzione definitiva”, non “deportazione” ma “trasferimento”, non “uccisione col gas” ma “trattamento speciale”, e così via.”
Primo Levi

A Baton Rouge [Louisiana], scendono in piazza gli appartenenti al Christian Defense League. La responsabile  di questa organizzazione, Deborah Warner, nel corso di una conferenza- stampa dichiara:
“È esagerato parlare di 6 milioni di morti.”
Quindi, citando il discusso libro  di Arthur R. Butz, The hoax of the 20th century [L’inganno del Ventesimo secolo, http://vho.org/aaargh/fran/livres3/HoaxV2.pdf], nel quale vengono portate le prove che solo un milione di ebrei hanno trovato la morte durante l’infausto periodo nazista, conclude:
“Noi non siamo antisemiti, ma se la NBC non ci darà spazio per presentare il nostro punto di vista, indiremo ovunque nuove manifestazioni di protesta.”
A Chicago[10] [http://www.nytimes.com/1978/04/19/archives/nazis-in-us-small-bands-at-war-with-one-another-no-large-group.html?_r=0], 100 neonazisti si accontentano, invece, di sfilare con numerosi cartelli, davanti al palazzo della NBC:
“La NBC non opera nel pubblico interesse.”,
dice uno di quei cartelli. Sempre a Chicago, nel sobborgo di Stokie, abitato per lo più da ebrei, i pareri di chi ha seguito la trasmissione sono, spesso, contrastanti tra loro, mentre la voce più ricorrente è quella che “sarebbe stato preferibile dimenticare”.
“Holocaust è triviale, di cattivo gusto, troppo episodico…”,
commenta lo scrittore Elie Wiesel,
“La NBC non ha saputo fare meglio che trasformare un avvenimento ontologico in una soap opera. Nonostante tutto, convengo, tuttavia, che fosse necessario farlo.”[11]
Mentre lo sceneggiato entra nelle case di milioni di americani, la lega ebraica B’na B’rith [https://risveglionazionale.wordpress.com/2014/08/02/bnai-brith-il-ramo-ebraico-della-massoneria/], preoccupata di ristabilire la verità, mette in circolazione 4 milioni di copie di un opuscolo intitolato The Acts [I Fatti].
Altri tentativi di tracciare la verità storica vengono fatti anche da buona parte della stampa, che provvede a ricostruire fedelmente, dedicando all’argomento pagine su pagine. Mentre infuriano le polemiche, vi è chi replica sdegnato dalle iniziative commerciali sorte nel frattempo intorno alla trasmissione. Tra quelli di dubbio gusto, citiamo la presentazione di uno short televisivo con la pubblicità di un nuovo insetticida che “stermina tutto” chiamato Holocaust e quella di una serie di raccapriccianti sequenze originali sui campi di sterminio, che dovrebbero spingere all’acquisto di un apparecchio fotografico a sviluppo istantaneo.
A livello politico, mentre la Casa Bianca e tutti i partiti politici si tenevano, accuratamente, al di fuori della mischia, gli ambasciatori di Giordania, Tunisia e Kuwait alle Nazioni Unite dichiaravano che il dramma televisivo, mandato in onda dalla NBC, rievocava fin troppo da vicino l’attuale sorte del popolo palestinese.
“Holocaust ha avuto un effetto benefico.”,
interveniva Henry Kissinger.
“In esso si spiega il perché uno Stato totalitario si possa trasformare in una bestia selvaggia, una volta che si è riusciti a sopprimere tutti i valori morali.”
Così, quello che doveva essere semplicemente un “film americano per gli americani” come tanti altri, finisce, praticamente, per dividere l’America.
“Non è un’opera d’arte.”,
è il giudizio quasi unanime della critica.  

“Oggi più che mai, è necessario che i giovani sappiano, intendano e comprendano: è l’unico modo per sperare che quell’indicibile orrore non si ripeta, è l’unico modo per farci uscire dall’oscurità.”
Elisa Springer

“È un prodotto commerciale, nato per battere la concorrenza dell’altra emittente televisiva ABC, dopo il successo di Roots. Un’opera senza pretesa di rigore documentario, ma confezionata con grande mestiere, anche se ci riporta a qualche scena western.”, commenta la stampa. Nonostante ciò, Holocaust riesce, in brevissimo tempo, a collezionare negli Stati Uniti diversi premi: per i migliori attori protagonisti, per la regia e per la sceneggiatura. Ultima lamentela, quella dell’aspetto anticristiano della trasmissione.
Manifestazioni di protesta si svolgono anche in Canada, a Toronto, dove canadesi di origine tedesca protestano contro la propaganda sionista.
In Francia, è Antenne 2 ad acquistare i diritti di Holocaust e, quindi, a mandarlo in onda in quattro puntate, a partire dal 13 febbraio 1979. La decisione della rete televisiva francese è subito oggetto di numerose polemiche. In precedenza, era stata, pesantemente, accusata dal settimanale L’Express, per il rifiuto iniziale che aveva opposto all’acquisto dello sceneggiato americano, accampando la scusa che era troppo caro. Il settimanale d’Oltralpe aveva, in seguito, rincarato la dose, pubblicando un appello dello scrittore Marek Halter, che invitava tutti gli antifascisti a una pubblica sottoscrizione “per fare venire in Francia lo sceneggiato televisivo americano”. Il Paese, che, già, appariva diviso dopo le sconcertanti dichiarazioni dell’ex-commissario per le questioni ebraiche francese durante l’occupazione nazista, Louis Darquier de Pellepoix[12], il quale era, perfino, arrivato, nel corso di una intervista rilasciata a L’Express, il 28 ottobre 1978, a negare l’esistenza stessa delle camere a gas, si spacca, nuovamente, in due dopo la decisione di mandare in onda Holocaust. L’ex-deportatore di ebrei, già condannato a morte in contumacia, il 10 dicembre 1947, aveva, infatti, affermato che i 6 milioni di ebrei morti, durante l’imperversare del nazismo, fossero una pura invenzione della propaganda sionista e che nei forni crematori avrebbero trovato la morte soltanto i pidocchi degli ebrei, dato che i tedeschi “sono notoriamente gente pulita e civile”.
Je vais vous dire, moi, ce qui s'est exactement passé à Auschwitz. On a gazé. Oui, c'est vrai. Mais on a gazé les poux.
Quanto alle camere a gas, venivano definite da Louis Darquier de Pellepoix una misura igienica  di disinfezione, allo scopo di potere rivestire uomini e donne di una razza inferiore in maniera decente, mentre tutte le fotografie raffiguranti le fosse comuni e le mostruose montagne di cadaveri dovevano essere senz’altro il frutto di abili fotomontaggi.
Così, mentre la Francia sembrava perdersi in cavillose discussioni sul numero esatto degli ebrei vittime dello sterminio nazista e Le Monde scriveva:
“Le enormi menzogne di Darquier possono colpire solo persone informate.”,
la stampa parigina concedeva, a sua volta, ampio spazio a un altro relitto, Robert Faurisson, maître de conferences all’Università di Lione ed esperto di Marcel Proust, il quale con una testardaggine unica affermava:
“Hitler non ha mai ordinato la morte di nessuno, a causa della razza o della religione. I forni crematori nazisti avevano uno scopo altamente umanitario: quello di bruciare i cadaveri dei morti di tifo, per evitare il diffondersi in Europa delle epidemie, inevitabili nel corso di una guerra.”
Queste ultime tesi, raccolte pari pari dalle dichiarazioni di un altro  collaborazionista dell’ultima ora ed ex-deportato a Buchenwald, Paul Rassinier, andavano ad aggiungersi ad altre pretenziose argomentazioni e a numerose pseudoperizie, che avevano fatto in modo che Robert Faurisson  venisse definito “celui qui assassine les morts légalement”.     
Anche negli ambienti politici francesi la decisione della rete di mandare in onda Holocaust non mancò di sollevare polemiche. Il partito filogiscardiano, i cui quadri  attuali avevano, ormai, largamente sostituito gli uomini della Resistenza, appariva, unicamente, occupato per gli sviluppi che, dopo le controversie scatenate dallo sceneggiato americano in Francia, potessero avere le relazioni franco-tedesche, tanto da venire accusati dalla Humanité, organo del Partito Comunista, di “sacrificare allegramente a cinici calcoli politici milioni di vittime del nazismo”




“Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.”
Jean Améry

I francesi scoprivano, quindi, che non tutti, durante la guerra, avevano servito nelle fila della Resistenza e di non avere, sempre, la coscienza limpida nella deportazione degli ebrei residenti nel proprio Paese. A dare man forte a questa tesi, interveniva il critico letterario di Le Monde, Bertrand Poirot-Delpech, che definiva il 1978 come l’anno del collaborazionista. Anche in Francia, Holocaust riesce, tuttavia, a commuovere milioni di persone, i due famosi cacciatori di nazisti Beate e Serge Klarsfeld, di nazionalità tedesca che vivono a Parigi esprimono la loro piena soddisfazione che, finalmente, Antenne 2 abbia preso la sofferta decisione di presentare ai francesi “un feuilleton come Holocaust, il cui discorso rimane, comunque, valido”. Da Massy, il direttore del Centre National de la Recherche Scientifique [CNRS], Léon Poliakov[13], dichiara, infatti, che “l’avere proiettato Holocaust in televisione è, senz’altro, una iniziativa meritoria”. Dello stesso avviso è, anche, Louise Alcan, segretaria dell’Amicale des déportés d’Auschwitz di Parigi. Anche Georges Wellers, presidente del Centre de Documentation Juive Contemporaine [CDJC], ex-deportato ad Auschwitz e uno dei pochi superstiti dei 75.721 ebrei francesi, avviati nei campi di sterminio nazisti, considera Holocaust, pur inficiato da alcune imprecisioni storiche, un fatto positivo. Eguale parere esprimono Roland Teyssandier, presidente del Comité International des Camps, Claude Levy e Henri Michel del Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale.
Nello stesso momento in cui le polemiche in Francia toccano il punto di maggiore tensione, la televisione belga francofona decide di mandare in onda la versione francese, dal 12 febbraio 1979. Quella olandese aveva, già, trasmesso Holocaust, nel settembre precedente, con un indice di ascolto molto elevato e con numerosi appelli, da parte della stampa, a non dimenticare. Maurice Goldstein e Albert Guérisse del Comité international d’Auschwitz-Birkenau [http://www.ina.fr/video/CPD02000144] si felicitano che un simile programma sia stato trasmesso e da Bruxelles Hubert Halin, direttore de La Voix internationale de la Résistance [http://www.cegesoma.be/docs/media/chtp_beg/chtp_02/chtp2_006_Lagrou.pdf], è, egualmente, del parere che si debba plaudire a una iniziativa del genere.

Serge Klarsfeld e sua moglie Beate Auguste Künzel, di nazionalità tedesca e figlia di un soldato tedesco, sposata nel 1963, hanno intrapreso come “cacciatori di nazisti” una serie di indagini nei confronti di criminali nazisti scampati ai processi loro intentati nel dopoguerra. Sono riusciti a portare in tribunale il “boia di Lione”, Klaus Barbie e a presentare importanti testimonianze nel processo contro il criminale nazista francese Maurice Papon [https://www.youtube.com/watch?v=1IC7sfWDrJA, https://www.youtube.com/watch?v=VIAYwbDaPBA].

“Ognuno di noi superstiti era un testimone e aveva il dovere di rendere la propria testimonianza.”
Simon Wiesenthal

In Israele, Holocaust è stato, invece, vissuto e sofferto quasi in sordina, con il pudore di chi ha vissuto in prima persona tutte le tragiche esperienze fatte rivivere nelle quattro puntate dello sceneggiato televisivo. Mentre alcuni anziani si erano rifiutati categoricamente di seguirne anche una sola sequenza, la gioventù Sabra, la nuova generazione nata nel mito dell’efficienza israeliana, non ha mancato di rimproverare, ancora una volta, ai propri genitori la colpa di non avere saputo reagire alla prepotenza nazista e di avere accettato, passivamente, il folle ordine di un sistematico genocidio.   

Inventur [1948]
Günter Eich

Dies ist meine Mütze,
Dies ist mein Mantel
Hier mein Rasierzeug
Im Beutel aus Leinen.

Konservenbüchse:
Mein Teller, mein Becher,
Ich hab in das Weißblech
Den Namen geritzt.

Geritzt hier mit diesem
Kostbaren Nagel,
Den vor begehrlichen
Augen ich berge.

Im Brotbeutel sind
Ein Paar wollene Socken
Und einiges, was ich
Niemand verrate,

So dient er als Kissen
Nachts meinem Kopf.
Die Pappe hier liegt
Zwischen mir und der Erde.

Die Bleichstiftmine
Lieb ich am meisten:
Tags schreibt sie mir Verse,
Die nachts ich erdacht.

Dies ist mein Notizbuch,
Dies meine Zeltbahn,
Dies ist mein Handtuch,
Dies ist mein Zwirn[14]

Holocaust giunge, quindi, in Germania dopo che la stampa tedesca ha riportato, con dovizia di particolari, l’accoglienza da esso ricevuta in tutti i Paesi dove è stato programmato. Subito al suo apparire sette scrittori tedeschi, tra i quali, oltre al Premio Nobel per la Letteratura 1972 Heinrich Böll, figurano, anche Günter Grass, Walter Jens, Wolfgang Koeppen, Siegfred Lenz, Martin Walser Peter Weiss, si dichiarano disponibili a collaborare tra loro per una eventuale realizzazione di un’opera televisiva sul nazismo e lo sterminio degli ebrei, “più aderente alla realtà storica che non Holocaust”.
“Lo sceneggiato americano è troppo romanzato e ha uno stile tipicamente hollywoodiano.”,
è, infatti, il commento della Kultur tedesca, mentre la convinzione che gli altri sappiano fare solo “cose antitedesche” diviene, ben presto, abbastanza diffusa nella opinione pubblica. Inevitabilmente, anche in Germania, come già è successo negli altri Paesi, dove il dramma televisivo è stato programmato, divampa la polemica. Opinione pubblica, stampa, associazioni culturali e religiose, gruppi politici finiscono per dividersi: da una parte, chi dice che, anche a 35 anni di distanza, è giusto ricordare e, dall’altra, chi afferma decisamente il contrario [http://www.zeit.de/1979/09/eine-gemeinsame-lektion, http://www.zeit.de/1979/09/eine-gemeinsame-lektion/seite-2]. Anche la decisione della WDR, la principale rete televisiva tedesca, di acquistare i diritti di Holocaust per più di un milione di marchi [mezzo miliardo di lire] viene aspramente criticata. 
“Il sentimento di colpa della Germania”,
scrive Der Spiegel,
“non avrebbe dovuto costringere un ente pubblico come la televisione ad acquistare uno sceneggiato che è in contrasto, in modo più che palese, con i suoi principi pedagocici, di informazione e di estetica.”
“È antitedesco oppure no?”,
era stato il primo interrogativo in una polemica che si preannunciava infuocata, tanto che il portavoce del Governo di Bonn, parlando, tuttavia, a titolo personale, aveva tagliato corto:
“Qualunque cosa sia, sarà sempre lontana dalla realtà. Nessuno può dipingere l’inferno.”
Non appena lo sceneggiato venne messo in onda, il direttore del Der Spiegel, Rudolf Karl Augstein, pubblicò un fondo destinato a destare notevole scalpore dal titolo Ich habe es nicht gewußt [Io non lo sapevo, http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-40350861.html][15], nel quale racconta anche le sue esperienze di esecutore di ordini sul fronte russo.
“Neppure della Kristallnacht [Notte dei Cristalli, 9-10 novembre 1938], quando i negozi degli ebrei tedeschi vennero devastati, boicottati e saccheggiati, 267 sinagoghe finirono bruciate, 91 ebrei furono uccisi e 26mila trascinati a Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen?”,
gli rispondono risentiti alcuni lettori. 
Henri Nannen, direttore di Stern, confessa, invece, pubblicamente:
“Sapevo tutto su quella tragica notte e sapevo anche che degli esseri umani venivano sterminati come vermi, ma sono stato troppo vigliacco per reagire.”
Nel corso della trasmissione, le vie e i pubblici locali tedeschi rimangono deserti. Più di 20 milioni di telespettatori “conoscono”, così, per la prima volta, l’esistenza dei campi di sterminio. Holocaust, e nessuno se lo aspettava, ha più successo degli ultimi Mondiali di calcio. Decine di migliaia di persone telefonano alle sedi dell’Ente televisivo.
Solo a Colonia, si contano 26mila chiamate e un uomo si dà fuoco per la vergogna.
Si salverà!
A Berlino, un ex-SS dichiara in una intervista che sua moglie e i suoi quattro figli se ne sono andati di casa, dopo che hanno saputo, assistendo allo sceneggiato e dopo avere minacciato di scrivere sui muri della propria casa:
“Qui vive un assassino nazista!”
“La Germania si è svegliata”;
 “La Germania fa l’esame di coscienza” ;
“La lezione di Holocaust” ;
 si affrettano a scrivere alcuni quotidiani tedeschi, mentre nelle scuole e nelle università, per la prima volta dalla fine della guerra, vengono tenute delle lezioni sul nazismo. La Repubblica Federale sembra avere appreso tutto solo adesso, nonostante la televisione nel dopoguerra abbia mandato in onda più di 100 documentari sul nazismo e abbia programmato films sconvolgenti come Notte e Nebbia di Alain Resnais e lavori teatrali, quali Il Vicario di Rolf Hochhuth[16], Il generale del diavolo di Carl Zuckmayer e L’istruttoria di Peter Weiss.
Un fatto è certo: per 33 anni, i tedeschi hanno, sistematicamente, rifiutato il confronto con il loro oscuro passato.       
“Non è vero che non sapessimo.”,
sottolineava Ivo Frenzel, moderatore a uno dei suoi dibattiti che hanno fatto seguito allo sceneggiato.
“I programmi di Hitler sulle questioni razziali erano noti a tutti.”,
scrive Dietrich Strothmann su Die Zeit  http://www.zeit.de/1979/06/wie-eine-schrift-an-der-wand.
“I suoi discorsi politici e lo stesso Mein Kaampft [letto da milioni di tedeschi] parlavano chiaro: “procederemo allo sterminio degli ebrei in tutta Europa”. Oggi, la lezione di Holocaust sembra servire a qualcosa: a far sì che tutti i tedeschi si fermino a pensare e a riflettere.”
Lo scrittore Walter Kempowski raccolse a migliaia questi “ripensamenti”, per un libro dal titolo Noi ne eravamo a conoscenza?
Indubbiamente, tutto il Paese venne scosso da una emozione senza precedenti.
“Holocaust ci ha obbligati a un ripensamento critico e soprattutto morale.”,
ammetteva il cancelliere Helmut Heinrich Waldemar Schmidt.
“Nessuno in futuro potrà più dire di non avere saputo nulla. Questo film non ammette più scusanti a buon mercato.”
“Con Holocaust è successo qualcosa di incomprensibile e di diverso.”,
afferma un portavoce della WDR.
In effetti, la prima sera di programmazione, il 32% dei tedeschi ha seguito la trasmissione, la seconda il 36%, la terza il 39%, la quarta il 41%, nonostante sia stata mandata in onda sulla WDR, la rete culturale, che ha un indice di ascolto molto basso. In un crescendo drammatico, il kleine mann tedesco rimane, per la prima volta, turbato dalla verità. Molti giovani arrivano a definirsi figli di Weiss, una sorta di muto omaggio alla famiglia ebrea protagonista del dramma televisivo.
Qualcuno parla di fuoco di paglia.
Possibile, ci si chiede, che tutti abbiano compreso solo ora e per merito di uno sceneggiato americano?  
“Dopo che i tedeschi da decenni hanno represso istintivamente il loro passato incancellabile, ecco la verità.”,
scrive Stern, dando il via alla pubblicazione di una raccapricciante serie di fotografie, che rifà l’esatta cronologia del genocidio degli ebrei.
“Una svolta nella coscienza civile tedesca.”,
gli fa eco l’Allgemeine Jüdische Wochenzeitung. Del dramma americano si parla, ormai, ovunque, anche nel corso della conferenza dell’episcopato tedesco, dove, tra l’altro, si viene ad affermare:
“Difficile è comprendere oggi le ragioni per le quali la Chiesa cattolica non abbia preso una posizione sufficientemente netta contro le leggi antisemite e gli eccessi del regime nazista.”

“I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo vi è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non a lunga scadenza.” 
Hannah Arendt

La stampa tedesca continua, intanto, a dedicare pagine su pagine alle “reazioni devastanti”, che, a poco a poco, la serie televisiva procura alla coscienza di tutto il Paese.
“Un inquietante tuffo nel passato”;
“Un appuntamento con la Storia”;
“Un incontro  con la propria coscienza”;
titolano, infatti, i maggiori quotidiani.
“Per 9 ore la Germania è tornata indietro, per rivivere il suo passato inconfessabile, un passato che noi tedeschi abbiamo troppo spesso dimenticato.”
“In realtà, nessuno si aspettava l’effetto dirompente di Holocaust. È come se, oggi, tutti volessero sapere la verità, quella verità che per anni ci siamo rifiutati di conoscere.”,
commenta la Frankfurter Allgemeine Zeitung.
“Oggi è finalmente finita l’incapacità tedesca di rattristarsi.”
Tutti vogliono sapere di più e la WDR deve installare linee telefoniche supplementari per dare, a chi voglia, la possibilità di chiamare. Die Zeit parla di psicosi collettiva, di terremoto di coscienze, definendo la Germania “una tecnologia senza memoria, che solo adesso ha aperto gli occhi”.
“Holocaust è stata la trasmissione più emozionante e quella che ha avuto la più grande portata politica dopo l’avvento della televisione.”,
sostiene Wolfgang Haus di Radio Berlino Libera. Eguale soddisfazione esprime anche Heinz Galinski, presidente della comunità ebraica di Berlino Ovest.
“L’emozione ha superato qualsiasi previsione.”,
è il parere di Werner Jochmann, direttore del Forschungsstelle für Zeitgeschichte [Centro di ricerche sul nazionalsocialismo] di Amburgo.
“Ma non bisogna farsi illusioni: il brivido che oggi ha scosso la Germania non durerà a lungo.”
Per evitare questa possibilità, tuttavia, la Bild Zeitung inizia a pubblicare la storia di Holocaust a puntate, in inserto da staccare e da conservare. Ultima nota favorevole a Holocaust, quella della Rheinische Post:
“Non è antitedesco… È una testimonianza che investiga su come una tale catastrofe [il nazismo, n.d.r.] abbia potuto accadere in un Paese civile. … E finalmente non si è visto lo stereotipo nazista di tanti vecchi film americani, né l’ufficiale con il monocolo che batte i tacchi.”
Le prese di posizione degli oltre 350 gruppi neonazisti, allora attivi in Germania, riguardo allo sceneggiato televisivo, furono, invece, fortunatamente, sterili e isolate. Qualche incidente si era avuto prima della programmazione, quando alcuni estremisti avevano tentato di sabotare il film, durante le riprese delle scene in esterno girate a Wedding [Berlino Ovest], dove era stato ricostruito il Ghetto di Varsavia e quando 2 bombe da 10 chilogrammi erano state fatte esplodere a Coblenza e a Münster, contro i ripetitori della WDR, per protestare contro il successo riportato da Holocaust in America e, evidentemente, con lo scopo ben preciso di scoraggiarne l’acquisto in Germania.
Poco tempo dopo, il borgomastro di Monaco era riuscito a impedire una manifestazione di fanatici dell’NPD, Nationaldemokratische Partei Deutschlands [Partito Nazionaldemocratico di Germania], che intendeva opporsi all’“offensiva antitedesca posta in atto dallo sceneggiato americano”.
Il giorno dopo la messa in onda della prima puntata, alcuni neonazisti di Berlino Ovest scendevano in piazza con il volto mascherato da asino e con vistosi cartelli appesi al petto, che spiegavano il motivo del loro gesto:
“Siamo dei somari che credono a quello che viene mostrato in Holocaust.”
Poi, tutto rientrò nella normalità.
Solo il giornale neonazista di Gerhard Frey, National-Zeitung, continuò a scagliarsi violentemente contro il dramma televisivo, che venne così definito:
“Una falsificazione della storia, infarcita di pregiudizi, luoghi comuni, superficialità, mezze verità e complete menzogne. Uno show televisivo scandaloso, uno spettacolo triviale e strappalacrime hollywoodiano, un melodramma, una fiaba dell’orrore, la menzogna del secolo, una violazione della verità, una velenosa manifestazione di odio antitedesco, una esibizione di sangue fatto con il pomodoro.”
Come se ciò non bastasse, il foglio nazista tentò, anche, di pareggiare il conto con la Storia nel rimproverare agli ebrei lo sterminio di 75mila persiani, avvenuto  dal 565 al 485 a.C.
In una bolla di sapone finì, anche, il complotto contro l’ex-accusatore americano al Processo di Norimberga, Robert Kempner e lo scrittore Eugen Kogon, ex-deportato a Buchenwald e autore di un’opera fondamentale sul nazismo, L’Etat SS. Quello che avrebbe dovuto essere un clamoroso gesto di protesta contro Holocaust e contro la presenza di Kogon a un dibattito televisivo, finì con l’arresto di 15 persone, che, a eccezione di una, vennero, subito, rilasciate.
Anche l’altra Germania non fu immune al contagio di Holocaust.
A Berlino Est, secondo quanto riferiscono alcuni organi di stampa comunisti, vi fu sorpresa, orrore e indignazione, non tanto per lo sceneggiato in se stesso, quanto per la chiaramente diffusa ignoranza del periodo nazista dei tedeschi occidentali.
A livello ufficiale, tuttavia, il regime comunista riuscì a ostentare la massima indifferenza, come se tutto ciò fosse di esclusiva pertinenza e riguardasse solo la Repubblica Federale. Tuttavia, anche a Est, non mancarono discussioni e polemiche, tra quel milione di tedeschi orientali che riuscivano a captare i programmi televisivi di Bonn.
“Qui da noi Holocaust non verrà mai trasmesso.”,
è il commento del critico marxista Robert Havemann.
“Il regime dovrebbe spiegare pubblicamente perché ha, sempre, appoggiato gli arabi contro gli ebrei.”
La ripercussione del fenomeno Holocaust nella Repubblica Federale minacciava, tuttavia, di incrinare anche i delicati equilibri politici che reggevano l’attuale politica interna.
Proprio negli stessi giorni in cui veniva programmato lo sceneggiato televisivo, il Bundestag iniziava a discutere se i crimini, compiuti durante il Drittes Reich, dovessero andare in prescrizione dal primo gennaio 1980. 



La copertina che Der Spiegel dedicò a Holocaust.[17]

La massiccia coalizione democratico-cristiano-liberale [CDU-CSU-FDP], che poteva, fino a qualche tempo prima, vantare sulla carta una superiorità schiacciante a favore, dopo Holocaust vide sgretolarsi  la propria posizione e letteralmente rivoltarlesi contro buona parte dell’opinione pubblica a vantaggio dell’SPD [partito socialista], che si batteva, invece, contro questo provvedimento.  Il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal poteva, quindi, essere soddisfatto e dichiarare:
“Dopo che i tedeschi hanno visto Holocaust ricevo, ogni giorno, centinaia di informazioni. Mi telefonano o mi scrivono: “Dopo quello che ho visto non posso più tacere.” Ma soprattutto insistono perché la partita non venga considerata chiusa.”
In Austria, il dramma televisivo suscitò più o meno le medesime emozioni destate in Germania, anche se in tono più attenuato e dimesso:
“Questa opera è un monito perché l’uomo non debba più ritornare in quelle tenebre.”,
fu il giudizio dell’ex-deportato Hermann Langbein, lo studioso più preparato e il cronista più serio del lager di Auschwitz.   

“A partire da Auschwitz sappiamo di che cosa è capace l'uomo. A partire da Hiroshima sappiamo che cosa vi è in gioco.” 
Viktor Emil Frank


Daniela Zini
Copyright © 4 febbraio 2017 ADZ


[1] Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e ideologici,  che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo di azione.

[2] Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

[3] Nel 2015, abbiamo commemorato, i 100 anni del genocidio armeno, ma il genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].

[4] Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.

[5] Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese del 1994”.
Allo scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
 Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due tentativi di suicidio.
Nel 2003, Dallaire pubblica Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano.

[6] La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di  ”digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno, infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide con quella del Popolo stesso.

[7] Il Putsch di Monaco [noto anche come Putsch della birreria, in tedesco: Bürgerbräu-Putsch] fu un tentativo fallito di Colpo di Stato, organizzato e attuato da Adolf Hitler, tra l’8 e il 9 novembre del 1923.

[8] Domenica 20 maggio, la televisione italiana manda in onda la prima delle quattro puntate dello sceneggiato americano Holocaust, la cui apparizione sui teleschermi americani, tedeschi e francesi ha suscitato emozione, polemiche ed esami di coscienza. Attraverso la storia parallela di due famiglie, quella ebrea dei Weiss e quella ariana dei Dorf, Holocaust ricostruisce, dal 1938 al 1945, la tragedia di 6 milioni di innocenti, condannati a morte dal folle progetto di soluzione finale del problema ebraico, vale a dire il piano che prevedeva l’annientamento totale di tutti gli ebrei d’Europa. Attraverso le quattro puntate del dramma televisivo, i Weiss conoscono la Notte dei Cristalli, le pratiche di eutanasia, i campi di sterminio di Auschwitz, Buchenwald, Sobibor e Mauthausen, l’orrore del “ghetto modello” di Theresienstadt, la guerra antipartigiana, la rivoluzione del Ghetto di Varsavia e, per l’unico superstite, la fuga in Palestina a bordo dell’Exodus.   
Tratto da un romanzo dello scrittore Gerald Green, che in tutto il mondo ha venduto milioni di copie, Holocaust è stato, in parte, girato negli stessi luoghi che hanno visto la tragedia del popolo ebraico, in 18 settimane, con un costo complessivo di 6 milioni di dollari. Regista è Marvin J. Chomsky, lo stesso che ha diretto, in parte, Radici. Gli interpreti principali sono Michael Moriarty [Eric Dorf] e Meryl Streep [Inga Helm Weiss]. Nella famiglia ariana dei Dorf, Erik, un avvocato fanatico e scioperato, spinto dalle ambizioni della moglie, entra nelle SS, diviene ben presto il braccio destro di Reinhard Heydrich e partecipa, spietatamente e senza emozioni, agli atroci piani di sterminio nazisti. Il fatto che la sua famiglia sia fino ad allora stata curata dal medico ebreo Karl Weiss non gli impedisce di divenire uno scrupoloso burocrate della morte.
“Bisogna sterminare gli scorpioni, i topi e gli ebrei.”,
diviene il suo motto preferito. Alla fine di una interminabile catena di delitti, dopo il crollo del nazismo e di tutti i suoi miti, si ucciderà con il veleno, dopo essersi consegnato prigioniero agli americani. Nella famiglia Weiss, quando iniziano le prime violenze naziste, Rudi è l’unico a comprendere dove voglia arrivare la fanatica ferocia delle SS e a scappare, quindi, di casa. Suo padre Josef e sua madre Berta vengono, invece, deportati ad Auschwitz, mentre suo fratello Karl, un pittore che ha sposato Inga, una ragazza ariana, viene arrestato e rinchiuso nel lager di Buchenwald, dove subirà le più atroci torture. Sua sorella Anna finirà, invece, in una clinica per minorati mentali, dove verrà eliminata. Rudi, che è riuscito a riparare in Cecoslovacchia, incontra Helena, la sposa e insieme a lei passa a combattere i nazisti a fianco dei partigiani russi. Dopo la morte di Helena, riuscirà a riparare, fortunosamente, in Palestina.   

[9] Every American family should see “Holocaust.” It is the most powerful film ever made for television. But the immediate practical concern for the NBC Television Newwork is not how many American families but how many Nielsen families see “Holocaust” when the 9 1/2-hour drama about the Nazi extermination of European Jews is televised over a four-night period beginning Sunday.
This is pivotal moment for television.The ratings of “Holocaust” could affect programming decisions for years to come. Networks will study them as indicators of whether TV viewers can be lured from the usual numb escapism for something grim, provocative and emotionally demanding. Normally TV offers fast , fast, fast relief from pain; “Holocaust” opens an old would that much of the world has spent three decades trying to forget.
We are at the crossroads. Network competition has grown too relentless to allow for philanthropic gestures that don’t draw viewers in the required tens of millions. “Holocaust” will help determine whether TV is to be exclusively the national font of fun or a medium in which the difficult and the troubling also can be expressed to a “Holocaust” is not unrelieved woe, but it is a times a shattering congfrontation with the darkest components of the human condition, and it ironically comes at the end of a TV season in which the silly, the vapid and the puerile have thrived without challenge.
“If it fails on the same magnitude as ‘King,’ if it is what’s considered a colossal failure,” says “Holocaust” producer Robert Berger, “that means it could still have been seen, at least in part, by 65 million people. Failure in television is a relative thing. If it is a success, though, that would encourage the other networks to do similar things. If it fails in the ratings, that would be a death knell for serious subject matter on television. And that would be tragic.”
Author Gerald Green’s orginal idea for “Holocaust” took shape years ago as a film about the artists at Thersienstadt, a model concentration camp maintained by the Nazis as amouflage for the atrocities committed at Auschwitz, Buchenwald and others. ABC was approached with Green’s concept and rejected it as a “downer” that couldn’t be turned into cheery entertainment. In Hollywood now, ABC staffers are spreading the word that “Holocaust” will flop because viewers don’t want to be, or even risk being, depressed. If they don’t, it’s partly because ABC has been feeding them a steady diet of cotton candy ever since, and despite, the success of “Roots.”
Incoming NBC President Fred Silverman - outgoing head of programming at ABC - has told colleagues that he thinks “Holocaust” will draw a large audience but that he would have preferred to title it “Two Families” [the film follows the sometimes overlapping destinies of a Jewish and a Nazi family] and promoted it “differenlty” than NBC is doing - presumably, playing up the melodrama, of which there is plenty, and downplaying the history.
From Stockton, Calif., where he is making a new movie, Marvin Chomsky, who directed all of “Holocaust” [actually 7 1/2 hours without commercials], says he does not think the subject matter will frighten viewers off. “‘Roots’ was not a fun festival, either,” Chomsky says. “Soap opera has turned on human misery ever since I was a kid, and before, and it remains popular. ‘Holocaust’ is not one gore after another. We don’t dwell constantly on misery or breast-beating. I think the moments of agony are handled truthfully.”
Chomsky directed six of the 12 hours of “Roots,” which was indeed watched by record millions. But “Roots” contained proven commerical elements, including scenes of sex and violence, that “Holocaust” largely lack “Roots” was set in a faraway past that distanced the material considerably and made it safer. “Holocaust” covers an era much closer to the present.
The producers and actors discovered the sensitivty of the material when they shot the film in Austria and Germany in 18 weeks last summer. In Berlin, production was disrupted by a man who threw beer bottles at the filmmakers from a balcony. In one small German town, a little old man repeatedly walked in front of the camera to shout, “I killed you Jews once and I’ll kill you again.” Swastikas were painted on some of the sets.Two of the first four days’ shooting were lost when the processing laboratory mysteriously ruined the film, Berger said; another lab was found. Many German and Austrian techicians refused to work on the film.
Officials in Hungary, Czechoslovakia and Yugoslavia gave permission to film in those countries. Then they read the script. Permission wihtdrawn. Officials sais the scripts had “Zionists” elements, Berger was told not to bother trying to get into Poland or East Germany, either. “In the places we did shoot,” he says, “the reaction ranged from complete co-operation to complete hostility.”
The social importance of “Holocaust” is not in reminding the world that the Nazis were monsters. In fact, every attempt is made to humanize them, to show their pitiful as well as despicable aspects, and to wrest them from the realm of caricature, even comic caricature, into which they have fallen in movies like “The Producers” and TV series like “Hogan’s Heroes.”
“There are only two ‘heil Hitlers” in the whole thing,” Chomsky notes; that old boot-clicking Nazi stereotype may have been as glamorizing as it was stigmatizing. “Holocaust” does not aportion guilt to groups or sects or nations so much as it explores the more disturbing shades of gray, the guilt shared by all. Media-conscious religious groups and television itself, with its gospel according to whoopee, have helped create in the ‘70s a psychological environment that often seems hedonistically if neurotically guilt-free; that’s another, reason one may fear for the drawing-power of “Holocaust” and hope that those fears will be proven wrong.
There are peripheral controversies involved with “Holocaust” as well. NBC buckled to pressure from a few affiliates and removed four seconds of decidely anti-erotic frontal nudity from the finished film, over Chomsky’s protests. Half the cut footage was an actual still photograph of two women being led naked to a gas chamber. The other half was a reenactment of such a scene in which unclothed women could be glimpsed in the background.
“To me, this is like photographing a horse race and not showing the finish line,” says Chomsky, “We were depicting the conclusion of the Nazi logic of total dehumanization; they were reducing the Jews to a sub-human level. This kind of thing has already been seen in documentary footage. But the affliliates cried out before any of them had even seen our film. Somebody warned them and got them very, very nervous.”
Executive producer Herbert Brodkin could not dissuade NBC President Robert Mulholland from cutting the two brief scenes [there is still a considerable amount of male and female semi-nudity in the film]. Producer Berger thinks the cuts are relatively unimportant.
“It’s too bad the network couldn’t see there was a difference between this and ‘Charlie’s Angels,’” he says. “This is not jigglevision; this is anything but prurient in intent. But we are talking about six feet of film out of 50,000 feet that will get on the air. And if that four seconds had given one network affiliate the excuse not to carry the show, it’s worth it to cut it out.”
It seems incredible that stations unruffled by the smutty shananigans of “Aspen” or “79 Park Avenue” or “The Moneychangers” would get into lathers over the fleeting nudity in “Holocaust,” but station managers are notoriously jittery about controversial programming.
Partly to protect tis against possible affiliate defections over such troublesome material, and partly because “Holocaust” is a difficult program to “promote” without being too blatantly tasteless ever for TV, NBC has spent weeks lining up and circulating recommendations from civic and religious leaders.
It begins to sound like watching “Holocaust” is some kind of painful civic duty, but Green and Chomsky and a cast of true actors as opposed to guest stars have made the fictional characters tremendously dimensional and affecting against the authentic historical background. The impulse to be sanctimonious or preachy has been for the most part kept in check; “Holocaust” is more story than sermon. And yet the film’s spiritual impact on the nation could be as great as that of any story television has ever told, including “Roots.”
At a press conference here, Rabbi Marc Tanenbaum of the American Jewish Committee said the programm represents “an unprecedented exposure of the meaning of the holocaust to more people, potentially, than all the books and studies and curriculum ever prepared on the subject.”
“I’ve seen the complete film three thiems.” said Tanenbaum. “And each time I came away bawling like a baby. It really has a transforming power. It really could make a difference.”
“Holocaust” really could make difference in television as well as a difference in public attitudes toward the holocaust and what it represents. Everyone in television will be watching next week to see how much of the nation watches this program; 1,100 families with Nielsen meters on their TV sets will in effect be casting decisive ballots on whether TV is to get better or become even worse. However they vote, the mere fact that “Holocaust” got on the air takes the wind out of the sails - at least for the moment - of all those who think there is no hope for television. There is some, after all. Come Monday more or there may be less.”
Tom Shales, NBC’s Powerful “Holocaust”, Washington Post, 12 aprile 1978.
 
[10] American Nazis, despite much recent attention, do not appear to he more than a fragmented assortment of small, widely scattered bands of rightwing ideologues.
Although their flamboyant uniforms and their penchant for noisy demonstrations for generally unpopular causes produce frequent newspaper headlines and television coverage, the total of selfstyled Nazi “storm troopers” in the nation is about 1,000, if that, according to all the best evidence from knowledgeable sources.
And with all their common enthusiasm for brown shirts, swastikas, jackboots and preachments against the Jews and blacks. the disparate National Socialist organization are frequently at war among themselves.
But the long court fights over a Nazi attempt to march in the predominantly Jewish Chicago suburb of Skokie. and NBC’s televised showing of the “Holocaust,” which revived memories of Hitler’s extermination of six million Jews have brought the American Nazis a notoriety that seems to be greatly disproportionate to their numbers.
Interviews with officials familiar with the situation in a dozen major cities, most of which are known to have Nazi organizations, uncovered no group of significant numbers. A spokesman for the Federal Bureau of Investigation in Washington said that the bureau discounted the Nazis as a threat and several years ago abandoned its surveillance of them along with many other fringe organizations.
The AntiDefamation League of B’nai B’rith, which is usually credited in knowledgeable circles with keeping a close and relatively objective watch on rightwing groups, especially those that espouse antiSemitism, estimated in a study issued last week that membership in the country’s various Nazi parties was 1,000 to 1,200.
The report, compiled by the league’s factfinding department in New York under the direction of Irwin Suall, described the Nazis as “politically impotent” despite two decades of attempted recruitment since George Lincoln Rockwell Jr, founded his American Nazi Party. Mr. Rockwell was killed in 1967 by disgruntled follower.
“Although there has been a growing militancy among Nazitype outfits in West Germany and disturbing successes polled by England’s neoNazi National Front,” the report said, “the apparent ‘Hitler Wave’ has given the movement in the United States little more than an increased visibility. Here it. remains largely a mixed hag of young malcontents and misfits, older hatemongers and other contorted personalities whose visibility is altogether disproportionate to their smell numbers.”
But while the report said that the Nazi numbers today were apparently only about the same as they were at the peak of Mr. Rockwell’s reign in the mid60’s, it also said that it felt the National Socialist groups should he “closely watched” because of their “potential for generating temporary local passions out of local tensions and for creating occasional disturbances, often with tragic consequences.”
And reports from various cities around the nation indicated that that “potential” had apparently been realized in a number of areas in recent months, such as Chicago, St. Louis, San Francisco, Detroit and Minneapolis.
Though the National Socialist White People’s Party, which is the name Mr. Rockwell gave to his American Nazi Party shortly before his death, is still generally considered to be the largest group, it has been overshadowed in publicity for more than a year by the National Socialist Party of America, which based here.
The AntiDefamation League places the “hardcore members” of the National Socialist White People’s Party, which based in Arlington ,Va., at fewer than 100. But it says that the group has perhaps 500 socalled “official supporters” who are supposed to contribute at least S5 a month.
The party has branches in Chicago, Cleveland, Los Angeles, Milwaukee, Minneapolis, San Francisco and in the TracyStockton area in California. It is reported to seldom turn out more than 20 or 30 Nazis for street rallies in any of those places.
In recent >ears, Matt Kochi, who succeeded Mr. Rockwell as commander, has attempted to improve his party’s reputation by encouraging members to seek power through the political process. And lately the partys’ principal activity in the Washington area has been demonstrating against pornographic bookstores. One such recent demonstration, and another calling on New Zealand to release an imprisoned Nazi leader, drew 10 to 20 persons each.
“Their activity has been minimal since the demise of Rockwell,” said Lieut. Walter L. Hughes of the Arlington Police Department.
The relatively subdued recent behavior of the old Rockwell group has left all but eclipsed as the publicity spotlight has spun to the Chicago headquarters of the National Socialist Party of America.
Frank Collin, a former Rockwell follower who was expelled a few years ago because his father, a survivor of a German death camp, is Jewish, seems to have found the most effective attentiongetting device yet for his Nazi group here.
It was Mr. Collin who declared last year, after his group was denied a permit. for a demonstration in Marquette Park on Chicago’s Southwest Side, that he would seek instead to parade in Skokie, a village with many survivors of the holocaust among its 40,000 Jewish residents.
The village immediately passed ordinances forbidding groups that preached hatred or wore militarystyle uniforms to march or pass out “hate” literature and requiring $300.000 of liability insurance from any group that wanted to demonstrate on public property.
In court battles that have been going on ever since, the State Supreme Court has termed the ordinances unconstitutional. So has the Federal District Court. The Court of Appeals for the Seventh Circuit has heard the case and a ruling is expected shortly.
As national attention has focused on the litigation, in which the Nazis are represented by the American Civil Liberties Union, Mr. Collin has readily accepted each new postponement of the march as a chance to gain further publicity for his cause.
But despite the publicity, his band of 20 or so followers has shown little sign of expanding.
The Collin band, whose Rockwell Hall headquarters in the racially tense Marquette Park neighborhood bears the slogan “Stop the Niggers,” has produced its largest crowds, swollen by local toughs, when it has demonstrated against proposed black marches to the park.
Mr. Koehi and the National Socialist White People’s Party have lately been evidencing signs of jealousy at the attention their Chicago rivals have been getting.
In a recent visit to his party’s Middle Western headquarters in nearby Cicero, Mr. Kochi criticized the planned Skokie march as “nothing but cheap Jew-baiting.”
“We want to dissociate ourselves from this march completely,” he said.
At the same time, he and his followers have published fliers with Mr. Collin’s picture and a standing offer of a $10,000 reward to anyone “who can prove conclusively” that Mr. Collin is not Jewish.
Mr. Collin denies that he is Jewish, although family members say that he is.”
Douglas Kneeland, Nazis in U.S.: Small Bands At War With One Another, New York Times, 19 aprile 1978.

[11] The story is gripping, the acting competent, the message compelling—and yet. The calculated brutality of the killers, the silent agony of the victims, the indifference of the outside world—this TV series will show what some survivors have been trying to say for years and years. And yet something is wrong with it. Something? No: everything.
Untrue, offensive, cheap: as a TV production, the film an insult to those who perished and to those who survived. spite of its name, this “docudrama” is not about what some of us remember as the Holocaust.
Am I too harsh? Too sensitive, perhaps. But then, the film is not sensitive enough. It tries to show what cannot even imagined. It transforms an ontological event into soapopera. Whatever the intentions, the result is shocking.
Contrived situations, sentimental episodes, implausible coincidences: If they make you cry, you will cry for the wrong reasons.
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Why is the series called “Holocaust”? Whoever chose the name must have been unaware of the implications. Holocaust, a TV spectacle. Holocaust, a TV drama. Holocaust, a work of semifact and semifiction. Isn’t this what so many morally deranged “scholars” have been claiming recently over the world? That the Holocaust was nothing else but an “invention”? NBC should have used the name in its subtitle, if at all.
The network should also have been more rigorous in its research. Contrary to what we see in the film, Jewish refugees who crossed the Russian border before the German invasion were not allowed to go free but were arrested, interrogated and jailed; Auschwitz inmates were not allowed to keep suitcases, family pictures and musicsheets; Jews do not wear prayer shawls at night; there is a blessing for Torahreading and another one for weddings—the Rabbi who performs the wedding in the film recites the wrong blessing.
Other, more serious irritants: Mordechai Anielewitz, the young commander of the Warsaw Getto uprising, is shown as a caricature ofhimself; stereotype Jews and stereotype Germans; the exaggerated emphasis on the brutality of Jewish ghettopolicemen and Jewish Kapos; the obsessive theme of Jewish resignation.
Are we again to be subjected to debates on Jewish passivity versus Jewish heroism? They were painful yet fashionable during the Eichmann trial; why renew them now? During the Holocaust, even the victims were heroes and even the heroes died as martyrs.
But I am more disturbed by the overall concept of the pro. duction. It tries to tell it all: what happened before, during and after. The beginning and the end. The evil majority and the charitable minority. The bloodthirsty SS and Father Lichtenberg. Himmler and Eichmann, Blobel and Franck, Hoess and Nebe: hardly a name is omitted, hardly an episode obliterated. We hear their ideological discussions, we see them at work. We learn how they all used their abilities, their inventiveness and their patriotism to achieve a perfect system of mass murder, for it took many talents on the part of many highly educated persons to bring about a catastrophe of such magnitude.
On the opposite side: the first signs, the first decrees, the first warnings. Expropriation, confiscation, deportation. The ghettos. The manhunts. Hunger. Fear. The shrinking universe will ultimately be reduced to the gaschambers. But gether with the dying victims, we are shown the fighting heroes: partisans, resistance groups, armed insurgents. Courage and despair displayed by both believers and nonbelievers: it is all there.
Too much is there. The film is too explicit, too allencompassing. The story of one child, the destiny of one victim, the reverberations of one outcry would be more effective—even from the artistic point of view. Austerity, sobriety, restraint, what the French call “pudeur,” are all qualities needed in such a picture. They are sadly missed here.
Too much, far too much happens to one particular Jewish family and too much evil is perpetrated by one particular German officer.
Members of the fictional Weiss family experience the Kristallnacht, euthanasia, Warsaw, Buchenwald, Theresienstadt, BabiYar, Sobibor and Auschwitz. Somehow the most famous—or infamous—events and places have been rearranged to fit into the biographies of two families. Thus, Joseph Weiss helps save Jews at the Umschlagplatz in Warsaw, his brother is purchasing weapons for the Underground, his wife teaches ghetto children Shakespeare and music, his son is among the artists who clandestinely prepare their own testimony in the form of drawings, his daughter perishes as a victim of euthanasia, his youngest son Rudi survives BabiYar and joins the Jewish partisans in the Ukraine, where he participates in the armed uprising of Sobibor—and more, and more. Whatever happened anywhere, happened to this family. And more so.
The same applies to Erik Dorf: he too is everywhere. We find him involved in every salient event. Who advises Heydrich on how to deal with Jewish insurance claims after the Kristallnacht? Dorf. Who supervises the mobile gas units? Dorf. Who happens to at BabiYar during the mass executions? Dorf. Who prepares the plans for Auschwitz? Dorf, again. Who purchases Zyklon B gas from respectable German industrialists? Dorf. It is simply too much action for one man, any man. One cannot believe that such a person existed—and, indeed, Erik Dorf did not exist. Neither did the Weiss family.
In this “docudrama,” the principal characters are fictitious, whereas the secondary ones are not. Yet, for understandable artistic reasons, all are treated as authentic. On this level, the implications are troubling and farreaching: how is the uninformed viewer to distinguish the one from the other? Chances are he will believe that they are either equally true or equally invented. The private lives of the two families are so skillfully intertwined with historical facts that, except for the initiated, the general public may find it difficult to know where fact ends and fiction begins. This would, of course, defeat the very lofty goal the film’s creators have set for themselves.
In film as in literature, it is all a matter of credibility. Were the film a pure work of fiction or straight documentary, it would achieve more. The mixture of the two genres results in confusion. And occasionally in scenes that I, for one, found in poor taste. One striking example: We see long, endless processions of Jews marching ‘toward BabiYar—with “appropriate” musical background. We see them get undressed, move to the ditch, wait for the bullets, topple into the grave. We see the naked bodies covered with “blood”—and it is all makebelieve.
Another example: We see naked women and children entering the gaschambers; we see their faces, we hear their moans as the doors are being shut, then—well, enough: why continue? To use special effects and gimmicks to describe the indescribable is to me morally objectionable. Worse: it is inde cent. The last moments of the forgotten victims belong to themselves.
I know: people will tell me that filmmaking has its own laws and its own demands. After all, similar techniques are being used for war movies and historical recreations. But the Holocaust is unique, not just another event. This series treats the Holocaust as if it were just another event. Thus, I object to it not because it is not artistic enough but because it is not authentic enough. It removes us from the event instead of bringing us closer to it. The tone is wrong. Most scenes do not ring true: too much “drama,” not enough “documentary.”
In all fairness, I must add that many Jewish and nonJewish organizations supported the project and promoted it among their members. But they did so even before they could view the programs. This does not mean that people will not be moved. Some who saw previews have been profoundly affected. And I know, don’t tell me: the film was not meant for viewers like me but for those who were not there or not even born yet, those who are only beginning to discover the reality of deathfactories in the heart of civilized Europe.
You are right, of course. But—and it is an important but—I am appalled by the thought that one day the Holocaust will be measured and judged in part by the NBC TV production bearing its name. Listen to what one of the studyguides, prepared by the National Council of Churches, has been telling, its readers: “ ‘Holocaust’ may come to be known as the definitive film on the Holocaust in terms of meticulous accuracy, totality of material presented, and its use of carefully selected archival footage....” Though surely wellintentioned, such misleading, complacent statements are dangerous: It simply is not so. The witness feels here dutybound to declare: What you have seen on the screen is not what happened there. You may think you know now how the victims lived and died, but you do not. Auschwitz cannot be explained nor can it he visualized. Whether culmination or aberration of history, the Holocaust transcends history. Everything about it inspires fear and leads to despair: The dead are in possession of a secret that we, the living, are neither worthy of nor capable of recovering.
Art and Theresienstadt were perhaps compatible in Theresienstadt, but not here—not in a television studio. The same is true of prayer and Buchenwald, faith and Treblinka. A film about Sobibor is either not a picture or not about Sohibor.
The Holocaust? The ultimate event, the ultimate mystery, never to be comprehended or transmitted. Only those who were there know what it was; the others will never know. It was easier for Auschwitz inmates to imagine themselves free than for free persons to imagine themselves in Auschwitz.
What then is the answer? How is one to tell a tale that cannot be—but must be—told? How is one to protect the memory of the victims? How are we to oppose the killers’ hopes and their accomplices’ endeavors to kill the dead for the second time? What will happen when the last survivor is gone? I don’t know. All I know is that the witness does not recognize himself in this film.
The Holocaust must be remembered. But not as a show.”
1978.

[12] Il primo febbraio del 1943, su Le Petit Parisien era apparso un articolo firmato da Darquier:
“Je propose au gouvernement:
1.     d’instituer le port de l’étoile jaune en zone non occupée;
2.     d’interdire aux Juifs, sans aucune dérogation, l’accès et l’exercice des fonctions publiques […];
3.     le retrait de la nationalité française à tous les Juifs qui l’ont acquise depuis 1927.

[13] Léon Poliakov ha pubblicato, in Italia, Il Nazismo e lo sterminio degli ebrei, Il mito ariano, Storia dell’antisemitismo.

[14] Inventur [Inventario, 1948] apparsa, per la prima volta, nell’antologia, Deine Söhne, Europa [I tuoi figli, Europa], dedicata da Hans Werner Richter alla Poesia dei detenuti nei campi di prigionia alleati.

Inventario [1948]
Günter Eich

Questo è il mio berretto,
Questo è il mio cappotto
Qui le mie cose per fare la barba
Nel sacco di lino.

Scatola di latta:
Il mio piatto, il mio bicchiere,
Ho inciso sulla latta
Il nome.

Inciso con questo
Prezioso chiodo
Che nascondo
Agli occhi invidiosi.

Nel mio sacco ci sono
Delle calze di lana
E altre cose
Che non dico a nessuno,

Di notte fa da cuscino
Alla mia testa.
Questo cartone
Sta tra me e la terra.

Ciò che amo di più
È la mina della matita:
Di giorno mi scrive i versi
Che ho pensato di notte.

Questo è il mio quaderno
Questa la mia tela,
Questo il mio asciugamano,
Questo è il mio refe.

[15] Auf meine Nazi-Vergangenheit komme ich ungern zu sprechen. Nicht weil ich etwas zu verbergen hätte, sondern, ganz umgekehrt, weil ich zufällig aus einer Familie stamme, die wegen ihrer katholischen Überzeugung in strikter Gegnerschaft zum Hitlerreich stand.
Helden waren auch wir allesamt nicht. Ich beispielsweise, Jahrgang 1923, wurde 1938 Mitglied der Hitler-Jugend in einer Marionettenspielschar. Aber mit dem Schulspeisungs-Kakao, den ich als Sproß einer kinderreichen Familie kostenlos suckeln durfte, sog ich Haß und Feindschaft gegen das Hitler-Regime mit ein. Mein Vater und meine Freunde, wir waren überzeugt, daß Hitler einen neuen Krieg machen werde und daß er ihn, um Deutschlands willen, verlieren müsse. Nie war ich so deprimiert wie in den großen Tagen von 1940, als Hitler durch Paris streifte.
Wie gesagt, nicht mein Verdienst. Man konnte auch anders aufwachsen. Ich schicke diese Erklärung nur voraus, um zu belegen, daß ich die Verbrechen der Nazis, wo ich ihrer gewahr wurde, sorgfältig registriert habe [mein Vater glaubte sogar, die Nazis hätten den Bischof von Hildesheim, Nikolaus Bares, vergiftet, und wir wissen ja inzwischen, daß die Nazis deutsche Bischöfe nicht umgebracht haben].
Dreieinhalb Jahre war ich, Arbeitsdienst eingerechnet, an der Ostfront, als Soldat in einer selbständigen [Schwerpunkt-]Einheit der Heeresartillerie. Ich bin dort viel herumgekommen. Aber erst nach Kriegsende erfuhr ich, daß die Nazis die Juden systematisch ermordet hatten. Auf diese Idee war selbst ich, der ihnen alles zutraute, nicht gekommen.
Der Kaufmann Rüdenberg und seine Frau in Hannover, der meinem Vater seine Bildersammlung, lauter Lovis Corinth”s, zum Geschenk anbot [“Nach dem Krieg geben Sie mir die Hälfte wieder, wenn ich noch lebe”, mein Vater wollte nicht, er fand die Bilder auch zu schweinisch], was war aus beiden nach unserer Ansicht geworden? Nun, man hatte sie nach Osten gefahren und in Arbeitslager gesteckt. Ihre Chancen, zurückzukehren, waren 50:50, vielleicht etwas geringer, wenn man ihr Alter bedachte. Aber einem Juden, der noch arbeiten konnte oder der pfiffig war, würde man dem nichts zu essen geben? Undenkbar übrigens, meine eigene Chance, als VB-Funker den Krieg zu überleben, schätzte ich nicht viel höher ein].
Als Kantinenwirt des Reichsarbeitsdienstes in Kulm 1941 erfuhr ich von dem Vormann Schnase [an dem Tag, als er das Lager verließ], SS-Leute hätten Kulmer Juden so lange mit Bambusstöcken auf die Hoden geschlagen, bis diese ohnmächtig geworden seien. Nun, das glaubte ich, so schätzte ich die Dreckskerle ein.
Gerüchten dieser Art nachzugehen, fehlte unsereinem die Zeit, die Gelegenheit und die Energie. Wozu auch? Wir hatten mit der Nazi-Maschinerie selbst genug zu tun, und machen konnten wir ohnehin nichts. Wir wollten nichts anderes als die Juden auch, nämlich überleben.
In der Ukraine, im Sommer 1943, während des einzigen Vormarschs, den ich je mitgemacht habe, zogen unsere Leute bei der Mühle von Gadjatsch einen sowjetischen Kommissar aus einem Loch. Sie machten sich über seine rotgelackten Offiziersstiefel her und schickten ihn barfuß nach hinten: “Der wird ja doch erschossen.” Dies wußten wir. Ich habe nicht protestiert. Einen der Spionage verdächtigten Polen ließ ich entlaufen, als ich nachts Wachdienst hatte. Der Batteriechef brüllte mich an und sagte dann nur kurz: “Ich danke Ihnen.”
In Woitowka, einem rumänischen Dorf, wurden 1944 rumänische Juden zusammengezogen, konzentriert. Sie waren wegen ihrer Fertigkeiten bei der dumpfen bäuerlichen Bevölkerung unbeliebt, bei uns Soldaten beliebt. Ein junges Mädchen sagte mir: “Morgen muß ein Teil von uns weg. Wir werden alle ermordet.” Ich fragte: “Wie machen die das? Und wieso ihr alle?” Sie sagte: “Weiß ich auch nicht. Wir haben aber zuverlässige Nachrichten, daß niemand von uns wieder zurückkommt, das ist alles.” Ich sagte: “Du bist jung, und sie brauchen Arbeitskräfte. das sieht man doch.” “Nützt alles nichts”, sagte sie. Ich ahnte also und wußte nichts.
Auf unseren Rückzügen trafen wir keine Juden an, aber das machte mich nicht stutzig. Wir trafen ja auch nicht auf junge Männer. Gegen Kriegsende kam ich als Offiziersanwärter noch nach Theresienstadt und konnte nun mit eigenen Augen feststellen, daß es noch Juden gab. Ob die beiden Rüdenbergs nicht vielleicht doch hier in Theresienstadt saßen?
Und mein Vater, der jeden Abend Radio London und Radio Moskau hörte? Auch er hatte es nicht gewußt. Wie denn auch? Der kanadische Abwehroffizier im britischen Geheimdienst, Milton Shulman, hat in den ersten Monaten des Jahres 1944 “mit Entsetzen” das Vernehmungsprotokoll eines deutschen Kriegsgefangenen gelesen, in dem eine Massenerschießung à la “Holocaust” beschrieben wurde.
Er und seine Kollegen hielten die Geschichte für übertrieben, “äußerstenfalls für einen schlimmen Einzelfall”. Ungeheuerlich bleibt, daß die Radiostationen des westlichen Auslands, daß der Papst das Morden nicht lauthals angeprangert haben: So unempfindlich waren die Nazis nicht, daß sie auf die Stimmung ihrer Truppen und der Bevölkerung nicht irgendwie hätten Rücksicht nehmen müssen; vielleicht, vielleicht auch nicht.
Habe ich also wirklich nichts gewußt? Ja und nein. Jeder von uns kannte Dachau, Dachau stand für Eingesperrtsein und Nazi-Brutalität, für Konzentrationslager schlechthin. Ich kam aus dem östlichen Krieg nach Hause und wußte nichts von Gaskammern, nichts von der systematischen Ausmordung. Der Krieg hatte mich stumpf gemacht, mir wurde plötzlich bewußt, daß ich mich alt die Zeit nur um mein eigenes Schicksal und das meiner Familie gekümmert hatte. Das Los der Juden war aus meinem Blickfeld herausgetreten.
Die ersten Bilder von Skelett-Halden machten mir Grausen, aber kein schlechtes Gewissen. Sie waren nur der Anfang und kamen aus dem britisch besetzten Bergen-Belsen, wo nicht vergast worden war. Als Reporter wurde ich von den Briten eingeteilt für den ersten KZ-Prozeß.
Rudolf Karl Augstein, Ich habe es nicht gewußt, Desr Spiegel, 29 gennaio 1979.

[16] La sera del 20 febbraio 1963, a Berlino, al Kurfustendamm, viene rappresentata l’opera teatrale Der Stellvertreter [Il Rappresentante] di Rolf Hochhuth, che – come fecero Albert Camus e François Mauriac – accusa papa Pio XII di silenzio sull’Olocausto. Nel 1965, in Italia, ne viene censurata la rappresentazione dal prefetto di Roma, perché il dramma è contrario alle norme contenute nel Concordato.

[17] Mehr als 20 Millionen Deutsche sahen in der vergangenen Woche Holocaust”. Die US-Fernsehserie über die Verfolgung und Ermordung der Juden wurde zum Thema der Nation. Bei den Sendern meldeten sich 30000 Anrufer, die Mehrheit bekannte Erschütterung. Ein Medienereignis mit moralischer Wirkung oder nur „ein Strohfeuer”?
War das, endlich doch noch, die Katharsis? War es. 34 Jahre nach Kriegs- und Nazi-Ende, das Ende der Unfähigkeit zu trauern? War es, im dreißigsten Jahr der Bundesrepublik Deutschland, die erste wahrhaftige Woche der Brüderlichkeit?
Es war, dies kann auf jeden Fall gesagt werden, eine auf unvorhergesehene Weise historische Woche:
Eine amerikanische Fernsehserie von trivialer Machart schaffte, was Hunderten von Büchern, Theaterstücken, Filmen und TV-Sendungen, Tausenden von Dokumenten und allen KZ-Prozessen in drei Jahrzehnten Nachkriegsgeschichte nicht gelungen war: die Deutschen über die in ihrem Namen begangenen Verbrechen an den Juden so ins Bild zu setzen, daß Millionen erschüttert wurden. Im Haus des Henkers wurde vom Strick gesprochen wie nie zuvor, “Holocaust” wurde zum Thema der Nation.
Auch, wie anders, für deren Nationalisten. Schon vor Wochen hatten Anonyme mit Vergeltung gedroht, vorletzten Donnerstag flogen die Fetzen: Um 20.40 Uhr zerriß ein Zehn-Kilo-Sprengsatz die Leitungen zum Südwestfunk-Sender Waldesch bei Koblenz. 21 Minuten später detonierte eine Bombe in der Richtfunkstelle Nottuln bei Münster und zerstörte ein Antennenkabel.
Auf Hunderttausenden von Bildschirmen erlosch das Erste Programm, in dem gerade das schlimmste Kapitel deutscher Geschichte noch einmal dokumentarisch durchleuchtet wurde: “Endlösung”.
In den Funkhäusern wurden eilends die Eintrittskontrollen verschärft. Polizei bezog Posten vor freistehenden Sendeanlagen. Das Bundeskriminalamt ließ am Koblenzer Tatort tonnenweise Schnee abtragen und dessen Tauwasser an geheimer Stelle nach Beweisstücken durchsieben.
Eine Gruppe namens “Internationale revolutionäre Nationalisten” bekannte sich inzwischen telephonisch zu den Attentaten und bestätigte damit den Verdacht von Bundesanwalt Rebmann, “daß der Anschlag aus Anlaß des Fernsehfilms “Endlösung” mit rechtsradikaler Zielsetzung geplant und ausgeführt worden ist”.
Der Knall in Hunsrück und Münsterland indes machte das bundesdeutsche TV-Publikum erst richtig hellhörig für das Medienereignis “Holocaust”, dem der Bericht “Endlösung” nur als Vorspiel diente und dessen Nachhall noch nicht annähernd abschätzbar ist.
Vor kurzem noch mußte den Deutschen das amerikanische Fremdwort, das sich aus den griechischen Wörtern “holos” [vollständig] und “kaustos” [verbrannt] zusammensetzt, als exotische Vokabel vorkommen, letzte Woche war es in aller Munde, bis hinauf zu Helmut Schmidt und Helmut Kohl, die “Holocaust” sogar in die Parlamentsdebatte warfen.
Wie zu Durbridge-Zeiten, als der “Halstuch”-Mörder über den Bildschirm geisterte, wie jetzt nur noch bei Fußballmeisterschaften, so gebannt verfolgten die Bundesrepublikaner vom Montagabend, 21 Uhr, bis Freitag weit nach Mitternacht die Karriere des [erdachten] SS-Obersturmbannführers Erik Dorf, der als Adjutant Heydrichs die Massenvernichtung der Juden organisiert, und das Schicksal der [gleichfalls fiktiven] jüdischen Arztfamilie Weiss, die fast ganz der perfekten Mord-Maschinerie zum Opfer fällt.
In Niedersachsen wurden gewerkschaftliche Veranstaltungen vorzeitig beendet oder abgesagt, “damit die Leute das sehen können, denn sonst würden die sowieso um neun Uhr verschwinden” [DGB-Sprecher Horst Runge]. An den Universitäten Bielefeld und Hamburg wurden die gesellschaftswissenschaftlichen Seminare ohne weitere Diskussion in “Holocaust”-Debatten umfunktioniert.
Vielerorts, so in der Marler Volkshochschule “Die Insel”, sammelten sich Singles zu Gruppen, “weil sie es allein zu Hause nicht ausgehalten hätten” [Pfarrer Jürgen Schmelig]. ARD und ZDF registrierten eine Massenabwanderung in den dritten Kanal.
Dort wurde, in 428 Minuten und 26 Sekunden einer erfundenen, wenngleich historisch untermauerten Spielhandlung mit manchen geschichtlichen Ungenauigkeiten und vielen Plattitüden amerikanischer Serienproduktion, den Deutschen erstmals anschaulich vorgeführt, was sie aus der Erinnerung bislang vorwiegend verdrängten: das individuelle Drama hinter dem Massenmord. Das Unfaßbare wurde faßbar.
Überwunden schien, nach dem farbigen Einblick in die Schlachthöfe der Nazis, der Widerwille, an die Vergangenheit erinnert zu werden, gebrochen die Scheu, die Wahrheit zu erfahren.
Schon am Montag waren 32 Prozent aller bundesdeutschen Fernsehgeräte auf “Holocaust” geschaltet, am Dienstag bereits 36, am Donnerstag schließlich 39 Prozent - was im Dritten sonst niemand schafft. Zuletzt sahen rund 20 Millionen die Schrecken der Endlösung.
Den stärksten Zuspruch fand die Serie im Sendebereich des WDR, den geringsten bei Saar- und Hessenfunk. Am Dienstag schaute, trotz ungünstig später Sendezeit, jedes neunte Berliner Kind unter 13 Jahren dem Drama zu, in Nordrhein-Westfalen immerhin noch jedes 17. Überall registrierten Pädagogen ein “äußerst großes Bedürfnis der Schüler, darüber zu sprechen”. Und so, beispielsweise, sprachen sie: Jürgen Knipprath, 13, hatte “früher mal geglaubt, daß die Juden vorher irgendwelche Verbrechen begangen haben. Aber die hatten ja überhaupt nichts getan”. Ralf Kürten, 16: “Das war wie im Western.” Der Frankfurter Pädagogik-Wissenschaftler Hans Joachim Lissmann notierte Spontan-Äußerungen wie: “Den Heydrich würde ich in der Luft zerreißen.” “Holocaust” wurde Hauptfach.
Selbst während der den Serien-Teilen angehängten Mitternachts-Diskussionen blieb noch knapp die Hälfte des “Holocaust”-Publikums auf Empfang, obwohl der ursprünglich verpflichtete Gesprächsleiter Robert Leicht, Redakteur der “Süddeutschen Zeitung”, die erste Gesprächsrunde so blasiert zerredet hatte, daß der WDR ihn schleunigst verabschiedete.
Die weiteren, wesentlich besser geführten und besetzten Diskussionen brachten einen im deutschen Fernsehen bislang einmaligen, didaktisch fast optimalen Einklang von Spiel und Information. Und erstmals funktionierte das seit langem angestrebte Feedback mit dem Publikum: Anrufer griffen in die Experten-Debatte fragend, fordernd und verändernd ein; via Fernsehen kam eine Nation ins Gespräch.
Dabei wurde am Kölner Studio-Tisch nur ein Bruchteil dessen erläutert, was die Deutschen in Wohnstuben und Klassenzimmern, Straßenbahnen und Fabrikhallen bewegte - immer noch genug, um Telephonnetze stundenlang zu blockieren.
Über 30000 Anrufer, fast viermal mehr als während der US-Premiere von “Holocaust” beim Sender NBC, wählten sich in die deutschen Funkhäuser durch. Der WDR mußte die Zahl der Telephonistinnen verdoppeln. Für Berliner, die schwer bis Köln vordrangen, wurden eigens acht Leitungen in den SFB freigemacht, der die Botschaften dem WDR über eine Standleitung des Hörfunks zuspielte.
Es meldeten sich, wie erwartet, die Unbelehrbaren und die Schmierfinken mit antisemitischen Flüchen und Verwünschungen gegen den “linkslastigen Rotfunk”. Das Ganze sei “Brunnenvergiftung” und “Nestbeschmutzerei”: “Was ist denn mit den vergewaltigten deutschen Frauen von 1945?”
Die CSU-nahe “Schüler Union Bayern” forderte vom Bayerischen Rundfunk eine Nachfolgeserie über die Vertreibung Millionen Deutscher aus ihrer Heimat: Einseitige Schuldbekenntnisse wie in “Holocaust” seien der Jugend nicht zuzumuten.
Ein anonymer Anrufer drohte, Heinz Galinski, der Leiter der Jüdischen Gemeinde Berlin, werde umgebracht, wenn man die Serie nicht schleunigst absetzt.
Doch weit mehr noch, wie nicht erwartet, meldeten sich Irritierte, Betroffene, Überlebende. Manche schämten sich, klagten sich selbst an, einige weinten. Häufig wurden neue Dokumente, Prozeßakten, Tagebücher und Gedichte angeboten.
Der “bislang aufwendigste, konsequenteste Medienverbund unserer Fernsehgeschichte” [Fachblatt “Medium”], vom kritischen Ausland wohlwollend beobachtet, hatte das Publikum allerdings auch frühzeitig und intensiv auf das peinvolle Thema und seine heikle Darbietung vorbereitet.
Allein die Düsseldorfer Landeszentrale für politische Bildung verschickte 139 530 Mappen mit einer 56seitigen Aufklärungsbroschüre an sämtliche Lehrer in NRW. Bis Donnerstag waren in dem Institut 22000 private Anforderungen eingegangen. Zentralen-Leiter Willi Kreiterling erwartet eine Gesamtauflage von 220000.
22 nordrhein-westfälische Volkshochschulen setzten spezielle “Holocaust”-Seminare an. Das ZDF tauschte einen für Donnerstag geplanten Film - pikantes Thema: die Nazi-Begeisterung eines Berliner Schülers von heute - gegen ein unverfängliches Emanzipationsspiel aus.
“Holocaust” prägte Schlagzeilen und Leitartikel der Tagespresse, Zeitschriften wie “Monat” und “Medium” widmeten ihm ganze Nummern.
Mit voller Wucht schwappte das Thema auch auf die Radio-Wellen über, auf Hamburgs “Kurier am Morgen”, das Kölner “Mittagsmagazin” und die Münchner “Redezeit bis Mitternacht”. Kein Sender, der nicht über die ganze Woche verstreut vorab informierte und nachher kritisierte. Vor allem Teenager-Programme wie die WDR-”Radiothek”, “s-f-beat” und der bayrische Jugendfunk machten “Holocaust” zum Leitmotiv der Woche.
Unter solch ungewöhnlicher multimedialer Schützenhilfe verbreitete sich allerdings nicht nur “Holocaust” im Land der Täter und Opfer, sondern auch das Zwielicht, das die inzwischen in 33 Länder verkaufte Produktion seit ihrer amerikanischen Erstausstrahlung umgibt: die Fragen nach Authentizität und Glaubwürdigkeit, das Problem der massenattraktiven Aufmachung und der thematischen Verflachung. Mit der Geschichte der Familien Dorf und Weiss waren auch die konträren Reaktionen von Enthusiasmus bis zu Abscheu und Protest in die Bundesrepublik importiert.
“Holocaust” - ein “anmaßendes Unterfangen” [“New York Times”] oder der “kraftvollste Film, der je fürs Fernsehen gemacht worden ist” [“New York Post”]? “Lore-Roman” [“Weltwoche”], “Shylock-Ranch” [“Hitler”-Filmer Syberberg], “perverse Operette” [eine deutsche Lehrerin], “Am-Scheiß” [ein deutscher Arbeiter]?
Oder war am Ende doch “die Summe des Wahren an “Holocaust” größer als alle Verfälschungen” [“Die Zeit”], groß genug gar, um “tiefsitzende Traumata freizuschaufeln” [“Frankfurter Rundschau”]?
Daß “Holocaust” je eine solch weltweite Grundsatzdebatte aufwerfen würde, hatten sich seine Hersteller wohl nicht träumen lassen. Ihnen ging es eigentlich nur um einen lukrativen Verkaufsartikel.
Anfang 1977, als der Kommerz-Sender ABC mit seinem pseudohistorischen Sklaven-Epos “Roots” gerade alle Zuschauerrekorde gebrochen hatte, fahndete die in der Publikumsgunst abgeschlaffte NBC nach einem Stoff von ähnlicher Sprengkraft. Die Wahl fiel auf “Holocaust”.
Der Romanautor Gerald Green verknappte die maßlose Tragödie zu einem überschaubaren Familiendrama. Marvin Chomsky, als Regisseur von “Roots” und dem Kino-Reißer “Unternehmen Entebbe” einschlägig ausgewiesen, übernahm die Regie.
In 18 Wochen zwischen Juli und November 1977 ließ die TV-Gesellschaft den Vielstünder von 150 Schauspielern und 1000 Komparsen auf 150 Kilometer Film bannen. Da in der DDR und Polen gar nicht erst gefilmt werden sollte und Ungarn wie Tschechoslowaken die Drehgenehmigung wegen “zionistischer Elemente” des Buches verweigerten, entstand der größte Teil der Serie unter Deutschlands und Österreichs freiem Himmel.
Straßenzüge in Berlin-Wedding wurden als Warschauer Getto hergerichtet, die KZ-Szenen von Auschwitz und Buchenwald im österreichischen Lager Mauthausen gestellt.
Kaum waren die Dreharbeiten beendet, ließ man Fatales durchsickern: Ein Berliner habe die Crew mit Bierflaschen beworfen, ein schreiender Greis die Mimen verstört: “ich habe euch Juden schon einmal getötet, ich werde euch noch einmal töten.” Aufnahmegeräte seien mit Hakenkreuzen bepinselt worden, belichtete Filmrollen spurlos verschwunden.
Michael Moriarty, als Erik Dorf der Negativ-Held der Serie, klappte zusammen, als er mit seiner Filmfamilie “Stille Nacht, heilige Nacht” singen mußte: “Wie konnten die so was tun!” Den Engländer Cyril Shaps [Häftling Weinberg] verließen die Kräfte, als er in KZ-Kluft durch Mauthausen torkelte: “Ich glaube, ich kann nicht weitermachen.” Der katholisch erzogene Fritz Weaver, als jüdischer Arzt Weiss die Zentralfigur, fühlte sich nach dem Film “wie ausgewechselt”: “Ich wurde ein Jude. Ich denke nur wie ein Jude.”
Der Einstimmung folgte die Aufklärung. Religiöse und weltliche Organisationen verteilten 50 verschiedene Expertisen in über einer Million Exemplaren. Eine jüdische Liga ließ eine Sonderschrift in zehn Millionen Zeitungen beilegen. NBC schleuste einen speziellen “Viewers Guide” in zwei Millionen Schulen und Haushalte.
In der Zuschauergunst allerdings konnte “Holocaust” das Konkurrenz-Produkt “Roots” nicht entthronen: Trotz 120 Millionen Zuschauern - Jahresrekord - mußte sich das Großunternehmen unter den erfolgreichsten TV-Produkten aller Zeiten mit Platz 49 begnügen - nach Spitzenreiter “Roots” und weit hinter Bob Hopes “Christmas Show” von 1970.
Im publizistischen Echo indes übertönte “Holocaust” alles Dagewesene. Zufällig Zeuge dieses Spektakels wurden damals, im April 1978, die SPD-Politiker Georg Leber, Dietrich Stobbe und Horst Ehmke. Heimgekehrt, lobte vor allem Leber das Streitobjekt als “bemerkenswert objektiv”, von “beklemmender Wirkung” und ohne Deutschen-Haß. Der SPD-Parteivorstand beauftragte alle sozialdemokratischen Funkaufseher, sich bei den Sendern für den Ankauf stark zu machen.
Als der WDR sich kurz darauf die Senderechte für 1,2 Millionen Mark sicherte, witterte “Die Welt” ein rotes Zusammenspiel und zieh die Genossen, “auf unzulässige Weise in die Programmgestaltung eingegriffen” zu haben. Doch die Kölner hatten, allem Verdacht zum Trotz, schneller geschaltet, als die Politiker dachten.
Kaum war der Film im Land, kam der WDR unter Beschuß. Münchens konservativer TV-Direktor Oeller drohte, der BR werde sich bei einer Übernahme des “Verkaufsartikels” ins Gemeinschaftsprogramm aus der Senderkette ausklinken. Deutsche Diplomaten fühlten diskret vor, ob das schlimme Lichtspiel denn unbedingt an die Öffentlichkeit müsse.
Um so schriller stritt die ARD. Ihre Serien-Kommission mokierte sich über die “indiskutable Qualität”, die Programmdirektoren schoben das unangenehme Thema unwillig vor sich her.
Aufgeschreckt von dem politischen Wirbel, verlangten nun die Intendanten das letzte Wort. Aber sie kamen gleichfalls nicht klar und gaben die Entscheidungsnot an die Programmdirektoren zurück. Die stimmten nun ab, nur eine schwache Mehrheit votierte für die Sendung im Ersten Programm. Weil man fürchtete, die “Holocaust”-Gegner würden sich ausschalten, wollten die Verantwortlichen den Bruch in der ARD nicht riskieren.
Dem verschnupften WDR den ungeliebten Import für sein Regionalnetz allein zu überlassen, schien den TV-Gewaltigen angesichts der publizistischen Eskalation des Themas auch nicht opportun. Nach monatelangem Hickhack kamen sie schließlich überein für „Holocaust” erstmals alle Dritten Programme gleichzuschalten.
Der schärfste Protest gegen diese Verlegenheitslösung ging erst jetzt ein: Interessenten aus der DDR, in der die Dritten Programme nur in Grenznähe zu empfangen sind, beschwerten sich bei der ARD über die kurzsichtige Entscheidung, sie total von “Holocaust” auszuschließen.
Was hier nun, vier Abende bis tief in die Nacht, bundesweit zum Vorschein kam und überwältigend wirkte, mußte den Eindruck erwecken, als habe es in Deutschland bisher keine nachhaltigen Auseinandersetzungen mit der Vergangenheit gegeben. Dabei ist es nicht so, daß sich der deutsche Film und später das deutsche Fernsehen, daß sich die deutsche Nachkriegsliteratur und das Theater nach 1945 an der Auseinandersetzung mit den Nazi-Verbrechen vorbeigemogelt hätten.
Der erste durchschlagende Bühnenerfolg des Nachkriegstheaters war Zuckmayers Udet-Stück “Des Teufels General”, in dem Hitlers Rassenwahn zumindest ein Nebenthema bildete. Allerdings war das im Exil entstandene Stück von der furchtbaren Nazi-Realität weit entfernt und verfiel dem Glanz der Uniformen und dem rauhen Barras-Charme des Offizierskasinos.
Filme der Ost-Berliner Defa, wie “Ehe im Schatten”, der vom Selbstmord des mit einer Jüdin verheirateten Schauspielers Joachim Gottschalk handelte, oder wie “Affaire Blum”, der den latenten Antisemitismus in der Weimarer Republik zum Thema hatte, waren in der Analyse und im Treffen der Gemütslagen da schon genauer.
Die deutsche Nachkriegsliteratur, die sich in der Gruppe 47 vereinte, machte den Antifaschismus, die Aufarbeitung der Vergangenheit zu ihrem [nie verkündeten] Programm.
Das, was schließlich zum Schlagwort der “Vergangenheitsbewältigung” verkam und damit auf ungute Weise mit den offiziell und sicher gutwillig veranstalteten Wochen der Brüderlichkeit korrespondierte, stellte die literarische und theatralische Auseinandersetzung mit dem Genozid an den Juden vor ein Dilemma.
Einerseits gab es das Diktum von Adorno, der gesagt hatte, es sei barbarisch, nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben. Andererseits gab es die “Todesfuge” des dem Holocaust entkommenen Paul Celan [“Der Tod ist ein Meister aus Deutschland”], ein Gedicht, das damals zumindest viele Studenten bewegte und auf die Vergangenheit verwies.
Vor allem zwei Ereignisse waren es, die beide Pole der Auseinandersetzung mit der Judenausrottung markierten: einmal, 1950, das “Tagebuch der Anne Frank”, als Buch, als Bühnenstück und später im Kino und Fernsehen, von der gerührten Betroffenheit eines breiten Publikums begleitet. Und der Alain-Resnais-Film “Nacht und Nebel”, der 1956 die Zuschauer erstmals mit dokumentarischen Aufnahmen des KZ-Grauens konfrontierte.
Die Reaktionen waren nicht untypisch. Konnte man das Tagebuch des jüdischen Mädchens, das zwei Jahre in einem Versteck und von dauernder Angst umlauert während der Nazi-Okkupation in Holland lebte und in Bergen-Belsen umkam, mit Rührung verarbeiten [ähnlich geht ja auch “Holocaust” vor], so reagierte man auf den Dokumentarfilm von Resnais mit Ablehnung.
Die beiden großen, die Öffentlichkeit lange beschäftigenden Theaterstücke über die Judenvernichtung waren einmal Hochhuths “Stellvertreter” und zum andern “Die Ermittlung” von Peter Weiss.
Hochhuth hatte in einer Mischung aus Schiller-Drama und Dokumentarstück, aus Trivialdrama und flammendem Appell den Weg des Widerstandskämpfers Kurt Gerstein geschildert und dabei eine Mitschuld der katholischen Kirche an der Judenvernichtung postuliert - der Papst habe geschwiegen, selbst dann, als Juden in Rom, also gewissermaßen unter seinen Augen, verschleppt wurden.
Damit war ein deutsches Tabuthema berührt: daß es nämlich auch keinen christlichen Widerstand [wie etwa gegen die Euthanasie] gegen die Entrechtung und Deportation der Juden gegeben habe - im Restaurationsklima der Adenauer-Ära, die das Adjektiv christlich zur Staatsklammer erheben wollte, eine ungeheure Provokation.
Andererseits: Hochhuths “Stellvertreter”, auf den eine ganze Flut von Dokumentarstücken folgte, ließ sich auch als Entschuldigungs- und Rechtfertigungs-Drama für viele Deutsche mißverstehen. Wenn schon der Papst nichts hatte tun können, so lautete die Argumentation, wieviel weniger dann der ohnmächtige einzelne Deutsche.
“Die Ermittlung” von 1965 stellte die erste gründliche Auseinandersetzung eines Schriftstellers mit den großen NS-Prozessen dar.
Das Stück von Peter Weiss, nach dem Muster von Dantes “Inferno” in Gesänge gegliedert, ist die Verarbeitung des Frankfurter Auschwitz-Prozesses gegen Boger, Kaduk, Klehr und andere. Weiss folgte bei seinem dokumentarischen Verfahren der Berichterstattung Bernd Naumanns in der “FAZ”. Bereits damals wurde ein Phänomen deutlich, das sich jetzt bei “Holocaust” verstärkt wiederholt: daß nämlich die Bühnenfassung weit mehr Betroffenheit, Ablehnung, Erregung provozierte als der dokumentarische Bericht.
Wenn “Holocaust” trotzdem Emotionen wie zum erstenmal freisetzte und die üblichen Sperren und Blockaden durchbrach, die Deutsche vor dem schrecklichsten Kapitel ihrer Vergangenheit aufgerichtet haben, so liegt das daran, daß hier erstmals [relative] Geschichtstreue sich mit den trivialen Mitteln der amerikanischen Fernsehserie verbinden konnte, daß es den amerikanischen TV-Machern gelungen ist, die Judenausrottung in dem Schicksal zweier Familien zu personalisieren, ohne dadurch das kollektive Thema zu zerstören.
Hatte man vor der deutschen Ausstrahlung noch meinen können, die US-Serie verhökere das Thema des Judenmordes zugunsten einer hemmungslos ans Gefühl appellierenden Seifenoper, so zeigte die Anteilnahme und Betroffenheit der Zuschauer, daß gerade diese, den von einer Nazi-Vergangenheit unbelasteten Amerikanern mögliche, Form eine reinigende [kathartische] Wirkung habe wie einst die griechische Tragödie - so jedenfalls der Psychoanalytiker Hendrik de Boor in der “Holocaust”-Diskussion.
Aufgewühlt durch die hautnahe Präsentation des Millionen-Massakers, wagen die Deutschen nun plötzlich den Blick zurück - über den Sendeschluß hinaus.
Berlins Schulsenator Walter Rasch forderte alle Lehrer auf, “Holocaust” im Unterricht zu diskutieren. Diese Serie, rühmte der Vorsitzende des Bayerischen Lehrer-Verbandes, Ebert, habe eine “stärkere didaktische Wirkung” als “abstrakte Statistiken und nackte Fakten” und empfahl das auf Videoband mitgeschnittene Anschauungsmaterial als Lehrstoff.
Der Superintendent des Kirchenkreises Bodenwerder an der Weser wird in seinem Jung-Ehepaar-Kreis über “Holocaust” diskutieren. Die Düsseldorfer Bezirksvertretung 3 hat alle älteren Mitbürger des Stadtteils Bilk gebeten, mit privaten Erlebnissen aus dem Dritten Reich, aufgeschrieben oder auf Tonband gesprochen, an die Öffentlichkeit zu kommen und einschlägige Dokumente, Lebensmittelkarten wie Blockwart-Briefe, für eine Broschüre zur Verfügung zu stellen.
Wissenschaftler wollen erkunden, ob die emotionale Bewegung während der Sendezeit eine längere gedankliche Auseinandersetzung mit dem Thema ausgelöst hat. Im Auftrag des WDR und der Bonner Bildungszentrale startete das Offenbacher Marplan-Institut für 180000 Mark eine Repräsentativ-Umfrage in drei Stufen: Vor “Holocaust” wurde der allgemeine Wissensstand zu Nazi-Zeit und Judenvernichtung abgefragt; während der Sendung registrierten die Forscher die spontanen Reflexe; in acht Wochen wollen sie die Langzeitwirkung ausloten.
Der Erziehungswissenschaftler Lißmann begann eine Umfrage unter Jugendlichen zwischen 14 und 17 Jahren, mit denen er sich das Programm gemeinsam ansah. Das “Ausmaß der Betroffenheit” hat ihn dabei überrascht. Doch er fürchtet: Es könnte sein, daß “Holocaust” keine rational-kritische Auseinandersetzung aufkommen läßt. Lißmann: “Das wird ein Strohfeuer.”
Holocaust: Die Vergangenheit kommt zurück, Der Spiegel, 29 gennaio 1979 [http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-40350860.html, http://magazin.spiegel.de/EpubDelivery/spiegel/pdf/40350860].