GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 – δεκαετία 390 ή 430]
“Que le XXIe ne soit plus, comme ce siècle
qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
di
Daniela Zini
al mio Angelo Guardiano
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì
rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015,
anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del
centenario dei genocidi armeno e assiro-caldeo e dei 40 anni della
presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di
cambogiani da parte dei Khmer Rossi – chi ha tentato di
analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente
alla lancinante domanda:
“Perché?”
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese,
esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il
Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in
meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di
un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di
inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le
responsabilità dell’ONU nel genocidio
per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio,
anche l’Organizzazione per l’Unità Africana
[OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e
Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio
e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla
pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione
incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990,
quando i ribelli dell’FPR lanciarono
i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini
misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e
nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo
Dallaire,
comandante del contingente ONU UNAMIR,
in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di
pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano
la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del
presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire
aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati
regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i
rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.
La potenza più presente, dunque, la più
influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti,
che avevano formato, nel 1990, il Fronte
Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili
del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto,
perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993,
e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di
rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione
delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come
mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto
accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la
Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale
dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della
competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto
internazionale”: la
pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali
infrazioni.
Il carattere “impensabile” degli orrori
del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.
“Nuovi concetti richiedono
nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un
gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una
pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica
genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua
formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via.
Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata
distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato eliminando
in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano
coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle
fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli.
Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle
istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti
nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato
gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della
libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui
che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in
quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro
identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis
Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79
Vi era, infatti, il bisogno immediato di
concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”,
coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel
suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa
occupata], scritto all’ombra
dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare
interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il processo di Norimberga e nei
dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin
alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva
che “in base
alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile
condanna” e approvava la Risoluzione
96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla
vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano
stati distrutti in tutto o in parte”.
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno
degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)
uccisione di membri del
gruppo;
b)
lesioni
gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)
il fatto di sottoporre
deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua
distruzione fisica, totale o parziale;
d)
misure miranti a impedire
nascite all’interno del gruppo;
e)
trasferimento forzato di
fanciulli da un gruppo a un altro.
Su insistenza russa e del blocco sovietico,
nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano –
secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri
distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare
nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo
generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali
gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere
stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione
di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento
psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo
caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed
eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico,
che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il
programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un
altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo
sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante
– che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto
deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo
e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è
diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte
contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente
in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è
l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito
e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso
di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione
della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter
rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte
sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata.
Parimenti, quando vengono identificati i leaders
o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di
vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare
luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica
associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire
alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere
provata.
Un genocidio può essere compiuto senza
riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile.
È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una
violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che
costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla
responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”[Principi di
Norimberga]
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti
principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha
pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto
circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia,
per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata
in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale
bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic
è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come
espresso dal Segretario Generale dell’ONU,
il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia
dell’Umanità.
La Comunità Internazionale è la sola in
diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si
deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i
massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e non si potrà essere sicuri di rimuovere una
minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle
vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà
complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una
forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda,
nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel
Timor Occidentale, era reale. Le milizie
massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una
forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò
un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito
serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica,
si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati
e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere
un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta,
pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi
tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo
decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un
genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di
intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare
la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan
Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe
permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe
funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito
a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati
istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni,
di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori
sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi
permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton,
a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo
sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono,
in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi
giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i
due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio
degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni
osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in
Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato
nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e
il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna,
rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica
soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire
dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura
politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò,
puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella
forma precaria che aveva, allora, la Società
delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo
del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece,
un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla
fine del XVIII secolo, la Russia si era
data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di
intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto
di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente,
utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895
e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva
quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento
dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che
prese il potere, nel 1908. A
dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò,
rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al
fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi
l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo
sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di
tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale
Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il
crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro
strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra
che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano
divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che
congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli
interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era
alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la
condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton.
Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la
Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa,
alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare
un processo di prevenzione.
“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca
tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato
del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola
7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente
della religione cristiana e delle sue chiese.”
La prevenzione più efficace sarebbe la più
precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti
per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non
prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare
prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle
violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti
umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il
fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza
internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli
dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da
pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri
fini.
I Popoli
vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di
sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno
sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America
e il processo di colonizzazione.
Analogamente,
in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre
terre quali schiavi. Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione,
perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero
i Popoli cosiddetti selvaggi e
inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene
considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia
ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari,
slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani,
burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi. In
Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente
americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato
milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o
di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare
queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime.
Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo. Non è una
pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!
II.
LA SHOAH
per ricordare la vergogna dell’uomo
https://www.youtube.com/watch?v=afoSWxHAnrU
Grido di
disperazione e ammonimento all’Umanità sia per sempre questo luogo dove i
nazisti uccisero un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente
ebrei, da vari Paesi d’Europa.
Auschwitz - Birkenau 1940-1945
Sera di domenica 17 dicembre 1922, a Torino.
Nella nebbia che avvolge le strade della Barriera
di Nizza, periferia operaia della città, una squadraccia fascista è alla
ricerca del tranviere Francesco Prato, militante del PCI, per “dargli
una lezione”. Lo incontra verso le 23 in via Demonte; nel buio, solo a tratti,
spezzato dall’alone luminoso dei lampioni a gas, vi è un breve conflitto
a fuoco. Prato spara e uccide Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani; poi, anche lui è
ferito a una gamba. L’eco delle revolverata richiama la gente del quartiere –
ma Prato si è già nascosto, di là a due mesi, fuggirà in URSS e là sparirà
durante le “purghe” –; la notizia giunge in centro dove il console fascista
Piero Brandimarte ha appena consegnato il nuovo gagliardetto alla squadraccia
“Baracca”. Nella notte la decisione è presa e sui muri di Torino appaiono
scritte minacciose:
“I nostri morti non si piangono, si vendicano. Brandimarte”
La strage inizia lunedì mattina.
La squadraccia “Toti”, dopo avere occupato la
Camera del Lavoro di corso Galileo Ferraris, percossi a sangue il deputato
socialista Vincenzo Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della
FIOM, Pietro Ferrero, irrompe nell’ufficio “controllo prodotti” delle Ferrovie,
in corso Re Umberto. Un fascista si rivolge a due impiegati, il socialista
Enrico Fanti e il comunista Carlo Berruti:
“Tu e tu, venite con noi.”
In strada, salgono su una Lancia che va verso
Nichelino, ma, dopo qualche chilometro, fermano, ordinando a Fanti di scendere.
“Addio!”,
mormora Fanti a Berruti. L’auto prosegue, raggiunge
la campagna e si arresta di nuovo:
“Siamo arrivati.”
Berruti, che ha capito, si infila tranquillamente
la pistola in bocca e scende: mentre cammina, gli sparano alle spalle.
Da questo momento, altre 10 vittime cadranno.
L’oste Leone Mazzola è dietro il banco della sua
mescita, in via Nizza, quando piombano nel locale gli squadristi:
“Su le mani! Generalità!”,
urlano. Mazzola protesta per l’intrusione, ma lo
trascinano nel retrobottega e lo perquisiscono: in tasca ha una scheda
elettorale con il simbolo della falce e del martello e, allora, lo crivellano
di pugnalate.
Verso sera, il fattorino del tram Matteo
Chiolero, trentenne, simpatizzante comunista, sta cenando in casa con la
moglie: bussano alla porta, lui apre e viene ucciso con tre revolverate al
petto.
L’operaio comunista Andrea Chiomo, 25 anni, a notte
tarda è in un appartamento di via San Rocchetto e gioca a carte con gli amici.
Arrivano sette fascisti, lo prendono, lo portano in via Pinelli e là gli
sparano 10 colpi.
A mezzanotte il comunista Matteo Tarizzo,
trentaquattrenne ed ex-operaio FIAT, è svegliato in casa da tre squadristi.
“Ti vogliono di sotto.”
Lui si veste e va. Lo picchiano fino a stordirlo,
lo spingono nei prati e lo uccidono con una bastonata alla testa.
Intorno alla stessa ora, alla Cascina Maletto di
via San Paolo, è assassinato a revolverate l’ex-manovale delle Ferrovie
Giovanni Massaro, di 34 anni.
La mattina dell’indomani, martedì 19, al “controllo
prodotti” di corso Re Umberto l’impiegato Angelo Quintaglié, quarantatrenne,
ex-brigadiere dei carabinieri, chiede a un collega fascista:
“Che cosa ne avete fatto, ieri, di Berruti?”
“Lo abbiamo sistemato per sempre.”,
risponde l’altro.
“Assassini!”,
prorompe Quintaglié,
“Aveva 40 anni e due figli da mantenere.”
L’altro tace ed esce in silenzio. Poco più tardi,
compaiono 5 squadristi della “Campiglio” e puntano le pistole sul gruppo degli
impiegati:
“Chi è di voi Quintaglié?”
Nessuno risponde.
“Bene, allora, spariamo a tutti.”
“Sono io Quintaglié.”,
dice, infine, l’ex-brigadiere. In due gli saltano
addosso e lo pugnalano, un terzo gli spara. Morirà il giorno dopo.
A mezzogiorno, Cesare Pochettino, 26 anni, e suo
cognato Stefano Zurletti, trentaquattrenne, stanno pranzando nella loro casa di
via Balangero. I fascisti, giunti in auto, li obbligano a seguirli prima alla
sede del fascio di via Cairoli e, poi, in collina, a Valsalice; là, li
scaraventano sul ciglio di un burrone e iniziano a sparare all’impazzata.
Pochettino è ucciso sul colpo. Zurletti, ferito quattro volte, scivola nella
scarpata e viene ritenuto morto. Si salverà.
Un’altra squadraccia fascista, verso le 18, fa
irruzione in una osteria di via Nizza, carica sul camion a spintoni e a
botte, l’operaio Evasio Becchio, venticinquenne, e il muratore Ernesto Arnaud e
li porta in corso Bramante, dove, a quel tempo, finiva la città.
Becchio, fatto scendere per primo, è assassinato
con una scarica alle spalle; Arnaud, colpito più volte, si finge morto e riesce
a scamparla.
Intorno alla mezzanotte, mentre rientra a casa,
l’operaio Erminio Andreoni, di 24 anni, è aggredito, trascinato a forza su
un’auto, portato alla Cascina Ceresa e ucciso. Vicino al suo corpo martoriato,
verrà trovato un cartello che dice:
“Tu sei uno di quelli che ha pagato per il nostro Dresda.”
La notte, verso le 23, Pietro Ferrero – il trentenne
segretario della FIOM che il giorno prima, era stato aggredito e
percosso – sale in bicicletta e va in corso Ferraris, per vedere se la Camera
del Lavoro è ancora occupata dalle squadracce. Un fascista lo scorge e, con
altri due o tre, gli balza addosso. Lo spingono dentro all’edificio e iniziano
a massacrarlo, mentre gli aguzzini cantano una specie di nenia funebre:
“Ferrero, Ferrero, Ferrero, ei fu!”
Già moribondo per le percosse, Ferrero è legato per
un piede a una lunga corda attaccata al retro di un camion: l’autocarro
si mette in moto e il corpo del sindacalista è trascinato fino al monumento a
Vittorio Emanuele e, poi, ancora, su e giù, lungo corso Vittorio. Mentre
Ferrero muore straziato, i fascisti incendiano la Camera del Lavoro – lo
avevano, già, fatto nel novembre precedente – e gettano decine di bombe a mano
nel rogo.
“Abbiamo colpito i sovversivi nei loro covi di Barriera di
Nizza.”,
dichiara l’indomani Brandimarte al giornale Il
Secolo di Milano;
“I comunisti sono avvertiti: abbiamo l’elenco di tutti
loro.”
Questa di Torino fu l’ultima strage compiuta dai
fascisti, dopo la conquista del potere, ma non l’ultimo delitto del regime: lo
squadrismo picchiatore, nato, nel 1919, dalle ceneri degli arditi, durerà,
infatti, un ventennio e troverà una figura militare e “legale” nelle Brigate
Nere di Salò. Così, le squadracce fasciste – quelle di Roberto Farinacci nel
Cremonese, di Giulio Caradonna in Puglia, di Italo Balbo nel Ferrarese, di
Leandro Arpinati nel Bolognese, di Cesare Forni in Lomellina, di Cesare Maria
De Vecchi in Piemonte, di Renato Ricci e Tullio Tamburini in Toscana –
impartirono la loro “lezione del terrore” con la caccia ai “rossi” per le
piazze delle città e i mercati dei paesi, gli assalti e le distruzioni delle
cooperative operaie, gli incendi delle Case del Popolo, Camere del Lavoro,
biblioteche popolari, sedi di giornali, con le sparatorie e le aggressioni ai
cortei di scioperanti e alle riunioni sindacali.
All’origine del terrorismo squadrista vi furono,
naturalmente, gli interessi di classe dell’industria e del latifondismo, la
paura della borghesia, la debolezza del potere liberale, l’indifferenza e
l’acquiescenza della polizia e della magistratura, ma determinanti furono le
direttive di Mussolini, talvolta, mascherate nei suoi discorsi, così gonfi di
retorica e di goffi neologismi, spesso esplicite.
Benito Mussolini dichiarò che, se violenza doveva
esservi, avesse “uno stile aristocratico”
e il 3 gennaio 1925, in Parlamento, affermò che “la
violenza deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca”. Ma a
Torino, Piero Gobetti fu bastonato a sangue, dopo un telegramma di Mussolini al
prefetto:
“Gobetti continua nella sua velenosa campagna contro il
fascismo. Prego prendere provvedimenti per rendere la vita impossibile a questo
insulso oppositore.”
E il deputato socialista Giacomo Matteotti venne
ucciso a percosse solo quando, all’indomani del suo discorso alla Camera del 30
maggio 1924, in cui aveva denunciato i brogli e le violenze fasciste nelle
elezioni generali del 6 aprile, Mussolini disse ai propri fidi che le parole di
Matteotti erano state “una inaudita
provocazione” e che “quell’uomo, dopo
questo discorso, non dovrebbe più circolare”. Il sottosegretario
agli interni, Aldo Finzi, scriverà nel proprio testamento, pur smentendolo in
seguito, che il duce aveva dato ordini di “far
scomparire i maggiori capi dell’opposizione”.
Diversa nella dinamica, identica nell’origine, fu
l’uccisione dei fratelli Rosselli, un “tipico
delitto del regime fascista” – così lo definì Luigi Salvatorelli –
e, per i suoi legami con la Cagoule francese [https://unaxe.wordpress.com/2012/04/21/francois-mitterrand-et-la-cagoule-societe-secrete-fasciste-ou-pourquoi-mitterrand-etait-un-grand-ami-des-collaborateurs-pro-nazi-du-regime-de-vichy/,
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/09/02/quando-mitterrand-era-razzista.html,
http://www.blitzquotidiano.it/politica-mondiale/tranfaglia-fratelli-rosselli-mitterand-francia-743462/,
https://books.google.it/books?id=BjQbDQAAQBAJ&pg=PT97&lpg=PT97&dq=cagoule+mitterand+rosselli&source=bl&ots=NCmr04Xh2-&sig=k3B9sIhGiGxpl4Y0YJLtINMFaMY&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjjmLGMt_TRAhXDaRQKHQ5MAEYQ6AEISzAH#v=onepage&q=cagoule%20mitterand%20rosselli&f=false],
del fascismo internazionale. È noto che Galeazzo Ciano, tramite Mario Roatta,
avesse promesso ai Cagoulards, se lo avessero sbarazzato dei Rosselli,
una fornitura clandestina di armi – cento mitra automatici da consegnarsi, a
delitto avvenuto, alla frontiera di Bardonecchia – sicché nell’estate del 1937,
Carlo Rosselli, capo del gruppo antifascista Giustizia e Libertà e suo
fratello Nello, studioso di storia del movimento operaio italiano, furono
soppressi a pugnalate a Bagnoles-sur-l’Orne, in Normandia, dove si erano,
appena, incontrati. Gli assassini vennero scoperti pochi mesi dopo. Erano
membri di una società segreta di estrema destra, il CSAR o Comité Secret
d’Action Révolutionnaire – più noto come Cagoule [Cappuccio], un
simbolo preso in prestito dal Ku Klux Klan americano – che, già, dal
1935, si proponevano di rovesciare il Governo del Fronte Popolare,
costituito da comunisti, socialisti, radicali e repubblicani, arrestando Léon Blum
e scatenando in Francia una ondata generalizzata di delitti politici e di
attentati dinamitardi. Così, aveva cercato di fare, nel 1923, il nazismo con il
Putsch di Monaco, fallito davanti
alle fucilate della polizia di Weimar, alla Feldherrnhalle, prendendosi,
tuttavia, la rivincita, 11 anni più tardi, con il massacro del 30 giugno 1934,
la Notte dei Lunghi Coltelli [https://www.youtube.com/watch?v=8whKFKufMZo],
quando Adolf Hitler, per liberarsi della opposizione interna del partito,
diretta dal capo delle SA, Ernst
Julius Günther Röhm, diede il via a
una strage senza precedenti, più di 1000 assassinati in soli tre giorni, di cui
149 a Berlino. Nel 1946, il Processo di Norimberga ne fisserà il totale preciso
in 1.076. Con quella “purga di sangue” il Führer
fece scomparire, di un colpo solo,
sia i promotori della “seconda rivoluzione” – vale a dire quei nazisti che,
dalla conquista del potere, non avevano ottenuto il soddisfacimento delle loro
ambizioni personali – sia i personaggi che gli davano fastidio; il generale Kurt Ferdinand Friedrich Hermann von
Schleicher; l’ex-presidente
del Governo bavarese Gustav
Ritter von Kahr; il capo
dell’Azione Cattolica Eric Klausener; il deputato Karl Ernst, l’asso
dell’aviazione Daniel Gerth.
Ma la vera lezione del terrore dei nazisti giunse
nel 1938, allorché, alla ricerca di uno strumento di pressione per spingere gli
ebrei tedeschi a emigrare e potere, così, impadronirsi dei loro enormi beni –
gli ebrei, in Germania, rappresentavano più dell’1% della popolazione –, Hitler
colse il pretesto nell’uccisione, a Parigi, da parte del ragazzo ebreo Herschel Feibel Grynszpan, diciassettenne, del consigliere di legazione Ernst
Eduard von Rath.
Da un capo all’altro del Paese, nella notte tra il 9
e il 10 novembre 1938 – la Notte dei Cristalli – si scatenarono pogrom,
organizzati con devastazioni di case e di negozi ebraici, bestiali
maltrattamenti fisici, arresti, deportazioni, saccheggi, stupri e più di 100
assassinii. Già il giorno seguente, un rapporto di Reinhard
Tristan Eugen Heydrich a Hermann
Wilhelm Göring parlò di 7.500
negozi distrutti e di 10.454 ebrei chiusi in campi di concentramento: là
vennero torturati al punto che – scrive Eugen Kogon – “a Buchenwald 68 impazzirono sicché vennero gettati in
una baracca e uccisi dallo Hauptsurmscharfuhrer-SS Sommer mentre un
altoparlante del lager scandiva un terribile invito: “Ogni ebreo che desidera
impiccarsi è pregato di avere la cortesia di introdursi in bocca un pezzo di
carta recante il proprio nome al fine di poter procedere all’identificazione.”
Il terrorismo nazista, accompagnando la politica di
conquista e di espansione, fu la feroce applicazione dei principi razzistici
mediante le più umilianti misure di discriminazione delle cosiddette “razze
inferiori”, lo sfruttamento sistematico della manodopera straniera e delle
risorde economiche dei Paesi soggiogati, le rappresaglie e gli eccidi per
chiunque, non tedesco, commettesse azioni rivolte contro il Drittes Reich
e le sue forze di occupazione: il boia della Polonia, Hans Michael Frank, dichiarò ai propri collaboratori che non
aveva deciso di sterminare i 14 milioni di polacchi del suo Governatorato
Generale solo perché ciò avrebbe comportato un apparato terroristico e un
numero di uomini di cui non disponeva. Il genocidio sistematico della Polonia –
questo Paese perse oltre 6 milioni di uomini, il 22% della popolazione – fu,
particolarmente, significativo della pratica del terrore applicata nel resto
dell’Europa Occidentale. In Francia, il comandante generale militare, Carl-Heinrich
von Stülpnagel, in un ordine
segreto del 1941, emesso in seguito all’uccisione di un militare della Wehrmacht,
stabilì che, da quel momento, tutti i francesi detenuti per qualsiasi motivo
dovessero essere “considerati ostaggi”
e tra questi, ne sarebbe stato fucilato, di volta in volta, un certo numero. Si
giunse fino a 50 francesi per un tedesco ucciso.
In Italia, il feldmaresciallo Albert Konrad Kesselring, che fece trucidare, alle Fosse Ardeatine, 10
italiani per ogni tedesco morto nell’attentato del marzo del 1944, in via Rasella,
a Roma, dichiarò di “coprire”
qualunque dei suoi comandanti avesse ecceduto la consueta misura della
rappresaglia – infatti, le vittime delle Ardeatine, secondo quella feroce e
macabra contabilità, avrebbero dovuto essere 330, ma risultarono, poi, 5 di
più, 335:
“Fu un errore,”,
ammise, cinicamente, Herbert Kappler al processo,
“tuttavia, poiché, ormai, erano là…”
Da questo punto di vista, dalla Notte dei Cristalli
del 9-10 novembre 1938 alle Fosse Ardeatine e più oltre ancora, nella pratica
del terrorismo non vi fu alcuna differenza con la distruzione del Ghetto di
Varsavia, le Stragi di Oradour, di Marzabotto, di Lidice: se sull’Appennino
tosco-emiliano, nell’agosto del 1944, il maggiore delle SS Walter Reder [http://anpi.it/media/uploads/patria/2007/10/10-15_RICORDO_BIAGI.pdf]
fece la terra bruciata, nelle zone partigiane di Marzabotto, con una marcia
della morte durante la quale incendiò villaggi e borghi e uccise oltre 1830
civili inermi e innocenti; a Lidice, per il mortale attentato a Reinhard Tristan Eugen Heydrich del giugno del 1942, i nazisti distrussero il
piccolo paese cecoslovacco, fucilarono uomini, deportarono donne, rapirono i
suoi bimbi.
Dalla strage di Torino a quella di Lidice nell’arco
di 20 anni e nel quadro di due dittature, lo squadrismo fascista e quello
nazista furono le due facce di un’unica medaglia, quella del terrore eretto a
sistema.
1. HOLOCAUST
“Il connubio di odio
e tecnologia è il massimo pericolo che sovrasti l’Umanità.
E non mi riferisco alla sola grande tecnologia della bomba atomica, mi
riferisco, anche, alla piccola tecnologia della vita
di ogni giorno: conosco persone che stanno per ore davanti alla televisione
perché hanno disimparato a comunicare tra loro.”
Simon Wiesenthal
Aprile 1978.
Più di 120
milioni di americani seguono con grande apprensione Holocaust,
lo sceneggiato televisivo mandato in onda dalla NBC, che racconta sotto
forma romanzata lo sterminio, da parte nazista di 6 milioni di ebrei. La
trasmissione, traumatizza letteralmente l’opinione pubblica. Mentre sul canale
in concorrenza viene diffusa una innocua serie di vecchi films di James
Bond, davanti agli occhi agghiacciati del pubblico americano, appaiono, a poco
a poco, i particolari più spietati e le scene più crude – anche dal vero –
della “soluzione
finale del problema ebraico”, vale a dire il programma di
sterminio nazista di tutti gli ebrei d’Europa.
“Una tragedia che tutti conoscevamo, ma di fronte alla quale
siamo ancora una volta rimasti stupiti, inorriditi, umiliati.”,
“Holocaust, inchiodando milioni di persone davanti alla
televisione, li ha fatti inorridire, ma anche meditare.”,
rileva
prontamente la stampa. Con un crescendo di interesse inspiegabile, che aumenta
a ogni nuova puntata, già dalle prime immagini, nascono polemiche a non finire,
dibattiti, prese di posizione a favore o contro. L’indice di ascolto dello
sceneggiato è tra i più alti mai registrati in America e pari soltanto a quello
riscontrato da Roots e dal leggendario Christmas Show di Bob
Hope.
“La Shoah, come in ambito ebraico
viene chiamato l’Olocausto, termine a suo modo improprio, fu un evento senza
precedenti perché mai era stato deciso a tavolino lo sterminio, l’annientamento
di un popolo in quanto tale.”
Elena Loewenthal
“Il dramma di Holocaust ha portato luce nella annosa
controversia tra chi sostiene che lo sterminio degli ebrei sia una cruda pagina
della nostra Storia e coloro che affermano, invece, sia il frutto di una
lungimirante propaganda sionista.”
è il primo
commento a caldo che appare in una nota dell’agenzia di stampa americana UPI.
A New York, la stessa sera in cui viene trasmessa la prima puntata della serie,
circa 700 telefonate raggiungono gli studi della NBC; ma, il giorno
dopo, decine di giovani, convinti che Holocaust sia un completo inganno,
presidiano la sede dell’emittente.
“La maggior parte delle accuse di sterminio contenute in
Holocaust sono false. È provato che non è mai esistito un vero e proprio
programma nazista di genocidio. Le camere a gas sono una pura e semplice
invenzione.”,
riferisce ai
cronisti il portavoce di questo gruppo.
“Se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi iniziarono la loro campagna,
l’Umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra
mondiale.”
Herbert Marcuse
Per protestare
contro lo sceneggiato, a Los Angeles 35 membri del National Socialist White
People’s Party sfilano in perfetta divisa nazista davanti a un’altra sede
della NBC:
“Una campagna di protesta iniziata già prima dell’inizio delle
trasmissioni.”,
commenta,
amaramente, il responsabile delle programmazioni dell’emittente televisiva.
“La gran massa dei tedeschi ignorò
sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo
sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas
tossico, i forni crematori, l’abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo
non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della
guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio
ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva “sterminio”
ma “soluzione definitiva”, non “deportazione” ma “trasferimento”, non “uccisione
col gas” ma “trattamento speciale”, e così via.”
Primo Levi
A Baton Rouge
[Louisiana], scendono in piazza gli appartenenti al Christian Defense League.
La responsabile di questa
organizzazione, Deborah Warner, nel corso di una conferenza- stampa dichiara:
“È esagerato parlare di 6 milioni di morti.”
Quindi, citando il
discusso libro di Arthur R. Butz, The
hoax of the 20th century [L’inganno del Ventesimo secolo, http://vho.org/aaargh/fran/livres3/HoaxV2.pdf],
nel quale vengono portate le prove che solo un milione di ebrei hanno trovato
la morte durante l’infausto periodo nazista, conclude:
“Noi non siamo antisemiti, ma se la NBC non ci darà spazio per
presentare il nostro punto di vista, indiremo ovunque nuove manifestazioni di
protesta.”
“La NBC non opera nel pubblico interesse.”,
dice uno di quei
cartelli. Sempre a Chicago, nel sobborgo di Stokie, abitato per lo più da
ebrei, i pareri di chi ha seguito la trasmissione sono, spesso, contrastanti
tra loro, mentre la voce più ricorrente è quella che “sarebbe stato preferibile dimenticare”.
“Holocaust è triviale, di cattivo gusto, troppo episodico…”,
commenta lo scrittore
Elie Wiesel,
“La NBC non ha saputo fare meglio che trasformare un avvenimento
ontologico in una soap opera. Nonostante tutto, convengo, tuttavia, che fosse
necessario farlo.”
Altri tentativi
di tracciare la verità storica vengono fatti anche da buona parte della stampa,
che provvede a ricostruire fedelmente, dedicando all’argomento pagine su
pagine. Mentre infuriano le polemiche, vi è chi replica sdegnato dalle
iniziative commerciali sorte nel frattempo intorno alla trasmissione. Tra
quelli di dubbio gusto, citiamo la presentazione di uno short televisivo
con la pubblicità di un nuovo insetticida che “stermina tutto” chiamato
Holocaust e quella di una serie di raccapriccianti sequenze originali
sui campi di sterminio, che dovrebbero spingere all’acquisto di un apparecchio
fotografico a sviluppo istantaneo.
A livello
politico, mentre la Casa Bianca e tutti i partiti politici si tenevano, accuratamente,
al di fuori della mischia, gli ambasciatori di Giordania, Tunisia e Kuwait alle
Nazioni Unite dichiaravano che il dramma televisivo, mandato in onda dalla NBC,
rievocava fin troppo da vicino l’attuale sorte del popolo palestinese.
“Holocaust ha avuto un effetto benefico.”,
interveniva
Henry Kissinger.
“In esso si spiega il perché uno Stato totalitario si possa
trasformare in una bestia selvaggia, una volta che si è riusciti a sopprimere
tutti i valori morali.”
Così, quello che
doveva essere semplicemente un “film americano per gli americani” come
tanti altri, finisce, praticamente, per dividere l’America.
“Non è un’opera d’arte.”,
è il giudizio
quasi unanime della critica.
“Oggi più che mai, è necessario che i
giovani sappiano, intendano e comprendano: è l’unico modo per sperare che
quell’indicibile orrore non si ripeta, è l’unico modo per farci uscire
dall’oscurità.”
Elisa Springer
“È un prodotto
commerciale, nato per battere la concorrenza dell’altra emittente televisiva
ABC, dopo il successo di Roots. Un’opera senza pretesa di rigore documentario,
ma confezionata con grande mestiere, anche se ci riporta a qualche scena
western.”, commenta la stampa. Nonostante ciò, Holocaust riesce, in
brevissimo tempo, a collezionare negli Stati Uniti diversi premi: per i
migliori attori protagonisti, per la regia e per la sceneggiatura. Ultima
lamentela, quella dell’aspetto anticristiano della trasmissione.
Manifestazioni
di protesta si svolgono anche in Canada, a Toronto, dove canadesi di origine
tedesca protestano contro la propaganda sionista.
In Francia, è Antenne
2 ad acquistare i diritti di Holocaust e, quindi, a mandarlo in onda
in quattro puntate, a partire dal 13 febbraio 1979. La decisione della rete televisiva
francese è subito oggetto di numerose polemiche. In precedenza, era stata,
pesantemente, accusata dal settimanale L’Express, per il rifiuto
iniziale che aveva opposto all’acquisto dello sceneggiato americano, accampando
la scusa che era troppo caro. Il settimanale d’Oltralpe aveva, in seguito,
rincarato la dose, pubblicando un appello dello scrittore Marek Halter, che
invitava tutti gli antifascisti a una pubblica sottoscrizione “per fare
venire in Francia lo sceneggiato televisivo americano”. Il
Paese, che, già, appariva diviso dopo le sconcertanti dichiarazioni
dell’ex-commissario per le questioni ebraiche francese durante l’occupazione
nazista, Louis Darquier de Pellepoix, il quale
era, perfino, arrivato, nel corso di una intervista rilasciata a L’Express,
il 28 ottobre 1978, a negare l’esistenza stessa delle camere a gas, si spacca,
nuovamente, in due dopo la decisione di mandare in onda Holocaust. L’ex-deportatore di ebrei, già condannato a
morte in contumacia, il 10 dicembre 1947, aveva, infatti, affermato che i 6 milioni di
ebrei morti, durante l’imperversare del nazismo, fossero una pura invenzione
della propaganda sionista e che nei forni crematori avrebbero trovato la morte
soltanto i pidocchi degli ebrei, dato che i tedeschi “sono
notoriamente gente pulita e civile”.
“Je vais vous dire, moi, ce qui s'est
exactement passé à Auschwitz. On a gazé. Oui, c'est vrai. Mais on a gazé les poux.”
Quanto
alle camere a gas, venivano definite da Louis Darquier de Pellepoix una misura
igienica di disinfezione, allo scopo di
potere rivestire uomini e donne di una razza inferiore in maniera decente,
mentre tutte le fotografie raffiguranti le fosse comuni e le mostruose montagne
di cadaveri dovevano essere senz’altro il frutto di abili fotomontaggi.
Così, mentre la Francia sembrava perdersi in
cavillose discussioni sul numero esatto degli ebrei vittime dello sterminio
nazista e Le Monde scriveva:
“Le enormi menzogne di Darquier
possono colpire solo persone informate.”,
la stampa parigina concedeva, a sua volta,
ampio spazio a un altro relitto, Robert Faurisson, maître de
conferences all’Università
di Lione ed esperto di Marcel Proust, il quale con una testardaggine unica
affermava:
“Hitler non ha mai ordinato la
morte di nessuno, a causa della razza o della religione. I forni crematori
nazisti avevano uno scopo altamente umanitario: quello di bruciare i cadaveri dei
morti di tifo, per evitare il diffondersi in Europa delle epidemie,
inevitabili nel corso di una guerra.”
Queste ultime tesi, raccolte pari pari dalle
dichiarazioni di un altro collaborazionista
dell’ultima ora ed ex-deportato a Buchenwald, Paul Rassinier, andavano ad
aggiungersi ad altre pretenziose argomentazioni e a numerose pseudoperizie, che
avevano fatto in modo che Robert Faurisson
venisse definito “celui qui
assassine les morts légalement”.
Anche negli
ambienti politici francesi la decisione della rete di mandare in onda Holocaust
non mancò di sollevare polemiche. Il partito filogiscardiano, i cui quadri attuali avevano, ormai, largamente sostituito
gli uomini della Resistenza, appariva, unicamente, occupato per gli sviluppi
che, dopo le controversie scatenate dallo sceneggiato americano in Francia, potessero
avere le relazioni franco-tedesche, tanto da venire accusati dalla Humanité,
organo del Partito Comunista, di “sacrificare allegramente a cinici calcoli politici
milioni di vittime del nazismo”.
“Chi ha subito il tormento non potrà
più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La
fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi
dalla tortura, non si riacquista più.”
Jean Améry
I francesi scoprivano,
quindi, che non tutti, durante la guerra, avevano servito nelle fila della
Resistenza e di non avere, sempre, la coscienza limpida nella deportazione
degli ebrei residenti nel proprio Paese. A dare man forte a questa tesi,
interveniva il critico letterario di Le Monde, Bertrand Poirot-Delpech,
che definiva il 1978 come l’anno del collaborazionista. Anche in Francia, Holocaust
riesce, tuttavia, a commuovere milioni di persone, i due famosi cacciatori di
nazisti Beate e Serge Klarsfeld, di nazionalità tedesca che vivono a Parigi
esprimono la loro piena soddisfazione che, finalmente, Antenne 2 abbia
preso la sofferta decisione di presentare ai francesi “un feuilleton come Holocaust, il cui
discorso rimane, comunque, valido”. Da Massy, il direttore del Centre
National de la Recherche Scientifique [CNRS], Léon Poliakov, dichiara,
infatti, che “l’avere
proiettato Holocaust in televisione è, senz’altro, una iniziativa meritoria”.
Dello stesso avviso è, anche, Louise Alcan, segretaria dell’Amicale des
déportés d’Auschwitz di Parigi. Anche Georges Wellers, presidente del Centre
de Documentation Juive Contemporaine [CDJC], ex-deportato ad Auschwitz e
uno dei pochi superstiti dei 75.721 ebrei francesi, avviati nei campi di
sterminio nazisti, considera Holocaust, pur inficiato da alcune
imprecisioni storiche, un fatto positivo. Eguale parere esprimono Roland
Teyssandier, presidente del Comité International des Camps, Claude Levy
e Henri Michel del Comité d’Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale.
Nello stesso
momento in cui le polemiche in Francia toccano il punto di maggiore tensione,
la televisione belga francofona decide di mandare in onda la versione francese,
dal 12 febbraio 1979. Quella olandese aveva, già, trasmesso Holocaust,
nel settembre precedente, con un indice di ascolto molto elevato e con numerosi
appelli, da parte della stampa, a non dimenticare. Maurice Goldstein e Albert
Guérisse del Comité international d’Auschwitz-Birkenau [http://www.ina.fr/video/CPD02000144] si
felicitano che un simile programma sia stato trasmesso e da Bruxelles Hubert
Halin, direttore de La Voix internationale de la Résistance [http://www.cegesoma.be/docs/media/chtp_beg/chtp_02/chtp2_006_Lagrou.pdf],
è, egualmente, del parere che si debba plaudire a una iniziativa del genere.
Serge Klarsfeld e sua moglie Beate Auguste Künzel, di nazionalità tedesca e
figlia di un soldato tedesco, sposata nel 1963, hanno intrapreso come
“cacciatori di nazisti” una serie di indagini nei confronti di criminali
nazisti scampati ai processi loro intentati nel dopoguerra. Sono riusciti a
portare in tribunale il “boia di Lione”, Klaus Barbie e a presentare importanti
testimonianze nel processo contro il criminale nazista francese Maurice Papon [https://www.youtube.com/watch?v=1IC7sfWDrJA,
https://www.youtube.com/watch?v=VIAYwbDaPBA].
“Ognuno di noi superstiti era un
testimone e aveva il dovere
di rendere la propria testimonianza.”
Simon Wiesenthal
In Israele, Holocaust
è stato, invece, vissuto e sofferto quasi in sordina, con il pudore di chi ha
vissuto in prima persona tutte le tragiche esperienze fatte rivivere nelle
quattro puntate dello sceneggiato televisivo. Mentre alcuni anziani si erano
rifiutati categoricamente di seguirne anche una sola sequenza, la gioventù Sabra,
la nuova generazione nata nel mito dell’efficienza israeliana, non ha mancato
di rimproverare, ancora una volta, ai propri genitori la colpa di non avere
saputo reagire alla prepotenza nazista e di avere accettato, passivamente, il
folle ordine di un sistematico genocidio.
Inventur [1948]
Günter Eich
Dies ist meine Mütze,
Dies ist mein Mantel
Hier mein Rasierzeug
Im Beutel aus Leinen.
Konservenbüchse:
Mein Teller, mein Becher,
Ich hab in das Weißblech
Den Namen geritzt.
Geritzt hier mit diesem
Kostbaren Nagel,
Den vor begehrlichen
Augen ich berge.
Im Brotbeutel sind
Ein Paar wollene Socken
Und einiges, was ich
Niemand verrate,
So dient er als Kissen
Nachts meinem Kopf.
Die Pappe hier liegt
Zwischen mir und der Erde.
Die Bleichstiftmine
Lieb ich am meisten:
Tags schreibt sie mir Verse,
Die nachts ich erdacht.
Dies ist mein Notizbuch,
Dies meine Zeltbahn,
Dies ist mein Handtuch,
Holocaust giunge, quindi, in Germania dopo che
la stampa tedesca ha riportato, con dovizia di particolari, l’accoglienza da
esso ricevuta in tutti i Paesi dove è stato programmato. Subito al suo apparire
sette scrittori tedeschi, tra i quali, oltre al Premio Nobel per la Letteratura
1972 Heinrich
Böll, figurano,
anche Günter
Grass, Walter Jens,
Wolfgang Koeppen, Siegfred Lenz, Martin Walser Peter Weiss, si dichiarano
disponibili a collaborare tra loro per una eventuale realizzazione di un’opera
televisiva sul nazismo e lo sterminio degli ebrei, “più aderente alla realtà storica che
non Holocaust”.
“Lo sceneggiato americano è troppo romanzato e ha uno stile tipicamente
hollywoodiano.”,
è, infatti, il
commento della Kultur tedesca, mentre la convinzione che gli altri
sappiano fare solo “cose antitedesche” diviene, ben presto,
abbastanza diffusa nella opinione pubblica. Inevitabilmente, anche in Germania,
come già è successo negli altri Paesi, dove il dramma televisivo è stato
programmato, divampa la polemica. Opinione pubblica, stampa, associazioni
culturali e religiose, gruppi politici finiscono per dividersi: da una parte,
chi dice che, anche a 35 anni di distanza, è giusto ricordare e, dall’altra,
chi afferma decisamente il contrario [http://www.zeit.de/1979/09/eine-gemeinsame-lektion,
http://www.zeit.de/1979/09/eine-gemeinsame-lektion/seite-2].
Anche la decisione della WDR, la principale rete televisiva tedesca, di
acquistare i diritti di Holocaust per più di un milione di marchi [mezzo
miliardo di lire] viene aspramente criticata.
“Il sentimento di colpa della Germania”,
scrive Der
Spiegel,
“non avrebbe dovuto costringere un ente pubblico come la
televisione ad acquistare uno sceneggiato che è in contrasto, in modo più che
palese, con i suoi principi pedagocici, di informazione e di estetica.”
“È antitedesco oppure no?”,
era stato il
primo interrogativo in una polemica che si preannunciava infuocata, tanto che
il portavoce del Governo di Bonn, parlando, tuttavia, a titolo personale, aveva
tagliato corto:
“Qualunque cosa sia, sarà sempre lontana dalla realtà. Nessuno
può dipingere l’inferno.”
Non appena lo
sceneggiato venne messo in onda, il direttore del Der Spiegel, Rudolf Karl
Augstein, pubblicò un fondo destinato a destare notevole scalpore dal titolo Ich
habe es nicht gewußt [Io
non lo sapevo, http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-40350861.html], nel quale
racconta anche le sue esperienze di esecutore di ordini sul fronte russo.
“Neppure della Kristallnacht [Notte dei Cristalli, 9-10 novembre
1938], quando i negozi degli ebrei tedeschi vennero devastati, boicottati e
saccheggiati, 267 sinagoghe finirono bruciate, 91 ebrei furono uccisi e 26mila
trascinati a Buchenwald, Dachau e Sachsenhausen?”,
gli rispondono
risentiti alcuni lettori.
Henri Nannen, direttore di Stern, confessa, invece, pubblicamente:
“Sapevo tutto su quella tragica
notte e sapevo anche che degli esseri umani venivano sterminati come vermi, ma
sono stato troppo vigliacco per reagire.”
Nel corso della trasmissione, le vie e i
pubblici locali tedeschi rimangono deserti. Più di 20 milioni di telespettatori
“conoscono”, così, per la prima volta, l’esistenza dei campi di sterminio. Holocaust, e nessuno se lo aspettava, ha
più successo degli ultimi Mondiali di calcio. Decine di migliaia di persone
telefonano alle sedi dell’Ente televisivo.
Solo a Colonia, si contano 26mila chiamate e un
uomo si dà fuoco per la vergogna.
Si salverà!
A Berlino, un ex-SS dichiara in una intervista
che sua moglie e i suoi quattro figli se ne sono andati di casa, dopo che hanno
saputo, assistendo allo sceneggiato e dopo avere minacciato di scrivere sui
muri della propria casa:
“Qui vive un assassino nazista!”
“La Germania si è svegliata”;
“La Germania fa l’esame di coscienza” ;
“La lezione di Holocaust” ;
si
affrettano a scrivere alcuni quotidiani tedeschi, mentre nelle scuole e nelle
università, per la prima volta dalla fine della guerra, vengono tenute delle
lezioni sul nazismo. La Repubblica Federale sembra avere appreso tutto solo
adesso, nonostante la televisione nel dopoguerra abbia mandato in onda più di
100 documentari sul nazismo e abbia programmato films sconvolgenti come Notte
e Nebbia di Alain Resnais e lavori teatrali, quali Il Vicario di Rolf Hochhuth,
Il generale del diavolo di Carl
Zuckmayer e L’istruttoria di Peter
Weiss.
Un fatto è certo: per 33 anni, i tedeschi
hanno, sistematicamente, rifiutato il confronto con il loro oscuro
passato.
“Non è vero che non sapessimo.”,
sottolineava Ivo
Frenzel, moderatore a uno dei suoi dibattiti che hanno fatto seguito allo
sceneggiato.
“I programmi di Hitler sulle questioni razziali erano noti a
tutti.”,
“I suoi discorsi politici e lo stesso Mein Kaampft [letto da
milioni di tedeschi] parlavano chiaro: “procederemo allo sterminio degli ebrei
in tutta Europa”. Oggi, la lezione di Holocaust sembra servire a qualcosa: a
far sì che tutti i tedeschi si fermino a pensare e a riflettere.”
Lo scrittore
Walter Kempowski raccolse a migliaia questi “ripensamenti”, per un libro dal
titolo Noi
ne eravamo a conoscenza?
Indubbiamente,
tutto il Paese venne scosso da una emozione senza precedenti.
“Holocaust ci ha obbligati a un ripensamento critico e
soprattutto morale.”,
ammetteva il
cancelliere Helmut Heinrich Waldemar Schmidt.
“Nessuno in futuro potrà più dire di non avere saputo nulla.
Questo film non ammette più scusanti a buon mercato.”
“Con Holocaust è successo qualcosa di incomprensibile e di
diverso.”,
afferma un
portavoce della WDR.
In effetti, la
prima sera di programmazione, il 32% dei tedeschi ha seguito la trasmissione,
la seconda il 36%, la terza il 39%, la quarta il 41%, nonostante sia stata
mandata in onda sulla WDR, la rete culturale, che ha un indice di
ascolto molto basso. In un crescendo drammatico, il kleine mann tedesco
rimane, per la prima volta, turbato dalla verità. Molti giovani arrivano a
definirsi figli di Weiss, una sorta di muto omaggio alla famiglia ebrea
protagonista del dramma televisivo.
Qualcuno parla
di fuoco di paglia.
Possibile, ci si
chiede, che tutti abbiano compreso solo ora e per merito di uno sceneggiato
americano?
“Dopo che i tedeschi da decenni hanno represso istintivamente il
loro passato incancellabile, ecco la verità.”,
scrive Stern,
dando il via alla pubblicazione di una raccapricciante serie di fotografie, che
rifà l’esatta cronologia del genocidio degli ebrei.
“Una svolta nella coscienza civile tedesca.”,
gli fa eco l’Allgemeine
Jüdische Wochenzeitung. Del dramma
americano si parla, ormai, ovunque, anche nel corso della conferenza
dell’episcopato tedesco, dove, tra l’altro, si viene ad affermare:
“Difficile è comprendere oggi le ragioni per le quali la Chiesa
cattolica non abbia preso una posizione sufficientemente netta contro le leggi
antisemite e gli eccessi del regime nazista.”
“I vuoti di oblio
non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo
vi è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre
in vita
per raccontare. E perciò nulla può mai essere praticamente inutile, almeno non
a lunga scadenza.”
Hannah Arendt
La stampa tedesca
continua, intanto, a dedicare pagine su pagine alle “reazioni devastanti”,
che, a poco a poco, la serie televisiva procura alla coscienza di tutto il
Paese.
“Un inquietante tuffo nel passato”;
“Un appuntamento con la Storia”;
“Un incontro con la propria
coscienza”;
titolano,
infatti, i maggiori quotidiani.
“Per 9 ore la Germania è tornata indietro, per rivivere il suo
passato inconfessabile, un passato che noi tedeschi abbiamo troppo spesso
dimenticato.”
“In realtà, nessuno si aspettava l’effetto dirompente di
Holocaust. È come se, oggi, tutti volessero sapere la verità, quella verità che
per anni ci siamo rifiutati di conoscere.”,
commenta la Frankfurter
Allgemeine Zeitung.
“Oggi è finalmente finita l’incapacità tedesca di rattristarsi.”
Tutti vogliono
sapere di più e la WDR deve installare linee telefoniche supplementari
per dare, a chi voglia, la possibilità di chiamare. Die Zeit parla di
psicosi collettiva, di terremoto di coscienze, definendo la Germania “una
tecnologia senza memoria, che solo adesso ha aperto gli occhi”.
“Holocaust è stata la trasmissione più emozionante e quella che
ha avuto la più grande portata politica dopo l’avvento della televisione.”,
sostiene Wolfgang
Haus di Radio Berlino Libera. Eguale soddisfazione esprime anche Heinz
Galinski, presidente della comunità ebraica di Berlino Ovest.
“L’emozione ha superato qualsiasi previsione.”,
è il parere di
Werner Jochmann, direttore del Forschungsstelle für Zeitgeschichte [Centro di ricerche sul
nazionalsocialismo] di Amburgo.
“Ma non bisogna farsi illusioni: il brivido che oggi ha scosso
la Germania non durerà a lungo.”
Per evitare
questa possibilità, tuttavia, la Bild Zeitung inizia a pubblicare la
storia di Holocaust a puntate, in inserto da staccare e da conservare.
Ultima nota favorevole a Holocaust, quella della Rheinische Post:
“Non è antitedesco… È una testimonianza che investiga su come
una tale catastrofe [il nazismo, n.d.r.] abbia potuto accadere in un Paese
civile. … E finalmente non si è visto lo stereotipo nazista di tanti vecchi
film americani, né l’ufficiale con il monocolo che batte i tacchi.”
Le prese di
posizione degli oltre 350 gruppi neonazisti, allora attivi in Germania,
riguardo allo sceneggiato televisivo, furono, invece, fortunatamente, sterili e
isolate. Qualche incidente si era avuto prima della programmazione, quando
alcuni estremisti avevano tentato di sabotare il film, durante le
riprese delle scene in esterno girate a Wedding [Berlino Ovest], dove era stato
ricostruito il Ghetto di Varsavia e quando 2 bombe da 10 chilogrammi erano
state fatte esplodere a Coblenza e a Münster, contro i
ripetitori della WDR, per protestare contro il successo riportato da Holocaust
in America e, evidentemente, con lo scopo ben preciso di scoraggiarne
l’acquisto in Germania.
Poco tempo dopo,
il borgomastro di Monaco era riuscito a impedire una manifestazione di fanatici
dell’NPD, Nationaldemokratische
Partei Deutschlands
[Partito
Nazionaldemocratico
di Germania], che intendeva
opporsi all’“offensiva
antitedesca posta in atto dallo sceneggiato americano”.
Il giorno dopo
la messa in onda della prima puntata, alcuni neonazisti di Berlino Ovest
scendevano in piazza con il volto mascherato da asino e con vistosi cartelli
appesi al petto, che spiegavano il motivo del loro gesto:
“Siamo dei somari che credono a quello che viene mostrato in
Holocaust.”
Poi, tutto
rientrò nella normalità.
Solo il giornale
neonazista di Gerhard Frey, National-Zeitung, continuò a scagliarsi
violentemente contro il dramma televisivo, che venne così definito:
“Una falsificazione della storia, infarcita di pregiudizi,
luoghi comuni, superficialità, mezze verità e complete menzogne. Uno show
televisivo scandaloso, uno spettacolo triviale e strappalacrime hollywoodiano,
un melodramma, una fiaba dell’orrore, la menzogna del secolo, una violazione
della verità, una velenosa manifestazione di odio antitedesco, una esibizione
di sangue fatto con il pomodoro.”
Come se ciò non
bastasse, il foglio nazista tentò, anche, di pareggiare il conto con la Storia
nel rimproverare agli ebrei lo sterminio di 75mila persiani, avvenuto dal 565 al 485 a.C.
In una bolla di
sapone finì, anche, il complotto contro l’ex-accusatore americano al Processo
di Norimberga, Robert Kempner e lo scrittore Eugen Kogon, ex-deportato a
Buchenwald e autore di un’opera fondamentale sul nazismo, L’Etat SS.
Quello che avrebbe dovuto essere un clamoroso gesto di protesta contro Holocaust
e contro la presenza di Kogon a un dibattito televisivo, finì con l’arresto
di 15 persone, che, a eccezione di una, vennero, subito, rilasciate.
Anche l’altra
Germania non fu immune al contagio di Holocaust.
A Berlino Est,
secondo quanto riferiscono alcuni organi di stampa comunisti, vi fu sorpresa,
orrore e indignazione, non tanto per lo sceneggiato in se stesso, quanto per la
chiaramente diffusa ignoranza del periodo nazista dei tedeschi occidentali.
A livello
ufficiale, tuttavia, il regime comunista riuscì a ostentare la massima
indifferenza, come se tutto ciò fosse di esclusiva pertinenza e riguardasse
solo la Repubblica Federale. Tuttavia, anche a Est, non mancarono discussioni e
polemiche, tra quel milione di tedeschi orientali che riuscivano a captare i
programmi televisivi di Bonn.
“Qui da noi Holocaust non verrà mai trasmesso.”,
è il commento
del critico marxista Robert Havemann.
“Il regime dovrebbe spiegare pubblicamente perché ha, sempre,
appoggiato gli arabi contro gli ebrei.”
La ripercussione
del fenomeno Holocaust nella Repubblica Federale minacciava, tuttavia, di
incrinare anche i delicati equilibri politici che reggevano l’attuale politica
interna.
Proprio negli
stessi giorni in cui veniva programmato lo sceneggiato televisivo, il Bundestag
iniziava a discutere se i crimini, compiuti durante il Drittes Reich,
dovessero andare in prescrizione dal primo gennaio 1980.
La
copertina che Der Spiegel dedicò a Holocaust.
La massiccia
coalizione democratico-cristiano-liberale [CDU-CSU-FDP], che poteva,
fino a qualche tempo prima, vantare sulla carta una superiorità schiacciante a
favore, dopo Holocaust vide sgretolarsi
la propria posizione e letteralmente rivoltarlesi contro buona parte
dell’opinione pubblica a vantaggio dell’SPD [partito socialista], che si
batteva, invece, contro questo provvedimento. Il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal
poteva, quindi, essere soddisfatto e dichiarare:
“Dopo che i tedeschi hanno visto Holocaust ricevo, ogni giorno,
centinaia di informazioni. Mi telefonano o mi scrivono: “Dopo quello che ho
visto non posso più tacere.” Ma soprattutto insistono perché la partita non
venga considerata chiusa.”
In Austria, il
dramma televisivo suscitò più o meno le medesime emozioni destate in Germania,
anche se in tono più attenuato e dimesso:
“Questa opera è un monito perché l’uomo non debba più ritornare
in quelle tenebre.”,
fu il giudizio dell’ex-deportato
Hermann Langbein, lo studioso più preparato e il cronista più serio del lager
di Auschwitz.
“A partire
da Auschwitz sappiamo di che cosa è capace l'uomo.
A partire da Hiroshima sappiamo che cosa vi è in gioco.”
Viktor Emil Frank
Daniela Zini
Copyright © 4 febbraio
2017 ADZ
Una delle caratteristiche più rilevanti
concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di
uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in
quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon
evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura
dello Stato:
“Se le circostanze sembrano
richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della
coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un
genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio.
Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti,
lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica,
possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e
ideologici, che permettono di
pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre
al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre
caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione
dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando;
essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può
pianificare con efficacia questo tipo di azione.
Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha
suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio
del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco
e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando
dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva
delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di
Washington.
“Il
presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione
hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu
massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e
giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del
Dipartimento di Stato americano Marie Harf.
Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha
commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio
cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva,
infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e
fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea
Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.
Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del
contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone
particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese
del 1994”.
Allo scoppio
della tragedia,
l’ONU decide di ritirare gran parte
del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si
oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive
al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
Il suo appello rimane inascoltato.
La
terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due
tentativi di suicidio.
Nel
2003, Dallaire pubblica Shake Hands with
the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro
fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con
l’ONU.
Dal 12
aprile 2011, a
Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di
tutto il Mondo di Milano.
La Storia dei crimini contro l’Umanità è
ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a
opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del
388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni
della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di
Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di ”digiuno” dai
sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo
dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere
esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la
ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii,
stupri, spergiuri e altri crimini “in
violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu
condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta
turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale
anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva
respinto l’ultimatum di Francia,
Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della
Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione
costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano,
avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno,
infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia
coincide con quella del Popolo stesso.
Domenica 20 maggio, la televisione italiana
manda in onda la prima delle quattro puntate dello sceneggiato americano Holocaust, la cui apparizione sui
teleschermi americani, tedeschi e francesi ha suscitato emozione, polemiche ed
esami di coscienza. Attraverso la storia parallela di due famiglie, quella
ebrea dei Weiss e quella ariana dei Dorf, Holocaust
ricostruisce, dal 1938 al 1945, la tragedia di 6 milioni di innocenti,
condannati a morte dal folle progetto di soluzione finale del problema ebraico,
vale a dire il piano che prevedeva l’annientamento totale di tutti gli ebrei d’Europa.
Attraverso le quattro puntate del dramma televisivo, i Weiss conoscono la Notte
dei Cristalli, le pratiche di eutanasia, i campi di sterminio di Auschwitz,
Buchenwald, Sobibor e Mauthausen, l’orrore del “ghetto modello” di Theresienstadt,
la guerra antipartigiana, la rivoluzione del Ghetto di Varsavia e, per l’unico
superstite, la fuga in Palestina a bordo dell’Exodus.
Tratto da
un romanzo dello scrittore Gerald Green, che in tutto il mondo ha venduto
milioni di copie, Holocaust è stato,
in parte, girato negli stessi luoghi che hanno visto la tragedia del popolo
ebraico, in 18 settimane, con un costo complessivo di 6 milioni di dollari.
Regista è Marvin J. Chomsky, lo stesso che ha diretto, in parte, Radici. Gli interpreti principali sono
Michael Moriarty [Eric Dorf] e Meryl Streep [Inga Helm Weiss]. Nella famiglia
ariana dei Dorf, Erik, un avvocato fanatico e scioperato, spinto dalle
ambizioni della moglie, entra nelle SS, diviene ben presto il braccio destro di
Reinhard Heydrich e partecipa, spietatamente e senza emozioni, agli atroci
piani di sterminio nazisti. Il fatto che la sua famiglia sia fino ad allora
stata curata dal medico ebreo Karl Weiss non gli impedisce di divenire uno
scrupoloso burocrate della morte.
“Bisogna sterminare gli scorpioni, i topi e gli
ebrei.”,
diviene il
suo motto preferito. Alla fine di una interminabile catena di delitti, dopo il
crollo del nazismo e di tutti i suoi miti, si ucciderà con il veleno, dopo
essersi consegnato prigioniero agli americani. Nella famiglia Weiss, quando
iniziano le prime violenze naziste, Rudi è l’unico a comprendere dove voglia
arrivare la fanatica ferocia delle SS e a scappare, quindi, di casa. Suo padre
Josef e sua madre Berta vengono, invece, deportati ad Auschwitz, mentre suo
fratello Karl, un pittore che ha sposato Inga, una ragazza ariana, viene
arrestato e rinchiuso nel lager di
Buchenwald, dove subirà le più atroci torture. Sua sorella Anna finirà, invece,
in una clinica per minorati mentali, dove verrà eliminata. Rudi, che è riuscito
a riparare in Cecoslovacchia, incontra Helena, la sposa e insieme a lei passa a
combattere i nazisti a fianco dei partigiani russi. Dopo la morte di Helena,
riuscirà a riparare, fortunosamente, in Palestina.
“Every American family
should see “Holocaust.” It is the most powerful film ever made for television.
But the immediate practical concern for the NBC Television Newwork is not how
many American families but how many Nielsen families see “Holocaust” when the 9
1/2-hour drama about the Nazi extermination of European Jews is televised over
a four-night period beginning Sunday.
This is pivotal moment for
television.The ratings of “Holocaust” could affect programming decisions for
years to come. Networks will study them as indicators of whether TV viewers can
be lured from the usual numb escapism for something grim, provocative and
emotionally demanding. Normally TV offers fast , fast, fast relief from pain; “Holocaust”
opens an old would that much of the world has spent three decades trying to
forget.
We are at the crossroads.
Network competition has grown too relentless to allow for philanthropic
gestures that don’t draw viewers in the required tens of millions. “Holocaust”
will help determine whether TV is to be exclusively the national font of fun or
a medium in which the difficult and the troubling also can be expressed to a “Holocaust”
is not unrelieved woe, but it is a times a shattering congfrontation with the
darkest components of the human condition, and it ironically comes at the end
of a TV season in which the silly, the vapid and the puerile have thrived
without challenge.
“If it fails on the same
magnitude as ‘King,’ if it is what’s considered a colossal failure,” says “Holocaust”
producer Robert Berger, “that means it could still have been seen, at least in
part, by 65 million people. Failure in television is a relative thing. If it is
a success, though, that would encourage the other networks to do similar
things. If it fails in the ratings, that would be a death knell for serious
subject matter on television. And that would be tragic.”
Author Gerald Green’s
orginal idea for “Holocaust” took shape years ago as a film about the artists
at Thersienstadt, a model concentration camp maintained by the Nazis as
amouflage for the atrocities committed at Auschwitz, Buchenwald and others. ABC
was approached with Green’s concept and rejected it as a “downer” that couldn’t
be turned into cheery entertainment. In Hollywood now, ABC staffers are
spreading the word that “Holocaust” will flop because viewers don’t want to be,
or even risk being, depressed. If they don’t, it’s partly because ABC has been
feeding them a steady diet of cotton candy ever since, and despite, the success
of “Roots.”
Incoming NBC President
Fred Silverman - outgoing head of programming at ABC - has told colleagues that
he thinks “Holocaust” will draw a large audience but that he would have
preferred to title it “Two Families” [the film follows the sometimes
overlapping destinies of a Jewish and a Nazi family] and promoted it “differenlty”
than NBC is doing - presumably, playing up the melodrama, of which there is
plenty, and downplaying the history.
From Stockton, Calif.,
where he is making a new movie, Marvin Chomsky, who directed all of “Holocaust”
[actually 7 1/2 hours without commercials], says he does not think the subject
matter will frighten viewers off. “‘Roots’ was not a fun festival, either,”
Chomsky says. “Soap opera has turned on human misery ever since I was a kid,
and before, and it remains popular. ‘Holocaust’ is not one gore after another.
We don’t dwell constantly on misery or breast-beating. I think the moments of
agony are handled truthfully.”
Chomsky directed six of
the 12 hours of “Roots,” which was indeed watched by record millions. But “Roots”
contained proven commerical elements, including scenes of sex and violence,
that “Holocaust” largely lack “Roots” was set in a faraway past that distanced
the material considerably and made it safer. “Holocaust” covers an era much
closer to the present.
The producers and actors
discovered the sensitivty of the material when they shot the film in Austria
and Germany in 18 weeks last summer. In Berlin, production was disrupted by a
man who threw beer bottles at the filmmakers from a balcony. In one small
German town, a little old man repeatedly walked in front of the camera to
shout, “I killed you Jews once and I’ll kill you again.” Swastikas were painted
on some of the sets.Two of the first four days’ shooting were lost when the
processing laboratory mysteriously ruined the film, Berger said; another lab
was found. Many German and Austrian techicians refused to work on the film.
Officials in Hungary,
Czechoslovakia and Yugoslavia gave permission to film in those countries. Then
they read the script. Permission wihtdrawn. Officials sais the scripts had “Zionists”
elements, Berger was told not to bother trying to get into Poland or East
Germany, either. “In the places we did shoot,” he says, “the reaction ranged
from complete co-operation to complete hostility.”
The social importance of “Holocaust”
is not in reminding the world that the Nazis were monsters. In fact, every
attempt is made to humanize them, to show their pitiful as well as despicable
aspects, and to wrest them from the realm of caricature, even comic caricature,
into which they have fallen in movies like “The Producers” and TV series like “Hogan’s
Heroes.”
“There are only two ‘heil
Hitlers” in the whole thing,” Chomsky notes; that old boot-clicking Nazi
stereotype may have been as glamorizing as it was stigmatizing. “Holocaust”
does not aportion guilt to groups or sects or nations so much as it explores
the more disturbing shades of gray, the guilt shared by all. Media-conscious
religious groups and television itself, with its gospel according to whoopee,
have helped create in the ‘70s a psychological environment that often seems
hedonistically if neurotically guilt-free; that’s another, reason one may fear
for the drawing-power of “Holocaust” and hope that those fears will be proven
wrong.
There are peripheral
controversies involved with “Holocaust” as well. NBC buckled to pressure from a
few affiliates and removed four seconds of decidely anti-erotic frontal nudity
from the finished film, over Chomsky’s protests. Half the cut footage was an
actual still photograph of two women being led naked to a gas chamber. The
other half was a reenactment of such a scene in which unclothed women could be
glimpsed in the background.
“To me, this is like
photographing a horse race and not showing the finish line,” says Chomsky, “We
were depicting the conclusion of the Nazi logic of total dehumanization; they
were reducing the Jews to a sub-human level. This kind of thing has already
been seen in documentary footage. But the affliliates cried out before any of
them had even seen our film. Somebody warned them and got them very, very
nervous.”
Executive producer Herbert
Brodkin could not dissuade NBC President Robert Mulholland from cutting the two
brief scenes [there is still a considerable amount of male and female
semi-nudity in the film]. Producer Berger thinks the cuts are relatively
unimportant.
“It’s too bad the network
couldn’t see there was a difference between this and ‘Charlie’s Angels,’” he
says. “This is not jigglevision; this is anything but prurient in intent. But
we are talking about six feet of film out of 50,000 feet that will get on the
air. And if that four seconds had given one network affiliate the excuse not to
carry the show, it’s worth it to cut it out.”
It seems incredible that
stations unruffled by the smutty shananigans of “Aspen” or “79 Park Avenue” or “The
Moneychangers” would get into lathers over the fleeting nudity in “Holocaust,”
but station managers are notoriously jittery about controversial programming.
Partly to protect tis
against possible affiliate defections over such troublesome material, and
partly because “Holocaust” is a difficult program to “promote” without being
too blatantly tasteless ever for TV, NBC has spent weeks lining up and
circulating recommendations from civic and religious leaders.
It begins to sound like
watching “Holocaust” is some kind of painful civic duty, but Green and Chomsky
and a cast of true actors as opposed to guest stars have made the fictional
characters tremendously dimensional and affecting against the authentic
historical background. The impulse to be sanctimonious or preachy has been for
the most part kept in check; “Holocaust” is more story than sermon. And yet the
film’s spiritual impact on the nation could be as great as that of any story
television has ever told, including “Roots.”
At a press conference
here, Rabbi Marc Tanenbaum of the American Jewish Committee said the programm
represents “an unprecedented exposure of the meaning of the holocaust to more
people, potentially, than all the books and studies and curriculum ever
prepared on the subject.”
“I’ve seen the complete
film three thiems.” said Tanenbaum. “And each time I came away bawling like a
baby. It really has a transforming power. It really could make a difference.”
“Holocaust” really could
make difference in television as well as a difference in public attitudes
toward the holocaust and what it represents. Everyone in television will be
watching next week to see how much of the nation watches this program; 1,100
families with Nielsen meters on their TV sets will in effect be casting
decisive ballots on whether TV is to get better or become even worse. However
they vote, the mere fact that “Holocaust” got on the air takes the wind out of
the sails - at least for the moment - of all those who think there is no hope
for television. There is some, after all. Come Monday more or there may be
less.”
Tom Shales, NBC’s Powerful “Holocaust”, Washington Post, 12 aprile 1978.
“American Nazis, despite much recent attention, do not
appear to he more than a fragmented assortment of small, widely scattered bands
of right‐wing
ideologues.
Although their flamboyant uniforms and their penchant for
noisy demonstrations for generally unpopular causes produce frequent newspaper
headlines and television coverage, the total of selfstyled Nazi “storm troopers”
in the nation is about 1,000, if that, according to all the best evidence from
knowledgeable sources.
And with all their common enthusiasm for brown shirts,
swastikas, jackboots and preachments against the Jews and blacks. the disparate
National Socialist organization are frequently at war among themselves.
But the long court fights over a Nazi attempt to march in
the predominantly Jewish Chicago suburb of Skokie. and NBC’s televised showing
of the “Holocaust,” which revived memories of Hitler’s extermination of six
million Jews have brought the American Nazis a notoriety that seems to be
greatly disproportionate to their numbers.
Interviews with officials familiar with the situation in
a dozen major cities, most of which are known to have Nazi organizations,
uncovered no group of significant numbers. A spokesman for the Federal Bureau
of Investigation in Washington said that the bureau discounted the Nazis as a
threat and several years ago abandoned its surveillance of them along with many
other fringe organizations.
The Anti‐Defamation
League of B’nai B’rith, which is usually credited in knowledgeable circles with
keeping a close and relatively objective watch on right‐wing groups, especially those that espouse anti‐Semitism, estimated in a study issued last week that
membership in the country’s various Nazi parties was 1,000 to 1,200.
The report, compiled by the league’s fact‐finding department in New York under the direction of
Irwin Suall, described the Nazis as “politically impotent” despite two decades
of attempted recruitment since George Lincoln Rockwell Jr, founded his American
Nazi Party. Mr. Rockwell was killed in 1967 by disgruntled follower.
“Although there has been a growing militancy among Nazi‐type outfits in West Germany and disturbing successes
polled by England’s neo‐Nazi
National Front,” the report said, “the apparent ‘Hitler Wave’ has given the
movement in the United States little more than an increased visibility. Here
it. remains largely a mixed hag of young malcontents and misfits, older
hatemongers and other contorted personalities whose visibility is altogether
disproportionate to their smell numbers.”
But while the report said that the Nazi numbers today
were apparently only about the same as they were at the peak of Mr. Rockwell’s
reign in the mid‐60’s, it
also said that it felt the National Socialist groups should he “closely watched”
because of their “potential for generating temporary local passions out of
local tensions and for creating occasional disturbances, often with tragic
consequences.”
And reports from various cities around the nation
indicated that that “potential” had apparently been realized in a number of
areas in recent months, such as Chicago, St. Louis, San Francisco, Detroit and
Minneapolis.
Though the National Socialist White People’s Party, which
is the name Mr. Rockwell gave to his American Nazi Party shortly before his
death, is still generally considered to be the largest group, it has been
overshadowed in publicity for more than a year by the National Socialist Party
of America, which based here.
The Anti‐Defamation
League places the “hard‐core
members” of the National Socialist White People’s Party, which based in
Arlington ,Va., at fewer than 100. But it says that the group has perhaps 500
so‐called “official supporters” who are
supposed to contribute at least S5 a month.
The party has branches in Chicago, Cleveland, Los
Angeles, Milwaukee, Minneapolis, San Francisco and in the TracyStockton area in
California. It is reported to seldom turn out more than 20 or 30 Nazis for
street rallies in any of those places.
In recent >ears, Matt Kochi, who succeeded Mr.
Rockwell as commander, has attempted to improve his party’s reputation by
encouraging members to seek power through the political process. And lately the
partys’ principal activity in the Washington area has been demonstrating
against pornographic bookstores. One such recent demonstration, and another
calling on New Zealand to release an imprisoned Nazi leader, drew 10 to 20
persons each.
“Their activity has been minimal since the demise of
Rockwell,” said Lieut. Walter L. Hughes of the Arlington Police Department.
The relatively subdued recent behavior of the old
Rockwell group has left all but eclipsed as the publicity spotlight has spun to
the Chicago headquarters of the National Socialist Party of America.
Frank Collin, a former Rockwell follower who was expelled
a few years ago because his father, a survivor of a German death camp, is
Jewish, seems to have found the most effective attentiongetting device yet for
his Nazi group here.
It was Mr. Collin who declared last year, after his group
was denied a permit. for a demonstration in Marquette Park on Chicago’s
Southwest Side, that he would seek instead to parade in Skokie, a village with
many survivors of the holocaust among its 40,000 Jewish residents.
The village immediately passed ordinances forbidding
groups that preached hatred or wore military‐style
uniforms to march or pass out “hate” literature and requiring $300.000 of
liability insurance from any group that wanted to demonstrate on public property.
In court battles that have been going on ever since, the
State Supreme Court has termed the ordinances unconstitutional. So has the
Federal District Court. The Court of Appeals for the Seventh Circuit has heard
the case and a ruling is expected shortly.
As national attention has focused on the litigation, in
which the Nazis are represented by the American Civil Liberties Union, Mr.
Collin has readily accepted each new postponement of the march as a chance to
gain further publicity for his cause.
But despite the publicity, his band of 20 or so followers
has shown little sign of expanding.
The Collin band, whose Rockwell Hall headquarters in the
racially tense Marquette Park neighborhood bears the slogan “Stop the Niggers,”
has produced its largest crowds, swollen by local toughs, when it has
demonstrated against proposed black marches to the park.
Mr. Koehi and the National Socialist White People’s Party
have lately been evidencing signs of jealousy at the attention their Chicago
rivals have been getting.
In a recent visit to his party’s Middle Western
headquarters in nearby Cicero, Mr. Kochi criticized the planned Skokie march as
“nothing but cheap Jew-baiting.”
“We want to dissociate ourselves from this march
completely,” he said.
At the same time, he and his followers have published
fliers with Mr. Collin’s picture and a standing offer of a $10,000 reward to
anyone “who can prove conclusively” that Mr. Collin is not Jewish.
Mr. Collin denies that he is Jewish, although family
members say that he is.”
Douglas Kneeland, Nazis in U.S.: Small Bands At War With One Another,
New York Times, 19 aprile 1978.
“The story is gripping, the acting competent, the message
compelling—and yet. The calculated brutality of the killers, the silent agony
of the victims, the indifference of the outside world—this TV series will show
what some survivors have been trying to say for years and years. And yet
something is wrong with it. Something? No: everything.
Untrue, offensive, cheap: as a TV production, the film an
insult to those who perished and to those who survived. spite of its name, this
“docu‐drama” is not about what some of us
remember as the Holocaust.
Am I too harsh? Too sensitive, perhaps. But then, the
film is not sensitive enough. It tries to show what cannot even imagined. It
transforms an ontological event into soap‐opera.
Whatever the intentions, the result is shocking.
Contrived situations, sentimental episodes, implausible
coincidences: If they make you cry, you will cry for the wrong reasons.
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Why is the series called “Holocaust”? Whoever chose the
name must have been unaware of the implications. Holocaust, a TV spectacle.
Holocaust, a TV drama. Holocaust, a work of semi‐fact and semi‐fiction.
Isn’t this what so many morally deranged “scholars” have been claiming recently
over the world? That the Holocaust was nothing else but an “invention”? NBC
should have used the name in its subtitle, if at all.
The network should also have been more rigorous in its
research. Contrary to what we see in the film, Jewish refugees who crossed the
Russian border before the German invasion were not allowed to go free but were
arrested, interrogated and jailed; Auschwitz inmates were not allowed to keep
suitcases, family pictures and music‐sheets;
Jews do not wear prayer shawls at night; there is a blessing for Torahreading
and another one for weddings—the Rabbi who performs the wedding in the film
recites the wrong blessing.
Other, more serious irritants: Mordechai Anielewitz, the
young commander of the Warsaw Getto uprising, is shown as a caricature
ofhimself; stereotype Jews and stereotype Germans; the exaggerated emphasis on
the brutality of Jewish ghetto‐policemen
and Jewish Kapos; the obsessive theme of Jewish resignation.
Are we again to be subjected to debates on Jewish
passivity versus Jewish heroism? They were painful yet fashionable during the
Eichmann trial; why renew them now? During the Holocaust, even the victims were
heroes and even the heroes died as martyrs.
But I am more disturbed by the overall concept of the
pro. duction. It tries to tell it all: what happened before, during and after.
The beginning and the end. The evil majority and the charitable minority. The
blood‐thirsty SS and Father Lichtenberg.
Himmler and Eichmann, Blobel and Franck, Hoess and Nebe: hardly a name is
omitted, hardly an episode obliterated. We hear their ideological discussions,
we see them at work. We learn how they all used their abilities, their
inventiveness and their patriotism to achieve a perfect system of mass murder,
for it took many talents on the part of many highly educated persons to bring
about a catastrophe of such magnitude.
On the opposite side: the first signs, the first decrees,
the first warnings. Expropriation, confiscation, deportation. The ghettos. The
manhunts. Hunger. Fear. The shrinking universe will ultimately be reduced to
the gas‐chambers.
But gether with the dying victims, we are shown the fighting heroes: partisans,
resistance groups, armed insurgents. Courage and despair displayed by both
believers and non‐believers:
it is all there.
Too much is there. The film is too explicit, too all‐encompassing. The story of one child, the destiny of one
victim, the reverberations of one outcry would be more effective—even from the
artistic point of view. Austerity, sobriety, restraint, what the French call “pudeur,”
are all qualities needed in such a picture. They are sadly missed here.
Too much, far too much happens to one particular Jewish
family and too much evil is perpetrated by one particular German officer.
Members of the fictional Weiss family experience the
Kristallnacht, euthanasia, Warsaw, Buchenwald, Theresienstadt, Babi‐Yar, Sobibor and Auschwitz. Somehow the most famous—or
infamous—events and places have been rearranged to fit into the biographies of
two families. Thus, Joseph Weiss helps save Jews at the Umschlagplatz in
Warsaw, his brother is purchasing weapons for the Underground, his wife teaches
ghetto children Shakespeare and music, his son is among the artists who
clandestinely prepare their own testimony in the form of drawings, his daughter
perishes as a victim of euthanasia, his youngest son Rudi survives Babi‐Yar and joins the Jewish partisans in the Ukraine, where
he participates in the armed uprising of Sobibor—and more, and more. Whatever
happened anywhere, happened to this family. And more so.
The same applies to Erik Dorf: he too is everywhere. We
find him involved in every salient event. Who advises Heydrich on how to deal
with Jewish insurance claims after the Kristallnacht? Dorf. Who supervises the
mobile gas units? Dorf. Who happens to at BabiYar during the mass executions?
Dorf. Who prepares the plans for Auschwitz? Dorf, again. Who purchases Zyklon B
gas from respectable German industrialists? Dorf. It is simply too much action
for one man, any man. One cannot believe that such a person existed—and,
indeed, Erik Dorf did not exist. Neither did the Weiss family.
In this “docu‐drama,”
the principal characters are fictitious, whereas the secondary ones are not.
Yet, for understandable artistic reasons, all are treated as authentic. On this level, the implications
are troubling and farreaching: how is the uninformed viewer to distinguish the
one from the other? Chances are he will believe that they are either equally
true or equally invented. The private lives of the two families are so
skillfully intertwined with historical facts that, except for the initiated,
the general public may find it difficult to know where fact ends and fiction
begins. This would, of course, defeat the very lofty goal the film’s creators
have set for themselves.
In film as in literature, it is all a matter of
credibility. Were the film a pure work of fiction or straight documentary, it
would achieve more. The mixture of the two genres results in confusion. And
occasionally in scenes that I, for one, found in poor taste. One striking
example: We see long, endless processions of Jews marching ‘toward Babi‐Yar—with “appropriate” musical background. We see them
get undressed, move to the ditch, wait for the bullets, topple into the grave.
We see the naked bodies covered with “blood”—and it is all make‐believe.
Another example: We see naked women and children entering
the gaschambers; we see their faces, we hear their moans as the doors are being
shut, then—well, enough: why continue? To use special effects and gimmicks to
describe the indescribable is to me morally objectionable. Worse: it is inde
cent. The last moments of the forgotten victims belong to themselves.
I know: people will tell me that filmmaking has its own
laws and its own demands. After all, similar techniques are being used for war
movies and historical re‐creations.
But the Holocaust is unique, not just another event. This series treats the
Holocaust as if it were just another event. Thus, I object to it not because it
is not artistic enough but because it is not authentic enough. It removes us
from the event instead of bringing us closer to it. The tone is wrong. Most
scenes do not ring true: too much “drama,” not enough “documentary.”
In all fairness, I must add that many Jewish and non‐Jewish organizations supported the project and promoted
it among their members. But they did so even before they could view the
programs. This does not mean that people will not be moved. Some who saw
previews have been profoundly affected. And I know, don’t tell me: the film was
not meant for viewers like me but for those who were not there or not even born
yet, those who are only beginning to discover the reality of death‐factories in the heart of civilized Europe.
You are right, of course. But—and it is an important
but—I am appalled by the thought that one day the Holocaust will be measured
and judged in part by the NBC TV production bearing its name. Listen to what
one of the study‐guides,
prepared by the National Council of Churches, has been telling, its readers: “ ‘Holocaust’
may come to be known as the definitive film on the Holocaust in terms of
meticulous accuracy, totality of material presented, and its use of carefully
selected archival footage....” Though surely well‐intentioned, such misleading, complacent statements are
dangerous: It simply is not so. The witness feels here dutybound to declare:
What you have seen on the screen is not what happened there. You may think you
know now how the victims lived and died, but you do not. Auschwitz cannot be
explained nor can it he visualized. Whether culmination or aberration of
history, the Holocaust transcends history. Everything about it inspires fear
and leads to despair: The dead are in possession of a secret that we, the
living, are neither worthy of nor capable of recovering.
Art and Theresienstadt were perhaps compatible in
Theresienstadt, but not here—not in a television studio. The same is true of
prayer and Buchenwald, faith and Treblinka. A film about Sobibor is either not
a picture or not about Sohibor.
The Holocaust? The ultimate event, the ultimate mystery,
never to be comprehended or transmitted. Only those who were there know what it
was; the others will never know. It was easier for Auschwitz inmates to imagine
themselves free than for free persons to imagine themselves in Auschwitz.
What then is the answer? How is one to tell a tale that
cannot be—but must be—told? How is one to protect the memory of the victims?
How are we to oppose the killers’ hopes and their accomplices’ endeavors to
kill the dead for the second time? What will happen when the last survivor is
gone? I don’t know. All I know is that the witness does not recognize himself
in this film.
The Holocaust must
be remembered. But not as a show.”
Elie Wiesel, TV View, The New York
Times, 16 aprile 1978.
Il primo febbraio del 1943, su Le Petit Parisien era apparso un
articolo firmato da Darquier:
“Je propose au gouvernement:
1.
d’instituer
le port de l’étoile jaune en zone non occupée;
2.
d’interdire
aux Juifs, sans aucune dérogation, l’accès et l’exercice des fonctions
publiques […];
3.
le
retrait de la nationalité française à tous les Juifs qui l’ont acquise depuis
1927.”
Inventur
[Inventario, 1948] apparsa, per la prima volta, nell’antologia, Deine Söhne, Europa [I tuoi figli, Europa],
dedicata da Hans Werner Richter alla Poesia dei detenuti nei campi di prigionia
alleati.
Inventario
[1948]
Günter
Eich
Questo è il mio berretto,
Questo è il mio cappotto
Qui le mie cose per fare la barba
Nel sacco di lino.
Scatola di latta:
Il mio piatto, il mio bicchiere,
Ho inciso sulla latta
Il nome.
Inciso con questo
Prezioso chiodo
Che nascondo
Agli occhi invidiosi.
Nel mio sacco ci sono
Delle calze di lana
E altre cose
Che non dico a nessuno,
Di notte fa da cuscino
Alla mia testa.
Questo cartone
Sta tra me e la terra.
Ciò che amo di più
È la mina della matita:
Di giorno mi scrive i versi
Che ho pensato di notte.
Questo è il mio quaderno
Questa la mia tela,
Questo il mio asciugamano,
Questo è il mio refe.
”Auf meine
Nazi-Vergangenheit komme ich ungern zu sprechen. Nicht weil ich etwas zu
verbergen hätte, sondern, ganz umgekehrt, weil ich zufällig aus einer Familie
stamme, die wegen ihrer katholischen Überzeugung in strikter Gegnerschaft zum
Hitlerreich stand.
Helden waren auch wir allesamt nicht. Ich beispielsweise,
Jahrgang 1923, wurde 1938 Mitglied der Hitler-Jugend in einer
Marionettenspielschar. Aber mit dem Schulspeisungs-Kakao, den ich als Sproß
einer kinderreichen Familie kostenlos suckeln durfte, sog ich Haß und
Feindschaft gegen das Hitler-Regime mit ein. Mein Vater und meine Freunde, wir
waren überzeugt, daß Hitler einen neuen Krieg machen werde und daß er ihn, um
Deutschlands willen, verlieren müsse. Nie war ich so deprimiert wie in den
großen Tagen von 1940, als Hitler durch Paris streifte.
Wie gesagt, nicht mein Verdienst. Man konnte auch anders
aufwachsen. Ich schicke diese Erklärung nur voraus, um zu belegen, daß ich die
Verbrechen der Nazis, wo ich ihrer gewahr wurde, sorgfältig registriert habe [mein
Vater glaubte sogar, die Nazis hätten den Bischof von Hildesheim, Nikolaus
Bares, vergiftet, und wir wissen ja inzwischen, daß die Nazis deutsche Bischöfe
nicht umgebracht haben].
Dreieinhalb Jahre war ich, Arbeitsdienst eingerechnet, an
der Ostfront, als Soldat in einer selbständigen [Schwerpunkt-]Einheit der
Heeresartillerie. Ich bin dort viel herumgekommen. Aber erst nach Kriegsende
erfuhr ich, daß die Nazis die Juden systematisch ermordet hatten. Auf diese
Idee war selbst ich, der ihnen alles zutraute, nicht gekommen.
Der Kaufmann Rüdenberg und seine Frau in Hannover, der
meinem Vater seine Bildersammlung, lauter Lovis Corinth”s, zum Geschenk anbot [“Nach
dem Krieg geben Sie mir die Hälfte wieder, wenn ich noch lebe”, mein Vater
wollte nicht, er fand die Bilder auch zu schweinisch], was war aus beiden nach
unserer Ansicht geworden? Nun, man hatte sie nach Osten gefahren und in
Arbeitslager gesteckt. Ihre Chancen, zurückzukehren, waren 50:50, vielleicht
etwas geringer, wenn man ihr Alter bedachte. Aber einem Juden, der noch
arbeiten konnte oder der pfiffig war, würde man dem nichts zu essen geben?
Undenkbar übrigens, meine eigene Chance, als VB-Funker den Krieg zu überleben,
schätzte ich nicht viel höher ein].
Als Kantinenwirt des Reichsarbeitsdienstes in Kulm 1941
erfuhr ich von dem Vormann Schnase [an dem Tag, als er das Lager verließ],
SS-Leute hätten Kulmer Juden so lange mit Bambusstöcken auf die Hoden
geschlagen, bis diese ohnmächtig geworden seien. Nun, das glaubte ich, so
schätzte ich die Dreckskerle ein.
Gerüchten dieser Art nachzugehen, fehlte unsereinem die
Zeit, die Gelegenheit und die Energie. Wozu auch? Wir hatten mit der
Nazi-Maschinerie selbst genug zu tun, und machen konnten wir ohnehin nichts.
Wir wollten nichts anderes als die Juden auch, nämlich überleben.
In der Ukraine, im Sommer 1943, während des einzigen
Vormarschs, den ich je mitgemacht habe, zogen unsere Leute bei der Mühle von
Gadjatsch einen sowjetischen Kommissar aus einem Loch. Sie machten sich über
seine rotgelackten Offiziersstiefel her und schickten ihn barfuß nach hinten: “Der
wird ja doch erschossen.” Dies wußten wir. Ich habe nicht protestiert. Einen
der Spionage verdächtigten Polen ließ ich entlaufen, als ich nachts Wachdienst
hatte. Der Batteriechef brüllte mich an und sagte dann nur kurz: “Ich danke
Ihnen.”
In Woitowka, einem rumänischen Dorf, wurden 1944
rumänische Juden zusammengezogen, konzentriert. Sie waren wegen ihrer
Fertigkeiten bei der dumpfen bäuerlichen Bevölkerung unbeliebt, bei uns
Soldaten beliebt. Ein junges Mädchen sagte mir: “Morgen muß ein Teil von uns
weg. Wir werden alle ermordet.” Ich fragte: “Wie machen die das? Und wieso ihr
alle?” Sie sagte: “Weiß ich auch nicht. Wir haben aber zuverlässige
Nachrichten, daß niemand von uns wieder zurückkommt, das ist alles.” Ich sagte:
“Du bist jung, und sie brauchen Arbeitskräfte. das sieht man doch.” “Nützt
alles nichts”, sagte sie. Ich ahnte also und wußte nichts.
Auf unseren Rückzügen trafen wir keine Juden an, aber das
machte mich nicht stutzig. Wir trafen ja auch nicht auf junge Männer. Gegen
Kriegsende kam ich als Offiziersanwärter noch nach Theresienstadt und konnte
nun mit eigenen Augen feststellen, daß es noch Juden gab. Ob die beiden
Rüdenbergs nicht vielleicht doch hier in Theresienstadt saßen?
Und mein Vater, der jeden Abend Radio London und Radio
Moskau hörte? Auch er hatte es nicht gewußt. Wie denn auch? Der kanadische
Abwehroffizier im britischen Geheimdienst, Milton Shulman, hat in den ersten
Monaten des Jahres 1944 “mit Entsetzen” das Vernehmungsprotokoll eines
deutschen Kriegsgefangenen gelesen, in dem eine Massenerschießung à la “Holocaust”
beschrieben wurde.
Er und seine Kollegen hielten die Geschichte für
übertrieben, “äußerstenfalls für einen schlimmen Einzelfall”. Ungeheuerlich
bleibt, daß die Radiostationen des westlichen Auslands, daß der Papst das Morden
nicht lauthals angeprangert haben: So unempfindlich waren die Nazis nicht, daß
sie auf die Stimmung ihrer Truppen und der Bevölkerung nicht irgendwie hätten
Rücksicht nehmen müssen; vielleicht, vielleicht auch nicht.
Habe ich also wirklich nichts gewußt? Ja und nein. Jeder
von uns kannte Dachau, Dachau stand für Eingesperrtsein und Nazi-Brutalität,
für Konzentrationslager schlechthin. Ich kam aus dem östlichen Krieg nach Hause
und wußte nichts von Gaskammern, nichts von der systematischen Ausmordung. Der
Krieg hatte mich stumpf gemacht, mir wurde plötzlich bewußt, daß ich mich alt
die Zeit nur um mein eigenes Schicksal und das meiner Familie gekümmert hatte.
Das Los der Juden war aus meinem Blickfeld herausgetreten.
Die ersten Bilder von Skelett-Halden machten mir Grausen,
aber kein schlechtes Gewissen. Sie waren nur der Anfang und kamen aus dem
britisch besetzten Bergen-Belsen, wo nicht vergast worden war. Als Reporter
wurde ich von den Briten eingeteilt für den ersten KZ-Prozeß.”
Rudolf Karl Augstein, Ich
habe es nicht gewußt, Desr Spiegel, 29 gennaio 1979.
La sera del 20 febbraio 1963, a Berlino,
al Kurfustendamm, viene rappresentata
l’opera teatrale Der Stellvertreter [Il
Rappresentante] di Rolf Hochhuth, che – come fecero Albert Camus e François
Mauriac – accusa papa Pio XII di silenzio sull’Olocausto. Nel 1965, in Italia,
ne viene censurata la rappresentazione dal prefetto di Roma, perché il dramma è
contrario alle norme contenute nel Concordato.
“Mehr als
20 Millionen Deutsche sahen in der vergangenen Woche “Holocaust”. Die US-Fernsehserie über die Verfolgung und
Ermordung der Juden wurde zum Thema der Nation. Bei den Sendern meldeten sich
30000 Anrufer, die Mehrheit bekannte Erschütterung. Ein Medienereignis mit
moralischer Wirkung oder nur „ein Strohfeuer”?
War das, endlich doch noch, die Katharsis? War es. 34
Jahre nach Kriegs- und Nazi-Ende, das Ende der Unfähigkeit zu trauern? War es,
im dreißigsten Jahr der Bundesrepublik Deutschland, die erste wahrhaftige Woche
der Brüderlichkeit?
Es war, dies kann auf jeden Fall gesagt werden, eine auf
unvorhergesehene Weise historische Woche:
Eine amerikanische Fernsehserie von trivialer Machart
schaffte, was Hunderten von Büchern, Theaterstücken, Filmen und TV-Sendungen,
Tausenden von Dokumenten und allen KZ-Prozessen in drei Jahrzehnten
Nachkriegsgeschichte nicht gelungen war: die Deutschen über die in ihrem Namen
begangenen Verbrechen an den Juden so ins Bild zu setzen, daß Millionen
erschüttert wurden. Im Haus des Henkers wurde vom Strick gesprochen wie nie
zuvor, “Holocaust” wurde zum Thema der Nation.
Auch, wie anders, für deren Nationalisten. Schon vor
Wochen hatten Anonyme mit Vergeltung gedroht, vorletzten Donnerstag flogen die
Fetzen: Um 20.40 Uhr zerriß ein Zehn-Kilo-Sprengsatz die Leitungen zum
Südwestfunk-Sender Waldesch bei Koblenz. 21 Minuten später detonierte eine
Bombe in der Richtfunkstelle Nottuln bei Münster und zerstörte ein
Antennenkabel.
Auf Hunderttausenden von Bildschirmen erlosch das Erste
Programm, in dem gerade das schlimmste Kapitel deutscher Geschichte noch einmal
dokumentarisch durchleuchtet wurde: “Endlösung”.
In den Funkhäusern wurden eilends die Eintrittskontrollen
verschärft. Polizei bezog Posten vor freistehenden Sendeanlagen. Das
Bundeskriminalamt ließ am Koblenzer Tatort tonnenweise Schnee abtragen und
dessen Tauwasser an geheimer Stelle nach Beweisstücken durchsieben.
Eine Gruppe namens “Internationale revolutionäre
Nationalisten” bekannte sich inzwischen telephonisch zu den Attentaten und
bestätigte damit den Verdacht von Bundesanwalt Rebmann, “daß der Anschlag aus
Anlaß des Fernsehfilms “Endlösung” mit rechtsradikaler Zielsetzung geplant und
ausgeführt worden ist”.
Der Knall in Hunsrück und Münsterland indes machte das
bundesdeutsche TV-Publikum erst richtig hellhörig für das Medienereignis “Holocaust”,
dem der Bericht “Endlösung” nur als Vorspiel diente und dessen Nachhall noch
nicht annähernd abschätzbar ist.
Vor kurzem noch mußte den Deutschen das amerikanische
Fremdwort, das sich aus den griechischen Wörtern “holos” [vollständig] und “kaustos”
[verbrannt] zusammensetzt, als exotische Vokabel vorkommen, letzte Woche war es
in aller Munde, bis hinauf zu Helmut Schmidt und Helmut Kohl, die “Holocaust”
sogar in die Parlamentsdebatte warfen.
Wie zu Durbridge-Zeiten, als der “Halstuch”-Mörder über
den Bildschirm geisterte, wie jetzt nur noch bei Fußballmeisterschaften, so
gebannt verfolgten die Bundesrepublikaner vom Montagabend, 21 Uhr, bis Freitag
weit nach Mitternacht die Karriere des [erdachten] SS-Obersturmbannführers Erik
Dorf, der als Adjutant Heydrichs die Massenvernichtung der Juden organisiert, und
das Schicksal der [gleichfalls fiktiven] jüdischen Arztfamilie Weiss, die fast
ganz der perfekten Mord-Maschinerie zum Opfer fällt.
In Niedersachsen wurden gewerkschaftliche Veranstaltungen
vorzeitig beendet oder abgesagt, “damit die Leute das sehen können, denn sonst
würden die sowieso um neun Uhr verschwinden” [DGB-Sprecher Horst Runge]. An den
Universitäten Bielefeld und Hamburg wurden die gesellschaftswissenschaftlichen
Seminare ohne weitere Diskussion in “Holocaust”-Debatten umfunktioniert.
Vielerorts, so in der Marler Volkshochschule “Die Insel”,
sammelten sich Singles zu Gruppen, “weil sie es allein zu Hause nicht
ausgehalten hätten” [Pfarrer Jürgen Schmelig]. ARD und ZDF registrierten eine
Massenabwanderung in den dritten Kanal.
Dort wurde, in 428 Minuten und 26 Sekunden einer
erfundenen, wenngleich historisch untermauerten Spielhandlung mit manchen
geschichtlichen Ungenauigkeiten und vielen Plattitüden amerikanischer
Serienproduktion, den Deutschen erstmals anschaulich vorgeführt, was sie aus der
Erinnerung bislang vorwiegend verdrängten: das individuelle Drama hinter dem
Massenmord. Das Unfaßbare wurde faßbar.
Überwunden schien, nach dem farbigen Einblick in die
Schlachthöfe der Nazis, der Widerwille, an die Vergangenheit erinnert zu
werden, gebrochen die Scheu, die Wahrheit zu erfahren.
Schon am Montag waren 32 Prozent aller bundesdeutschen
Fernsehgeräte auf “Holocaust” geschaltet, am Dienstag bereits 36, am Donnerstag
schließlich 39 Prozent - was im Dritten sonst niemand schafft. Zuletzt sahen
rund 20 Millionen die Schrecken der Endlösung.
Den stärksten Zuspruch fand die Serie im Sendebereich des
WDR, den geringsten bei Saar- und Hessenfunk. Am Dienstag schaute, trotz
ungünstig später Sendezeit, jedes neunte Berliner Kind unter 13 Jahren dem
Drama zu, in Nordrhein-Westfalen immerhin noch jedes 17. Überall registrierten
Pädagogen ein “äußerst großes Bedürfnis der Schüler, darüber zu sprechen”. Und
so, beispielsweise, sprachen sie: Jürgen Knipprath, 13, hatte “früher mal
geglaubt, daß die Juden vorher irgendwelche Verbrechen begangen haben. Aber die
hatten ja überhaupt nichts getan”. Ralf Kürten, 16: “Das war wie im Western.”
Der Frankfurter Pädagogik-Wissenschaftler Hans Joachim Lissmann notierte
Spontan-Äußerungen wie: “Den Heydrich würde ich in der Luft zerreißen.” “Holocaust”
wurde Hauptfach.
Selbst während der den Serien-Teilen angehängten
Mitternachts-Diskussionen blieb noch knapp die Hälfte des “Holocaust”-Publikums
auf Empfang, obwohl der ursprünglich verpflichtete Gesprächsleiter Robert
Leicht, Redakteur der “Süddeutschen Zeitung”, die erste Gesprächsrunde so
blasiert zerredet hatte, daß der WDR ihn schleunigst verabschiedete.
Die weiteren, wesentlich besser geführten und besetzten
Diskussionen brachten einen im deutschen Fernsehen bislang einmaligen,
didaktisch fast optimalen Einklang von Spiel und Information. Und erstmals
funktionierte das seit langem angestrebte Feedback mit dem Publikum: Anrufer
griffen in die Experten-Debatte fragend, fordernd und verändernd ein; via
Fernsehen kam eine Nation ins Gespräch.
Dabei wurde am Kölner Studio-Tisch nur ein Bruchteil
dessen erläutert, was die Deutschen in Wohnstuben und Klassenzimmern,
Straßenbahnen und Fabrikhallen bewegte - immer noch genug, um Telephonnetze
stundenlang zu blockieren.
Über 30 000 Anrufer, fast viermal mehr als während der US-Premiere von “Holocaust” beim Sender NBC,
wählten sich in die deutschen Funkhäuser durch. Der WDR mußte die Zahl der
Telephonistinnen verdoppeln. Für Berliner, die schwer bis Köln vordrangen,
wurden eigens acht Leitungen in den SFB freigemacht, der die Botschaften dem
WDR über eine Standleitung des Hörfunks zuspielte.
Es meldeten sich, wie erwartet, die Unbelehrbaren und die
Schmierfinken mit antisemitischen Flüchen und Verwünschungen gegen den “linkslastigen
Rotfunk”. Das Ganze sei “Brunnenvergiftung” und “Nestbeschmutzerei”: “Was ist
denn mit den vergewaltigten deutschen Frauen von 1945?”
Die CSU-nahe “Schüler Union Bayern” forderte vom
Bayerischen Rundfunk eine Nachfolgeserie über die Vertreibung Millionen
Deutscher aus ihrer Heimat: Einseitige Schuldbekenntnisse wie in “Holocaust”
seien der Jugend nicht zuzumuten.
Ein anonymer Anrufer drohte, Heinz Galinski, der Leiter
der Jüdischen Gemeinde Berlin, werde umgebracht, wenn man die Serie nicht schleunigst
absetzt.
Doch weit mehr noch, wie nicht erwartet, meldeten sich
Irritierte, Betroffene, Überlebende. Manche schämten sich, klagten sich selbst
an, einige weinten. Häufig wurden neue Dokumente, Prozeßakten, Tagebücher und
Gedichte angeboten.
Der “bislang aufwendigste, konsequenteste Medienverbund
unserer Fernsehgeschichte” [Fachblatt “Medium”], vom kritischen Ausland
wohlwollend beobachtet, hatte das Publikum allerdings auch frühzeitig und
intensiv auf das peinvolle Thema und seine heikle Darbietung vorbereitet.
Allein die Düsseldorfer Landeszentrale für politische
Bildung verschickte 139 530 Mappen mit einer 56seitigen Aufklärungsbroschüre an
sämtliche Lehrer in NRW. Bis Donnerstag waren in dem Institut 22 000 private Anforderungen eingegangen. Zentralen-Leiter
Willi Kreiterling erwartet eine Gesamtauflage von 220 000.
22 nordrhein-westfälische Volkshochschulen setzten
spezielle “Holocaust”-Seminare an. Das ZDF tauschte einen für Donnerstag
geplanten Film - pikantes Thema: die Nazi-Begeisterung eines Berliner Schülers
von heute - gegen ein unverfängliches Emanzipationsspiel aus.
“Holocaust” prägte Schlagzeilen und Leitartikel der
Tagespresse, Zeitschriften wie “Monat” und “Medium” widmeten ihm ganze Nummern.
Mit voller Wucht schwappte das Thema auch auf die
Radio-Wellen über, auf Hamburgs “Kurier am Morgen”, das Kölner “Mittagsmagazin”
und die Münchner “Redezeit bis Mitternacht”. Kein Sender, der nicht über die
ganze Woche verstreut vorab informierte und nachher kritisierte. Vor allem
Teenager-Programme wie die WDR-”Radiothek”, “s-f-beat” und der bayrische
Jugendfunk machten “Holocaust” zum Leitmotiv der Woche.
Unter solch ungewöhnlicher multimedialer Schützenhilfe
verbreitete sich allerdings nicht nur “Holocaust” im Land der Täter und Opfer,
sondern auch das Zwielicht, das die inzwischen in 33 Länder verkaufte
Produktion seit ihrer amerikanischen Erstausstrahlung umgibt: die Fragen nach
Authentizität und Glaubwürdigkeit, das Problem der massenattraktiven Aufmachung
und der thematischen Verflachung. Mit der Geschichte der Familien Dorf und
Weiss waren auch die konträren Reaktionen von Enthusiasmus bis zu Abscheu und
Protest in die Bundesrepublik importiert.
“Holocaust” - ein “anmaßendes Unterfangen” [“New York
Times”] oder der “kraftvollste Film, der je fürs Fernsehen gemacht worden ist” [“New
York Post”]? “Lore-Roman” [“Weltwoche”], “Shylock-Ranch” [“Hitler”-Filmer
Syberberg], “perverse Operette” [eine deutsche Lehrerin], “Am-Scheiß” [ein
deutscher Arbeiter]?
Oder war am Ende doch “die Summe des Wahren an “Holocaust”
größer als alle Verfälschungen” [“Die Zeit”], groß genug gar, um “tiefsitzende
Traumata freizuschaufeln” [“Frankfurter Rundschau”]?
Daß “Holocaust” je eine solch weltweite Grundsatzdebatte
aufwerfen würde, hatten sich seine Hersteller wohl nicht träumen lassen. Ihnen
ging es eigentlich nur um einen lukrativen Verkaufsartikel.
Anfang 1977, als der Kommerz-Sender ABC mit seinem
pseudohistorischen Sklaven-Epos “Roots” gerade alle Zuschauerrekorde gebrochen
hatte, fahndete die in der Publikumsgunst abgeschlaffte NBC nach einem Stoff
von ähnlicher Sprengkraft. Die Wahl fiel auf “Holocaust”.
Der Romanautor Gerald Green verknappte die maßlose
Tragödie zu einem überschaubaren Familiendrama. Marvin Chomsky, als Regisseur
von “Roots” und dem Kino-Reißer “Unternehmen Entebbe” einschlägig ausgewiesen,
übernahm die Regie.
In 18 Wochen zwischen Juli und November 1977 ließ die
TV-Gesellschaft den Vielstünder von 150 Schauspielern und 1000 Komparsen auf
150 Kilometer Film bannen. Da in der DDR und Polen gar nicht erst gefilmt
werden sollte und Ungarn wie Tschechoslowaken die Drehgenehmigung wegen “zionistischer
Elemente” des Buches verweigerten, entstand der größte Teil der Serie unter
Deutschlands und Österreichs freiem Himmel.
Straßenzüge in Berlin-Wedding wurden als Warschauer Getto
hergerichtet, die KZ-Szenen von Auschwitz und Buchenwald im österreichischen
Lager Mauthausen gestellt.
Kaum waren die Dreharbeiten beendet, ließ man Fatales
durchsickern: Ein Berliner habe die Crew mit Bierflaschen beworfen, ein
schreiender Greis die Mimen verstört: “ich habe euch Juden schon einmal
getötet, ich werde euch noch einmal töten.” Aufnahmegeräte seien mit
Hakenkreuzen bepinselt worden, belichtete Filmrollen spurlos verschwunden.
Michael Moriarty, als Erik Dorf der Negativ-Held der
Serie, klappte zusammen, als er mit seiner Filmfamilie “Stille Nacht, heilige
Nacht” singen mußte: “Wie konnten die so was tun!” Den Engländer Cyril Shaps [Häftling
Weinberg] verließen die Kräfte, als er in KZ-Kluft durch Mauthausen torkelte: “Ich
glaube, ich kann nicht weitermachen.” Der katholisch erzogene Fritz Weaver, als
jüdischer Arzt Weiss die Zentralfigur, fühlte sich nach dem Film “wie
ausgewechselt”: “Ich wurde ein Jude. Ich denke nur wie ein Jude.”
Der Einstimmung folgte die Aufklärung. Religiöse und
weltliche Organisationen verteilten 50 verschiedene Expertisen in über einer
Million Exemplaren. Eine jüdische Liga ließ eine Sonderschrift in zehn
Millionen Zeitungen beilegen. NBC schleuste einen speziellen “Viewers Guide” in
zwei Millionen Schulen und Haushalte.
In der Zuschauergunst allerdings konnte “Holocaust” das
Konkurrenz-Produkt “Roots” nicht entthronen: Trotz 120 Millionen Zuschauern -
Jahresrekord - mußte sich das Großunternehmen unter den erfolgreichsten
TV-Produkten aller Zeiten mit Platz 49 begnügen - nach Spitzenreiter “Roots”
und weit hinter Bob Hopes “Christmas Show” von 1970.
Im publizistischen Echo indes übertönte “Holocaust” alles
Dagewesene. Zufällig Zeuge dieses Spektakels wurden damals, im April 1978, die
SPD-Politiker Georg Leber, Dietrich Stobbe und Horst Ehmke. Heimgekehrt, lobte
vor allem Leber das Streitobjekt als “bemerkenswert objektiv”, von “beklemmender
Wirkung” und ohne Deutschen-Haß. Der SPD-Parteivorstand beauftragte alle
sozialdemokratischen Funkaufseher, sich bei den Sendern für den Ankauf stark zu
machen.
Als der WDR sich kurz darauf die Senderechte für 1,2
Millionen Mark sicherte, witterte “Die Welt” ein rotes Zusammenspiel und zieh
die Genossen, “auf unzulässige Weise in die Programmgestaltung eingegriffen” zu
haben. Doch die Kölner hatten, allem Verdacht zum Trotz, schneller geschaltet,
als die Politiker dachten.
Kaum war der Film im Land, kam der WDR unter Beschuß.
Münchens konservativer TV-Direktor Oeller drohte, der BR werde sich bei einer
Übernahme des “Verkaufsartikels” ins Gemeinschaftsprogramm aus der Senderkette
ausklinken. Deutsche Diplomaten fühlten diskret vor, ob das schlimme Lichtspiel
denn unbedingt an die Öffentlichkeit müsse.
Um so schriller stritt die ARD. Ihre Serien-Kommission
mokierte sich über die “indiskutable Qualität”, die Programmdirektoren schoben
das unangenehme Thema unwillig vor sich her.
Aufgeschreckt von dem politischen Wirbel, verlangten nun
die Intendanten das letzte Wort. Aber sie kamen gleichfalls nicht klar und
gaben die Entscheidungsnot an die Programmdirektoren zurück. Die stimmten nun
ab, nur eine schwache Mehrheit votierte für die Sendung im Ersten Programm.
Weil man fürchtete, die “Holocaust”-Gegner würden sich ausschalten, wollten die
Verantwortlichen den Bruch in der ARD nicht riskieren.
Dem verschnupften WDR den ungeliebten Import für sein
Regionalnetz allein zu überlassen, schien den TV-Gewaltigen angesichts der
publizistischen Eskalation des Themas auch nicht opportun. Nach monatelangem
Hickhack kamen sie schließlich überein für „Holocaust” erstmals alle Dritten
Programme gleichzuschalten.
Der schärfste Protest gegen diese Verlegenheitslösung
ging erst jetzt ein: Interessenten aus der DDR, in der die Dritten Programme
nur in Grenznähe zu empfangen sind, beschwerten sich bei der ARD über die
kurzsichtige Entscheidung, sie total von “Holocaust” auszuschließen.
Was hier nun, vier Abende bis tief in die Nacht,
bundesweit zum Vorschein kam und überwältigend wirkte, mußte den Eindruck
erwecken, als habe es in Deutschland bisher keine nachhaltigen
Auseinandersetzungen mit der Vergangenheit gegeben. Dabei ist es nicht so, daß
sich der deutsche Film und später das deutsche Fernsehen, daß sich die deutsche
Nachkriegsliteratur und das Theater nach 1945 an der Auseinandersetzung mit den
Nazi-Verbrechen vorbeigemogelt hätten.
Der erste durchschlagende Bühnenerfolg des
Nachkriegstheaters war Zuckmayers Udet-Stück “Des Teufels General”, in dem
Hitlers Rassenwahn zumindest ein Nebenthema bildete. Allerdings war das im Exil
entstandene Stück von der furchtbaren Nazi-Realität weit entfernt und verfiel
dem Glanz der Uniformen und dem rauhen Barras-Charme des Offizierskasinos.
Filme der Ost-Berliner Defa, wie “Ehe im Schatten”, der
vom Selbstmord des mit einer Jüdin verheirateten Schauspielers Joachim
Gottschalk handelte, oder wie “Affaire Blum”, der den latenten Antisemitismus
in der Weimarer Republik zum Thema hatte, waren in der Analyse und im Treffen
der Gemütslagen da schon genauer.
Die deutsche Nachkriegsliteratur, die sich in der Gruppe
47 vereinte, machte den Antifaschismus, die Aufarbeitung der Vergangenheit zu
ihrem [nie verkündeten] Programm.
Das, was schließlich zum Schlagwort der “Vergangenheitsbewältigung”
verkam und damit auf ungute Weise mit den offiziell und sicher gutwillig
veranstalteten Wochen der Brüderlichkeit korrespondierte, stellte die
literarische und theatralische Auseinandersetzung mit dem Genozid an den Juden
vor ein Dilemma.
Einerseits gab es das Diktum von Adorno, der gesagt
hatte, es sei barbarisch, nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben. Andererseits
gab es die “Todesfuge” des dem Holocaust entkommenen Paul Celan [“Der Tod ist
ein Meister aus Deutschland”], ein Gedicht, das damals zumindest viele
Studenten bewegte und auf die Vergangenheit verwies.
Vor allem zwei Ereignisse waren es, die beide Pole der
Auseinandersetzung mit der Judenausrottung markierten: einmal, 1950, das “Tagebuch
der Anne Frank”, als Buch, als Bühnenstück und später im Kino und Fernsehen,
von der gerührten Betroffenheit eines breiten Publikums begleitet. Und der
Alain-Resnais-Film “Nacht und Nebel”, der 1956 die Zuschauer erstmals mit
dokumentarischen Aufnahmen des KZ-Grauens konfrontierte.
Die Reaktionen waren nicht untypisch. Konnte man das
Tagebuch des jüdischen Mädchens, das zwei Jahre in einem Versteck und von
dauernder Angst umlauert während der Nazi-Okkupation in Holland lebte und in
Bergen-Belsen umkam, mit Rührung verarbeiten [ähnlich geht ja auch “Holocaust”
vor], so reagierte man auf den Dokumentarfilm von Resnais mit Ablehnung.
Die beiden großen, die Öffentlichkeit lange
beschäftigenden Theaterstücke über die Judenvernichtung waren einmal Hochhuths “Stellvertreter”
und zum andern “Die Ermittlung” von Peter Weiss.
Hochhuth hatte in einer Mischung aus Schiller-Drama und
Dokumentarstück, aus Trivialdrama und flammendem Appell den Weg des
Widerstandskämpfers Kurt Gerstein geschildert und dabei eine Mitschuld der
katholischen Kirche an der Judenvernichtung postuliert - der Papst habe
geschwiegen, selbst dann, als Juden in Rom, also gewissermaßen unter seinen
Augen, verschleppt wurden.
Damit war ein deutsches Tabuthema berührt: daß es nämlich
auch keinen christlichen Widerstand [wie etwa gegen die Euthanasie] gegen die
Entrechtung und Deportation der Juden gegeben habe - im Restaurationsklima der
Adenauer-Ära, die das Adjektiv christlich zur Staatsklammer erheben wollte,
eine ungeheure Provokation.
Andererseits: Hochhuths “Stellvertreter”, auf den eine
ganze Flut von Dokumentarstücken folgte, ließ sich auch als Entschuldigungs-
und Rechtfertigungs-Drama für viele Deutsche mißverstehen. Wenn schon der Papst
nichts hatte tun können, so lautete die Argumentation, wieviel weniger dann der
ohnmächtige einzelne Deutsche.
“Die Ermittlung” von 1965 stellte die erste gründliche
Auseinandersetzung eines Schriftstellers mit den großen NS-Prozessen dar.
Das Stück von Peter Weiss, nach dem Muster von Dantes “Inferno”
in Gesänge gegliedert, ist die Verarbeitung des Frankfurter Auschwitz-Prozesses
gegen Boger, Kaduk, Klehr und andere. Weiss folgte bei seinem dokumentarischen
Verfahren der Berichterstattung Bernd Naumanns in der “FAZ”. Bereits damals
wurde ein Phänomen deutlich, das sich jetzt bei “Holocaust” verstärkt wiederholt:
daß nämlich die Bühnenfassung weit mehr Betroffenheit, Ablehnung, Erregung
provozierte als der dokumentarische Bericht.
Wenn “Holocaust” trotzdem Emotionen wie zum erstenmal
freisetzte und die üblichen Sperren und Blockaden durchbrach, die Deutsche vor
dem schrecklichsten Kapitel ihrer Vergangenheit aufgerichtet haben, so liegt
das daran, daß hier erstmals [relative] Geschichtstreue sich mit den trivialen
Mitteln der amerikanischen Fernsehserie verbinden konnte, daß es den
amerikanischen TV-Machern gelungen ist, die Judenausrottung in dem Schicksal
zweier Familien zu personalisieren, ohne dadurch das kollektive Thema zu
zerstören.
Hatte man vor der deutschen Ausstrahlung noch meinen
können, die US-Serie verhökere das Thema des Judenmordes zugunsten einer
hemmungslos ans Gefühl appellierenden Seifenoper, so zeigte die Anteilnahme und
Betroffenheit der Zuschauer, daß gerade diese, den von einer Nazi-Vergangenheit
unbelasteten Amerikanern mögliche, Form eine reinigende [kathartische] Wirkung
habe wie einst die griechische Tragödie - so jedenfalls der Psychoanalytiker
Hendrik de Boor in der “Holocaust”-Diskussion.
Aufgewühlt durch die hautnahe Präsentation des
Millionen-Massakers, wagen die Deutschen nun plötzlich den Blick zurück - über
den Sendeschluß hinaus.
Berlins Schulsenator Walter Rasch forderte alle Lehrer
auf, “Holocaust” im Unterricht zu diskutieren. Diese Serie, rühmte der
Vorsitzende des Bayerischen Lehrer-Verbandes, Ebert, habe eine “stärkere
didaktische Wirkung” als “abstrakte Statistiken und nackte Fakten” und empfahl
das auf Videoband mitgeschnittene Anschauungsmaterial als Lehrstoff.
Der Superintendent des Kirchenkreises Bodenwerder an der
Weser wird in seinem Jung-Ehepaar-Kreis über “Holocaust” diskutieren. Die
Düsseldorfer Bezirksvertretung 3 hat alle älteren Mitbürger des Stadtteils Bilk
gebeten, mit privaten Erlebnissen aus dem Dritten Reich, aufgeschrieben oder
auf Tonband gesprochen, an die Öffentlichkeit zu kommen und einschlägige
Dokumente, Lebensmittelkarten wie Blockwart-Briefe, für eine Broschüre zur
Verfügung zu stellen.
Wissenschaftler wollen erkunden, ob die emotionale
Bewegung während der Sendezeit eine längere gedankliche Auseinandersetzung mit
dem Thema ausgelöst hat. Im Auftrag des WDR und der Bonner Bildungszentrale
startete das Offenbacher Marplan-Institut für 180 000 Mark eine Repräsentativ-Umfrage
in drei Stufen: Vor “Holocaust” wurde der allgemeine Wissensstand zu Nazi-Zeit
und Judenvernichtung abgefragt; während der Sendung registrierten die Forscher
die spontanen Reflexe; in acht Wochen wollen sie die Langzeitwirkung ausloten.
Der Erziehungswissenschaftler Lißmann begann eine Umfrage
unter Jugendlichen zwischen 14 und 17 Jahren, mit denen er sich das Programm
gemeinsam ansah. Das “Ausmaß der Betroffenheit” hat ihn dabei überrascht. Doch
er fürchtet: Es könnte sein, daß “Holocaust” keine rational-kritische
Auseinandersetzung aufkommen läßt. Lißmann: “Das wird ein Strohfeuer.”