“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 21 luglio 2015

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 5. TURIDDU 65 ANNI DOPO di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE


“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

“Chi possiede coraggio e carattere, è sempre
 molto inquietante per chi gli sta vicino.”
Hermann Hesse


L’Onorata Società, primo nome della Mafia e prodotto delle tradizioni locali, fu, innanzitutto, un mezzo per gli isolani per resistere ai diversi invasori, succedutisi nella sua storia, e per protestare contro la disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale. Tuttavia, il contropotere iniziale divenne un sistema parallelo di autorità, che si sostituì al potere locale fino a costituire uno Stato nello Stato.
La lotta contro la Mafia, nonostante le rappresaglie sanguinose di cui sono oggetto magistrati, Forze dell’Ordine e giornalisti, continua in Italia.


 Echo
Daniela Zini

Quand dans le charme ardent
De ta pâle beauté
Je cherchais comme d’autres
Ton rire et ton regard,
A qui souriais-tu,
Dis, statue terrifiante?
Qui donc voyais-tu
Ne regardant personne?

 “Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere comprensione su molte cose e potere su nessuna.”
Erodoto
Mariusz Lewandowski [1979] – Dolore


Tutto è pronto per la morte,
Ciò che resiste meglio sulla terra è la tristezza,
E ciò che resterà è la Parola sovrana.

Queste belle parole sono della grande Poetessa russa Anna Akhmatova [1889-1966].
Nella breve introduzione al ciclo di poesie, raccolte sotto il titolo di Requiem [1935-1940], Anna Akhmatova racconta come queste siano nate:

“Negli anni terribili della Ezovscina[1]io trascorsi diciassette mesi in code di attesa fuori del carcere, a Leningrado. Un giorno, qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dietro di me, con le labbra livide, che, certamente, in vita sua, mai, aveva sentito il mio nome, riprendendosi dal torpore mentale, che ci accomunava, mi domandò all’orecchio [là comunicavamo tutti sottovoce]:
“Ma lei questo può descriverlo?”
E io dissi:
“Io posso.”
Allora una specie di sorriso scorse per quello che una volta era il suo viso.”
Leningrado, 1 aprile 1957
Anna Akhmatova [1889-1966] attribuisce al Poeta il compito di essere Voce e Coscienza del Popolo:

Io sono la vostra Voce, il calore del vostro fiato,
Il riflesso del vostro volto,
I vani palpiti di vane ali...
Fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.

In certi periodi della Storia vi è solo la Poesia che sia capace di guardare la realtà, condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che, in nessun altro modo, la mente riuscirebbe a trattenere.
In questo senso, tutto un Popolo prese il nom de plume di Anna Akhmatova: ciò che spiega la sua popolarità e, fatto più importante, le permise di parlare per il Popolo e di dire al Popolo cose che il Popolo non sapeva.
Requiem è il risultato della grande e dolorosa prova di una madre, alla quale hanno strappato il proprio figlio, ma Anna Akhmatova, al di là del lirismo puramente personale, ingloba in questa raccolta la sofferenza di tutto un Popolo.
Composto, alla fine degli anni 1930 per testimoniare, con milioni di persone, la scomparsa di Esseri cari, Requiem passa, clandestinamente, di mano in mano, e sarà il conforto di una popolazione sottomessa a un folle sanguinario.
Sarà pubblicato, in Russia, soltanto nel 1980, ma questa vittoria postuma è meno importante della battaglia vinta durante la sua vita.
Nessuno aveva potuto condannarla al silenzio o sopprimere la sua Memoria.
Come un sasso posato sul greto di un fiume ne modifica il corso, così Anna Akhmatova, aggrappata al suo piccolo territorio, aveva costretto il regime a scavalcarla, aggirarla, tenere conto della sua presenza.

Bevevo le mie proprie lacrime
Nelle mani degli altri.

Anna Akhmatova dedica questa raccolta a tutte le donne che, come lei, avevano passato ore davanti alla prigione, per avere notizie del proprio figlio o del proprio marito.
Questa figlia dell’alta borghesia sarà etichettata “rinnegata”, nociva per la gioventù, reazionaria e del tutto squilibrata da Stalin.
Solo la sua fama la salverà dal gulag.
Come diceva il potere sovietico:
“Noi non possiamo conciliarci con una donna che non ha saputo morire in tempo.”
E, seppure morta, il suo Fantasma continua a terrorizzare Putin e altri…
Anna Akhmatova è stata per me un cartello indicatore.
La Poesia, per quanto intellettualizzata poteva esserne l’espressione, era sempre diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasceva sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato.
Mescolava raramente il patetico da un lato, l’elaborazione realistica dall’altro, al suo lirismo o alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il rigore o l’ipocrisia dei costumi non avevano influito sui Poeti antichi come su questa donna del suo tempo.
Il gioco delle reticenze e degli schermi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permeava certi componimenti ne erano una ulteriore testimonianza.
La vergogna e la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferivano alla Poesia la bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi.
La posizione del Poeta restava quella tipica delle grandi epoche, quella di un Artigiano squisito.
La sua funzione si limitava a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più precisa e la più levigata delle forme.
I suoi versi migliori non ci davano delle esperienze o delle idee del Poeta che il punto di partenza o quello di arrivo; tralasciavano tutto quello che, anche nei più raffinati, si rivolgeva visibilmente al lettore, tutto quello che rientrava nell’ordine della eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e non la cenere.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono allontanata dalla Poesia, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle mani rattrappite e aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad andarmene a fondo.
Confesso che, di quando in quando, l’aria intorno a me perdeva l’umidità e la permeabilità al suono; il secchio, calato nel pozzo, non produceva un piacevole spruzzo, ma un colpo secco contro la pietra e aveva inizio, in genere, una asfissia che durava anni.
Presentare le parole tra loro, far scontrare le parole tra loro è divenuto usuale.
Ciò che era arditezza, oggi, suona come una banalità!
Ma vi è un altro percorso, anche più importante: l’esattezza, in modo che ciascuna parola, nel verso, stia al proprio posto, come se vi fosse, già, da mille anni, ma il lettore la sentisse, per la prima volta, nella vita.
È un percorso molto difficile, ma quando riesce le persone dicono:
“Mi riguarda; è come se fosse scritto da me.”
Io stessa, molto raramente, provo questo sentimento nella lettura o nell’ascolto di versi altrui.
È qualcosa tipo invidia, ma un pò più nobile.
Scrissi la prima poesia all’età di otto anni, era orribile, ma, già, prima, mio Padre mi chiamava, chissà perché, poetessa decadente. Persistei nello scrivere versi, apponendovi sopra dei numeri, cosa di cui si ignora il fine.
Viene per ciascuno di noi il momento in cui dobbiamo pronunciare questo:
“Io posso.”,
che non si riferisce a una certezza né a una capacità specifica, e che, tuttavia, ci impegna e ci mette in gioco interamente. 
In un momento culturale, politico e sociale, così carico di tensioni, ho deciso, dunque, di porre un accento di riflessione sulla tormentata Storia del secondo dopoguerra italiano.
Far conoscere il significato universale degli eventi disastrosi della nostra Storia è un debito verso le generazioni future e verso il proprio Paese.
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
E, il tentativo evoca profondi strati di Passato: voci, suoni, odori, persone e così via, senza fine.
Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità, l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un comportamento armonico per la vita di questi Esseri.
Intimamente mi sorge una intuizione:
“La forza, la posizione privilegiata, i mezzi, di cui dispongo, mi sono stati donati in fiducia dagli Altri, affinché siano potenza di redenzione dei deboli?”
Mantenere viva la Memoria di tutte le Vittime, civili o in divisa, cadute sotto il fuoco nemico o amico, aggiornandone l’elenco e ricostruendone la storia è, dunque, l’impegno che prendo con:

A
Nicolò ALONGI
Nicolò AZOTI
Carmelo AGNONE
Giovan Battista ALCE
Vito ALLOTTA
Eugenio ALTOMARE
Giorgio AMBROSOLI
Carmine APUZZO
Pasquale ALMERICO
Filadelfio APARO
Vincenzo ABATE
Marcello ANGELINI
Giovanbattista ALTOBELLI
Ottavio ANDRIOLI
Cristiano ANTONIO
Giuseppe ASTA
Salvatore ASTA
Roberto ANTIOCHIA
Morello ALCAMO
Francesco ALFANO
Salvatore AVERSA
Cosimo ALEO
Antonino AGOSTINO
Alfredo AGOSTA
Antonio AMMATURO
Graziano ANTIMO
Sebastiano ALONGHI
Mariangela ANZALONE
Giovanni ATTARDO
Paolino AVELLA
Michele AMICO
Raffaele ARNESANO
Vincenzo ARATO
Agata AZZOLINA
Ilaria ALPI
Rita ATRIA
Beppe ALFANO
Fortunato ARENA
Giuseppe ALIOTTO
Carlo ALA
Alfredo ALBANES
Filippo ALBERGHINA
Emilio ALESSANDRINI
Luigi ALLEGRETTI
Antonio ANNARUMMA
Mario AMATO
Mauro AMATO
Pino AMATO
Antonio AMMATURO
Maurizio ARNESANO
Benito ATZEI
Giovanni ARNOLDI
Mauro ALGANON
Vito ALES
GIovanbattista ALTOBELLI

B
Mariano BARBATO
Fiorentino BONFIGLIO
Mario BOSCONE
Sebastiano BONFIGLIO
Antonio BUBUSA
Emanuele BUSELLINI
Giuseppe BIONDO
Salvatore BUSCEMI
Giovanni BELLISSIMA
Salvatore BOLOGNA
Attilio BONINCONTRO
Francesco BUTIFAR
Carmelo BATTAGLIA
Giuseppe BURGIO
Paolo BONGIORNO
Rocco Giuseppe BARILLA’
Domenico BENEVENTANO
Emanuele BASILE
Sebastiano BOSIO
Lorenzo BRUNETTI
Rodolfo BUSCEMI
Anna Maria BRANDI
Antonino BURRAFATO
Giuseppe BOMMARITO
Salvatore BARTOLOTTA
Michele BRESCIA
Pietro BUSETTA
Salvatore BENIGNO
Paolo BOTTONE
Donato BOSCIA
Giovanni BONSIGNORE
Andrea BONFORTE
Filippo BASILE
Angelo BRUNO
Gioacchino BISCEGLIA
Antonino BUSCEMI
Francesco BRUGNANO
Luigi BODENZA
Salvatore BENNICI
Paolo BORSELLINO
Francesco BUZZITI
Paolo BORSELLINO
Giuseppe BORSELLINO
Antonio BRANDI
Stefano BIONDI
Salvatore BOTTA
Carmelo BENVEGNA
Vittorio BACHELET
Antonio BANDIERA
Franco BATTAGLINI
Vittorio BATTAGLINI
Sergio BAZZEGA
Rosario BERARDI
Marco BIAGI
Franco BIGONZETTI
Carlo BONANTUONO
Domenico BORNAZZINI
Renato BRIANO
Gabriella BORTOLON
Felicia BARTOLOZZI SAIA
Nicola BUFFI
Giulietta BANZI BAZOLI
Sonia BURRI
Katia BERTASI
Euridia BERGIANTI
Nazzareno BASSO
Paolino BIANCHI
Irene BRETON BOUDOUBAN
Anna Maria BRANDI
Argeo BONORA
Francesco BETTI
Verdiana BIVONA
Silvana SERRAVALLI BARBERA

C
Nicola CALIPARI
Giuseppe CASSARA’
Vito CASSARA’
Giuseppe COMPAGNA
Calcedonio CATALANO
Calogero CICERO
Pino CAMILLERI
Giovanni CASTIGLIONE
Giuseppe CASARRUBEA
Alfonso CANZIO
Stefano CARONIA
Antonino CIOLINO
Vitangelo CINQUEPALMI
Margherita CLESCERI
Giorgio CUSENZA
Calogero COMAIANNI
Stefano CONDELLO
Vincenzo CARUSO
Calogero CAJOLA
Candeloro CATANESE
Giovanni CALABRESE
Calogero CANGELOSI
Salvatore CARNEVALE
Cosimo CRISTINA
Gaetano CAPPIELLO
Giorgio CIACCI
Filippo COSTA
Silvio CORRAO
Orazio COSTANTINO
Pasquale CAPPUCCIO
Pietro CERULLI
Gaetano COSTA
Susanna CAVALLI
Angela CALVANESE
Paolo CANALE
Antioco COCCO
Lucia CERRATO
Santo CALABRESE
Sergio COSMAI
Giovanni CARBONE
Graziella CAMPAGNA
Antonino CASSARÀ
Giuseppe CUTRONEO
Giulio CAPILLI
Bruno CACCIA
Rocco CHINNICI
Carmelo CERRUTO
Luigi CAFIERO
Giangiacomo CIACCIO MONTALTO
Domenico CELIENTO
Giovanni CATALANOTTI
Ida CASTELLUCCI
Donato CAPPETTA
Domenico CALVIELLO
Anna Maria CAMBRIA
Angelo CARBOTTI
Domenico CATALANO
Pietro CARUSO
Salvatore CASTELBUONO
Fabio CORTESE
Antonio CIVININI
Aniello CORDASCO
Francesco CRISOPULLI
Giuseppe CARUSO
Saverio CIRRINCIONE
Leonardo CANCIARI
Liliana CARUSO
Gioacchino COSTANZO
Giuseppe CILIA
Giovanni CARBONE
Fortunato CORREALE
Adolfo CARTISANO
Pasquale CAMPANELLO
Dario CAPOLICCHIO
Andrea CASTELLI
Angelo CARLISI
Giulio CASTELLINO
Antonio CONDELLO
Arturo CAPUTO
Antonio Carlo CORDOPATRI
Pasquale CRISTIANO
Agostino CATALANO
Walter Eddie COSINA
Ferdinando CHIAROTTI
Enrico CHIARENZA
Maria COLANGIULI
Saverio CATALDO
Paolo CASTALDI
Stefano CIARAMELLA
Torquato CIRIACO
Massimo CARBONE
Gianluca CONGIUSTA
Luigi CALABRESI
Fedele CALVOSA
Andrea CAMPAGNA
Mario CANCIELLO
Ciro CAPOBIANCO
Luigi CARBONE
Luigi CARLUCCIO
Giuseppe CARRETTA
Carlo CASALEGNO
Antonio CASU
Giovanni CERAVOLO
Antonio CESTARI
Antonio CHIONNA
Raffaele CINOTTI
Francesco CIAVATTA
Giuseppe CIOTTA
Carmine CIVITATE
Francesco COCO
Enea CODOTTO
Piero COGGIOLA
Ottavio CONTE
Lando CONTI
Giorgio CORBELLI
Ippolito CORTELLESSA
Martino COSSU
Roberto CRESCENZIO
Fulvio CROCE
Francesco CUSANO
Antonio CUSTRA
Lorenzo CUTUGNO
Pietro CUZZOLI
Rita CACICIA,
Lidia OLLA in CARDILLO
Mirco CASTELLARO
Antonella CECI
Giulio CHINA
Eugenio CORSINI
Elena CELLI
Davide CAPRIOLI
Susanna CAVALLI
Lucia CERRATO
Dario Capolicchio
Flavia CASADEI

D
Croce DI GANGI
Giuseppe DI MAGGIO
Filippo DI SALVO
Agostino D’ALESSANDRO
Fedele DE FRANCISCA
Michele DI MICELI
Vincenzo DI SALVO
Antonino DAMANTI
Antonio DI SALVO
Mauro DE MAURO
Rosario DI SALVO
Carlo Alberto DALLA CHIESA
Emanuela SETTI CARRARO DALLA CHIESA
Luigi D’ALESSIO
Gennaro DE ANGELIS
Calogero DI BONA
Gerardo D’ARMINIO
Mario D’ALEO
Anna DE SIMONE
Giovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Luigi DI BARCA
Claudio DOMINO
Nicola D’ANTRASSI
Giovanni DI BENEDETTO
Cataldo D’IPPOLITO
Fabio DE PANDI
Cosimo DURANTE
Salvatore D’ADDARIO
Felice DARA
Giuseppe DI LAVORE
Rocco DI CILLO
Salvatore DI FALCO
Raffaele DI MERCURIO
Maurizio D’ELIA
Gaetano DE ROSA
Marco DE FRANCHIS
Alberto DE FALCO
Giuseppe DI MATTEO
Moussafir DRISS
Don Giuseppe DIANA
Pasquale DI LORENZO
Andrea DI MARCO
Agatino DIOLOSA’
Matteo DI CANDIA
Federico DEL PRETE
Annalisa DURANTE
Giovanni D’ALFONSO
Sebastiano D’ALLEO
Massimo D’ANTONA
Fanny DALLARI
Antioco DEIANA
Raffaele DELCOGLIANO
Bianca DELLER
Mario DE MARCO
Carmine DE ROSA
Francesco DI CATALDO
Giovanni DI LEONARDO
Fausto DIONISI
Ciriaco DI ROMA
Franco DONGIOVANNI
Pietro DENDENA
Elena DONATINI
Roberto DE MARCHI
Elisabetta MANEA DE MARCHI
Franca DALL’OLIO
Mauro DI VITTORIO
Antonio DI PAOLA
Angela CALVESE DE SIMONE
Anna DE SIMONE,
GIovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Brigitte DROUHARD

E
Vittorio EPIFANI
Francesco ESTATICO
Maurizio ESTATE
Vittorio ESPOSITO
Antonio ESPOSITO
Francesco EVANGELISTA
Berta EBNER

F
Paolo FARINA
Domenico FRANCAVILLA
Salvatore FALCETTA
Marino FARDELLI
Francesco FERLAINO
Giuseppe FIORENZA
Mario FRANCESE
Antonio FONTANA
Antonio ESPOSITO FERRAIOLI
Silvano FRANZOLIN
Antonio FEDERICO
Giuseppe FAVA
Renata FONTE
Giovanni FILIANO
Giovanni FALCONE
Francesca MORVILLO FALCONE
Francesco FORTUGNO
Michele FAZIO
Rosario FLAMINIO
Salvatore FRAZZETTO
Giacomo FRAZZETTO
Serafino FAMÀ
Alessandro FERRARI
Antonino FAVA
Angela FIUME
Paolo FICALORA
Silvana FOGLIETTA
Giuseppe FALANGA
Antonio FERRARA
Leonardo FALCO
Graziella FAVA
Armando FEMIANO
Giuseppe FILIPPO 
Lorenzo FORLEO
Filippo FOTI
Alessandro FLORIS 
Antonio FRASCA
Antonio FERRARO
Tsugufumi FUKUDA
Angela FRESU
Maria FRESU
Rosa FASSARI
Mirella FORNASARI
Errica FRIGERIO DIOMEDE FRESA
Vito DIOMEDE FRESA
Cesare Francesco DIOMEDE FRESA
Alessandro Ferrari

G
Antonino GUARISCO
Gaetano GUARINO
Marcantonio GIACALONE
Antonio GIACALONE
Carlo GULINO
Francesco GULINO
Emanuele GRECO
Giorgio GENNARO
Giovanni GRIFO’
Luigi GERONAZZO
Paolo GIACCONE
Leopoldo GASSANI
Giuseppe GRIMALDI
Provvidenza GRECO
Rocco GATTO
Boris GIULIANO
Giuliano GIORGIO
Carmelo GANCI
Giovanni GIORDANO
Filippo GEBBIA
Alberto GIACOMELLI
Vincenzo GRASSO
Pietro GIRO
Elisabetta GAGLIARDI
Mario GRECO
Valentina GUARINO
Libero GRASSI
Nicola GUERRIERO
Giuliano GUAZZELLI
Gaetano GIORDANO
Giuseppe GRIMALDI
Vincenzo GAROFALO
Nicholas GREEN
Melchiorre GALLO
Giuseppina GUERRIERO
Giovanni GARGIULO
Loris GIAZZON
Giuseppe GIAMMONE
Domenico GULLACI
Giuseppe GRANDOLFO
Domenico GERACI
Nicola GIOITTA IACHINO
Guido GALLI
Enrico GALVALIGI
Antonio GALLUZZO
Lino GHEDINI
Carlo GHIGLIENO
Nicola GIACUMBI
Licio GIORGIERI
Graziano GIRALUCCI
Sergio GORI
Michele GRANAIO
Claudio GRAZIOSI
Giuseppe GURRIERI
Carlo GAIANI
Calogero GALATIOTO
Carlo GARAVAGLIA
Paolo GERLI
Manuela GALLON
Natalia AGOSTINI GALLON
Carla GOZZI
Pietro GALASSI
Andrea GANGEMI
Roberto GAIOLA
Raffaella GAROSI
Francesco GOMEZ MARTINEZ

H
Miran HROVATIN
Wilhelmus J. HANEMA

I
Castrenze INTRAVAIA
Giuseppe IMPASTATO
Filippo INTILE
Rosario IOZIA
Carmelo IANNÒ
Giuseppe INSALACO
Francesco IMPOSIMATO
Nicandro IZZO
Saverio IERACI
Giuseppe IACONA
Enrico INCOGNITO
Salvatore INCARDONA
Raffaele IORIO
Luigi IOCULANO
Raffaele IOZZINO
Emanuele IURILLI
Maria IDRIA AVATI

J
Carmelo JANNI’
Vito JEVOLELLA

K
 John Andrei KOLPINSKI
Herbert KONTRINER

L
Paolo LI PUMA
Vincenzina LA FATA
Serafino LASCARI
Giovanni LA BROCCA
Vittorio LEVICO
Epifanio LI PUMA
Giuseppe LETIZIA
Angelo LOMBARDI
Vincenzo LA ROCCA
Vincenzo LO IACONO
Carmelo LENTINI
Armando LODDO
Caterina LIBERTI
Salvatore LONGO
Giannino LOSARDO
Pio LA TORRE
Giuseppe LALA
Antonino LORUSSO
Simonetta LAMBERTI
Renato LIO
Giuseppe LEONE
Calogero LORIA
Rosario LIVATINO
Pier Francesco LEONI
Stefano LI SACCHI
Vincenzo LEONARDI
Carlo LA CATENA
Giuseppe LA FRANCA
Raffaella LUPOLI
Antonio LIPPIELLO
Davide LADINI
Ferdinando LIQUORI
Fortunato LAROSA
Velia CARLI LAURO
Salvatore LAURO
Umberto LUGLI
Pier Francesco LAURENTI
Vincenzo LANCONELLI
Pier Francesco LEONI
Carlo La Catena
Emanuela LOI
Vincenzo LI MULI
Angelo Raffaele LONGO
Hamdi LALA
Rolando LANARI
Salvatore LANZA
Santo LANZAFAME
Giuseppe LOMBARDI
Oreste LEONARDI
Andrea LOMBARDINI
Giuseppe LORUSSO
Ezio LUCARELLI
Antonio Francesco LASCALA

M
Giuseppe MISURACA
Mario MISURACA
Accursio MIRAGLIA
Pietro MACCHIARELLA
Paolo MIRMINA
Giuseppe MONTICCIOLO
Santi MILISENNA
Enrico MATTEI
Giovanni MEGNA
Nicola MESSINA
Michele MARINARO
Giuseppe MANIACI
Salvatore MESSINA
Pasquale MARCONE
Sergio MANCINI
Lenin MANCUSO
Domenico MARRARA
Piersanti MATTARELLA
Giuseppe MARTURANO
Domenico MARTURANO
Mario MALAUSA
Calogero MORREALE
Giuseppe MUSCARELLI
Nicola MIGNOGNA
Rosario MONTALTO
Sebastiano MORABITO
Giuseppe MONTALBANO
Natale MONDO
Maria MARCELLA
Vincenzo MICELI
Pietro MORICI
Andrea MORMILE
Pasquale MANDATO
Salvatore MUSARO’
Luisella MATARAZZO
Maria Luigia MORINI
Gennaro MUSELLA
Vincenzo MULE’
Valeria MORATELLO
Giuseppe MANGANO
Antonio MARINO
Beppe MONTANA
Giuditta MILELLA
Carmine MOCCIA
Giuseppe MACHEDA
Antonio MORREALE
Girolamo MARINO
Antonio MONTALTO
Antonino MONTELEONE
Pasquale Salvatore MAGRI’
Claudio MANCO
Giuseppe MONTALTO
Cosimo Fabio MAZZOLA
Rosario MINISTERI
Francesco MARZANO
Giuseppe MESSINA
Graziano MUNTONI
Francesco MANISCALCO
Salvatore MINEO
Antonino MONTINARO
Mauro MANIGLIO
Tonino MAIORANO
Tina MOTOC
Gaetano MARCHITELLI
Giuseppe MARNALO
Francesco MARCONE
Giuseppe MANFREDA
Gianfranco MADIA
Bartolomeo MANA
Angelo MANCIA
Mikaeli MANTAKAS
Luigi MARANGONI
Antonio MARINO
Felice MARITANO
Luigi MARONESE
Edoardo MARTINI
Federico MASARIN
Giorgina MASI
Manfredo MAZZANTI
Giuseppe MAZZOLA
Stefano MATTEI
Virgilio MATTEI
Antonio MEA
Girolamo MINERVINI
Aldo MORO
Gianni MUSSI
Anna Maria BOSIO MAURI
Carlo MAURI
Luca MAURI
Angela MARINO
Leo Luca MARINO
Domenica MARINO
Eckhardt MADER
Patrizia MESSINEO
Catherine Helen MITCHELL
Antonio MONTANARI
Rosina BARBARO MONTANI
Lina FERRETTI MANNOCCI
Rossella MARCEDDU
Margret ROHRS MADER
Kai MADER
Luigi MELONI
Vittorio MOCCHI
Antidio MEDAGLIA
Amorveno MARZAGALLI
Luisella MATARAZZO
Carmine MOCCIA
Valeria MORATELLO
Maria Luigia MORINI
Nicoletta MAZZOCCHIO
Driss Moussafir
Maria Angela MARANGON
Livia BOTTARDI MILANI

N
Emanuele NOTARBARTOLO
Pasquale NUCCIO
Luciano NICOLETTI
Nadia NENCIONI
Caterina NENCIONI
Fabrizio NENCIONI
Francesco NAZZARO
Emanuele NOBILE
Fabio NUNNERI
Salvatore NUVOLETTA
Antonio NIEDDA
Angelamaria Fiume Nencioni
Fabrizio Nencioni
Ceterina Nencioni
Nadia Nencioni
Nilla NATALI
Euplo NATALI

O
Giovanni ORCEL
Andrea ORLANDO
Peter IWULE ONJEDEKE
Salvatore OTTONE
Giuseppe ORLANDO
Francesco OLIVIERO
Serafino OGLIASTRO
Vittorio OCCORSIO
Pierino OLLANU

P
Lorenzo PANEPINTO
Giorgio PECORARO
Vincenzo PECORARO
Antonino PECORARO
Mario PAOLETTI
Rosario PAGANO
Giuseppe PUNTARELLO
Pietro PONZO
Nunzio PASSAFIUME
Imerio PICCINI
Vito PIPITONE
Francesco PIGNATARO
Antonino POLLARI
Gabriele PALANDRANI
Anna PRESTIGIACOMO
Joe PETROSÌNO
Giuliano PENNACCHIO
Giacinto PULEO
Giuseppe PIANI
Nicolò PIOMBINO
Salvatore POLLARA
Pasquale PAOLA
Luciano PIGNATELLI
Antonio PIANESE
Pietro PATTI
Franco PUZZO
Roberto PARISI
Giuseppe PILLARI
Carmela PANNONE
Emanuele PIAZZA
Saverio PURITA
Nunzio PANDOLFI
Angelica PIRTOLI
Ignazio PANEPINTO
Maria Teresa PUGLIESE
Girolamo PALAZZOLO
Santa PUGLISI
Giuseppe PUGLISI
Stefano PICERNO
Sergio PASOTTO
don Giuseppe PUGLISI
Anna PACE
Luigi PULLI
Stefano POMPEO
Giovanni PANUNZIO
Claudio PEZZUTO
Francesco PEPI
Lucia PRECENZANO
Vito PROVENZANO
Calogero PANEPINTO
Domenico Nicolò PANDOLFO
Domenico PACILIO
Rodolfo PATERA
Ennio PETROSINO
Vittorio PADOVANI
Riccardo PALMA
Antonio PALUMBO
Prisco PALUMBO
Pasquale PAOLA
Alfredo PAOLELLA
Paolo PAOLETTI
Settimio PASSAMONTI
Enrico PEDENOVI
Antonio PEDIO
Giuseppe PEGLIEI
Giovanni PERSOGLIO GALAMERO
Emanuele PETRI
Franco PETRUCCI
Giuseppe PISCIUNERI
Salvatore PORCEDDU
Sergio Pasotto
Stefano Picerno
Giuseppe PANZINO
Donato POVEROMO
Gerolamo PAPETTI
Mario PASI
Carlo PEREGO
Luigi PINTO
Giuseppe PATRUNO
Roberto PROCELLI
Angelo PRIORE
Vincenzo PETTENI
Letizia Concetta PALUMBO

Q
Cosimo QUATTROCCHI
Francesco QUATTROCCHI

R
Giuseppe RECHICHI
Giuseppe RUMORE
Placido RIZZOTTO
Andrea RAJA
Vincenzo RICCARDELLI
Emanuele RIBOLI
Quinto REDA
Ilario RUSSO
Paolino RICCOBONO
Matteo RIZZUTO
Salvatore  RAITI
Domenico RUSSO
Vincenzo RUSSO
Giuseppe RUSSO
Mauro ROSTAGNO
Luigi RANIERI
Michele REINA
Pietro RAGNO
Massimo RIZZI
Alessandro ROVETTA
Barbara RIZZO ASTA
Angelo RICCARDO
Domenico RANDÒ
Antonio RAMPINO
Antonio RUSSO
Francesco ROSSI
Attilio ROMANO’
Maria Incoronata RAMELLA
Silvia RUOTOLO
Giuseppe RUSSO
Nicola REMONDINO
Paolo RODA’
Giuseppe RADICIA
Salvatore ROSA
Romano RADICI
Giuseppe RAPESTA
Sergio RAMELLI
Stefano RECCHIONI
Valeria RENZI
Domenico RICCI
Giulio RIVERA
Mariano ROMITI
Guido ROSSA
Luciano ROSSI
Walter ROSSI
Francesco RUCCI
Roberto RUFFILI
Maria Santina CARRARO RUSSO
Marco RUSSO
Nunzio RUSSO
Pio Carmine REMOLLINO
Gaetano RODA
Romeo RUOZI

S
Costantino STELLA
Domenico SPATOLA
Mario SPATOLA
Pietro SPATOLA
Paolo SPATOLA
Antonino SCUDERI
Vito STASSI
Giovanni SANTANGELO
Vincenzo SANTANGELO
Giuseppe SANTANGELO
Giovanni SEVERINO
Marina SPINELLI
Francesco SASSANO
Giuseppe SPAGNUOLO
Filippo SCIMONE
Giuseppe SCALIA
Emanuela SANSONE
Nunzio SANSONE
Girolamo SCACCIA
Vincenza SPINA
Giovanni SPAMPINATO
Angelo SORINO
Michelangelo SALVIA
Vincenzo SAVOCA
Giuseppina SAVOCA
Vincenzo SPINELLI
Nunziata SPINA
Filippo SALSONE
Antonio SABIA
Antonino SAETTA
Stefano SAETTA
Giuseppe SALVIA
Rosario SCIACCA
Giuseppe SCEUSA
Salvatore SCEUSA
Grazia SCIME’
Andrea SAVOCA
Sandra STRANIERI
Antonino SCOPELLITI
Salvatore SCHIMMENTI
Giuseppe SPADA
Giancarlo SIANI
Biagio SICILIANO
Salvatore SQUILLACE
Incoronata SOLLAZZO
Maria Antonietta SAVONA
Riccardo SALERNO
Davide SANNINO
Rosario SALERNO
Antonio SOTTILE
Vincenzo SALVATORI
Stefano SIRAGUSA
Antonio SPARTÀ
Salvatore SPARTÀ
Vincenzo SPARTÀ
Giovanni SIMONETTI
Emanuele SAUNA
Antonino SIRAGUSA
Lucio STIFANI
Leonardo SANTORO
Dario SCHERILLO
Matilde SORRENTINO
Fedele SCARCELLA
Domenico STANISCI
Sandro SCARPATO
Luigi SEQUINO
Orazio SCIASCIO
Vito SCHIFANI
Francesco SCERBO
Lino SABBADIN
Franco SAMMARCO
Antonio SANTORO
Rocco SANTORO
Giovanni SAPONARA
Carlo SARONIO
Giuseppe SAVASTANO
Rosario SCALIA
Italo SCHETTINI
Roberto SCIALABBA
Giuseppe SCRAVAGLIERI
Gianfranco SPIGHI
Franco STRAULLU
Oreste SANGALLI
Angelo SCAGLIA
Carlo SILVA
Salvatore SEMINARA
Mario SICA
Iwao SEKIGUCHI
Silver SIROTTI
Loredana MOLINA SACRATI
Sergio SECCI

T
Giuseppe TESAURO
Giovanni TASQUIER
Antonino TRIPODO
Ugo TRIOLO
Mario TRAPASSI
Giuseppe TRAGNA
Michele Arcangelo TRIPODI
Carmine TRIPODI
Federica TAGLIALATELA
Gioacchino TAGLIALATELA
Roberto TICLI
Marcella TASSONE
Antonio TAMBORINO
Cesare TERRANOVA
Marcello TORRE
Claudio TAGLIATATELA
Hiso TELARAY
Francesco TAMMONE
Calogero TRAMUTA
Anna Maria TORNO
Claudio TRAINA
Giovanni TRECROCI
Francesco TRAMONTE
Valentina TERRACCIANO
Salvatore TIENI
Bonifacio TILOCCA
Ezio TARANTELLI
Giuseppe TALIERCIO
Girolamo TARTAGLIONE
Michele TATULLI
Domenico TAVERNA
Lucio TERMINIELLO
Euro TERSILLI
Walter TOBAGI
Pierluigi TORREGGIANI
Mario TOSA
Vincenzo TUMMIELLO
Emanuele TUTTOBENE
Bartolomeo TALENTI
Clementina CALZARI TREBESCHI
Maria Antonella TROLESE
Anna Maria SALVAGNINI TROLESE
Angelica TARSI
Federica TAGLIALATELA
Gioachino TAGLIALATELA
Alberto TREBESCHI

V
Bernardo VERRO
Francesco VICARI
Calogero VACCARO
Onofrio VALVOLA
Mariano VIRONE
Giuseppe VALARIOTI
Domenico VECCHIO
Antonio VALENTI
Leonardo VITALE
Abramo VASTARELLA
Vincenzo VENTO
Francesco VECCHIO
Paolo VINCI
Alberto VALLEFUOCO
Riccardo VOLPE
Antonino VASSALLO
Raffaele VITIELLO
Alberto VARONE
Gelsomina VERDE
Vincenzo VACCARO NOTTE
Salvatore VACCARO NOTTE
Giovanni VOLPE
Antonio VARISCO
Sebastiano VINCI
Eleno VISCARDI
Eliberto VOLGGER
Attilio VALÈ
Eleonora GERACI VACCARO
Vittorio VACCARO
Rita VERDE
Adriana Maria VASSALLO
Abramo VASTARELLA
Fausto VENTURI

Z
Giovanni ZANGARA
Celestino ZAPPONI
Calogero ZUCCHETTO
Carmelo ZACCARELLO
Daniele ZOCCOLA
Erilda ZTAUSCI
Ciro ZIRPOLI
Rosa ZAZA
Giuseppe ZIZOLFI
Agata ZUCCHERO
Alfio ZAPPALA’
Mario ZICCHIERI
Francesco ZIZZI
Vincenzina SALA ZANETTI
Paolo ZECCHI
Viviana BUGAMELLI ZECCHI
Onofrio ZAPPALÀ
Vittorio ZAMBARDA

Roma, 21 luglio 2015

Daniela Zini


  

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][2], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 
 




SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
 
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
 


II. LA MAFIA



“Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa




 Giorgio Napolitano, al termine di una visita a Portella della Ginestra, nel 2012:
‘In Italia ci sono problemi gravi e complessi e l’Italia deve essere unita per risolverli.”

[…]
COSSIGA. Io posso confermare per scienza diretta che in Sardegna noi eravamo armati. Eravamo armati con armi corte in parte fornite dalle Forze dell’ordine e in parte acquistate su libero mercato: la Sardegna aveva visto passare gli eserciti tedeschi e gli eserciti alleati. Personalmente io ero armato con uno Stein. Le bombe a mano ci furono fornite dall’Arma dei carabinieri. L’addestramento del gruppo, del commando di cui facevo parte venne seguito da un sottufficiale della San Marco del Sud, non di quella di Valerio Borghese, anche se poi la storia dovrà chiarire che differenza c’è. Passato il 18 aprile noi riconsegnammo le armi. Nulla posso dire per scienza diretta del fatto che la parte avversa fosse armata.
PRESIDENTE. Tutti gli omicidi del triangolo rosso.
COSSIGA. No, è un fatto diverso. Non confondiamo gli omicidi del triangolo rosso, che sono di iniziativa individuale di settori del Partito di quella zona, con il Partito Comunista perché si tratta di due cose diverse. Comprendo benissimo, potei ammettere tutto ciò perché ero già Presidente della Repubblica e non era in vista o probabile una mia rielezione; altri lo dovettero negare perché potevano essere eletti al mio posto. Paolo Emilio Taviani conosceva tutto questo perché era uno dei capi delle formazioni partigiane bianche; uno di quelli più attivi in questo settore, come poi appresi, fu Enrico Mattei. A quanto so, dopo il 1948, almeno noi sardi, restituimmo le armi. Per quanto riguarda l’altra parte non so nulla di scienza diretta: so soltanto quello cui fui edotto quando, diventato sottosegretario alla difesa, mi fecero un briefing su una forza potenzialmente ostile quale era il Partito Comunista che, così, veniva considerato all’interno dell’Alleanza Atlantica, nel Comitato di Sicurezza, che ancora nella NATO esiste. Bisogna che i miei colleghi ammettano che noi abbiamo pesantemente discriminato i comunisti per 50 anni: questo è vero. Gli inglesi lo ammettono se nel costituire legalmente il servizio di sicurezza britannico, chiamato M15, un’introduzione firmata dal Primo Ministro afferma che gli scopi del servizio di sicurezza britannico sono ormai ridimensionati perché non c’è più il dovere del controllo ed il contrasto con il Partito comunista britannico: questo è stato scritto e firmato dal Primo Ministro britannico. Non capisco perché i miei colleghi non lo vogliono ammettere. Io ho sempre ammesso che la nostra è stata una democrazia limitata.
PRESIDENTE. Di questo le do atto.
COSSIGA. Abbiamo pesantemente discriminato i comunisti, mi limito a dire discriminati, ma è vero che talvolta li abbiamo perseguitati: li abbiamo licenziati, li abbiamo controllati. Probabilmente se avessero vinto loro avrebbero fatto lo stesso, ma questo a me non interessa: a me interessa dire quello che abbiamo fatto noi. Questa è la tragedia del nostro Paese. Il fatto che gli altri fossero armati non lo so per scienza diretta, lo so per il bríefing che mi fecero quando divenni sottosegretario alla difesa e mi occupavo un po’ di queste cose e poi per le conoscenze, sempre indirette e mai dirette, che avevo in qualità di Ministro dell’Interno. In questa veste sapevo benissimo, come dissi apertamente e come ha scritto nel suo bel libro l’amico Cervetti, che arrivavano le valigie di denari per il Partito comunista, come arrivavano per la Democrazia cristiana fino all’ultima segreteria Moro i denari della CIA, per essere chiari. Tanto è vero che la Procura della Repubblica di Roma ha detto che è tutto prescritto, ha chiuso tutto ed ha fatto bene. Quando mi dissero che cosa facciamo di questi messaggeri che portano i denari per il Partito Comunista risposi di lasciarli andare per alcuni motivi. Innanzitutto perché mi volevo tener buono il Partito comunista nella lotta contro il terrorismo, in secondo luogo perché sapevo che noi prendevamo denari dall’altra parte ed inoltre perché avevamo tali rapporti economici con l’Unione Sovietica che non volevo mettere in forse per la questione dei denari. Chiesi soltanto, come riporta Cervetti nel suo libro - non mi ha voluto dire chi gliel’abbia riferito - so
lo per far capire a chi mi faceva queste domande provocatorie, che tipo di valuta portano e mi risposero che si trattava di dollari americani, pertanto dissi benvenuti.
[…]
Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi
XXVII Seduta, Giovedì, 6 novembre 1997
Presidenza del Presidente Giovanni Pellegrino


“Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, 
non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa
 
Il Primo Maggio 2015, il ministro della giustizia Andrea Orlando, a Portella della Ginestra, rivolgendosi a uno dei sopravvissuti, Mario Nicosia, dichiara:
“Sento tutta la responsabilità e il significato di questa mia presenza in un luogo pieno di simboli e di memoria civile.”

La sera cade su Palermo – quel venerdì 3 settembre 1982 – quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa [1920-1982][3] lascia la Prefettura in compagnia della moglie, Emanuela Setti Carraro, sposata solo poche settimane prima, la quale è alla guida di una Fiat A112 bianca. Si allontanano, seguiti da un’altra vettura, guidata da un agente di scorta, Domenico Russo, incaricato della loro protezione. In via Isidoro Carini, la loro auto è affiancata da una BMW, con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci, i quali fanno fuoco attraverso il parabrezza, con un fucile kalashnikov AK-47. Il generale e sua moglie restano uccisi sul colpo [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/03/toto-riina-cosi-uccidemmo-dalla-chiesa-gli-sparammo-anche-da-morto/1109576/]. Nello stesso istante l’auto con a bordo Domenico Russo viene affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco, che lo fredda[4].
Il giorno dei funerali delle vittime, l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo [1918-2006] fa scalpore per la celebre citazione di Tito Livio che risuona nell’omelia:
“Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici […] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo!”
Al termine della messa, spesso, interrotta dalle proteste, i politici vengono fischiati e aggrediti dalla folla: una bottiglia d’acqua viene scagliata contro il ministro dell’interno, Virginio Rognoni e monetine vengono lanciate al presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini.
Nando Dalla Chiesa confida ai giornalisti:
Secondo me l’hanno ucciso perché è stato l’unico prefetto che è venuto qui a parlare di Mafia vera, a cercare di farli venir fuori. In questi ultimi giorni forse aveva capito qualcosa in più: ed ecco la fine che ha fatto.”
Lo scandalo della Loggia P2, la morte sospetta di Roberto Calvi, il banchiere del Vaticano, le questioni relative al terrorismo rosso e nero avevano, già, seriamente, intaccato la credibilità dello Stato italiano, ma la morte tragica di colui che aveva sgominato le Brigate Rosse e nel quale la popolazione riponeva tutte le sue speranze per ristabilire, in Sicilia, la forza della legge appare il crimine di troppo.
Il generale Dalla Chiesa non era la prima vittima della Mafia.
Il 30 giugno 1963, i corpi del tenente dei carabinieri Mario Malausa, dei marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, degli appuntati Eugenio Altomare e Marino Fardelli, del maresciallo dell’esercito Pasquale Nuccio, del soldato Giorgio Ciacci erano stati dilaniati nell’esplosione di un’Alfa Romeo Giulietta, imbottita di esplosivo [http://vittimemafia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=421:30-giugno-1963-palermo-strage-di-ciaculli-dilaniati-da-unauto-bomba-mario-malausa-silvio-corrao-calogero-vaccaro-eugenio-altomare-marino-fardelli-pasquale-nuccio-e-giorgio-ciacci&catid=35:scheda&Itemid=67].
Nel 1970, il giornalista Mauro De Mauro era stato eliminato, forse, perché si interessava troppo da vicino alle modalità in cui era scomparso, nel 1962, il re del petrolio italiano, Enrico Mattei.    
Il 5 maggio 1971, il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione [1906-1971][5] e l’agente di scorta Antonino Lo Russo, alla guida di una Fiat 1500 nera, furono abbattuti. Era una prima, perché la Mafia, fino ad allora, era solita corrompere i magistrati di tale importanza o esercitare su di loro forti pressioni.
Il 20 agosto 1977, il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo [1928-1977][6] [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/08/la-lista-dei-grandi-delitti-anno-di.html] e, il 9 maggio 1978, un giornalista troppo curioso dell’amministrazione della Regione Autonoma della Sicilia, Giuseppe Impastato [1948-1978] [7] [http://archivio.internazionale.it/news/italia/2014/05/09/chi-era-peppino-impastato-morto-36-anni-fa], cadevano, a loro volta.
Il 9 marzo 1979, Michele Reina [1932-1979], segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana [http://www.isiciliani.it/9-marzo-1979-michele-reina-luomo-del-compromesso-storico-siciliano-contro-la-mafia/#.VayWfLUt2lI], il 21 luglio 1979, Giorgio Boris Giuliano [1930-1979][8], capo della Squadra Mobile di Palermo, e, il 4 maggio 1980, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile [1949-1980][9] furono le vittime successive.     
Il 25 settembre 1979, veniva assassinato il giudice ed ex-deputato indipendente PCI Cesare Terranova [1921-1979] e, il 6 gennaio 1980, il democristiano Piersanti Mattarella [1935-1980][10], che aveva denunciato collusioni tra il suo partito e l’Onorata Società.
Il 22 marzo 1980, era il banchiere della Mafia, Michele Sindona [1920- 1980], a morire in carcere in circostanze sospette.
Il 1980, vedeva, egualmente, l’assassinio del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa [1916-1980]. Il 6 agosto, veniva, infatti, freddato Costa da tre colpi di pistola sparati alle spalle da due killers in moto, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, in via Cavour. Il delitto era stato commissionato dal clan mafioso, capeggiato da Salvatore Inzerillo. Causa di quella spietata esecuzione: aver firmato, personalmente, i mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola e di alcuni suoi uomini, che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare e che, come disse Leonardo Sciascia, lo avevano additato alla vendetta mafiosa. Pur essendo l’unico magistrato a Palermo, al quale, in quel momento, fossero state assegnate una auto blindata e una scorta, non ne usufruiva, riteneva che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che la sua persona avesse “il dovere di avere coraggio”.
 Il 21 ottobre 1981, a Marsiglia, nella Francia del neo-eletto presidente François Mitterand, venne abbattuto, in piena strada, da due killers in motocicletta il giudice Pierre Michel [1943-1981][11], che investigava su un traffico di droga tra l’Italia, la Francia e gli Stati Uniti [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/04/20/un-giudice-troppo-ostinato-bisogna-proprio-eliminarlo.html].
Il 30 aprile 1982, fu il deputato siciliano Pio La Torre [1927-1982] a essere abbattuto per aver presentato un disegno di legge che prevedeva, per la prima volta, il reato di “associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni mafiosi.
Il 1982, videro, egualmente, la morte Salvatore Raiti, Silvano Franzolin, Luigi Di Barca e Giuseppe Di Lavore, uccisi, il 16 giugno, sotto i colpi dei fucili kalashnikov AK-47 dei killers del boss Nitto Santapaola, nella Strage della Circonvallazione, e, l’11 agosto, Paolo Giaccone [1929-1982], un medico legale[12] molto preoccupato di identificare le impronte digitali di un assassino.
È in queste circostanze drammatiche che il governo decideva di affidare la prefettura di Palermo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Il generale arrivava a Palermo in maggio… per la sepoltura di Pio La Torre.
Il 6 settembre 1982, Emanuele De Francesco [1921-2011] [http://archiviostorico.corriere.it/1993/gennaio/10/Francesco_difese_Contrada_co_0_9301104506.shtml], è nominato alto commissario dal Governo Spadolini ed è chiamato, già, dal 7 settembre, a ricoprire il posto lasciato da Dalla Chiesa, ucciso tre giorni prima.
E, finalmente, la legge invocata da Pio La Torre è votata.
Ma occorre di più per impressionare l’avversario e, nel corso dei mesi successivi, esponenti delle istituzioni e della stampa indipendente pagano, ancora, un pesante tributo: un capitano dei carabinieri, il decano dei giudici istruttori di Palermo, Rocco Chinnici, lo scrittore catanese Giuseppe Fava, il giornalista torinese Bruno Caccia, che investigava sulle ramificazioni di Cosa Nostra nel Nord dell’Italia, un senatore e un industriale, che si rifiutava di essere ricattato, sono assassinati, come pure molti operatori delle Forze dell’Ordine di stanza in Sicilia.
Il 2 aprile 1985, più fortunato di uno dei suoi predecessori, il sostituto procuratore di Trapani, Carlo Palermo [http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/Carlo-Palermo-La-mia-verit-.aspx], che aveva, appena, smantellato un laboratorio di fabbricazione di eroina, sfuggiva, miracolosamente a un attentato.
È su un terreno antropologico e storico molto particolare che è nata ed è fiorita la Mafia. È, intimamente, legata alle realtà politiche e sociali di una Sicilia a lungo sottomessa a padroni stranieri – quali i bizantini, i musulmani, i normanni, gli svevi, gli angoini, gli aragonesi, gli spagnoli, i borbonici e, infine, i piemontesi, una volta realizzata l’unità italiana – una terra sempre occupata e preoccupata di preservare la sua autonomia e che costruisce, nel XIX secolo, una società parallela garante della resistenza allo straniero, fondata su tutto un sistema di riferimenti arcaici e feudali. Questi sono, facilmente, identificabili: gerarchia immutabile ; rispetto quasi religioso per il capo reputato infallibile ; giustizia immediata e sbrigativa, che si fonda su un codice non scritto in cui la parola fa legge ; senso del gruppo, dalle famiglie”, che si spartiscono il controllo di una città, fino alla sicilianità da difendere, a ogni costo, contro le intrusioni di poteri esterni o contro ogni tentativo di uno Stato centralizzato, che cerchi di imporre la sua autorità. Aggiunti al culto della virilità e al culto del segreto, tutti questi elementi compongono nella loro semplicità, nella loro teatralità e nella loro violenza il cemento di una contro-società che finisce per confondersi con la società tout court.
Agli inizi del 1838, molto prima della realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario borbonico, Pietro Calà Ulloa [1801-1879], procuratore generale, che rappresentava, a Trapani, la Giustizia del Regno delle Due Sicilie e sarebbe divenuto primo ministro di re Francesco II in esilio, illustra in due relazioni, al guardasigilli, Cataldo Parisio, a Napoli, un quadro palpitante di dati e di fatti, di rilievi e di osservazioni molto interessanti, attraverso cui possiamo formarci una idea abbastanza chiara della situazione interna della Sicilia, appena qualche mese dopo uno dei suoi più gravi rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella prima, datata 25 aprile, sono tratteggiate le condizioni della magistratura in Sicilia.
“Il basso stato in cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu, durante il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei magistrati del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche, dai bisogni della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli stranieri e degli emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea un felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne anche nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle cose.”
Nella seconda, datata 3 agosto, di più ampio respiro e di più ricco contenuto, si descrivono le condizioni politiche, sociali ed economiche della stessa isola.  
“Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile.”
La realtà della Mafia è, si vede, anteriore all’annessione della Sicilia al giovane Regno d’Italia ed è, nella tradizione del banditismo locale, talvolta, confuso con la ribellione contro l’ordine costituito, che fa ricercare le sue origini, in questi primitivi della rivolta”. Questo tempo dei briganti rinvia alla fine del XVIII secolo, all’insurrezione palermitana del 1820, al sollevamento del 1848, allo sbarco garibaldino del 1860 e alla rivolta che infiamma di nuovo Palermo, nel 1866, e si estende in tutto l’Ovest dell’isola, segnata dall’assassinio del commissario di Monreale e dal massacro selvaggio dei carabinieri di Boccadifalco.
La repressione piemontese permette di ristabilire l’ordine, ma quando un gruppo di parlamentari italiani si reca in Sicilia, nel 1867, per indagare sulla insicurezza che regna sull’isola e sulla ostilità manifestata dalla popolazione ai rappresentanti del governo di Firenze, constata che delinquenza e dissidenza politica sono nate dalla disillusione dei siciliani, delusi dall’annessione al nuovo Regno. Questi deputati non usano, ancora, il termine Mafia, che si imporrà, in seguito, e la cui origine resta incerta.
Si tratta per i siciliani di difendersi di fronte a uno Stato che impone una fiscalità più pesante di quella dell’antico regime borbonico, allorché gli investimenti decisi dal Governo, insediato, prima, a Firenze, e, poi, a Roma, vanno prioritariamente al Piemonte e alla Lombardia. Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della “Spedizione dei Mille”, guidata da Giuseppe Garibaldi, aveva fatto nascere qualche speranza di riforma agraria e di trasformazione sociale, ma l’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato siciliano Francesco Crispi – che si sarebbe fatto più tardi campione sfortunato della espansione coloniale italiana – non esitò, allora, a proclamare che la popolazione insulare detestava il governo di Roma, che considerava peggiore di quello dei Borbone di Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo organizzato si sviluppano rapidamente dal 1860.
Gli ex-sostenitori di Garibaldi si rifiutano di tornare alla vita sociale, quando constatano che la vittoria della insurrezione non cambia nulla alla lorocondizione. Quando il nuovo Regno d’Italia vuole imporre il servizio militare, dal 1861, numerosi ribelli si danno alla macchia ed è in questi strati sociali che la nascente Mafia può reclutare i suoi uomini di mano.
L’Onorata Società non è una semplice associazione di fuorilegge, ma una nuova struttura di potere. Allorché il fossato si scava tra lo Stato italiano e il popolo siciliano, si presenta come un sistema parallelo di autorità. Derivato, direttamente dai quadri preesistenti della vita politica e sociale, il nuovo potere sembra, così, prolungare il feudalesimo, abolito, molto tardivamente, in Sicilia, durante l’occupazione inglese, nel 1812. sostituendosi ai baroni, i capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese o della regione, e molti sono più rispettati dei rappresentanti del potere centrale…
Potere parallelo, la Mafia, strettamente legata alle classi dirigenti siciliane, inizia, rapidamente, a prendere il controllo del potere politico legale. In tutta la Sicilia occidentale, “fa” le elezioni e può assicurarsi complicità e protezioni al più alto livello dello Stato. Sul terreno locale, le famiglie più importanti si spartiscono borghi e regioni e forniscono i mediatori – piccoli notabili, avvocati, agricoltori benestanti – che reclutano, secondo il loro buon volere, la manodopera contadina e gestiscono le aziende dei grandi proprietari assenteisti, garantendo loro la perennità della rendita fondiaria. Sono dei veri cacicchi locali, che costituiscono l’ossatura portante della organizzazione mafiosa e assicurano il controllo sociale delle masse rurali arretrate e sottomesse.
I delitti commessi da piccole bande armate, riunite intorno a un capo locale, perdurano nell’ultimo terzo del XIX secolo, ma è una delinquenza più organizzata, creatrice di una illegalità divenuta strutturale, che si impone in questa epoca e permette alla Mafia di rinnovare regolarmente i suoi “uomini d’onore” – in sostanza, gli uomini di mano incaricati dei lavori sporchi – e i suoi quadri, trasformati in piacevoli notabili, che fanno attenzione a non ostentare una fortuna tanto improvvisa quanto sospetta.
L’abigeato, il furto di bovini, è, allora, una industria nazionale in Sicilia; ma la Mafia controlla, egualmente, il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando, importato dalla Tunisia, e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie o immobiliari.
Tutti i tentativi dello Stato centrale per vincere queste diverse forme di delinquenza falliscono uno dopo l’altro, per la resistenza della classe politica locale e dei sostegni assicurati a Roma. L’arresto o l’esecuzione del pesce piccolo dei colpevoli non cambiano affatto la situazione e non intaccano il potere dell’Onorata Società.
Il suo dominio sull’opinione insulare è pressoché totale, alla fine del XIX secolo.
Nessuno può sperare di vincere una elezione senza il sostegno della Mafia e l’assassinio di un sindaco di Palermo resta impunito, perché i siciliani unanimi si schierano con il deputato accusato di esserne il mandante, il quale sarà assolto per vizio di forma prima di essere, infine, prosciolto da ogni sospetto.
È l’epoca che vede l’etnologo Giuseppe Pitré affermare:
“La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto presente negli ingranaggi dello Stato centrale, ciò che gli garantisce una impunità pressoché totale, la Mafia può, anche, sollevare l’opinione siciliana contro questo lo stesso Stato, se manifesta velleità di ristabilire la legalità.
La storia dei tentativi compiuti dalle autorità dello Stato per reprimere i fenomeni mafiosi inizia 141 anni fa, precisamente, nell’aprile del 1874.
Dal 1861 ai primi anni immediatamente successivi alla Breccia di Porta Pia, il nuovo Stato italiano si era trovato, soprattutto, impegnato nel settore militare e internazionale, aveva combattuto una nuova e difficile guerra contro l’Austria, era riuscito a estendere le sue strutture a tutta la Penisola.
Era stato un cammino lento e difficile.
Il primo nemico dell’ordine interno non era apparso, allora, quella mitica Mafia, di cui, così poco, si sapeva, laggiù, nelle estreme province dell’isola di Giuseppe Garibaldi, bensì il banditismo a sfondo politico del basso Lazio, della Calabria e della Puglia, e, dunque, contro i fuorilegge, finanziati dagli agenti borbonici, si erano, soprattutto, indirizzati gli sforzi delle autorità. Il banditismo faceva politica; la Mafia no, a parte l’episodio di collusione con il tentativo di Maria Sofia di Baviera, nel 1863. Era, dunque, naturale che il giovane Stato si preoccupasse, in primo luogo, di eliminare le bande armate brigantesche. Fu una vera guerra, con orrendi e pietosi episodi da ambedue le parti.
Le cosche mafiose della Sicilia Occidentale, naturalmente, avevano, largamente, approfittato di questa situazione di forzata carenza da parte delle autorità. Soprattutto in provincia di Agrigento, il quindicennio 1860-1874 era stato terribile di estorsioni, rapimenti, delitti e vendette.
Vi erano, anche, stati episodi sintomatici.
Il primo febbraio del 1869, a esempio, un gruppo di ingegneri continentali, che effettuavano i rilievi per la costruzione della nuova strada ferrata, erano stati al centro di una sparatoria, a Canicattì, da parte di un gruppo di mafiosi, a scopo intimidatorio. Sembra che la Mafia locale intendesse far deviare la ferrovia dal previsto tracciato, che ledeva gli interessi di alcuni grossi proprietari terrieri. Il delegato di pubblica sicurezza della cittadina, membro lui stesso di una potente famiglia agraria, aveva trascurato di informare dell’accaduto il prefetto di Agrigento e, a Firenze capitale, l’allora ministro degli interni, l’onorevole Girolamo Cantelli, aveva appreso la cosa soltanto grazie a una segnalazione del suo collega dei lavori pubblici, al quale gli ingegneri della Impresa Generale Strade Ferrate Calabro-Sicule avevano fatto rapporto.
Il ministro Cantelli scrisse una dura lettera al prefetto di Agrigento, il quale, ignorando ogni cosa, si rivolse, a sua volta, al delegato di Canicattì, che, nondimeno, negò tutto e inviò a Firenze un rapporto anodino, nel quale si asseriva che non vi era stata, in vicinanza del gruppo di ingegneri, alcuna sparatoria, ma soltanto un incauto colpo partito da un revolver per l’”innocua leggerezza di un gruppo di giovanotti”.
Gli autori della intimidazione non vennero, mai, identificati e, negli anni successivi, nuovi tentativi simili a quello di Canicattì si ripeterono, soprattutto, lungo la linea Agrigento-Sciacca-Castelvetrano.
Tutto ciò dimostrava, in primo luogo, che la Mafia, al servizio degli interessi agrari costituiti, non esitava a impiegare la violenza contro le imprese dello Stato e, in secondo luogo, che i delinquenti organizzati trovavano protezione e connivenza presso gli organi stessi periferici di governo. Ciò nonostante, la nuova Italia doveva attendere, ancora a lungo, prima di poter dare inizio a qualche forma di reazione efficace.
Il 17 aprile 1874, l’onorevole Cantelli inviava al prefetto di Agrigento, Luigi Berti, una lettera, che può essere considerata il documento che dà l’avvio al primo, serio tentativo di repressione antimafiosa. In questa lettera, la Mafia viene, per la prima volta, identificata come una vera e propria piaga sociale, che occorre conoscere a fondo nei suoi metodi e nei suoi uomini, se si vuole combatterla efficacemente; mentre il Governo assicura alle province infettetutto il suo appoggio nell’opera di bonifica. Sulla sua base, la polizia si mise in moto, con molta buona volontà, sia a Palermo sia ad Agrigento, e i risultati non si fecero attendere.
Bisogna dire che i vecchi questori piemontesi sapevano il fatto loro.
Nel 1877, dopo tre anni di lavoro, tutti i mafiosi erano stati, praticamente, identificati e processati. La magistratura pose una cura particolare nel selezionare i membri delle giurie; i processi si susseguirono ai processi e le condanne erano, sempre, dure.
È stato calcolato che, in pochi anni, non meno di 400 mafiosi furono allontanati dalla sola provincia di Agrigento e confinati a Lampedusa, Linosa, Ustica o sul continente.
E non solo!
Il governo dell’umile Italietta di allora fece qualcosa di più.
La dura quanto giustificata repressione della Mafia sul piano poliziesco venne, infatti, affiancata da tutta una attività, che ben possiamo chiamare di carattere sociale. Il Governo inviò, in Sicilia, numerose commissioni di deputati e senatori che, già, allora, seppero valutare il fenomeno con profondità superiore alla odierna confusione. Apparve chiaro, a esempio, che la Mafia non era affatto una organizzazione unitaria, che non aveva regolamenti o tradizioni scritte, che si doveva combattere, caso per caso, eliminando le varie cosche, una dopo l’altra, e, contemporaneamente, agendo sull’ambiente economico e sociale delle zone colpite ed elevando il tenore di vita materiale e culturale delle popolazioni.
Per tutto il dodicennio 1874-1885, la Mafia fu messa, praticamente, nelle condizioni di non nuocere.
Naturalmente, non venne estirpata.
Ma che vuol dire, a ben guardare, la richiesta che, di tanto in tanto, si leva di estirpare la Mafia?
La Mafia è un fenomeno delinquenziale, come il furto  o l’omicidio ed è certo che furto e omicidio non si possono estirpare né dalla Sicilia né da ogni altra regione o città d’Italia, bensì solo prevenire, ridurre, contenere. Nel dodicennio suddetto, la Mafia, dunque, se restò viva in potenza, scomparve come fenomeno in atto.
Non fu poca cosa!
Se poco più tardi, nuove condizioni ambientali e generali dovevano farla rifiorire, si può dire che, almeno per allora, l’ordine pubblico fu ristabilito insieme alla sovranità dello Stato.
Gli avvenimenti che portarono alla nuova esplosione mafiosa, dopo il 1885, furono essenzialmente due. Il primo è costituito dalla già ricordata estensione alla Sicilia della legge sulla coscrizione militare obbligatoria, che quelle popolazioni, ancora largamente immature dal punto di vista unitario, rifiutarono e avversarono, favorendo, così, la diserzione dei giovani e, quindi, la costituzione di nuove bande di fuorilegge e di nuove strutture di protezione dei renitenti. Il secondo, anche se è doloroso dirlo, fu l’apparizione di Giovanni Giolitti, al centro della costellazione politica nazionale.
Con l’avvento di Giolitti al potere,
scrive Renato Candida,
ebbe inizio la vera epoca d’oro della Mafia. Giolitti, per conseguire favorevoli risultati elettorali, poco addentro nella conoscenza della natura mafiosa, amò considerare le consorterie dalla possibilità del numero dei voti che potevano dare al partito al Governo. Uomini politici, funzionari, poliziotti inondarono di benefici i capi-mafia ed è noto come avvenissero le elezioni politiche di quel tempo.    
Fu un fenomemo dolorosissimo.
Giolitti, nel Settentrione, era lo statista più moderno che l’Italia potesse esprimere, concedeva il suffragio universale, avviava alle riforme un Paese ancora arretrato, favoriva l’inserimento delle masse popolari socialiste nella Democrazia e con ciò – come si direbbe, con linguaggio moderno – allargava le basi democratiche dello Stato. Tutto ciò avveniva, tuttavia, a prezzo di una politica meridionalistica che resta come una macchia sul blasone, per tanti lati così rispettabile, dell’uomo di Dronero. Giolitti, in sostanza, faceva progredire il resto d’Italia a spese del Mezzogiorno. L’unica cosa che interessasse il suo fondamentale scetticismo era che le province meridionali gli fornissero il più gran numero possibile di deputati, comunque eletti, che sostenessero la sua politica e gli facessero da contrappeso contro la rappresentanza parlamentare socialista.
Furono costoro i cosiddetti ascari. Chiedevano voti e offrivano, in cambio, favori e protezione, mentre il Governo chiudeva entrambi gli occhi sulla modalità e la provenienza dei loro suffragi.
Su questa base, una nuova generazione di mafiosi emerse come di incanto.
In pochissimi anni, tutto riprese da capo.  
Gli anni dell’ultimo decennio del secolo XIX e del primo Novecento furono presto terribili. La Mafia, da fenomeno prevalentemente agrario e provinciale che, di fatto, era stato fino ad allora, si trasferiva nel cuore stesso delle città, si ramificava nelle banche, negli enti pubblici, negli uffici di governo. Furono questi, sicuramente, gli anni più neri, neppure lontanamente paragonabili alla esplosione che doveva verificarsi mezzo secolo dopo, al tempo del secondo dopoguerra e del bandito Salvatore Giuliano. La intera Sicilia Occidentale era, praticamente, in mano ai pezzi da novanta e ai deputati mafiosi.
E non solo!
Già, iniziavano a manifestarsi i primi fenomeni dovuti alla cosiddetta mafia di ritorno, vale a dire i delitti imputabili a coloro che erano emigrati in America, al tempo delle prime repressioni o del rifiuto alla leva, tra il 1874 e il 1875, e che si erano associati alla Mano Nera di New York e al nascente gangsterismo locale e che riapparivano in Sicilia, fatti più esperti e crudeli dalla esperienza.
Due delitti tipici caratterizzano il terribile ventennio a cavallo del secolo. Il primo febbraio del 1883, il marchese Emanuele Notarbartolo[13] venne ucciso a pugnalate da due sicari mentre viaggiava sul treno Termini Imerese-Palermo. Era un gentiluomo di specchiata onestà, che si era, strenuamente, opposto alla penetrazione della mafia nel Banco di Sicilia, di cui era presidente. Come mandante dell’uccisione venne indicato un deputato, l’onorevole Raffaele Palizzolo, membro della direzione della stessa banca e noto mafioso. Lo scandalo fu enorme; ma il Palizzolo, condannato, una prima volta, dalla Corte di Assise di Bologna, finì per essere assolto dalla Corte di Cassazione di Firenze, dopo che un funzionario, evidentemente, istruito dall’alto, aveva ritrattato la prima deposizione a lui sfavorevole. Il delitto Notarbartolo dimostrava che la Mafia era, ormai, penetrata fino alle alte sfere di Palermo e che i suoi agenti e protettori sedevano tranquillamente in Parlamento.
Il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola fulminavano il poliziotto italo-americano Joe Petrosino, mentre usciva dal suo albergo di Piazza Marina, nel centro di Palermo.
Petrosino era sbarcato dall’America, solo pochi giorni prima. Era famoso per la lotta fortunata e tenace condotta tra New York e Chicago contro la Mano Nera, complessa organizzazione delinquenziale di tipo mafioso e camorristico, che reclutava i suoi aderenti, soprattutto, tra gli emigrati siciliani e calabresi.
Successive indagini stabilirono che, come Petrosino era venuto, a Palermo, per documentarsi sui collegamenti internazionali delle cosche americane, così l’organizzazione internazionale mafiosa era riuscita a farlo eliminare a migliaia di chilometri dal centro delle sue attività. A quanto pare, a eseguire, materialmente, la sentenza di morte fu un certo Cascio Ferro, un mafioso, da poco, rimpatriato da New York, che venne, infine, arrestato, nel 1926, come responsabile di 20 omicidi, 8 mancati, 5 rapine, 37 estorsioni e 53 reati minori. Immediatamente, dopo la sparatoria, improvvisamente, tutta l’illuminazione pubblica era stata interrotta nel quartiere del delitto, documentando come l’assassino godesse di utili amicizie.
Il delitto Petrosino, uno dei più clamorosi dell’epoca, dimostrò, a sua volta, come le strutture mafiose godessero, ormai, di estensione internazionale e si fossero impiantate, a opera degli emigranti siciliani, anche nella tumultuosa America di quegli anni. Si iniziava, per la prima volta, a parlare di malavita italo-americana. New York mutuava da Palermo e da Agrigento la pratica della protezione imposta con la violenza, dei ricatti e del pizzo”, prelevato sulla conclusione di ogni affare. A loro volta, Palermo e Agrigento mutuavano dall’America i metodi della più efficiente organizzazione criminale.     
Il sopraggiungere della guerra 1915-1918 non faceva che aggravare la situazione. Le campagne della Sicilia si riempivano di una nuova ondata di disertori, contadini miserabili, ai quali quella guerra era tanto estranea quanto lo Stato e la Nazione che la combattevano, ribelli contro una società che, dopo decenni di disinteressamento, veniva, adesso, a chiedere il loro sangue, in difesa di confini ignoti e nella esplicazione di una politica che non era da loro né conosciuta né compresa.
Tempi amari!
Le fanterie siciliane si svenavano con valore e rassegnazione al fronte, mentre nell’isola una manica di corruttori e di corrotti approfittava della situazione per estendere il suo arbitrio. Tempi così equivoci che si poté affermare che lo stesso Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria” [https://www.youtube.com/watch?v=tPpQWPKJtug], si fosse lasciato eleggere dai voti della Mafia di Partinico, quella Mafia che nel significato antico, come egli stesso ebbe a dire in pieno Parlamento, nel 1921, “è sentimento del coraggio, della lealtà, dell’onore e della giustizia. 
Ora, con il ritorno a casa dei reduci dalla trincea, le nuove agitazioni sociali che scuotevano il Paese, l’insegnamento di violenza appreso al fronte, la disorganizzazione e la confusione materiale e spirituale dell’immediato dopoguerra, la Mafia trovava nuovo terreno favorevole alla sua espansione.
Tra il 1919 e il 1920, la situazione si fece, perfino, intollerabile.
La Sicilia grondava di sangue fraterno.
I delitti si erano fatti più foschi e più crudeli.
Il 19 gennaio 1921, il procuratore generale presso la Corte di Palermo, senatore Luigi Giampietro, aprendo l’anno giudiziario, ebbe a dire :
La vendetta viene eseguita barbaramente, selvaggiamente, a tradimento, in agguato, con sassi, con rasoi, con roncole, con armi, avvelenando, decapitando, strangolando e aggiungendo lo sfregio al cadavere, spargendogli del petrolio e incendiandolo, ovvero mutilandolo o facendone orrido scempio a segnalico della potenza veramente terrificante della Mafia.   
Il quadro è esatto.
Tra il 1919 e il 1924, non meno di 2500 omicidi si verificarono tra Agrigento e Palermo [almeno 300, solo nel 1919, nelle campagne dell’Agrigentino, ben 109 soltanto a Canicattì], e tutti restarono impuniti. Non vi era più proprietario terriero, commerciante o professionista che, volente o nolente, non fosse in rapporto con la Mafia, o per appoggiarvisi e farsene proteggere o come vittima di indebiti ricatti. Una nuova attività si era aggiunta alle antiche, quella relativa alla importazione clandestina dall’Oriente e dall’America di carichi di stupefacenti, destinati ai grossi mercati italiani ed europei.
Lo Stato non poteva più restare inerte.
Occorre a questo punto affrontare il grosso problema relativo alla discussa operazione che il fascismo condusse contro le strutture mafiose, tra il 1926-27 e il 1937, attraverso l’Ispettorato Generale della Pubblica Sicurezza per la Sicilia, creato ad hoc, e l’opera del celebre prefetto Cesare Primo Mori. Mori, a sua volta, aveva come suo braccio destro un altro celebre poliziotto, il commissario Giuseppe Gueli, personaggio di primo piano nella storia della polizia italiana, sgominatore della famosa banda Bedin, attiva nel Veneto e in Romagna negli anni 1930, successivamente, inflessibile repressore dei moti nazisti in Alto Adige, prima della sciagurata alleanza con la Germania hitleriana e, da ultimo, coinvolto nella liberazione di Benito Mussolini da Campo Imperatore.
L’”Operazione Mafia del fascismo è stata ed è, tuttora, molto discussa. Prima di giudicarla, esaminiamo, attentamente, i suoi particolari e i risultati che raggiunse.
Pronta a legarsi contro il potere di Roma, la Mafia è, sempre, stata legata all’ordine sociale tradizionale e quando l’agitazione rivoluzionaria guadagnò la Sicilia, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, si schierò, chiaramente e dichiaratamente, con i contadini ribelli, che moltiplicano allora le occupazioni di terre.
All’inizio degli anni 1920, la mafia fa causa comune con i primi fascisti locali, ma la situazione cambia, rapidamente, dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si vedono, allora, politici liberali, quali Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi “mafioso e fiero di esserlo” e presentare la Onorata Società come un polo di resistenza, necessario di fronte all’evoluzione autoritaria e liberticida del nuovo regime.  Il 28 giugno 1925, nel comizio elettorale dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm], di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!”
Preoccupato di imporre la sua autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista nell’isola, Benito Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di briganti di ogni tipo di poesia e di fascino e si indigna che si parli della nobiltà e dello spirito cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto, il 2 giugno 1924, a Trapani, poi, a Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori. Questi impiega grandi mezzi per sradicare il banditismo classico, in particolare nella regione montagnosa delle Madonie, nell’entroterra di Cefalù. Carabinieri e milizie fasciste suddividono a scacchiera il paese, le “famiglie” mafiose sono identificate e i loro beni confiscati, centinaia di arresti sono eseguiti. Unendo repressione e azione psicologica verso le popolazioni, ottiene risultati spettacolari e la tradizionale omertà, la legge del silenzio, non protegge più i capi mafiosi. Alcuni mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi legami oltre Atlantico; altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe Genco Russo.
La marchiatura sistematica del bestiame, il licenziamento di numerosi gabellotti, le inchieste condotte sul patrimonio di alcuni sospetti permettono, allora, di portare colpi molto duri alla Mafia.
Mori è, tuttavia, ringraziato, nel giugno del 1929, dopo aver fatto scomparire il banditismo classico della “piccola Mafia”.
Ciò è sufficiente per Mussolini, soddisfatto di essere uscito vincitore da questa prova di forza; ma intenzionato ad accattivarsi i notabili siciliani, che, adottando la camicia nera, si sono, indirettamente, messi al riparo di inchieste troppo approfondite.
L’Onorata Società non è, dunque, smantellata e la Seconda Guerra Mondiale le fornisce l’occasione di ritrovare tutto il suo potere.
Mori operò sulla base di tre iniziative, due delle quali perfettamente giuste e accettabili e l’ultima, invece, resa possibile soltanto dalla sospensione delle garanzie costituzionali proprie del periodo. Il primo provvedimento, estremamente utile, fu quello relativo alla istituzione, in Sicilia, di un apposito servizio speciale denominato Anagrafe del Bestiame, che rese possibile agli organi di polizia il riconoscimento delle greggi. Ogni capo di bestiame doveva portare, saldato all’orecchio, un piombo con la sigla del comune di appartenenza e un numero progressivo. La misura si dimostrò notevolmente efficace per la lotta contro l’abigeato e la macellazione clandestina, sulla cui base si era sviluppata una delle più potenti organizzazioni mafiose interprovinciali.
Mori, inoltre, impose che la nomina dei campieri, i famosi guardiani dei feudi, dovesse essere subordinata al nulla osta da parte delle questure. Anche questo provvedimento fu giusto e utile. In pratica, a meno che non si verificasse qualche collusione, in alto loco, venne, quasi sempre, evitato che pregiudicati e noti mafiosi esercitassero un mestiere così aperto e facile alla prevaricazione. La pratica della violenza nelle campagne subì un crollo verticale. 
Molto discutibile, invece, il terzo provvedimento, vale a dire l’estensione indebita delle competenze e delle attività delle commissioni provinciali di confino.
Mori e Gueli non guardarono, certo, per il sottile!
Avevano a loro disposizione una legge già di per sé illiberale e vessatoria, come quella che permetteva, senza pubblico processo, senza possibilità di appello e senza la garanzia di un difensore, l’invio al confino di qualsiasi cittadino segnalato alla Prefettura dagli organismi di Pubblica Sicurezza.
I due applicarono questa legge con estrema durezza.
In pochi anni, migliaia e migliaia di cittadini furono allontanati dai loro paesi e l’innocente venne, spesso, coinvolto insieme al colpevole, il piccolo mafioso punito più del capo-mafia, il corrotto più del corruttore e il debole più del violento. In sostanza, soffiò sulla Sicilia un vento di colonialismo, che, alla lunga, non poteva generare che altri odi e nuovi risentimenti. Interi paesi furono, praticamente, spopolati di uomini. Invece di isolare i veri mafiosi e colpirli duramente, accadde che tutta la popolazione dei centri indiziati dovette pagare indiscriminatamente. Dalla sola Cattolica Eraclea, a esempio, vennero confinati 245 individui. Da Palma Montechiaro ben 211, più di 1000 tra Canicattì, Bivona e Favara. Poco, invece, fu fatto contro le cosche palermitane della mafia dei giardini e della mafia dei mercati, al cui vertice emerse, in quegli anni, il famoso Zì Gasperino, uno dei più spietati controllori del racket alimentare. 
E, mentre Mori e Gueli combattevano con durissimo rigore i gregari, certe collusioni si verificarono, invece, a diverso livello, quando la Mafia, sempre pronta a adeguarsi alle nuove situazioni, entrava nel complesso gioco delle rivalità politiche e personali, quasi sempre a sfondo affaristico, che si determinavano tra podestà e segretari federali, tra gruppi di gerarchi locali e tra fascisti e vecchia classe dirigente siciliana, sedicente liberale. Non vi è dubbio che, ad alto livello, le strutture mafiose, più che combattute, fossero assimilate e inglobate dal fascismo.
Il risultato di tutto ciò fu che una relativa tranquillità venne assicurata, per quegli anni, alle province martoriate. La Bassa Mafia era stata messa in condizioni di non nuocere da Mori e da Gueli, a forza di deportazioni, arresti indiscriminati, retate e vessazioni che colpivano pressoché tutti. L’Alta Mafia poteva dirsi, in molti casi, tranquillizzata e soddisfatta dalle raggiunte posizioni di potere diretto: non aveva più bisogno della violenza per conseguire i suoi fini economici, le bastava utilizzare le forze dello Stato a livello locale. Le ultime grosse retate furono compiute nel 1937-1938, e si era, ormai, alla vigilia dei tempi nuovi.
Vi è da aggiungere un’altra considerazione.
Già, nel decennio 1874-1885, lo Stato italiano si era impegnato a fondo e con estrema durezza, contro le strutture mafiose. Ma, come abbiamo visto, le misure di polizia prese, in quegli anni lontani, erano state accompagnate da tutta una attività di carattere sociale, rivolta a sanare le condizioni obiettive che favorivano la crescita del fenomeno. Il fascismo, purtroppo, non seppe fare quello che era stato, almeno, tentato dall’”Italietta del secolo precedente. In luogo di dare la terra ai contadini ed elevarli alla condizione di liberi cittadini, li irregimentò e li mandò a combattere. Il feudo rimase la realtà sovrana dell’interno dell’isola e le popolazioni divennero sempre più un gregge di sudditi, anziché una comunità di produttori. A tutti venne chiesto soltanto di obbedire e le conseguenze si pagarono, dopo pochissimi anni.
Mutate le condizioni politiche e ambientali, dopo il durissimo periodo bellico, che la Sicilia pagò in fame e distruzioni, forse, più di ogni altra regione d’Italia, la Mafia tornò a fiorire.
Dalla fine del XIX secolo, la miseria aveva spinto verso il Nuovo Mondo numerosi siciliani, che avevano costituito, a New York e in altre grandi città dell’America del Nord, importanti comunità, ben presto taglieggiati da compatrioti intraprendenti, preoccupati di assicurare loro protezione.
Gli anni 1920 e la prosperità che li accompagna oltre-Atlantico vedono la Mano Nera dell’inizio del secolo sostituita dall’Unione Siciliana, antenata di Cosa Nostra, in seno alla quale si distinguono nel modo che conosciamo, con il favore del proibizionismo, Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Frank Costello e Joe Profaci.
Dal 1942, gli americani si preoccupano di un futuro sbarco in Sicilia e beneficiano in questa prospettiva dei consigli avveduti di Lucky Luciano, uno dei più celebri mafiosi degli Stati Uniti, che, condannato a cinquanta anni di carcere, è liberato su parola per la circostanza.
E, con lo sbarco anglo-americano, nel luglio del 1943, i tre quarti dei sindaci, designati dal governo militare alleato, messo in piedi nell’isola, sono noti mafiosi. Allorché l’incertezza resta circa la evoluzione politica futura dell’Italia, questi “notabili” sono interlocutori ideali per gli americani e rivendicano anche la costituzione di una Repubblica siciliana indipendente.
La Mafia è dietro questa impresa separatista, che incarna allora Salvatore Giuliano. Accusato di mercato nero, questo giovane contadino di Montelepre ha ucciso un carabiniere, il 2 settembre 1943, e si è dato alla macchia nelle montagne vicine, dove numerosi altri giovani braccianti, in situazione molto precaria, lo raggiungono, nel corso dei mesi successivi.  
“Bandito d’onore”, Giuliano non esita ad attaccare i carabinieri e a far beneficiare di una parte delle sue ruberie la misera popolazione della sua terra.
Guadagna immenso prestigio!
Nell’estate del 1945, alcuni monarchici, che sostengono il movimento separatista, lo nominano “colonnello” dell’Esercito Volontario di Indipendenza Siciliana [EVIS]. Ma la concessione, nel 1946, di uno Statuto di Autonomia all’isola priva i separatisti del sostegno popolare; mentre la Mafia vede, immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di azione che sarà, ormai, la sua, nel quadro della nuova amministrazione regionale.
Le elezioni di aprile del 1947, che suggellano la sconfitta della corrente separatista, sono segnate da una forte spinta della sinistra, in un contesto di bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana.
La Mafia ha, rapidamente, fatto la sua scelta.
Si tratta, ora, di lottare contro la sinistra e, più in particolare, contro i comunisti.
Giuliano interviene nella attuazione di questa nuova strategia.
Il primo maggio del 1947, Giuliano attacca un raduno di sinistra a Portella della Ginestra e l’operazione fa più vittime.
Altre azioni analoghe sono condotte nel corso delle settimane seguenti. Ma Giuliano non è che un uomo di mano, che rischia di divenire troppo loquace, ed è assassinato il 5 luglio 1950.
Allorché sembra aver perduto la sua influenza con il favore della instaurazione del regime repubblicano, la Mafia stabilisce, di fatto, dei legami stretti con la Democrazia Cristiana, divenuta il primo partito della Sicilia. Può, così, intervenire nell’amministrazione  della regione, dotata, ormai, di una larga autonomia e il sistema clientelare, che faceva la sua forza, è, rapidamente, ristabilito.
La Legge della Riforma Agraria del 1950 – la cui applicazione è controllata dall’amministrazione regionale – permette tutte le speculazioni e, al tempo stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli agricoltori che debbono beneficiarne.
Il controllo della creazione di pubblici impieghi – che rientra nelle competenze dell’autorità regionale  – favorisce, egualmente, il clientelismo e contribuisce allo sviluppo dell’influenza mafiosa.
L’ottenimento di licenze edilizie, nel contesto del boom immobiliare del dopoguerra – Palermo è stata, in effetti, distrutta, in larga parte dai bombardamenti alleati – permette di privilegiare le imprese mafiose, che sanno, in cambio, mostrarsi generose, quando viene il momento delle campagne elettorali…
L’espansione economica dei “Trenta Gloriosi”[14] genera condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività mafiose.
Racket, speculazione immobiliare, contrabbando di sigarette e traffico di droga divengono campi di attività, particolarmente redditizi.
Le famiglie si dilaniano per il controllo di alcuni settori, perché la Mafia dei giardini o dei campi, molto presente negli agrumeti della Conca d’Oro, dove controlla il mercato fondiario e l’irrigazione, si scontra con la Mafia delle città o dei cantieri, specializzata nell’edilizia e nel riciclaggio del danaro sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio presto favorito dall’instaurazione della libera circolazione di capitali nell’Europa in costruzione.
Numerose vittime scompaiono, allora, di cui nessuno troverà, mai, i cadaveri, discretamente colati nel cemento degli immobili in costruzione…
Lo sterminio del clan Navarra, di Corleone, da parte di Luciano Leggio [1925-1993][15] è uno degli episodi più sanguinosi di queste lotte senza quartiere.
Prima di concludere questa breve storia delle insorgenze mafiose dobbiamo esaminare, più da vicino, il fenomeno che va sotto il nome di mafia di ritorno e che implica l’analisi dei rapporti intercorrenti tra tre diverse, ma inaspettatamente collegate centrali: le coschedel Palermitano, il gangsterismo di New York e di Chicago e la politica degli anglo-americani, in Italia, tra il 1942 e l’inizio del 1945.
La prima ondata di mafiosi siciliani, che ebbero a riversarsi al di là dell’Atlantico fu quella determinata, come abbiamo visto, dalla prima fase delle repressioni tra il 1874 e la fine del secolo scorso. I delinquenti siciliani, che sfuggivano alla cattura e che si mescolavano con la grande diaspora degli umili contadini, costretti a “fare fagotto” da tutta l’Italia meridionale, si associarono alla nota Mano Nera, che fu, inizialmente, nulla più che una società di mutuo soccorso tra gli emigranti italiani più sfruttati. Ben più grave di conseguenze fu, successivamente, il fatto che gli anni della seconda ondata – quando i mafiosi più compromessi lasciarono la Sicilia per non cadere nella rete di Mori – coincisero, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, con gli anni del proibizionismo, vale a dire con l’aprirsi di una situazione che sembrava, appositamente, studiata per favorire il radicarsi di organizzazioni e strutture fuori dalla legge a carattere delinquenziale di massa.
Il racket dell’alcool, in America, aveva, già, in partenza, tutte le caratteristiche delle attività commerciali illegali, che erano fiorite in Sicilia. Era inevitabile che i tecnici del rifornimento clandestino, del ricatto, della protezione e del pizzo”, provenienti dalla Sicilia, venissero, subito, irreggimentati nelle nuove bande americane.
Tra il 1930 – anno cruciale della repressione Mori – e il 1950 – anno della famosa inchiesta Kefauver – i delinquenti, scacciati dall’Italia, assunsero il pieno controllo di tutte le attività illegali americane.
Franco Castiglia, detto Frank Costello, ex-mafioso, fu il boss del racket di New York, mentre Al Capone regnò su Chicago.
È il tempo di Albert Anastasia; Charles Lucky Luciano; Michael Coppola; Antonio Carfano, detto Little Augie Pisano; Frank Nitti; Settimo, detto Sam o Sammy Accardi; Joe Doto detto Adonis; Paul “The Waiter” Ricca; Charles “Trigger Happy” Fischetti, Richard “Richie Nerves” Fusco.
I giorni della Anonima Delitti.
Dal 1933 in poi, come venne dimostrato dalla inchiesta del senatore Estes Kefauver, questa gente entrò, indubbiamente, in collusione con una parte del Partito Democratico. A cavallo tra la Tammany Hall, l’Unione Siciliana e le varie società di mutuo soccorso tra emigranti poveri dall’Italia, dall’Irlanda e dai Paesi slavi, tra il sindaco William O’Dwyer [1890-1964] e alcuni uomini politici corrotti, i bosses organizzano le elezioni, i sindacati, le convenzioni, i municipi. Lo stesso Franklin Delano Roosevelt [1882-1945]  [http://archiviostorico.corriere.it/2010/agosto/26/Quando_Roosevelt_chiese_aiuto_boss_co_9_100826021.shtml] è impotente di fronte alla Piovradella malavita, concentrata nelle grandi città dell’Est, e solo la guerra, con la sua ondata di disciplina patriottica, riesce a mettere un freno al dilagare della corruzione.
La guerra ha, anche, altre conseguenze tra i grandi mafiosi restati in Sicilia, mimetizzati fino ad allora ai margini del fascismo o dallo stesso, come è stato giustamente detto, oppiati e resi soddisfatti. Furbi, bene informati dai loro complici americani, sempre pronti a adeguarsi alle nuove situazioni, ancora prima che si deliniino, i grandi mafiosi siciliani comprendono, subito, che Benito Mussolini perderà la guerra e che occorre prepararsi a tempi nuovi e a nuove situazioni per mantenersi a galla e per esserne i nascosti padroni.
La Mafia diviene, allora, antifascista, ma non già per amore di Democrazia, come non fu antiborbonica, un secolo prima, per puro amore di Libertà, bensì per acquistarsi meriti in cambio di protezione.
La Mafia americana mise a disposizione dei comandi americani la sua conoscenza di uomini e cose siciliane, i suoi canali di informazioni, la sua rete di collusioni.
Si offrì come strumento di spionaggio.
I comandi americani ebbero il torto di accettare questa offerta.
La rete mafiosa forniva loro una base per il giorno in cui avrebbero messo piede in Sicilia.
I loro agenti segreti si appoggiarono ai nominativi forniti da gente come Luciano o Adonis; lo sbarco in Sicilia fu preparato da una equivoca rete di esperti dello Strategic Service di Washington e di appartenenti alle cosche.
All’indomani dello sbarco del 10 luglio 1943, il 70% dei sindaci nominati, in Sicilia, dagli Alleati, erano mafiosi: le autorità di occupazione avevano in tasca i nominativi degli amici degli amici”, forniti dai capi-banda italo-americani in cambio di riduzioni della pena e promesse di estradizione.
E non solo!
Tutta un corrente politica, in America come in Inghilterra, pensava che l’Italia in quanto tale dovesse essere punita. Alcuni generali ragionavano in termini di vecchia strategia e sembrava loro che il distacco della Sicilia dallo Stato continentale avrebbe potuto essere, ancora, utilissimo per il futuro controllo del Mediterraneo.
Il movimento separatista siciliano traeva forza, d’altra parte, dalle miserrime condizioni dell’isola, dove le rivolte per fame si susseguivano a Palermo, a Partinico, a Catania e nelle campagne dell’interno.
Come conseguenza della disgregazione sociale, portata dalla guerra, il mercato nero generò il banditismo.
E il banditismo prese contatti con la Mafia e si mise al suo servizio.
E, poichè la Mafia sceglieva una politica, il banditismo diveniva, a sua volta, un fatto politico.
Le bande pre-Giuliano che presero nome di Labruzzo, Cassarà e Lombardo, nella Sicilia Occidentale, e Russo, nel Catanese, furono il prodotto di questa nuova situazione.
Sulla collusione mafia-banditismo-politica separatista degli anni tra il 1943 e il 1950 si è scritto molto. Bisogna riconoscere che, a seguito di una nuova attività repressiva, che, tuttavia, non ha mancato di lasciare uno strascico di dubbi e di polemiche, come conseguenza di certi metodi non ortodossi, la Mafia, dopo il 1950, subisce un altro colpo o almeno un’altra battuta di arresto.
Le statistiche parlano chiaro.
Tra il 1950 e il 1955, i reati accertati in Sicilia tendono a diminuire. Gli omicidi passano da una media di 45 a una media di 33 all’anno, i furti si riducono della metà, da oltre 700 a poco più di 400.
Ora, accanto all’attività repressiva di tipo poliziesco, la Sicilia conosce una nuova fase di sviluppo sociale, l’avvio alla riforma agraria che, bene o male, dà la terra e la casa a decine di migliaia di contadini; la scomparsa del feudo; l’inizio dell’industrializzazione.
E, come sempre, la Mafia viene messa in crisi dalla riforma sociale. Si mimetizza o emigra sotto l’imperversare della repressione poliziesca e militare, per poi rialzare il capo appena la pressione venga allentata; ma ben altre difficoltà deve affrontare, quando mutano le condizioni sociali ed economiche dell’ambiente, quando i contadini passano dalla condizione di bracciante, costretto a mendicare una giornata di lavoro, a quella di piccolo proprietario indipendente e i disoccupati cittadini trovano qualche prospettiva in una attività economica, avviata verso soluzioni di progresso.
Scompare, dunque, la Mafia?
Al contrario!
Il fenomeno, come abbiamo visto, ha mille volti e una capacità di adattamento quasi-totale. Negli anni in cui, dopo la liquidazione di Salvatore Giuliano e delle connivenze politiche separatiste, la Mafia sembra quasi battuta e le statistiche delinquenziali appaiono in regresso, l’organizzazione cambia, ancora una volta, uomini, metodi e strutture. Assistiamo, dunque, in questi anni, al seguente fenomeno: le strutture mafiose si fanno sempre più urbane e trasferiscono il loro interesse dalle fonti della produzione agricola a quelle del commercio, dell’edilizia, della industria nascente. I vecchi rackets paesani sono svuotati di contenuto economico; ma sorgono nuove incrostazioni, laddove il progresso economico muta il volto dell’isola.
La Mafia diviene, allora, più violenta e più del potere locale o la considerazione che procura, è la ricchezza che costituisce l’obiettivo delle nuove generazioni. Una Mafia di capi di impresacorrotti, organizzata in una vera multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia rurale, derivata dagli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di somme astronomiche, tratte da attività illegali, e docilità di impiegati di imprese mafiose costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, capi, che non fanno affatto fatica a prendere il controllo di settori interi della economia siciliana o italiana.
Il potere economico, derivato dal traffico di droga, procura di nuovo i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato italiano, in seno al quale diviene possibile “accaparrarsi” preziose complicità, ciò di cui testimoniano i “sospetti” molto seri che si sono portati su Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per sette mandati e vero centro di gravità del sistema politico italiano, per dicersi decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in Parlamento, nel 1962, non ha, così, ottenuto che modestissimi risultati e un nutrito numero di funzionari, di operatori delle Forze dell’Ordine e di magistrati hanno pagato con la loro vita la loro volontà di lottare, seriamente, contro la criminalità organizzata.
La serie di assassinii, che ha segnato gli anni 1970, ed è culminata, nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione delle menti, soprattutto, in Sicilia, dove la Mafia non può più beneficiare del consenso tacito che le garantiva una impunità pressoché totale. È, ormai, con il terrore che deve imporsi, ma le inchieste di magistrati, quali Giovanni Falcone e Ferdinando Imposimato permettono di portarle colpi sempre più seri.
L’arrivo a Roma, nel 1984, di Tommaso Buscetta, estradato dal Brasile, costituisce una svolta nella lotta contro la Mafia. Trafficante di droga di grande levatura, aveva lasciato Palermo, nel 1981, per sfuggire ai killers di Michele e Pino Greco, i nuovi Corleonesi. Gli assassinii di suo cognato, di due figli, di un genero e, infine, di suo fratello – che, semplice artigiano, non aveva niente a che fare con la Mafia – lo indussero a parlare.
Al termine di una confessione di un mese, 3mila carabinieri e poliziotti possono procedere, il 29 settembre 1984, a una retata di vasta portata che permette di arrestare diverse decine di mafiosi, immediatamente portati nelle prigioni del Nord dell’Italia.
Dopo Buscetta, Salvatore Contorno, superstite di una famiglia decimata dai Corleonesi, Vincenzo Sinagra e una ventina di altri pentiti permetteranno di accumulare prove e, nel febbraio del 1986, 475 imputati su 840, compaiono davanti al Tribunale di Palermo. Questo, di fatto, è un vero bunker, dove misure di sicurezza eccezionali sono state prese: la sola costruzione degli edifici è costata 54 miliardi di lire, vale a dire poco meno di 28 milioni di euro. 
Il dossier dell’istruttoria conta pià di 8mila pagine, riunite in 40 volumi e riguarda circa 100 omicidi. Altri 22 volumi raccolgono i documenti relative ai conti bancari e al riciclaggio di danaro sporco. 2mila carabinieri e poliziotti sono incaricati della protezione del tribunale, dei magistrati, dei testimoni e della quindicina di famiglie delle vittime che hanno avuto il coraggio di costituirsi parti civili, senza trovare un avvocato siciliano che accettasse di difenderli. Buscetta, al quale un intervento di chirurgia plastica ha modificato i tratti del volto, testimonia, il 7 aprile, fuori della vista degli accusati e del pubblico.
Il processo si trascina, perché i mafiosi e i loro avvocati utilizzano tutti i cavilli giuridici, che permettano loro di guadagnare tempo, e, il 7 ottobre, la Mafia uccide un bambino, la cui famiglia, addetta alla pulizia del tribunale, si era rifiutata di lasciarsi corrompere…
Forza resta, tuttavia, alla Giustizia e pesanti condanne cadono sui colpevoli.
Ma la Mafia non è morta…
E la sua vendetta si abbatterà, il 23 maggio 1992.
Nella Strage di Capaci perdono la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e 3 agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montanaro. Gli unici sopravvissuti sono Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
Il 19 luglio seguente, è il giudice Paolo Borsellino a essere ucciso con i 5 agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, nella Strage di via DAmelio.
La sera del 27 luglio, è Giovanni Lizzio[16], ispettore capo della Squadra Mobile della Questura di Catania – responsabile della sezione anti-racket – a essere abbattuto, nel quartiere periferico di Canalicchio, mentre è fermo in auto davanti a un semaforo  [http://www.cadutipolizia.it/Fonti/Polizia1981/1992Lizzio.htm]. Poco prima di morire, il 18 luglio, Lizzio aveva condotto una operazione,che aveva consentito la cattura di 14 uomini del clan Cappello, grazie alle rivelazioni di un pentito.
Di fronte a una opinione disgustata da questi attentati odiosi, le istituzioni sono, dunque, costrette a reagire.
Due giorni dopo la morte di Giovanni Falcone, il 25 maggio 1992, Oscar Luigi Scalfaro [1918-2012] è eletto Capo dello Stato al sedicesimo scrutinio.
E, il 28 giugno, dopo una crisi iniziata da 83 giorni, nasce il Governo Amato.      
Il 7 agosto, un decreto legge Antimafia permette di accelerare le procedure giuridico-poliziesche e accorda poteri eccezionali ai magistrati impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata.
Il 7 settembre, uno dei capi della Mafia, Giuseppe Madonia, figlio di Francesco Madonna, capo indiscusso della provincia di Caltanissetta e membro della commissione regionale di Cosa Nostra, è arrestato, dopo dieci anni di latitanza, a Longare.
Seguiranno altri arresti.
Poco tempo dopo, l’inchiesta Mani Pulite, condotta dai giudici di Milano contro la corruzione – con il sostegno massivo della opinione pubblica – permette, con il favore delle elezioni di giugno del 1993, la rigenerazione di un sistema politico italiano tanto sclerotizzato quanto incapace e la Giustizia può, così, segnare punti decisivi; mentre si attuano nuovi rapporti di forza elettorali, di cui fanno le spese i comunisti, a sinistra, e la Democrazia Cristiana, a destra.
La lotta contro il crimine organizzato porta, regolarmente, i suoi frutti, ma se centinaia di mafiosi sono stati arrestati, tra i quali gli assassini dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, le riforme della Giustizia, che sono, oggi, allo studio, in Italia, rischiano di rimettere in questione questo bilancio positivo. Sono considerate nell’ottica della difesa dei diritti del cittadino contro l’arbitrio di un giudice, ma autorizzando, a esempio, – in nome del “sospetto legittimo” circa l’imparzialità di un magistrato – lo spostamento di un processo da una corte a un’altra, si potrebbero offrire ai mafiosi e ai loro avvocati seri mezzi per intralciare l’azione della Giustizia, come aveva fatto valere l’ex procuratore nazionale antimafia, Pier Luigi Vigna [1933-2005].
Che fare?
Conosciuta a fondo la nuova Mafia, come speriamo sia in grado di fare la nominata Commissione Parlamentare, occorre combatterla. Tutta la esperienza del passato ci dice che due sono le strade da battere. Quella del rigore della legge, affidata a uomini nuovi e decisi e quella della riforma sociale ed economica, l’unica capace di condurre a quella rivoluzione delle coscienze”, che è il vero, definitivo nemico della Mafia. 



5. TURIDDU 65 ANNI DOPO


 Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso.
E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno.”
Paolo Borsellino


“Perché avete fatto uccidere Giuliano?
Perché avete turato questa bocca?
La risposta è unica: l’avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno.”
Girolamo Li Causi, intervento alla Camera dei Deputati, nella seduta del 26 ottobre 1951 [https://archive.is/BMbFn]


Quel Primo Maggio del 1947 sul podio naturale, coperto di bandiere rosse, che, in seguito, sarà chiamato “Sasso di Barbato”[17], sale Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, per il tradizionale comizio.
Circa 2mila  persone del movimento contadino si sono date appuntamento per festeggiare la vittoria dei partiti di sinistra, nelle prime elezioni svoltesi il 20 aprile; la fine della dittatura e il ripristino delle libertà. Cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni di sottomissione a un potere feudale; le masse contadine vedevano, finalmente, realizzarsi le loro aspirazioni.
È la prima Strage di Stato dell’Italia repubblicana.
Per Girolamo Li Causi, che si reca alla Prefettura di Palermo, è una rappresaglia di Mafia. E dello stesso avviso si mostrano, nell’ufficialità, i carabinieri. Di altro avviso si dichiara, invece, l’ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana:
“Per me la strage è stata compiuta da Giuliano.”
E, soggiunge:
“Ho fatto semplicemente un’ipotesi. Quella è zona dove comanda Giuliano.”
Sotto accusa finirono gli agrari, la mafia e la banda Giuliano, che, con la copertura politica, non avevano esitato a sparare sulla folla inerme, pur di bloccare le lotte contadine e l’avanzata della sinistra.
Mario Scelba negò la matrice politica dell’episodio, mentiva e sapeva benissimo di mentire…
Come sostiene Andrea Camilleri:
“L’offesa peggiore che l’onorevole Mario Scelba[18], ministro dell’interno e siciliano, potesse fare agli innocenti morti di Portella della Ginestra e all’intelligenza degli italiani [ma dei siciliani in particolare] fu quella di sostenere in Parlamento che l’eccidio del 1° maggio 1947 non aveva retroscena politici di sorta: il bandito Giuliano e i suoi uomini avevano mitragliato uomini e donne, vecchi e bambini, alla Festa del Lavoro, di loro personale iniziativa. E che interesse aveva il bandito a farsi nemica una popolazione se non fosse stato certo di una protezione, di una copertura più solida di quella che intimoriti contadini potevano offrirgli.”
Sono passati 68 anni, ma come ogni atroce fatto di sangue, anche questa strage è avvolta nel mistero, conosciamo i nomi degli esecutori del massacro, ma non conosciami i nomi dei mandanti.
Non li conosciamo o ci fingiamo di non conoscerli?
Per quanto la ricerca dei mandanti non sia, mai, approdata a conclusioni certe, risultarono evidenti le responsabilità degli ambienti politici siciliani, interessati a intimidire le masse contadine che reclamavano la terra e avevano premiato il Blocco del Popolo, nelle elezioni del 20 aprile 1947. L’ipotesi di collusioni e compromissioni di tali ambienti con il banditismo fu rafforzata dall’evolversi degli avvenimenti che portarono alla fine di Salvatore Giuliano.
Consapevole di essere divenuto ormai scomodo a tanti che lo avevano sostenuto, Salvatore Giuliano iniziò a fare una serie di allusioni sui suoi rapporti con noti esponenti politici [chiamando in causa, perfino, l’allora ministro dell’interno, l’onorevole Mario Scelba], che avrebbero garantito a lui e ai suoi uomini l’espatrio e l’impunità, in cambio dell’azione di Portella della Ginestra, in una lettera inviata, il 2 ottobre 1948, all’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano.
Scelba smentì il contenuto di quella lettera, rafforzando l’idea che i banditi si muovessero su indicazione della Mafia.
Salvatore Giuliano passò, allora, alla vendetta trasversale e alzò il livello della sfida sul piano militare, scatenando una nuova offensiva, che ebbe il suo culmine, il 19 agosto 1949, nell’eccidio di Bellolampo-Passo di Rigano, in cui persero la vita 7 carabinieri, mentre altri 11 rimasero feriti, tra cui il colonnello Ugo Luca.
A cadere sotto i colpi di lupara di Salvatore Giuliano sono esponenti delle istituzioni e politici democristiani: Luigi Geronazzo, Vincenzo Campo, Santo Fleres [indicato dall’autorità giudiziaria come capomafia di Partinico][19], Leonardo Renda, compare dell’onorevole Bernardo Mattarella.
Il re di Montelepre è divenuto un problema: deve essere eliminato e il compito viene assegnato al colonnello dei carabinieri Ugo Luca. Pochi giorni dopo, il ministero dell’interno decideva la soppressione dell’Ispettorato Generale di Polizia, in Sicilia, e costituiva il Comando Forze Repressione Banditismo, con lo stesso colonnello Ugo Luca al comando.
Giuliano ha compreso e, il 30 giugno 1950, in una lettera a L’Unità:
“Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita.”
Giuliano venne ucciso il 5 luglio 1950, cinque giorni dopo la lettera inviata al quotidiano comunista.  
Il suo luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, sarà avvelenato in carcere, il 9 febbraio 1954, dopo aver preannunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage.
Per i mandanti solo ipotesi: Mafia, politica, iniziativa personale, fascisti, servizi segreti americani, preoccupati dell’espansione delle sinistre in Italia, latifondisti siciliani…  
Conosceremo, mai, la verità?
Forse, NO, ma avremo tentato!
Come dico, sempre, meglio tentare e non riuscire che non riuscire a tentare.

Scena dal film Salvatore Giuliano [1962] di Francesco Rosi.

“Di sicuro c’è solo che è morto”,
con questo titolo, passato alla Storia del giornalismo moderno, L’Europeo di Arrigo Benedetti[20] lanciò, nel numero del 16 luglio 1950, il primo J’accuse! sulla strana morte di Salvatore Giuliano.
Autore della inchiesta fu Tommaso Besozzi [1903-1964][21], uno dei migliori inviati speciali della sua generazione: i quotidiani avevano scritto che il bandito era stato ucciso, a Castelvetrano, in uno scontro a fuoco con 4 carabinieri; ma la faccenda presentava molti lati oscuri.
Mettendo a confronto le testimonianze, esaminando i reperti e le fotografie, parlando con la gente, Bezozzi scoprì, a poco a poco, che la pubblica opinione era stata ingannata da una tragica messinscena.  
Mentre le fonti ufficiali insistevano sulla veridicità della prima versione, la stampa si impegnò a ristabilire i fatti: presto fu chiaro per tutti che Salvatore Giuliano era stato ucciso altrove con un colpo a bruciapelo, quindi deposto nel cortile di casa dell’avvocato Gregorio Di Maria, a Castelvetrano, e bersagliato a raffiche di mitra.
Si scoprì che il cosiddetto “Robin Hood della Conca d’Oro” era stato venduto dalla Mafia di Monreale ai carabinieri del Comando Forze Repressione Banditismo. Come, spesso, accade nelle vicende siciliane; nessuno, tuttavia, riuscì a fare piena luce sull’episodio.
Al processo che si tenne, a Viterbo, per la strage di Portella della Ginestra,  l’ex-luogotenente Gaspare Pisciotta denunciò le collusioni tra fuorilegge, polizia e mafia e annunciò altre rivelazioni.
Pisciotta non parlò più, perché venne avvelenato, il 9 febbraio 1954, con un caffè alla stricnina nella cella dell’Ucciardone, a Palermo. E il suo assassinio fece estinguere il procedimento penale in corso per l’omicidio di Salvatore Giuliano[22].

Nella foto, le 11 vittime della strage: Francesco Vicari, Serafino Lascari [15 anni], Vito Allotta, Giovanni Megna [18 anni], Giorgio Cusenza, Margherita Clesceri, Vincenza La Fata [8 anni], Giuseppe Di Maggio [13 anni], Castrenze Intravaia, Filippo Di Salvo [morirà, dopo atroci sofferenze, il successivo 11 giugno] Giovanni Grifò [12 anni].

Da allora, le morti misteriose dei personaggi implicati nella vicenda si susseguirono: dopo Ciro Verdiani, l’alto funzionario della polizia compromesso dalle rivelazioni di Viterbo, morì anche il giovane avvocato Geloso Cusumano, indicato come l’“ambasciatore” dei mandanti di Portella; e, il 20 settembre 1960, con sette colpi di pistola, fu ucciso, a San Giuseppe Jato, un paese vicino a Palermo, Benedetto Minasola, il mafioso di Monreale, che avrebbe preparato con Pisciotta il tradimento di Giuliano.
Neppure Francesco Rosi, che, nel 1962, ha realizzato con il film Salvatore Giuliano, uno dei classici del cinema italiano, è, mai, riuscito a penetrare fino in fondo il mistero della morte di Turiddu.
Si è parlato molto, all’epoca del film, di una rete che i mafiosi, preoccupati dallo strapotere dei banditi, avessero teso intorno ad alcuni uomini di Giuliano, in collaborazione con i carabinieri.
Di certo, fu con la connivenza della Mafia che fu catturato, a Villa Carolina, una costruzione moderna sulla strada di Monreale, il pericoloso Frank Mannino, tornato, in Sicilia, dopo aver passato qualche anno nella Legione Straniera, in Tunisia.
E, nella villa o negli immediate vicinanze, furono consegnati anche Castrense Madonia e Nunzio Badalamenti, che entrarono in un camion carico di ceste, convinti di venire portati da Salvatore Giuliano e si ritrovarono, invece, a Palermo, nella caserma dei carabinieri.
Secondo alcuni, Giuliano era stato attirato, a Villa Carolina, con un pretesto e ucciso sul posto, poi, trasportato cadavere a Castelvetrano; secondo altri, l’uccisione era, invece, avvenuta proprio in casa dell’avvocato Gregorio Di Maria, nel cui cortile fu ritrovato, la mattina del 5 luglio 1950, il corpo senza vita di Turiddu.
“Sei ore”,
diceva Rosi,
“soltanto sei ore. Dopo aver studiato per anni questo argomento, credo di sapere tutto di Giuliano: tranne un buco di sei ore nell’ultima notte della sua vita.”
Ma Giuliano fu ucciso, proprio, da Gaspare Pisciotta, che era ritenuto a torto, tra l’altro, suo cugino?
Non sembra di questo parere Giuseppe Ferrara, autore insieme allo storico Michele Pantaleone, di un film sulla mafia intitolato Il sasso in bocca. Il film – che trae il titolo dallo sfregio che l’Onorata Società, riserva ai cadaveri delatori – è una serrata requisitoria, artisticamente un poco rozza, ma efficace dal punto di vista giornalistico, attraverso 114 episodi di Mafia, visti nella continua connessione tra l’incidente minuto e l’evento di portata mondiale, tra la Sicilia e gli Stati Uniti, alla luce di tutte le più approfondite inchieste italiane e americane.
Folgorato dal film di Francesco Rosi, al quale dedicò un ottimo libro – il toscano Ferrara si mosse senza grandi pretese di originalità, mettendo sullo stesso piano frammenti di attualità, brani di Salvatore Giuliano e sequenze ricostruite.
Ciò che gli premeva era di fare un discorso rigoroso sul fenomeno della criminalità nella zona depressa e sulle sue ramificazioni al di là dell’Oceano Atlantico; finché la catena, da un anello all’altro, conduceva, perfino, alla uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy e al possibile attentato dietro l’ultimo volo di Enrico Mattei. Anche qui, curiosamente, un concreto risveglio di interesse intorno a un episodio, valutato in modo superficiale, era nato dall’iniziativa del regista Francesco Rosi per un film sullo scomparso pioniere italiano del petrolio; e tutti avevano letto sui quotidiani dell’epoca che Mauro De Mauro [1921-1970][23], il giornalista rapito, a Palermo, la sera del 16 settembre 1970, stava occupandosi proprio di una inchiesta preliminare alla sceneggiatura degli ultimi giorni di Enrico Mattei, in Sicilia.
Cinema, storia e cronaca si intrecciano in maniera, certo, fertile di sorprese e di approfondimenti importanti, ma non esente da rischi. Anche se Ferrara garantiva che la Mafia non facesse nulla per avversare i films che ne parlassero:
“In un certo senso”,
sosteneva il regista,
“noi rischiamo di fare le pubbliche relazioni della Mafia, presentandola nei suoi apetti suggestivi e sottolineandone la potenza in maniera romanzesca.”
 

Renato Guttuso - La Strage di Portella della Ginestra [1957]

È noto che Al Capone fosse compiaciuto di vedersi interpretato da Paul Muni in Scarface [Lo sfregiato, 1992] e non pochi “uomini di panza” – come sono chiamati i mafiosi –, in Sicilia, avevano visto con soddisfazione In nome della legge [1948] di Pietro Germi, che si concludeva, perfino, su una specie di fraterno abbraccio tra la legge dello Stato e le tradizioni isolane, rappresentate dalla Mafia.
Naturalmente, l’aspirazione di registi, quali Rosi e Ferrara, è, all’opposto, quella di far riaprire vecchi dossiers.
Nel film Il sasso in bocca vi sono, a detta di Michele Pantaleone, alcuni elementi che potrebbero interessare l’autorità giudiziaria per riprendere in esame casi archiviati. Uno di questi riguarda proprio la morte di Salvatore Giuliano: dopo aver ripercorso la carriera del picciotto, dagli anni della ventata separatista alla Strage di Portella della Ginestra, dai rapimenti alla collusione con le forze dell’ordine e agli screzi con la Mafia, il film ci fa vedere Turiddu in canottiera, seduto a tavola con un compare.
Un tipo di mezza età, con i baffi, serve al capobanda del vino drogato: Giuliano beve, cade in un sonne profondo e, subito, viene ucciso con un colpo di pistola dall’ospite.
Ne abbiamo sentito il nome, quando il compagno di Giuliano, alla sua domanda:
“Vi serve ancora qualcosa?”,
ha risposto:
“No, grazie, don Gaetano.”
Il nome, assicurava Pantaleone, è vero, l’autenticità dell’episodio è garantita: ve ne sarebbe abbastanza per riaprire il procedimento sulla morte del “re di Montelepre” e per colmare finalmente il famoso buco di sei ore.

di
Daniela Zini
        
Salvatore Giuliano e Gaspare Pisciotta



 Michael Stern e Salvatore Giuliano
Nella primavera del 1947, Salvatore Giuliano rilasciò una intervista al giornalista americano Michael Stern [1910-2009], che riuscì a raggiungerlo nel suo rifugio sui monti di Montelepre, dove lo fotografò: l’intervista fu rilasciata pochi giorni prima della strage di Portella della Ginestra e, in quella occasione, il bandito consegnò al giornalista una lettera per il presidente Harry Truman[24], in cui chiedeva aiuti e armi per la indipendenza della Sicilia, vaneggiando una annessione agli Stati Uniti d’America.

Ore 7 del mattino del 9 dicembre 1945. Il sole si è appena levato su una splendida giornata. Siamo nella difficile, inquieta Sicilia dell’immediato dopoguerra. Fuochi di bivacco brillano sui monti tra Caltagirone e Niscemi, si accentrano più numerosi intorno al borgo di San Mauro. Sta per accadere qualcosa di terribile, qualcosa che l’Italia ha, fortunatamente, dimenticato.
Già, nel fondovalle, si nota un imponente schieramento di forze armate. Carabinieri, agenti di Pubblica Sicurezza, interi reparti dell’esercito. Le compagnie si spiegano per il combattimento, le pattuglie iniziano ad avanzare. È presente anche una sezione di cannoni da campagna. Quel triste giorno le forze dello Stato italiano prendono di assalto il campo trincerato di San Mauro, dove si è arroccata la banda orientale dell’EVIS, l’Esercito Volontario Indipendentista Siciliano[25]. La banda occidentale dell’assurda formazione opera, contemporaneamente, tra Palermo e Partinico, al comando di un giovane, che diverrà, presto, famoso e che si chiama Salvatore Giuliano.
Quella della Sicilia orientale è, invece, agli ordini del comandante in capo dell’EVIS, Concetto Gallo [1913-1980] [http://palermo.meridionews.it/articolo/15252/edizione-straordinaria-lintervista-esclusiva-a-concetto-gallo-antifascista-ed-indipendentista/], e dispone di oltre 2mila uomini bene armati e addestrati.     
Verso le 10 del mattino, le formazioni dell’esercito e della polizia giungono a contatto con le avanguardie separatiste.
A mezzogiorno, tentano il primo attacco. Le accoglie un fuoco micidiale.
La stessa sera del 29, giungono da Catania nuovi rinforzi e il panico inizia a serpeggiare tra i separatisti assediati.
Durante la notte seguente, numerose defezioni si verificano tra le fila dell’EVIS.
Invano, Concetto Gallo tenta di rincuorare i suoi combattenti!
Lassù, tra i monti di Niscemi, i giovani illusi iniziano a comprendere di essersi imbarcati in una avventura assurda quanto antistorica; mentre i volgari banditi, che sono entrati a far parte del cosiddetto esercito separatista per pura sete di bottino, iniziano a temere per la propria vita.
La mattina del giorno 30, quando le forze dell’ordine ripartono all’attacco e occupano il centro abitato, trovano che solo 30 uomini sono restati ancora fedeli a Concetto Gallo.
Si combatte, per pochi minuti, alla disperata: altri giovani cadono inutilmente tra le petraie dell’altopiano. Molti si danno alla fuga, mentre Gallo [http://legislature.camera.it/_dati/costituente/lavori/doc/101nc.pdf], lo studente Amedeo Boni e il pastore Giuseppe La Mela vengono fatti prigionieri.
Questa triste, incredibile giornata segna la fine dell’EVIS, come formazione politica separatista. D’ora in avanti, Salvatore Giuliano resterà solo, sulle montagne di Partinico e la sua attività di bandito non sarà più coperta dalla maschera indipendentista.
Dell’EVIS non si sentirà più parlare. 
Eppure, per diverse settimane, nella primavera del 1945, mentre ancora si combatteva nell’Italia del Nord, l’esercito dei separatisti siciliani era stato una vera forza. Raggruppava nelle sue fila oltre 3mila armati, più infiniti simpatizzanti. Marciavano sotto la bandiera gialla e rossa, gli antichi colori della Sicilia e si salutavano militarmente levando ai bordi della coppola le tre prime dita della mano destra, a simboleggiare la mitica Trinacria.
Avevano armi, autocarri e danaro.
Alle ore 23 dell’antecente 30 settembre, a Palermo, il separatismo siciliano aveva, infatti, ricevuto il primo colpo. Quella notte, i principali esponenti del movimento antiunitario, rinfocolatosi, in Sicilia, a seguito del marasma guerra-dopoguerra, avevano tenuto una riunione presso lo studio dell’avvocato Antonino Varvaro. Oltre a Varvaro, avevano partecipato a quell’incontro l’onorevole Andrea Finocchiaro-Aprile, presidente del MIS [il Movimento Indipendentista Siciliano, un vero e proprio partito, di cui l’EVIS era la forza armata], l’avvocato Silvio Rossi e due o tre altri grossi esponenti. Uscita su via Cavour, la compagnia aveva preso per via Ruggero Settimo, avviandosi verso piazza Politeama. Non si erano accorti che una fila di vetture nere li seguiva passo passo. Giunti all’altezza dell’Extra Bar, i componenti del gruppo si salutarono e fu quello il momento che la polizia scelse per agire.
Qualche giorno prima, l’alto Commissario per la Sicilia, l’onorevole Salvatore Aldisio [1890-1964][26], aveva chiesto l’arresto dei capi separatisti per riportare l’ordine nell’isola e stroncare la tendenza antiunitaria. Venti agenti di Pubblica Sicurezza, agli ordini del questore Vincenzo Agnesina, balzarono dalle macchine e, pistola in pugno, circondarono Varvaro e Finocchiaro-Aprile. In un attimo li spinsero dentro le auto, che partirono a tutta velocità verso il porto. Una piccola unità della Marina Militare era, già, pronta. I capi separatisti furono portati a bordo e, immediatamente dopo, la unità prendeva il mare verso l’isola di Ponza, dove Varvaro, Finocchiaro-Aprile e gli altri restarono confinati, per molti anni.
In tale modo, il Movimento Indipendentista Siciliano era stato decapitato dei suoi dirigenti politici.
Il 29-30 dicembre successivo, come abbiamo visto, doveva perdere i suoi capi militari e il fiore dei suoi combattenti.
Il 17 giugno era caduto il suo esponente più discusso e interessante, il professore di diritto presso l’università di Catania, Salvatore Canepa. Era stato crivellato dai colpi dei “Novantuno”, insieme con altri due giovani, mentre a bordo di una motocarrozzetta, tentava di eludere un posto di blocco al bivio di Cesarò, sulla strada Catania-Randazzo.
Quelli che abbiamo narrato sono gli avvenimenti più clamorosi di una vicenda lunga, sanguinosa e complessa quanto altre mai: la storia del Movimento Indipendentista Siciliano. Si tratta di una storia ancora tutta da scrivere e i cui documenti sono, ancora, sepolti negli archivi delle Prefetture e tra le carte degli uomini politici italiani. Ma se è, oggi, difficile ricostruire con esattezza la cronaca di quei giorni, non altrettanto impossibile è rinvenire i motivi pratici e ideali che diedero luogo alla vampata separatista degli anni tra il 1943 e il 1947.
Fu un fenomeno legato ai tempi difficili che l’Italia attraversava e non bisogna dimenticare, mai, che, nello stesso periodo, anche altri moti centrifughi affiorarono nel nostro Paese, seppure con minore virulenza di quello siciliano.
Bisogna inevitabilmente rifarsi, per comprendere lo sfondo, sul quale operò il separatismo siciliano, alle condizioni cui era ridotta l’isola, nella primavera-estate del 1943.
Da almeno tre anni, la Sicilia era divenuta il centro strategico della guerra nel Mediterraneo[27], e da almeno diciotto mesi, conosceva una vera e propria occupazione tedesca, compiuta dapprima dai soli reparti della Luftflotte 2, che teneva sotto tiro Malta e il fronte egiziano, poi, da intere formazioni della Wehrmacht.
Quando la guerra di Erwin Johannes Eugen Rommel [1891-1944] si spostò prima a Tripoli, dopo, in Tunisia, l’isola conobbe, con qualche mese di anticipo rispetto alle altre regioni d’Italia, i grandi bombardamenti a tappeto, nei quali si stava specializzando l’aviazione statunitense. Sconvolti tutti i porti, semidistrutte le città, praticamente interrotti i traffici con il continente, la Sicilia apparve, subito, condannata alla fame e alla miseria.
Il sottofondo particolaristico dei siciliani fu, violentemente, portato alla luce della critica alla condotta della guerra e ai responsabili di Roma. Non soltanto una classe dirigente e una idea politica furono giudicati responsabili della situazione; ma la intera Nazione, la stessa Italia. Il fatto era che, quando a Milano, a Torino e nella stessa Roma ancora si poteva condurre una vita civile, ancora si mangiava e ancora reggevano alcune delle strutture del vecchio Stato, in Sicilia, sullo sfondo della eterna miseria dell’isola, già, imperversava il mercato nero, mentre riaffiorava il fenomeno del banditismo e riprendevano vigore le forze più antisociali.    
Il Movimento Indipendentista Siciliano si legò, allora, immediatamente alle forze più spurie ed equivoche che agivano in quell’agitato periodo.
La “esplosione” avvenne dopo lo sbarco alleato, ed è fin troppo chiaro quanto di essa fu dovuto alla potente suggestione che l’arrivo degli anglo-americani dovette esercitare sulla opinione pubblica locale.
Dopo la miseria, ecco l’abbondanza, sebbene falsa, delle retrovie alleate, dopo il pane di segatura, quello bianco di Charles Poletti  [http://www.storiaxxisecolo.it/secondaguerra/sgmcampagnaitalia5b.htm]. Non vi è dubbio che, almeno in un primo tempo, il separatismo siciliano sia stato sostenuto e sollecitato da alcuni agenti alleati.
Alcuni di essi erano sicuramente in buona fede e pensavano che fare leva sul sottofondo antifascista degli indipendentisti potesse riuscire utile alla causa alleata, mentre ancora si combatteva per liberare l’Italia occupata dai tedeschi.
Altri lo erano meno.
Sta di fatto che i sindaci siciliani nominati dagli alleati, dopo il loro sbarco, furono tutti tratti, al 90%, dalle fila del MIS.
Un’altra deleteria alleanza del MIS fu quella con alcuni gruppi sociali indubbiamente tra i più retrivi dell’isola. Si trattava degli strati agrari dell’interno e dei “feudatari” più chiusi alla inevitabilità della nuova situazione sociale, venutasi a creare con la sconfitta. Il separatismo di costoro aveva dichiarati scopi di conservazione sociale.
Sullo sfondo vi era la grande paura che la guerra e l’invasione portassero con sé la rivoluzione.
Una delle cause più potenti del passaggio di questi gruppi da un moderato regionalismo al separatismo più acceso, furono, senza dubbio alcuno, le leggi sugli ammassi, emanate da Roma nel 1944-45, in particolare quella che tendeva alla creazione dei cosiddetti “granai del popolo”.
Vi furono scontri sanguinosi, sulle aie siciliane, tra carabinieri, soldati e sindacalisti che andavano a requisire il grano, e “campieri”, “curatoli” e “guardaspalle”, legati alla Mafia agraria.
Appare qui, per la prima volta, questo nome tanto celebre quanto ancora così poco compreso.
La Mafia siciliana ha, indubbiamente, una grossa parte di responsabilità nell’insorgere del fenomeno “separatismo” come un fatto virulento e sanguinoso, negli anni a cavallo della fine della guerra in Europa.
La Mafia è presente nel momento separatista con tutte le sue caratteristiche principali. In primo luogo con il suo aspetto di associazione di collegamento tra elementi siciliani, da un lato, e americani, dall’altro. In secondo luogo, con la sua attività a favore della conservazione agraria. In terzo, finalmente, come organizzazione di protezione e di copertura del banditismo.
La storia dei rapporti tra banditismo e separatismo è, oggi, perfettamente, ricostruibile sulla scorta degli atti processuali e delle inchieste giornalistiche.
Il primo patto tra indipendentisti e fuorilegge fu stretto con la cosiddetta “banda dei fratelli Avila”, che agiva nella zona di Caltagirone; mentre il secondo, ben più gravido di risultati, prese il nome di “Accordo di Ponte Sagana” e fu concluso con il sinistro e complesso personaggio, che aveva nome Turi Giuliano.
L’incontro tra i dirigenti politici del movimento e il bandito fu organizzato in località Ponte Sagana, a pochi chilometri da Montelepre, dall’“arruolatore” dell’EVIS, Pasquale Sciortino.
Al convegno giunsero per primi, a bordo di una vecchia Bianchi, Concetto Gallo e due esponenti della reazione “baronale”. Giuliano apparve solo e disarmato, mentre i suoi uomini sorvegliavano la scena dietro le siepi di fichi d’India, con i mitra spianati.
Gli accordi furono rapidi.
Le forze del bandito dovevano passare sotto le bandiere dell’EVIS e costituire la sezione occidentale dell’esercito separatista; mentre Concetto Gallo si sarebbe occupato della Sicilia Orientale.
Salvatore Giuliano chiese 10 milioni, ne ebbe promesso soltanto uno, e, immediatamente dopo, diede inizio alla serie di attacchi alle caserme dei carabinieri.
Gli Avila, da parte loro, irregimentati nell’esercito orientale, trucidarono gli 8 militi della caserma del feudo “Nobile” in territorio di Gela. Li assalirono in più di 200.     
Fu alla strana confluenza di Mafia, banditismo e separatismo, sullo sfondo delle terribili condizioni obiettive in cui era ridotta l’isola, che si dovettero anche le tre giornate di sangue, iniziatesi, il 19 ottobre 1944, a Palermo. Anche questa è una triste e quasi ignorata pagina della Storia d’Italia: la chiamano, ancora, in Sicilia, la Strage del Pane [https://www.youtube.com/watch?v=nYwC36TCZ0I]..
Palermo era, indubbiamente, ridotta agli estremi.
Da tre giorni, i forni erano vuoti.
La mattina del 19, un corteo di impiegati si formò in via Maqueda e si diresse ordinatamente verso la Prefettura per chiedere aiuti di emergenza. La manifestazione degenerò quando intervennero strane turbe composte, in parte di noti mafiosi e uomini di mano. Intervenne l’esercito.
Ai primi colpi in aria i dimostranti sgombrarono le strade; ma vi rimase un buon numero di vere e proprie bande delinquenziali, perfettamente organizzate e armate. Per tre giorni, Palermo fu teatro  di scontri improvvisi e sanguinosi: a piazza Marina, a piazza Politeama, intorno alla stessa cattedrale.
Le bande avevano obiettivi precisi e tra essi, in primo luogo, l’ufficio delle imposte, quello del registro e la conservatoria delle ipoteche. In molti casi, raggiunsero il loro scopo, che era quello di far scomparire i documenti riguardanti i più noti mafiosi della Sicilia.
Fu in quelle terribili giornate che il grido separatista si levò più alto.
La repressione dei moti fornì nuova esca agli attacchi contro il Governo centrale e ancora una volta, come già era avvenuto nel corso dei secoli, la volontà autonomistica della Sicilia fu, artatamente, convogliata su una linea di rivendicazioni estremistiche, anacronistiche e antistoriche.
Quanto di buono e di accettabile vi era nella richiesta di una maggiore autonomia, nel seno della Madre Patria comune, fu travolto dalla fiammata separatista.
Una figura emerge dal passato, quella del battiloro palermitano Giuseppe D’Alesi, che si era messo a capo della rivolta del 1647 per chiedere al re spagnolo la restaurazione degli antichi privilegi regionali. Da Napoli era giunta la notizia che il popolo era insorto sotto la guida di un pescivendolo, Masaniello, e anche Palermo si muoveva.
Gli spagnoli tentarono, dapprima, di corrompere il “capo-popolo”, poi, sparsero la voce che anche lui fosse uno spagnolo e che agisse solo per ambizione personale.
La gente dei “cortili”, quelli della Kalsa e di Ballarò, si lasciò suggestionare e massacrò D’Alesi come traditore.
Bande di fuorilegge si dettero alla macchia e vi restarono per tutto il secolo, taglieggiando i viaggiatori in nome della indipendenza della Sicilia.
Più nettamente autonomistica la rivolta del 1773, che si concluse con la fuga del vicerè Giovanni Fogliari d’Aragona, un protetto di Elisabetta Farnese. Fanno da sfondo a questo episodio i casi che, in rapidissima successione, portano a dominare, a Palermo, i piemontesi di Vittoro Amedeo II, gli austriaci e, infine, gli spagnoli di don Carlo di Borbone. Sta di fatto che, nei brevi anni, in cui il re sabaudo ebbe il dominio dell’isola, la Sicilia conobbe qualcosa di simile a un decentramento amministrativo assai vicino all’autonomia. Fu la stessa distanza di Palermo da Torino, nonché la relativa debolezza del re piemontese, a favorire l’esperimento. Ma, nel 1733, Carlo di Borbone sbarcò in Toscana con un esercito, entrò in Napoli, il 10 maggio dell’anno successivo, e prese Palermo, alla fine di giugno del 1735.
Gli imperiali di Austria, cui il trattato dell’Aja aveva donato il potere in Sicilia, non opposero che fiacchissima resistenza.
Il 3 luglio 1735, don Carlo di Borbone divenne re di Sicilia e si incoronò nella Cattedrale di Palermo con il vecchio cerchio di ferro che aveva cinto il capo di Federico II. È nota la profonda azione riformatrice che il re di Borbone intraprese nei suoi Stati italiani con il concorso e la guida del ministro toscano Bernardo Tanucci. Questa azione si approfondì quando a Carlo successe Ferdinando I, ancora minore di età, e sottoposto quindi a un consiglio di reggenza. di cui Tanucci fu l’anima e lo sprone. Ma riforme moderne, tra Napoli e Palermo, volevano dire essenzialmente creazione di uno Stato, di un potere accentratore e livellatore, per ciò stesso nemico delle vecchie autonomia e particolarità regionali, di cui anche la Sicilia aveva bisogno per vivere.
La rivolta del 1773 divampò su questo sfondo. Fu, al solito, una esplosione estremamente composita nelle finalità e nelle forze che si mobilitarono: una fiammata, che presto si spense.
Ma un nuovo ciclo storico era alle porte. Si avvicinava il momento in cui la volontà autonomistica della Sicilia poteva inserirsi a buon diritto nella grande politica europea. Nel febbraio del 1806, Ferdinando I di Borbone si imbarcava a Napoli, ormai minacciato da presso dalle truppe napoleoniche e veniva a porre la sua corte a Palermo. L’isola restava protetta dalla flotta inglese e il suo destino si distaccava da quello dell’Europa continentale. Napoleone piantava le sue insegne, da Madrid fino a Mosca; ma non riusciva a fare sua l’isola al centro del Mediterraneo. Palermo diveniva capitale.In queste condizioni favorevoli la secolare battaglia per l’autonomia siciliana toccò il suo traguardo più alto. Lo scontro si svolse sul terreno parlamentare e fu condotto con abilità dalla antica assemblea siciliana dei Tre Stati [nobili, clero e militari], che il re aveva dovuto convocare per chiedere il mantenimento della corte. La richiesta regale fu per un donativo di 360mila onze; ma ben presto il contrasto finanziario sboccò in un dibattito costituzionale.
Infine, venne approvata la Costituzione del 1812, che, da parte della aristocrazia più illuminata dell’isola, segnò la volontaria rinuncia ai privilegi feudali e l’inizio di una nuova politica di alleanze con la nascente borghesia contro il centralismo napoletano. Per la prima volta, dopo i giorni dei Vespri, la Sicilia ebbe un suo esercito e una sua bandiera. Il giorno 8 dicembre 1816, il breve sogno ebbe termine. Quel giorno Ferdinando I di Borbone, che la sconfitta di Napoleone aveva ricollocato sul trono di Napoli, metteva fine all’autonomia dell’isola, sopprimeva la sua bandiera e il suo esercito, aboliva la Costituzione del 1812 e, perfino, quella antica, che aveva permesso la riunione del Parlamento, nel 1806. Iniziò, da quel giorno, la terza fase della lotta autonomistica siciliana, durante la quale i motivi più propriamente regionalistici e particolari riuscirono a fondersi, pressoché totalmente, nel generale moto di risveglio e di indipendenza italiano, fino al plebiscito unitario del 1860.
Fortemente colorato di motivi separatisti fu il moto patriottico di Palermo del luglio del 1820. A Napoli, la sollevazione militare e popolare aveva facilmente imposto al re la Costituzione spagnola. A Palermo, nobili e popolo si sollevarono, invece, per la loro vecchia Costituzione del 1812. Il movimento, fuori Palermo, nel cuore delle campagne riarse, affamate di pane e di Giustizia, non andò esente da tumulti e saccheggi. La Sicilia si trovò sola, non solo contro il Borbone, ma anche contro i liberali, che, a Napoli, avevano vinto sotto la guida di Guglielmo Pepe e che consideravano come un tradimento alla causa comune l’ombreggiatura particolaristica dei moti isolani. Il fratello di Guglielmo Pepe, Florestano, fu inviato a Palermo con 7mila uomini e riuscì ad accordarsi con gli insorti per la convocazione di una assemblea statuente. L’assemblea, il 22 settembre seguente, decideva per l’unione con Napoli e per l’autonomia amministrativa. Ancora una volta, fu una strana ed equivoca alleanza tra i centri sociali più retrivi e la plebaglia più affamata a rendere nulli gli accordi per una ordinata autonomia. Prima Florestano Pepe, poi, il generale Pietro Colletta, dovettero reprimere le rivolte separatistiche della plebe e di certi gruppi baronali. E lo fecero con mano pesante, sicché nuovi lutti e rancori si aggiunsero agli antichi.
Se, nel 1848, si poté evitare tutto questo, bisogna, tuttavia, ricordare che anche la rivoluzione siciliana di quell’anno fatidico fu, decisamente, antiaccentratrice, federalista, regionalistica.
Fino dall’inizio dei moti, il Parlamento siciliano guidato da Ruggero Settimo, mise l’accento sulla necessità di creare, in Italia, una Lega di Stati Federati, di cui ogni membro fosse, per conto suo, “libero e indipendente”. Il nuovo patto unitario tra gli italiani non poteva prescindere, per i siciliani, da una costituzione di tipo confederativo, che lasciasse a ogni regione le sue caratteristiche, la sua fisionomia e le sue leggi. Fu, del resto, con questo spirito che la classe dirigente siciliana del 1860 accettò l’impresa garibaldina e diede la sua entusiastica adesione all’unità del Paese. Su questa linea erano Mariano Stabile, Emerico Amari, Michele Amari, Giuseppe La Farina. È cosa certa, d’altro canto, che anche i più avvertiti uomini politici piemontesi, lombardi e toscani fossero altrettanto convinti che un certo decentramento fosse necessario per l’isola. Purtroppo tutte le speranze andarono deluse di fronte all’azione della minoranza reazionaria. Il sorgere del banditismo, la rete degli intrighi borbonici, il passaggio del clero fino ad allora risorgimentale alla difesa dello statu quo ante, convinsero il Settentrione alla necessità di un ferreo accentramento.
Ancora una volta, l’autonomismo siciliano divenne separatismo.
La nuova “vampata” separatista prese nome dalle “sette giornate di Palermo” del settembre 1866. Furono giorni duri e bui, assai simili nei motivi e fino nella cronaca alle giornate dell’estate del 1944. La repressione fu sanguinosa. Di fatto, in quelle giornate, solo la borghesia grande e piccola, restò fedele allo Stato unitario; non la grande aristocrazia, ribellatasi alla tassazione piemontese e alle nuove misure antifeudali, non gli strati popolari, avversi alla leva, da cui la Sicilia era stata, per secoli esente, e delusi dalla mancata riforma sociale che avrebbe dovuto seguire il moto risorgimentale.
Quando il giusto sentimento autonomistico siciliano si tinge di separatismo, l’isola conosce i suoi giorni più oscuri.
È stata grande saggezza della Repubblica Italiana rinvenire le forme costituzionali mediante le quali convogliare l’antico e giustificato sentimento autonomista della Sicilia entro l’ambito del moderno decentramento amministrativo.
Ma le ombreggiature di separatismo hanno giovato alla causa dell’isola?   

Daniela Zini
Copyright © 21 luglio 2015 ADZ



[1] L’era di Nikolaj Ezov [1895-1940], capo del Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del [NKVD], dal 1936 al 1938, è stato il periodo più sanguinoso del Terrore staliniano. Nessuno, tranne Stalin, era al di sopra dei sospetti dei funzionari del NKVD. Alla fine del 1938, Stalin proclamò la fine delle “purghe” ed Ezov scomparve misteriosamente.

[2] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[3] Secondo la sorella del giornalista Mino Pecorelli, il generale Dalla Chiesa aveva incontrato il fratello, pochi giorni prima che venisse ucciso, e il generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro, consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti. Secondo il collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro di Aldo Moro, che infastidivano Andreotti. Buscetta, inoltre, affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
“[Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui.”

[4] All’inizio del mese di aprile del 1982, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva scritto al presidente del consiglio Giovanni Spadolini:
“La corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la “famiglia politica” più inquinata da contaminazioni mafiose.”
Un mese dopo, veniva, improvvisamente, inviato in Sicilia come prefetto di Palermo per contrastare l’insorgere dell’emergenza Mafia.
A Palermo, lamentò, più volte, la carenza di sostegno da parte dello Stato.
Emblematica e carica di amarezza rimane la sua frase:
“Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì.”
Chiese di incontrare Giorgio Bocca, per lanciare attraverso i media un messaggio allo Stato. Nell’intervista del 7 agosto 1982, vi è la presa d’atto del fallimento dello Stato nella battaglia contro Cosa Nostra, delle connivenze e delle complicità che hanno consentito alla Mafia di agire indisturbat, per anni. Di fatto la pubblicazione dell’articolo di Giorgio Bocca non suscitò alcuna reazione da parte dello Stato, solo quella della Mafia, che aveva, già, nel mirino il generale.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo, quali mandanti, i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina, Bernardo Provengano. Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Il generale Dalla Chiesa aveva svolto indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, nel 1970, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei.
Le carte relative al sequestro di Aldo Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, dopo la sua morte, svaniscono nel nulla: non è stato accertato se sono state sottratte in via Carini o se trafugate nei suoi uffici.
 
[5] Secondo la testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979, Pietro Scaglione“fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni.
 
[6] Il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo di Palermo, stava indagando sul caso Mattei. La sera del 20 agosto 1977, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, perse la vita davanti a un bar di Ficuzza, frazione di Corleone.
Così ricordò, quella tragica sera del 1977, il giornalista Mario Francese, su Il Giornale di Sicilia, all’indomani dell’omicidio:
“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una “128” verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad “U” e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di “Minerva”. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.
Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.
Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.
Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.
Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”

[7] L’uccisione di Giuseppe Impastato, avvenuta in piena notte, riuscì a passare, la mattina seguente, quasi inosservata, perché, proprio in quelle ore, veniva ritrovato il corpo senza vita del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, in via Caetani, a Roma.
“È nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio…
Negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare…
Aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato…
Si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore…”
Queste sono alcune delle parole, con cui i Modena City Ramblers descrivono Peppino Impastato nella loro canzone I cento passi, ispirata all’omonimo film del 2000 di Marco Tullio Giordana.
 
[8] Giorgio Boris Giuliano fu ucciso da Leoluca Bagarella, che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle.

[9] Precedentemente al suo assassinio, aveva condotto alcune indagini sull’uccisione di Giorgio Boris Giuliano, durante le quali aveva scoperto l’esistenza di traffici di stupefacenti. Tuttavia, apprestandosi a lasciare Monreale, si era premurato di consegnare tutti i risultati, cui era pervenuto al giudice Paolo Borsellino.
Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, veniva ucciso il capitano Mario D’Aleo, che aveva preso il posto di Basile, quale comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, sempre per mano di Cosa Nostra. Insieme a D’Aleo e all’appuntato Giuseppe Bommarito, trovò la morte, in quell’agguato, anche l’ex-autista di Basile, il carabiniere Pietro Morici.

[10] Le indagini giudiziarie procedettero con difficoltà e lentezza, anche se una chiara linea interpretativa del delitto si rileva negli atti giudiziari che portarono la Procura di Palermo a quella corposa requisitoria sui “delitti politici” siciliani che, depositata il 9 marzo 1991, costituì l’ultimo atto investigativo di Giovanni Falcone. Questi puntava fermamente sulla colpevolezza dei terroristi di estema destra Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, membri dei NAR, quali esecutori materiali del delitto, in un contesto di cooperazione tra movimenti eversivi e Cosa Nostra. Solo dopo la morte di Falcone, l’uccisione di Mattarella venne indicata esclusivamente come delitto di mafia dai collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo.
Nel 1993, Buscetta, in particolare, dichiarò in un nuovo interrogatorio:
“Stefano Bontate e i suoi alleati non erano favorevoli all’uccisione di Mattarella, ma non potevano dire a Riina [o alla maggioranza che Riina era riuscito a formare] che non si doveva ammazzarlo [...] In ogni caso [...] fu certamente un omicidio voluto dalla Commissione.”

[11] Pierre Michel scoprì che i marsigliesi erano in affari con la ‘ndrangheta calabres, in particolare, per quanto riguardava gli investimenti di droga nel Nord dell’Italia. Quando venne ucciso, Michel stava collaborando con alcuni magistrati di Palermo. Dalle cronache dell’epoca si apprende che, solo poche settimane prima dell’omicidio, il giudice aveva ricevuto, a Marsiglia, tre colleghi di Palermo. Uscirono fuori solo due nomi di magistrati italiani che mantenevano rapporti di collaborazione con Michel: Giovanni Barrille e Giusto Sciacchitano.
E il terzo chi era?
Bisognerà aspettare il quinto anniversario del delitto per intuirlo. Alla commemorazione, infatti, appare Giovanni Falcone, presente in Francia per altri impegni, che fa intuire ai cronisti presenti un’antica collaborazione con il giudice assassinato nel 1981.

[12] Paolo Giaccone è assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo. Aveva ricevuto l’incarico di esaminare impronte digitali, lasciate dai killers, che, nel dicembre del 1981, avevano scatenato una sparatoria tra le vie di Bagheria.

[13] Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia [http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/]. Già sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle calunnie, di cui erano stati oggetto nel pro­cesso. Questa sentenza significa per loro un fatto chiaro:
“LA GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano, molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce cosí familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi.”
E ancora:
“Sono arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno dei rapporti fra di loro.
È superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale, alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: «il tale è un capo della mafia», significa soltanto che egli è in buoni rapporti con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in identico modo.”

[14] Per circa trent’anni, dalla fine della guerra agli inizi degli anni 1970, tutti i Paesi industrializzati conobbero una crescita economica spettacolare, tanto che questa fase è passata alla storia come i “Trenta Gloriosi”: la produzione mondiale in termini reali, senza tenere conto dell’aumento dei prezzi, si triplicò.
Nei primi anni del dopoguerra, lo sviluppo interessò soprattutto gli Stati Uniti.
I Paesi europei, invece, faticavano a ricostruire le proprie economie sconvolte dalla guerra e colpite dall’inflazione e dalla svalutazione monetaria.
L’amministrazione Truman era consapevole che per assicurare all’Occidente crescita economica e stabilità politica sarebbe stata necessaria una rapida ripresa dell’Europa: di qui la decisione di varare il Piano Marshall.
A questo punto, iniziò una fase di intenso sviluppo, durata fino al 1973-75.
I principali fattori che resero possibile il grande sviluppo dell’economia occidentale furono:
-           la creazione di un ordine economico e monetario stabile, imperniato sul dollaro, definito, già, nel luglio 1944, con gli Accordi di Bretton Woods tra gli Usa e i Paesi impegnati nella lotta con l’Asse;
-           il basso costo delle materie prime e delle risorse energetiche;
-           la rapidissima diffusione delle innovazioni tecnologiche e di nuovi materiali che consentì la diffusione di beni di consumo durevoli a prezzo accessibile;
-           l’esplosione dei consumi di massa, favorita dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti [a esempio: la televisione], da più efficaci forme di commercializzazione [la vendita a rate] e, infine, dalla crescita della occupazione e delle retribuzioni, che rese disponibile per i consumi una quota sempre più ampia del reddito nazionale;
-           il grande sviluppo dei trasporti, legato alla diffusione della motorizzazione privata e all’utilizzo su larga scala dell’aviazione civile.
Accanto alla crescita economica, gli anni 1950-73 furono caratterizzati da una forte attenuazione del ciclo economico, vale a dire di quell’alternarsi di fasi di sviluppo con altre di stagnazione o di recessione, che aveva caratterizzato l’economia capitalistica fino dal suo nascere.
In questo periodo non si registrano crisi economiche di rilievo, ma solo momenti di rallentamento.
Ciò fu dovuto, oltre che alla stabilità del sistema monetario internazionale, alla adozione di politiche economiche di tipo keynesiano. Queste erano basate sulla esperienza del New Deal e sul principio che gli strumenti della politica economica, e, in particolare, la spesa pubblica, debbano essere utilizzati per sostenere la domanda globale, ossia l’insieme dei beni e dei servizi richiesti al sistema economico dai cittadini, dalle imprese e dallo Stato.
L’autorità politica venne assumendo un ruolo sempre più centrale nella gestione dell’economia. In molti Paesi europei questo fenomeno si manifestò in tre principali forme:
-           l’impostazione della politica economica in chiave espansiva;
-           l’ampliamento della funzione imprenditoriale dello Stato, con la creazione di grandi imprese pubbliche [a esempio, in Italia, la Montedison e l’Eni] e la nazionalizzazione di alcuni settori-chiave dell’economia [energia, trasporti, credito], giungendo a creare sistemi di economia mista tra capitale pubblico e privato;
-           l’adozione generalizzata dello Stato Sociale, o Welfare State, vale a dire di politiche rivolte a erogare a tutti i cittadini, attraverso il sistema fiscale e la spesa pubblica, servizi e assistenza sociale.

[15]Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio dall’errore di trascrizione di un brigadiere, è stato tra gli imputati al maxiprocesso di Palermo ed è morto in carcere.

[16] Per l’omicidio dell’ispettore capo Giovanni Lizzio è stato condannato all’ergastolo, con sentenza passata in giudicato, il capomafia Benedetto “Nitto” Santapaola.

[17] Nel suo diario, Pietro Nenni, annotò:
“È un luogo circondato quasi di venerazione perché lì parlò Nicola Barbato – politico e tra i fondatori dei Fasci Siciliani dei Lavoratori – nel 1894, per festeggiare il Primo Maggio. Cominciava a parlare il vecchio compagno Schirò quando dai monti si è aperto il fuoco sulla pacifica folla contadina. Dapprima i manifestanti hanno creduto a fuochi di gioia... Poi sono caduti i primi muli e i primi cristiani.”

[18] Mario Scelba [1901-1991] conosceva il suo concittadino Don Sturzo fino dalla più tenera età e ne divenne segretario particolare nel 1921. Aderì così subito al Partito Popolare. Durante il ventennio esercitò la professione di avvocato civilista, e divenne amico di Alcide de Gasperi. Nel 1943, sbarcati gli alleati in Sicilia, contribuì a scrivere il primo documento programmatico del partito, Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana.
Il suo nome è legato alla Legge n. 645 del 1952, nota come Legge Scelba, che vieta l’apologia del regime fascista e del Partito Nazionale Fascista, che è classificata come reato.
Ostile al centrosinistra, dopo l’avvento del primo governo Moro, nel quale, per la prima volta, entravano a far parte i socialisti decise di assumere una posizione defilata.
Nel 1966, fu invitato a far parte del terzo governo Moro, sempre di centrosinistra, ma rifiutò l’offerta. 

[19] Secondo le indagini dei carabinieri dell’epoca, l’uccisione di Santo Fleres fu un regolamento di conti tra la banda Giuliano e la Mafia per la mancata spartizione di un riscatto proveniente da un sequestro di persona.

[20] Chi è stato a tradirlo? Dove è stato ucciso? Come? E quando? La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo confessare di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo dei dramma o è stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse cercare il pelo nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei dubbi che inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato sul posto di ricostruire la scena non cesserà per questo di essere interessante.
A Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida [dice la relazione ufficiale] hanno riconosciuto da lontano il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini percorreva la via Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario è riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece è stato inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha risposto a sua volta con la pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il brigante ha sperato di trovare scampo entrando in un cortile e là, mentre tentava di dare la scalata al muro di cinta oltre il quale c’è un piccolo orto e poi la campagna, è stato freddato con una raffica di mitra dal capitano.
Dunque nessuno poteva immaginare in anticipo che Salvatore Giuliano sarebbe entrato in quel cortile. Eppure parecchi civili delle case confinanti affermano d’aver inteso fin dalla mezzanotte un rumore di tegole smosse e un bisbigliare come se vi fosse gente sui tetti. Stettero un poco in ascolto, ma quello strano trambusto dopo un quarto d’ora si chetò. Nessuno diede peso alla cosa e di lì a poco in via Mannone tutti ripresero a dormire, eccetto tre uomini che per le esigenze del loro mestiere dovevano già essere a bottega: il proprietario e i due garzoni del forno Lo Bello, che è sullo stesso lato della strada, a venti metri dall’ingresso del cortile. Era una notte afosa, e nell’interno del panificio il caldo era insopportabile. I due garzoni che avevano finito di impastare il pane e aspettavano che lievitasse erano usciti sulla via e stavano chiacchierando accovacciati sul marciapiede, con le schiene nude appoggiate agli stipiti. Ma la prima sigaretta che essi avevano acceso non era ancora finita quando due carabinieri, spuntando dall’ombra, si avvicinarono e intimarono loro di ritirarsi e di sprangare porta. L’ingiunzione era stata fatta con il tono di chi non ammette repliche. Ci furono invece discussioni e proteste, ma non valsero a nulla. Di fronte al dilemma o chiusi in bottega o in guardina non era certo il caso di indugiare troppo nella scelta. I garzoni obbedirono.
È molto probabile tuttavia che il mattino seguente le clienti del fornaio Lo Bello abbiano trovato da ridire sulla confezione del pane. La curiosità di sapere quello che stava per accadere sulla strada non poteva certo permettere al panettieri di attendere con diligenza al consueto lavoro. Avevano lasciato i battenti un pochino socchiusi e di tanto in tanto andavano ad origliare. Così non sarà esagerato dire che l’aria lacerata dal primo sparo vibrava ancora quando gli occhi dei fornai erano già incollati alla fessura. Sembrò loro che la via fosse deserta. Questa impressione però è di scarsa importanza perché durante la notte l’illuminazione della periferia di Castelvetrano viene ridotta e le poche e fioche lampadine che restano accese riescono a proiettare solo un piccolo cerchio di luce al centro della strada. Non videro dunque entrare nessuno nel cortile. Scorsero invece un uomo che ne usciva, che passò correndo sotto un lampione. Lo videro di spalle per un attimo e tutto quello che seppero dire di lui è che si trattava di un uomo forse giovane, tarchiato, che camminava a piedi nudi. Ma vedremo dopo quale parte attribuisca la fantasia popolare a questo personaggio.
La via Mannone parte dalla piazza del mercato, taglia in linea retta il rione orientale del paese e finisce nella campagna. Nel tratto che va dal mercato al cortile non ci sono trasversali. Da che parte ci arrivò Giuliano fuggendo da via Gagini? Dal mercato dopo aver attraversato la piazza della torre dove sono ininterrottamente di fazione due agenti, dal corso dove a qualunque ora c’è sempre gente scamiciata che passeggia, dal verziere dove c’è un grande negozio di fruttivendolo che resta aperto tutta la notte con le luci accese e dove attorno ai banchi e ai cumuli di ceste che non vengono mai rimossi passeggiano continuamente i guardiani? Evidentemente no, perché nessuno ha visto né lui né gli inseguitori. Allora è venuto dalla via Gioberti, che è dalla parte opposta, e, giunto al crocicchio di dove poteva scorgere davanti a sé le prime siepi e i primi alberi della campagna, ha piegato invece in via Mannone verso il centro del paese. L’illogicità di questa decisione stupisce molti. Il lettore tuttavia non ci faccia troppo caso perché sono tante le ragioni che possono avere spinto il fuggitivo ad abbandonare la via più facile per quella più rischiosa. È, stato detto piuttosto che la sparatoria era cominciata in via Gagini ed era continuata da una parte e dall’altra lungo tutto il percorso. Ma per quanto si siano interrogati molti abitanti di quella zona, non si è trovato nessuno che ricordasse di aver udito un solo sparo. Eppure le finestre erano spalancate per il caldo opprimente. La notte in quel rione è silenziosa. Una pistolettata o una scarica di mitra avrebbero dovuto destare anche chi ha il sonno più duro.
Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza però è in contrasto con la versione ufficiale. Questa dice che il brigante esplose 52 colpi col moschetto mitragliatore, che al cinquantatreesimo si inceppò. Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile e impugnò la pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso per primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero dovuto susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane [Giuliano che spara sulla strada], altra raffica dopo una pausa di silenzio [Perenze che fa fuoco all’ingresso del cortile]; subito dopo forse qualche colpo di pistola [Giuliano che, prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa], forse il Thompson che risponde ancora [Perenze che ha innestato il caricatore nuovo]. Invece gli abitanti di via Mannone [trascureremo i nomi della gente minuta facile ad accettare ed a ripetere come esperienza propria il racconto altrui e citeremo soltanto il pretore di Castelvetrano, avvocato Giovanni De Simone, e il colonnello a riposo Santorre Vizzinisi] sono unanimi nel ripetere che si sentirono prima cinque o sei colpi di pistola sparati sotto l’arco di ingresso o nel cortile, poi due raffiche di mitra distanziate da un breve intervallo. Subito dopo si udì la voce dei capitano che gridava a qualcuno di portare un po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare col calcio del moschetto alla porta dell’unica abitazione che si apre sul cortile. Parleremo in seguito dell’interpretazione che la fantasia dei diffidenti siciliani dà a questo particolare. Sarà bene tuttavia citare sin d’ora l’obiezione più comune: che i feriti siano tormentati dalla sete è una di quelle nozioni elementari che anche il più rozzo dei pastori possiede. È tra l’altro un vecchio motivo della retorica popolare. Ma questa arsura viene immediatamente, appena uno è colpito, oppure è conseguenza del dissanguamento, della febbre provocata dalle ferite e sopraggiunge dopo un certo periodo di tempo?
E perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d’oro per il quale aveva una bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato molti, era l’ultima cosa che si togliesse coricandosi, la prima che cercasse al risveglio? C’erano poi altri particolari che alimentavano il dubbio e, apparentemente, con maggior evidenza: alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche.
Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia [aveva oltre due palmi di diametro] non c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su. Da Trapani a Sciacca, a Santa Ninfa, a Partanna non c’è uno che non sorrida quando gli si parla del famoso furgone sul quale gli uomini del colonnello Luca travestiti da cinematografari percorrevano le campagne e sostavano nei paesi fingendo di girare un documentario, perché Salvatore Giuliano, tradito dall’ambizione e dalla smania di pubblicità, lasciasse le sue montagne e cadesse nella trappola.
Per quanto avesse incollate su una fiancata due grosse strisce con le scritte: Gazzetta dello Sport, Il Paese, e su una terza striscia di carta dipinta a mano che attraversava di sbieco il lato opposto si leggesse: Le avventure di Paperino, tutti, anche i ragazzini, sapevano che si trattava di una radiotrasmittente mobile della polizia capace di collegare Trapani a Palermo. Cosa che tra l’altro era dimostrata con evidenza dall’antenna molto alta che non si poteva certo né sopprimere né camuffare. Proprio Giuliano avrebbe dovuto lasciarsi ingannare da un trucco così grossolano? E allora? È forse possibile rispondere alle domande che sono state poste al principio del discorso? Si può tentare. Per un buon tratto di strada anzi cammineremo su terreno sicuro e, quando usciremo dalla realtà della cronaca per riferire le congetture che molti fanno, avvertiremo onestamente il lettore.
È certo che non si manca affatto di rispetto al colonnello Luca né a chi sulla scala gerarchica sta più in alto o più in basso di lui dicendo che la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore Giuliano è camuffata, reticente su certi punti, su altri imprecisa. Poco o molto, tutti i rapporti che la polizia rende noti al pubblico devono essere necessariamente così. Vi sono circostanze che non possono essere rivelate, promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna salvare dalla vendetta. Perfino davanti al giudice e nei casi più gravi la legge concede al funzionario di polizia il diritto di tacere la verità: quando gli si chiede il nome del confidente, di chi lo ha messo sulle tracce, lo ha aiutato a formulare l’accusa, ad arrestare il colpevole. Il furgone con l’etichetta Le avventure di Paperino non ha nessuna parte nel dramma. Il più grande aiuto allo sterminio della banda di Montelepre e del suo capo è venuto dalla mafia, ed è chiaro che ciò non significa affatto che la polizia abbia sollecitato o anche soltanto incoraggiato quell’aiuto. Un’alleanza tra Giuliano e i mafiosi era nata naturalmente al principio della carriera del brigante. Turiddu aveva bisogno dell’appoggio dell’onorata società e a quegli altri era comodo speculare sulla paura che il nome del brigante incuteva. Ma poi i capimafia, che erano stati i primi esattori della banda, esagerarono. Imposero riscatti che erano cinque volte superiori a quelli che il bandito intendeva richiedere e intascarono la differenza.
Cominciarono a molestare, sempre trincerandosi dietro quel terribile nome, Calcuni che avevano resi grossi servigi a Giuliano e che ne avevano avuto promesse di protezione. Il contrasto si aggravò al punto che Turiddu, assieme a pochi dei suoi uomini, tra i più fedeli, scese sulla piana di Partinico e in pieno giorno vi uccise a pistolettate i più alti capi dell’associazione criminosa e segreta. Le vittime non avevano però un grosso prestigio oltre l’ambito del loro paese, perché oggi non esiste più una mafia unica che abbia giurisdizione su tutta l’isola, ma tante mafie locali autonome e spesso nemiche. Il brigante sperava di giocare su queste rivalità territoriali e in parte ci riuscì: infatti fu condannato a morte dalla sola mafia di Partinico, mentre sembrò che continuassero ad essergli amiche; e invece era soltanto una maniera di temporeggiare aspettando il momento opportuno per liberarsi di lui. Per cinque anni i rapporti tra le due della delinquenza siciliana seguirono così alterne vicende: Giuliano, per tenersi buoni quei pericolosi vicini, si buttò talvolta in imprese rischiose dalle quali non avrebbe potuto trarre un utile diretto [tra le altre si dice l’eccidio Portella della Ginestra]; la mafia gli guardò le spalle, lo garantì dalle delazioni. Ma è difficile che due galli nello stesso pollaio possano vivere l’uno accanto all’altro senza cavarsi gli occhi. L’equilibrio era mantenuto soltanto dalla straordinaria potenza di Giuliano. Il giorno che questa decadde, la sentenza di Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte le mafie.
Si voleva perdere Giuliano, ma era sempre rischioso mandargli un sicario secondo il classico sistema. Per farlo cadere cominciarono a togliere la protezione ai suoi rompendo la legge dell’omertà. Imposero che quelli della banda, ovunque fossero, dovessero segnalati alla polizia. Così a uno a uno furono arrestati molti dei fuorilegge, i più sicuri scherani della banda di Montelepre. Quasi sempre chi si lasciava scappare una preziosa confidenza non era affiliato alla mafia, ma era costretto dalla mafia ad ingoiare la paura e a farsi delatore. Il 27 giugno scorso, poco prima di mezzogiorno, un carrettiere mafioso che percorreva la provinciale per Trapani con un carico di pomodori, giunto in località Lozucco, a pochi chilometri da Partinico, vide sbucare da un cespuglio due uomini che gli mossero incontro e gli intimarono di fermarsi. Erano Frank Mannino e Nunzio Badalamenti, l’amministratore e il più spietato sicario della banda Giuliano che ormai poteva disporre di non più di sette od otto gregari. I tre si conoscevano da tempo, perché il carrettiere aveva avuto modo in passato di rendere qualche servigio ai briganti. Mannino e Badalamenti erano usciti dal nascondiglio avendo appunto ravvisato in lui un amico.
Domandarono: va verso Castelvetrano vossia?. L’uomo rispose di sì. I briganti gli chiesero allora di nasconderli sul carro e di portarli fino alle porte del paese. Così furono vuotate due ceste [quelle che si usano in Sicilia per il trasporto dei pomodori sono molto grandi, a trono di cono, alte un metro e cinquanta e larghe altrettanto].
I banditi vi si accovacciarono dentro e furono coperti con pomodori. Là sotto è chiaro che riuscivano a respirare ma non potevano certo vedere. E di lì a poco, quando sentirono il cavallo fermarsi, accettarono per vere le rassicuranti spiegazioni del carrettiere. Il veicolo invece si trovava in quel momento davanti alla caserma dei carabinieri di Alcamo e non è necessario dire come finisse la storia. La polizia tenne segreto l’accaduto. Giuliano non seppe che altri due dei suoi uomini erano caduti in trappola.
Ora bisognerà passare sul terreno delle congetture. Mannino e Badalamenti andavano a Castelvetrano. A fare che cosa? Conoscendo l’epilogo di questa storia, è facile arguire che ci andassero convocati dal loro capo e quindi che sapessero dove questi si teneva nascosto. In carcere possono essere stati indotti a cantare. Uno dei due [Mannino?] può essersi lasciato convincere a tradire il suo capo, a consegnarlo vivo o morto. Ecco chi era il compagno di Giuliano la notte del 5 luglio; e che si sia parlato di quella sua misteriosa scomparsa subito dopo l’avvistamento della pattuglia, è cosa ovvia. Può darsi invece che la verità sia un’altra. Il traditore non si sarebbe affatto allontanato dal suo capo, ma gli sarebbe stato al fianco facendogli da guida. Lo ha portato in trappola nel luogo prestabilito, dove i carabinieri lo attendevano in agguato. Giunti i due sulla soglia del cortile, la situazione si faceva oltremodo difficile e pericolosa: se la guida continuava a stare vicino al capo, c’era modo di finire sotto le pallottole degli agenti; se proprio in quel momento tentava di sganciarsi da lui, c’era caso che, intuendo il tradimento, Giuliano facesse fuoco su di lui. Il modo migliore di cavarsela per un’anima perversa era di sparare a bruciapelo con la pistola sul capo.
Ecco così spiegata la sequenza dei colpi, le ferite più grosse, slabbrate, al fianco, l’ombra che esce di corsa dal cortile e si avvia verso la campagna, dove l’attende un’auto della polizia: è comprensibile la sua fretta di tornare in carcere.
Ma la grossa macchia di sangue sulla schiena, la tumefazione di alcune ferite e la freschezza di altre, l’essere Giuliano in maglietta, senza denaro e senza orologio, sono circostanze che non si spiegano affatto con questa storia. Allora facciamo un passo più in là e ascoltiamo le congetture di qualcuno a cui non piace di mettere il morso alla propria fantasia. Mannino o Badalamenti, o chiunque sia stato il traditore, entrò nella camera dove era nascosto Salvatore Giuliano, ma gli mancò il coraggio di svegliarlo e di condurlo fuori. Preferì sparargli a bruciapelo nel sonno. Poi, si sa: a nessuno poteva far piacere che si venisse a conoscere un così brutto episodio.
Forse anche colui che ospitava il brigante era a parte del primitivo progetto, aveva aderito a facilitare la cattura e non si poteva ripagarlo lasciandogli in casa il cadavere [quel cadavere] fino al momento in cui sarebbero venuti il giudice, i fotografi, i becchini. Allora lo portarono nel cortile di via Mannone. Spararono. Il capitano andò a bussare alla porta e gridò che gli portassero acqua per un ferito, perché tutti sentissero che Giuliano non era morto ancora. Queste storie si sentono raccontare a ogni ora dei giorno e della notte per le strade della Sicilia. È difficile accettarle. Però uno che sia stato sul luogo, che si sia chinato a guardare il corpo di Salvatore Giuliano steso bocconi in mezzo al cortile, che abbia chiacchierato un poco con la gente di via Mannone, è costretto, di tanto in tanto, a pensarci.”
Tommaso Besozzi, Di sicuro c’è solo che è morto, L’Europeo, 16 luglio 1950

[21] Tommaso Besozzi si suicida, il 18 novembre 1964, a Roma.

[22] Sia il Governo italiano sia la Mafia furono indicati come i mandanti della uccisione di Gaspare Pisciotta, ma nessuno venne processato per la sua morte. La madre di Gaspare, Rosalia, scrisse una lettera aperta alla stampa, il 18 marzo di quell’anno, denunciando il possibile coinvolgimento di politici corrotti e della Mafia nella uccisione del figlio:
“Sì, è vero che mio figlio Gaspare non potrà più parlare e molta gente è convinta di essere al sicuro; ma chissà, forse qualche altra cosa può venir fuori.”
Si suppone che Gaspare Pisciotta abbia potuto scrivere una autobiografia in carcere, alla quale la madre probabilmente si riferiva, e che il fratello Pietro provò a fare pubblicare. Questo documento è andato, tuttavia, smarrito e il suo contenuto è rimasto un segreto.

[23] Tommaso Buscetta, davanti ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista Mauro De Mauro, affermò
“De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a “perdonare” il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa.”
Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il capo della Squadra Mobile di Palermo Giorgio Boris Giuliano [succeduto a Bruno Incontrada e, a sua volta, succeduto da Giuseppe Impallomeni, tessera numero 2213 della Loggia P2, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/12/30/contrada-nella-trappola-del-questore.html, https://www.youtube.com/watch?v=RKXWS9SGjYo] furono i principali investigatori, rispettivamente, per i carabinieri e per la polizia, che si occuparono del caso De Mauro. Furono assassinati, entrambi, dalla mafia, Giuliano, nel 1979, e Dalla Chiesa, nel 1982.

[24] Caro presidente Truman,
Se non vi disturbo e se il mio messaggio non vi trova mal disposto, vogliate accettare l’umile appello di un giovane che è molto lontano dall’America, per quanto sia assai noto, e vi chiedo aiuto per la realizzazione di un sogno che fino ad oggi non è riuscito ad avverare.
Permettete che mi presenti. Il mio nome è Salvatore Giuliano. I giornalisti han fatto di me o un eroe leggendario o un delinquente comune. Suppongo che nemmeno voi abbiate un’idea chiara di quel che io sono. Se voi me lo permettete, vi dirò in breve la mia storia nella sua vera successione.
Quando avevo ventun anni – per la precisione nel settembre 1943 – dopo una rissa che mi portò ad uccidere un poliziotto italiano, il quale aveva cercato di ammazzarmi, diventai un fuorilegge. Non mi restava altro che il mio sublime e sacro attaccamento alla mia terra siciliana.
Sono stato annessionista fin dalla fanciullezza, ma a causa della dittatura fascista, non ho potuto mostrare palesemente i miei sentimenti. Per quanto fossi latitante, seguivo da vicino la libertà politica portata dagli americani, e solo allora pensai di avverare quello che per tanto tempo era stato il mio sogno. Per tradurrre in realtà il mio ideale mi unii ai membri del Movimento per l’Indipendenza siciliana. Il nostro sogno era di staccare la Sicilia dall’Italia e poi annetterla agli Stati Uniti.
Nel 1944 i muri della maggior parte delle città siciliane, compresa Palermo, furono coperti di manifesti in cui si vedeva un uomo [io stesso] che taglia la catena che tiene la Sicilia legata all’Italia, mentre un altro uomo, in America, tiene un’altra catena a cui è unita la Sicilia. Quest’ultimo è il simbolo della mia speranza che la Sicilia venga annessa agli Stati Uniti.
Ci occorre la cosa più essenziale; il vostro appoggio morale. Voi potreste, ed a ragione, chiedere: “Qual è il fattore più importante che vi spinge a questa lotta per la separazione dall’Italia? Ed inoltre perché volete che la vostra splendida isola diventi la 49a stella americana?” Ecco la mia risposta:
1 - Perché con la guerra perduta, noi ci troviamo in uno stato disastroso e cadremo facilmente preda degli stranieri, specialmente dei russi, che ambiscono ad affacciarsi sul Mediterraneo. Se questo dovesse accadere, ne deriverebbero conseguenze di enorme importanza, come voi sapete.
2 - Perché in 87 anni di unità nazionale, o, per esere esatti, in 87 anni di schiavitù all’Italia, siamo stati depredati e trattati come una misera colonia. Come scrisse giustamente Alfredo Oriani in uno dei suoi articoli, “il cancro legato al piede dell’Italia.”
Non vogliamo assolutamente rimanere uniti a una nazione che considera la Sicilia una terra di cui ci si serve solo in caso di bisogno, per poi abbandonarla come cosa cattiva e fastidiosa, quando non serve più.
Per queste ragioni noi vogliamo unirci agli Stati Uniti d’America. La nostra organizzazione è ormai interamente compiuta; abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto, per eliminare il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo tollerare più oltre il dilagare della canea rossa. Il loro capo, Stalin, che come voi ben sapete manda milioni su milioni per conquistare il cuore del nostro popolo – con il solito sistema politico basato sulla falsità – ha in qualche misura incontrato i favori della popolazione. Ma noi, fortunatamente, non crediamo nel paradiso che Stalin ci ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo, scacciando il comunismo dalla nostra nobile terra, che fu fatta per la democrazia.
Noi non permetteremo a questa gente ignobile di toglierci la libertà, che per noi siciliani è il più essenziale e più prezioso elemento di vita... Signore, vi preghiamo di ricordare che centinaia di migliaia di uomini aspettano d’essere liberati. Permettete, caro signore, che vi ossequi il vostro umilissimo e devoto servitore.
Giuliano

[25] L’EVIS nacque nel febbraio 1945 a Catania, su impulso di Antonio Canepa, come gruppo di lotta armata, ma anche primo nucleo di quello che sarebbe dovuto diventare l’esercito regolare della Repubblica Siciliana.

[26] Nel luglio del 1943, dopo lo sbarco alleato, Salvatore Aldisio, Giuseppe Alessi e Bernardo Mattarella fondarono la Democrazia Cristiana siciliana.

[27] Nel documento del National Security Council n. 1/1 del 15 settem­bre 1947, che venne approvato, il 14 novembre 1947, si affermava:
“L’obiettivo basilare degli Stati Uniti in Italia è quello di sta­bilire e conservare condizioni favorevoli alla nostra sicurezza na­zionale”, in quanto “la posizione dell’Italia nel Mediterraneo domina le linee di comunicazione verso il Vicino Oriente e protegge il fianco dei paesi balcanici. Dalle basi situate in Italia è possibi­le, per la potenza che le controlla, dominare il traffico mediter­raneo tra Gibilterra e Suez e rivolgere consistenti forze aeree contro ogni punto dei Balcani o dell’area circostante”.
Il primo aprile 1949, il consigliere dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America a Mo­sca, Foy Kohler, dichiara all’ambasciatore italiano Manlio Brosio:
“Non credo che il Patto atlantico possa consentire all’Italia al­cuna ipotesi di neutralità in caso di guerra. Questa ipotesi è esclu­sa perché noi pensiamo che centro della guerra sarebbe, più ancora che l’Europa, il Medio Oriente: e per condurre la guerra in Medio Oriente noi abbiamo bisogno del completo dominio del Mediterraneo, Italia compresa.”

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