LA
NON-VIOLENZA SCONFIGGERA’ LA VIOLENZA?
Mohandas Karamchand Gandhi
Discorso
tenuto da Gandhi alla Conferenza delle relazioni interasiatiche,
New
Delhi, 2 aprile 1947
“Questo messaggio lo dedichiamo ai folli.
A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Potete citarli.
Essere
in disaccordo con loro.
Potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potete fare è
ignorarli.
Perché riescono a cambiare le cose.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio.
Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il
mondo, lo cambiano davvero.”
Mohandas
Karamchand Gandhi
di
Daniela
Zini
L’Europa
del Terzo Millennio potrebbe ripetere, in parte, l’esperienza dell’India?
Potrebbe
avviarsi a svilupparsi, nell’Occidente industrialmente civilizzato, una
esperienza di impegno e di lotta morale che, sessantacinque anni fa, portarono
un Paese arretrato e ancora diviso in caste medioevali a sconfiggere la potente
Inghilterra?
Le
domande si inseriscono, direttamente, nel contesto di avvenimenti di cui
l’Europa è stata teatro proprio in questo scorcio dell’anno 2012.
Il
problema che nasce da questi episodi di “disobbedienza”, forse, appena iniziata
tra masse popolari inermi e apparati politico-militari, accampati su posizioni
di ferreo mantenimento dello status quo,
investe la capacità da parte delle masse di sviluppare forme di lotta autonome,
non mediate da nessuna struttura o apparato di governo, e di concretarle in un
esercizio di forza capace di influenzare il corso della politica e della
storia.
Il
problema si può, più semplicemente, porre in questi termini: il mondo
Occidentale, e, in esso, comprendo, ovviamente, anche l’America, è maturo per
la “disobbedienza civile”?
Abbiamo
assistito, recentemente, a varie, sporadiche, pittoresche manifestazioni
contestatarie in varie parti del mondo. Studenti, operai, giovani di varia e
diversa estrazione sono scesi nelle strade e nelle piazze, seguendo un istinto
di lotta più che una tattica. Spesso, la contestazione è uscita dai binari
della protesta civile per assumere tinte rivoluzionario-anarchiche, offrendo
credito e spunto alle reazioni di ogni tipo, e pretesti morali agli adoratori
dell’ordine in tutte le sue forme, anche le forme poliziesche. Il fatto è che
nessuna di queste apparizioni della massa sulla scena politica fosse guidata.
Mancavano
i leaders.
Dove vi
è un leader, è stato ucciso.
Martin
Luther King ha pagato con il suo sangue il coraggioso, per taluni arcaico e
inattuale, proposito di guidare, pacificamente, trenta milioni di uomini di
colore americani alla conquista dei loro diritti. Aggiungiamo che dove vi è un leader vi è una forza morale che sta
dietro e al di sopra di questi. I neri d’America hanno avuto dalla loro la
energia misteriosa di un popolo che si riconosceva unito nella sofferenza e
nell’umiliazione. Le sporadiche contestazioni delle masse giovanili europee,
cresciute nel culto del benessere, il cui rifiuto sembra protestare più che
affermare una condizione di lotta, tendono, troppo palesemente, alla conquista
di traguardi parziali (l’affermazione, che si sente ripetere anche da noi, di
un rovesciamento politico, di una “contestazione globale”, suonano esagerazioni
e vanterie bellicistiche): manca a esse un unitario e approfondito compito di
elevazione morale. Non si cambia nulla, avendo di vista la pura e semplice
conquista di posizioni materiali. La stessa lotta della classe operaia si è
affievolita e burocratizzata, quando le è venuto a mancare il motivo reale e
profondo di una sofferenza umana e totale.
Non di
solo pane si nutrono le rivoluzioni!
La
privazione dei diritti materiali e morali è stata la causa delle più grandi e
risolutive ribellioni storiche. Ma la privazione è anche, in se stessa, un’arma
che ciascuno deve sapersi imporre, quando ha di mira uno scopo superiore.
“Ogni privazione”,
diceva
Gandhi,
“qualunque sia la causa che la provoca è
benefica all’uomo.”
I
giovani iraniani hanno dato un esempio splendido ed esaltante di coraggio e di
protesta civile. La disobbedienza, nelle vie di Tehran, di Shiraz, di Esfahan,
di Tabriz, di Mashhad e di molte altre
città, ha assunto i toni di una sommessa epopea, tanto più commovente in
quanto si sapeva, già, destinata a subire la legge della forza della ragione di
Stato.
E,
tuttavia, il regime iraniano ha subito uno smacco che resterà nella Storia,
destinato a ripetersi, forse, a non lunga scadenza.
La
storia è piena di esempi lasciati cadere e raccolti dalla posterità.
La Chiesa
è ridiventata ecumenica e cristiana, passando attraverso i roghi dei suoi
“eretici”. L’uomo è destinato a sopravvivere ai suoi dogmi, anche e soprattutto
al dogma della violenza come necessità, della sopraffazione come necessità,
dell’ordine come necessità, della coerenza ideologica come necessità. I mostri
sacri dei secoli passati sono tutti, più o meno, rinati sotto altre spoglie.
Per riconoscerli e combatterli, anche sotto le allettanti apparenze delle
libertà, che non sono tali, occorre una grande forza morale.
L’esempio
di Gandhi e del suo apostolato di “non-violenza” inizia, soltanto, ora, ad
“accendere” qualche seguace nel mondo.
Il 29
luglio scorso, centinaia di ragazze e di ragazzi iraniani, per protesta contro
la mancanza di libertà, che incrudelisce in Iran, avevano partecipato a una
gigantesca battaglia dell’acqua nel Park-e Ab-o Atash (Parco Acqua e Fuoco),
nel centro di Tehran, [http://www.youtube.com/watch?v=Ck2Kulf8KI4&feature=related],
dopo un appello lanciato su Facebook. Dieci di loro erano stati arrestati e
liberati, l’indomani, dietro cauzione. Il regime, che non concepisce e non
accetta eccezioni alle regole costituite – le donne e gli uomini non sono
autorizzati a interagire insieme, in pieno giorno, in attività fisiche – li
considera traditori. Sono dei “disobbedienti” pacifici, che hanno il torto di
concepire la Patria come una comunità umana, fondata su principi di amore e di
fratellanza.
Sono
utopisti e pavidi?
No,
sono realisti e coraggiosi.
Oggi,
sono una minoranza, domani possono essere una forza!
I
movimenti più incisivi e duraturi della storia hanno, spesso, origini
silenziose e remote.
Nel
1901, Gandhi si trovava nel Natal, una delle colonie inglesi del Sudafrica,
popolata da una minoranza indiana abbastanza numerosa. Il governo dell’Unione
aveva, di recente, approvato una legge che imponeva una tassa di capitazione:
ogni uomo, donna o ragazzo, rimasti liberi dal proprio contratto di lavoro,
doveva pagare una tassa di tre sterline. Scopo dell’imposizione del balzello
era di costringere gli indiani ad assoggettarsi, nuovamente, a un altro
contratto di lavoro, in evidenti condizioni di inferiorità. Una prima promessa
del governo inglese di abolire la tassa non fu mantenuta per l’opposizione
degli europei del Natal e a questa vessazione se ne aggiunse un’altra. Una
sentenza della Corte Suprema del Capo stabiliva che i matrimoni, celebrati in
Sudafrica, non fossero riconosciuti dalla legge, se non celebrati, secondo i
riti cristiani, e iscritti nel registro dei matrimoni.
“Questa
draconiana sentenza”,
scriveva
Gandhi nella sua Autobiografia,
“annullava
con un tratto di penna tutti i matrimoni celebrati, in Sudafrica, secondo i
riti indù e musulmano e secondo la religione di Zoroastro; le molte donne sposatesi nel Paese cessavano, ai
termini della sentenza, di essere considerate legalmente unite ai propri mariti
ed erano degradate al rango di concubine, mentre i loro discendenti erano
privati del diritto di ereditare le sostanze paterne. Questa era per le donne
non meno che per gli uomini una posizione insostenibile e gli indiani del
Sudafrica si misero in agitazione.”
A
quell’epoca Gandhi stava raccogliendo i primi seguaci alla dottrina del Satyagraha
o metodo della sopportazione dell’ingiustizia, fondato sulla pacifica, ma
inflessibile, volontà di non obbedire agli ordini imposti con la violenza e
sulla accettazione delle conseguenti sanzioni. Il Satyagraha era ispirato a una profonda convinzione morale, che
l’“amore infinito”, ahimsa, ha valore
di salvezza universale. Gli indiani delle colonie sudafricane non avevano
alcuna conoscenza di questa dottrina filosofico-religiosa. Erano, per lo più,
gente di bassa condizione sociale, incolti, ma dotati di un grande orgoglio
nazionale e di un severo senso religioso. L’assommarsi delle due ingiustizie,
quella relativa alla tassa e quella relativa ai matrimoni offrì a Gandhi
l’occasione di associare nell’azione pacifica di protesta uomini e donne.
Queste ultime si offersero con entusiasmo, cercarono, in ogni modo, di farsi
arrestare con i più strani pretesti. La polizia finse di ignorarle. Ricorsero
ai passaggi clandestini di frontiera tra il Natal e il Transvaal, si dettero a
esercitare il commercio ambulante senza licenza. La polizia continuò a
ignorarle.
Gandhi
decise, allora, di spingere oltre la provocazione pacifica. Dopo essere
entrate, clandestinamente, dal Transvaal nel Natal, le donne della colonia
indiana avrebbero proseguito per Newcastle, il grande centro minerario di
carbone, e avrebbero invitato i minatori a scioperare. Gandhi era angosciato
all’idea di spingere quelle povere donne in un’impresa che poteva avere per
loro gravi conseguenze. Le lasciò libere, una a una, di decidere.
“Consigliai i coloni”,
scriveva,
“a decidere ognuno indipendentemente dalle
decisioni che avrebbero preso gli altri. Mi affannai a ripetere, in tutti i
modi, che si doveva tenere presente che erano proibite le diserzioni dalla
lotta, fosse questa breve o lunga.”
Gli
aderenti al movimento del Satyagraha
entrarono nel Natal, marciarono su Newcastle e, solo allora, il governo inglese
si rese conto che il piccolo fuoco stava per diventare un incendio.
I
minatori proclamarono lo sciopero.
Gandhi,
raggiunto dalla notizia per telefono, rimase perplesso e compiaciuto. Non era
preparato a quel meraviglioso risveglio della volontà di sacrificio e di lotta
di un popolo oppresso, non aveva né gli uomini né i mezzi per far fronte a una
impresa che si annunciava gravida di sviluppi. Le donne della colonia furono
arrestate e condannate a tre mesi di reclusione nel carcere di Maritzburg.
La
prigionia fu dura e penosa. Una delle detenute, Valliamma Munuswami Mudaliar, una sedicenne di
Johannesburg, uscì di prigione ridotta a uno scheletro. Gandhi andò a visitarla
e la trovò confinata in un letto. Era molto alta e il suo corpo emaciato faceva
una terribile impressione.
“Valliamma”,
chiese
Gandhi,
“sei pentita di essere andata in prigione?”
“Pentita?”,
esclamò.
“Sono pronta a tornarvi subito se vengono
ad arrestarmi.”
“Anche se questo dovesse costarti la vita?”
“Non mi importerebbe affatto. Chi non
vorrebbe morire per la propria patria?”
La
battaglia per l’abolizione della tassa di 3 sterline sui disoccupati fu lunga.
Nel
1916, il governo inglese decise di abolirla.
Gandhi,
così, commenta quel momento iniziale della sua lotta:
“Il
sacrificio delle sorelle indiane fu, assolutamente, disinteressato, perché
conoscevano appena la questione legale per cui lottavano. Molte di loro non
avevano la minima idea della patria e il loro patriottismo era fatto solo di
fede. Molte erano illetterate e non potevano, quindi, leggere neppure i
giornali. Ma avevano, egualmente, compreso che un colpo fierissimo era stato
inferto all’onore degli indiani e la volontaria prigionia era un grido di angoscia
e di preghiera offerto dal profondo del loro cuore.”
Dal
Sudafrica il Satyagraha passò in
India.
Altre e
ben più impegnative lotte si presentavano davanti a Gandhi e, sebbene questa
non sia, neppure in succinto, una biografia del grande leader del pacifismo mondiale, della cui tragica morte, per mano di
un fanatico, è stato, proprio lo scorso 30 gennaio, il sessantaquattresimo
anniversario, merita almeno, ricordare quale prezzo di privazioni, di coraggio,
di estenuante lotta abbia pagato, personalmente, alla causa del riscatto
indiano. I suoi digiuni leggendari – nel settembre del 1932, stette, senza
cibo, 142 ore – i lunghi periodi di carcerazione, la paziente tenacia con cui
affrontava i funzionari dell’amministrazione inglese per discutere questioni di
capitale importanza, quali la concessione all’India di uno statuto federativo,
primo passo verso l’indipendenza, i formidabili problemi organizzativi
impostigli dal governo di una massa popolare sempre più impaziente di agire,
tutto ciò dà appena la misura di un uomo che ha creato da nulla, o meglio da
quel nulla che è la volontà umana, ispirata da una fede religiosa e da una
giusta causa, una delle più ammirevoli rivoluzioni di tutti i tempi.
Tornato
in India, nel 1915, Gandhi prese parte alla guerra come infermiere e si
impegnò, a fondo, nella lotta politica.
Nel
1919, fu nominato presidente del Congresso Nazionale Indiano e guida della
lotta da questo condotta per il riconoscimento dell’autonomia. Il Satyagraha fu applicato, in quegli anni
del dopoguerra, alla resistenza opposta alla Legge Rowlat, varata dagli inglesi
per combattere il movimento rivoluzionario nel Bengala. L’agitazione, che ne
conseguì, fu talmente violenta che Gandhi si vide costretto a sospendere il
movimento che, tuttavia, fu ripreso, nel 1920, sotto la forma pacifica della
non-cooperazione. Per conseguire l’indipendenza economica dell’India fu deciso
di rinunciare all’uso delle bevande alcoliche e delle vetture e alla
partecipazione agli uffici di governo. Anche questa volta seguirono disordini
violenti, ma Gandhi non rinunciò, mai, alla sua dottrina e riuscì, sempre, a
ricondurre le sue lotte nell’alveo originale del principio della non-violenza.
La
rinuncia era la sua arma preferita.
L’aveva
appresa fin da giovane, di ritorno dagli studi in Inghilterra, traendone
l’ispirazione dalla lettura dei testi sacri indiani e della Bibbia. Un esempio
illustre questo suo singolare noviziato sulla strada dell’astinenza come mezzo
di elevazione morale.
“Avevo letto”,
scriveva
nella sua Autobiografia,
“in un libro sul vegetarianismo, che il
sale non è un ingrediente necessario alla vita dell’uomo, che, al contrario,
una dieta insipida è più sana. Avevo letto e constatato che i fisici più deboli
devono evitare i legumi. A me piacevano molto. Ora avvenne che Kasturba (sua
moglie), la quale subito dopo l’operazione pareva stesse un poco meglio, avesse
iniziato, di nuovo, ad avere emorragie e la malattia sembrasse ostinata. La
cura idroterapica per se stessa non dava risultati. Kasturba non aveva molta
fede nei miei rimedi, per quanto non si opponesse a adottarli. Ma non voleva
sentire il parere di estranei. Così, quando tutte le cure tentate fallirono, le
consigliai di evitare il sale e i legumi. Da principio, non voleva saperne,
sebbene io cercassi di convincerla con ragionamenti e mettendo in opera la mia
autorità. Infine, mi provocò, dicendomi che, se si fosse trattato di me, non mi
sarei privato di questi ingredienti, anche se consigliato a farlo. Fui, al
tempo stesso, addolorato e lieto di questa risposta, perché ebbi, così,
l’opportunità di mostrarle il mio amore.
Le dissi:
“Ti sbagli, se io fossi sofferente e il
dottore mi consigliasse di non prendere questi due alimenti gli obbedirei senza
esitazione. E, intanto, senza avere sentito alcun parere medico, ti giuro che
starò, un anno, senza toccare né sale né legumi, anche nel caso in cui non
seguissi il mio esempio.”
Kasturba fu colpita dalle mie parole e,
profondamente, addolorata mi rispose:
“Perdonami, conoscendoti come ti conosco,
non avrei dovuto provocarti. Ti prometto di astenermi da quegli alimenti, ma tu
non considerare come un voto le parole che hai pronunciato poco fa. Ne avrei
troppo rimorso.”
“Tu avrai grande beneficio”,
risposi,
“dall’evitare, d’ora innanzi, il sale e non
dubito che ti sentirai subito meglio. Quanto a me, io non posso ritrarre un
voto fatto seriamente, tanto più che, sono certo, ne trarrò giovamento, perché
ogni privazione, qualunque sia la causa che la provochi, è benefica all’uomo.
Lasciami fare. Sarà una prova per me e un aiuto morale per te.”
Rinunciò a discutere.
“Sei troppo ostinato, non dai ascolto a
nessuno!”,
esclamò, cercando conforto nelle lacrime.
Ho voluto raccontare questo incidente come
un esempio di Satyagraha e posso dire che questo è uno dei più dolci ricordi
della mia vita.”
L’episodio
illustra le motivazioni semplici, ma profonde, della forza morale dell’uomo, il
quale, proprio perché rappresentava, a un altissimo grado, la saggezza che
proviene da un fermo convincimento morale, non poteva non cadere, come è
caduto, sotto l’arma di un fanatico. Accadde la sera del 30 gennaio 1948,
mentre l’India era dilaniata dalla lotta esplosa tra indù e musulmani dopo la
proclamazione dell’indipendenza.
Gandhi
fu assassinato a New Delhi, con tre pallottole nel petto, da un bramino legato
al gruppo estremista Mahasabha, Nathuran Godse.
L’assassinio
fu consumato in mezzo a una folla assiepata, come ogni giorno, nel vasto
giardino della residenza del Mahatma, per un appuntamento quotidiano con
l’apostolo. Trafitto dalle pallottole, Gandhi ebbe il tempo di pronunciare due
volte la stessa parola:
“Rama! Rama! (Dio! Dio!)”
Erano
le sole parole che avrebbe voluto dire prima di morire. Ed era anche la morte
che aveva detto di preferire.
“Non
desidero morire di una paralisi delle mie facoltà, come un uomo sconfitto. La
pallottola di un assassino potrebbe porre fine alla mia vita. L’accoglierei con
gioia. Ma soprattutto vorrei morire facendo il mio dovere fino all’ultimo
respiro.”
Queste
parole erano state pronunciate da Gandhi, la sera prima della sua morte, il 29
gennaio 1948. Sembrerà strano che l’apostolo della non-violenza abbia
desiderato per sé una morte violenta. Ma questo è, in un certo senso, nella
fatalità delle cose.
La
violenza è nella natura irrazionale dell’uomo!
La
non-violenza è nella verità della sua anima, quella verità che Gandhi ha,
eroicamente, cercato tutta la vita.
La sua
lezione è, forse, troppo lontana da noi, da una società come quella
occidentale, estremamente tecnicizzata e razionalizzata, che a certe
manifestazioni della fede guarda come a pericolose e, ormai, superate superstizioni.
Eppure,
è certo che laddove un uomo soffre per una affermazione della verità, laddove,
per lo stesso motivo, un popolo intero soffre e lotta, là è presente l’insegnamento
di Gandhi.
Daniela Zini
Copyright © 12 febbraio 2012 ADZ