“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 31 gennaio 2018

LA NON-VIOLENZA SCONFIGGERA’ LA VIOLENZA? di Daniela Zini



LA NON-VIOLENZA SCONFIGGERA’ LA VIOLENZA?
 
Mohandas Karamchand Gandhi
Discorso tenuto da Gandhi alla Conferenza delle relazioni interasiatiche,
New Delhi, 2 aprile 1947

Questo messaggio lo dedichiamo ai folli.
A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Potete citarli.
Essere in disaccordo con loro.
Potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potete fare è ignorarli.
Perché riescono a cambiare le cose.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio.
Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.”
Mohandas Karamchand Gandhi

di
Daniela Zini


L’Europa del Terzo Millennio potrebbe ripetere, in parte, l’esperienza dell’India?
Potrebbe avviarsi a svilupparsi, nell’Occidente industrialmente civilizzato, una esperienza di impegno e di lotta morale che, sessantacinque anni fa, portarono un Paese arretrato e ancora diviso in caste medioevali a sconfiggere la potente Inghilterra?
Le domande si inseriscono, direttamente, nel contesto di avvenimenti di cui l’Europa è stata teatro proprio in questo scorcio dell’anno 2012.
Il problema che nasce da questi episodi di “disobbedienza”, forse, appena iniziata tra masse popolari inermi e apparati politico-militari, accampati su posizioni di ferreo mantenimento dello status quo, investe la capacità da parte delle masse di sviluppare forme di lotta autonome, non mediate da nessuna struttura o apparato di governo, e di concretarle in un esercizio di forza capace di influenzare il corso della politica e della storia.
Il problema si può, più semplicemente, porre in questi termini: il mondo Occidentale, e, in esso, comprendo, ovviamente, anche l’America, è maturo per la “disobbedienza civile”?
Abbiamo assistito, recentemente, a varie, sporadiche, pittoresche manifestazioni contestatarie in varie parti del mondo. Studenti, operai, giovani di varia e diversa estrazione sono scesi nelle strade e nelle piazze, seguendo un istinto di lotta più che una tattica. Spesso, la contestazione è uscita dai binari della protesta civile per assumere tinte rivoluzionario-anarchiche, offrendo credito e spunto alle reazioni di ogni tipo, e pretesti morali agli adoratori dell’ordine in tutte le sue forme, anche le forme poliziesche. Il fatto è che nessuna di queste apparizioni della massa sulla scena politica fosse guidata.
Mancavano i leaders.
Dove vi è un leader, è stato ucciso.
Martin Luther King ha pagato con il suo sangue il coraggioso, per taluni arcaico e inattuale, proposito di guidare, pacificamente, trenta milioni di uomini di colore americani alla conquista dei loro diritti. Aggiungiamo che dove vi è un leader vi è una forza morale che sta dietro e al di sopra di questi. I neri d’America hanno avuto dalla loro la energia misteriosa di un popolo che si riconosceva unito nella sofferenza e nell’umiliazione. Le sporadiche contestazioni delle masse giovanili europee, cresciute nel culto del benessere, il cui rifiuto sembra protestare più che affermare una condizione di lotta, tendono, troppo palesemente, alla conquista di traguardi parziali (l’affermazione, che si sente ripetere anche da noi, di un rovesciamento politico, di una “contestazione globale”, suonano esagerazioni e vanterie bellicistiche): manca a esse un unitario e approfondito compito di elevazione morale. Non si cambia nulla, avendo di vista la pura e semplice conquista di posizioni materiali. La stessa lotta della classe operaia si è affievolita e burocratizzata, quando le è venuto a mancare il motivo reale e profondo di una sofferenza umana e totale.
Non di solo pane si nutrono le rivoluzioni!
La privazione dei diritti materiali e morali è stata la causa delle più grandi e risolutive ribellioni storiche. Ma la privazione è anche, in se stessa, un’arma che ciascuno deve sapersi imporre, quando ha di mira uno scopo superiore.
“Ogni privazione”,
diceva Gandhi,
“qualunque sia la causa che la provoca è benefica all’uomo.”
I giovani iraniani hanno dato un esempio splendido ed esaltante di coraggio e di protesta civile. La disobbedienza, nelle vie di Tehran, di Shiraz, di Esfahan, di Tabriz, di Mashhad e di molte altre città, ha assunto i toni di una sommessa epopea, tanto più commovente in quanto si sapeva, già, destinata a subire la legge della forza della ragione di Stato.
E, tuttavia, il regime iraniano ha subito uno smacco che resterà nella Storia, destinato a ripetersi, forse, a non lunga scadenza.
La storia è piena di esempi lasciati cadere e raccolti dalla posterità.
La Chiesa è ridiventata ecumenica e cristiana, passando attraverso i roghi dei suoi “eretici”. L’uomo è destinato a sopravvivere ai suoi dogmi, anche e soprattutto al dogma della violenza come necessità, della sopraffazione come necessità, dell’ordine come necessità, della coerenza ideologica come necessità. I mostri sacri dei secoli passati sono tutti, più o meno, rinati sotto altre spoglie. Per riconoscerli e combatterli, anche sotto le allettanti apparenze delle libertà, che non sono tali, occorre una grande forza morale.
L’esempio di Gandhi e del suo apostolato di “non-violenza” inizia, soltanto, ora, ad “accendere” qualche seguace nel mondo.
Il 29 luglio scorso, centinaia di ragazze e di ragazzi iraniani, per protesta contro la mancanza di libertà, che incrudelisce in Iran, avevano partecipato a una gigantesca battaglia dell’acqua nel Park-e Ab-o Atash (Parco Acqua e Fuoco), nel centro di Tehran, [http://www.youtube.com/watch?v=Ck2Kulf8KI4&feature=related], dopo un appello lanciato su Facebook. Dieci di loro erano stati arrestati e liberati, l’indomani, dietro cauzione. Il regime, che non concepisce e non accetta eccezioni alle regole costituite – le donne e gli uomini non sono autorizzati a interagire insieme, in pieno giorno, in attività fisiche – li considera traditori. Sono dei “disobbedienti” pacifici, che hanno il torto di concepire la Patria come una comunità umana, fondata su principi di amore e di fratellanza.
Sono utopisti e pavidi?
No, sono realisti e coraggiosi.
Oggi, sono una minoranza, domani possono essere una forza!
I movimenti più incisivi e duraturi della storia hanno, spesso, origini silenziose e remote.
Nel 1901, Gandhi si trovava nel Natal, una delle colonie inglesi del Sudafrica, popolata da una minoranza indiana abbastanza numerosa. Il governo dell’Unione aveva, di recente, approvato una legge che imponeva una tassa di capitazione: ogni uomo, donna o ragazzo, rimasti liberi dal proprio contratto di lavoro, doveva pagare una tassa di tre sterline. Scopo dell’imposizione del balzello era di costringere gli indiani ad assoggettarsi, nuovamente, a un altro contratto di lavoro, in evidenti condizioni di inferiorità. Una prima promessa del governo inglese di abolire la tassa non fu mantenuta per l’opposizione degli europei del Natal e a questa vessazione se ne aggiunse un’altra. Una sentenza della Corte Suprema del Capo stabiliva che i matrimoni, celebrati in Sudafrica, non fossero riconosciuti dalla legge, se non celebrati, secondo i riti cristiani, e iscritti nel registro dei matrimoni.
“Questa draconiana sentenza”,
scriveva Gandhi nella sua Autobiografia,
“annullava con un tratto di penna tutti i matrimoni celebrati, in Sudafrica, secondo i riti indù e musulmano e secondo la religione di Zoroastro; le  molte donne sposatesi nel Paese cessavano, ai termini della sentenza, di essere considerate legalmente unite ai propri mariti ed erano degradate al rango di concubine, mentre i loro discendenti erano privati del diritto di ereditare le sostanze paterne. Questa era per le donne non meno che per gli uomini una posizione insostenibile e gli indiani del Sudafrica si misero in agitazione.”
A quell’epoca Gandhi stava raccogliendo i primi seguaci alla dottrina del Satyagraha o metodo della sopportazione dell’ingiustizia, fondato sulla pacifica, ma inflessibile, volontà di non obbedire agli ordini imposti con la violenza e sulla accettazione delle conseguenti sanzioni. Il Satyagraha era ispirato a una profonda convinzione morale, che l’“amore infinito”, ahimsa, ha valore di salvezza universale. Gli indiani delle colonie sudafricane non avevano alcuna conoscenza di questa dottrina filosofico-religiosa. Erano, per lo più, gente di bassa condizione sociale, incolti, ma dotati di un grande orgoglio nazionale e di un severo senso religioso. L’assommarsi delle due ingiustizie, quella relativa alla tassa e quella relativa ai matrimoni offrì a Gandhi l’occasione di associare nell’azione pacifica di protesta uomini e donne. Queste ultime si offersero con entusiasmo, cercarono, in ogni modo, di farsi arrestare con i più strani pretesti. La polizia finse di ignorarle. Ricorsero ai passaggi clandestini di frontiera tra il Natal e il Transvaal, si dettero a esercitare il commercio ambulante senza licenza. La polizia continuò a ignorarle.
Gandhi decise, allora, di spingere oltre la provocazione pacifica. Dopo essere entrate, clandestinamente, dal Transvaal nel Natal, le donne della colonia indiana avrebbero proseguito per Newcastle, il grande centro minerario di carbone, e avrebbero invitato i minatori a scioperare. Gandhi era angosciato all’idea di spingere quelle povere donne in un’impresa che poteva avere per loro gravi conseguenze. Le lasciò libere, una a una, di decidere.
“Consigliai i coloni”,
scriveva,
“a decidere ognuno indipendentemente dalle decisioni che avrebbero preso gli altri. Mi affannai a ripetere, in tutti i modi, che si doveva tenere presente che erano proibite le diserzioni dalla lotta, fosse questa breve o lunga.”
Gli aderenti al movimento del Satyagraha entrarono nel Natal, marciarono su Newcastle e, solo allora, il governo inglese si rese conto che il piccolo fuoco stava per diventare un incendio.
I minatori proclamarono lo sciopero.
Gandhi, raggiunto dalla notizia per telefono, rimase perplesso e compiaciuto. Non era preparato a quel meraviglioso risveglio della volontà di sacrificio e di lotta di un popolo oppresso, non aveva né gli uomini né i mezzi per far fronte a una impresa che si annunciava gravida di sviluppi. Le donne della colonia furono arrestate e condannate a tre mesi di reclusione nel carcere di Maritzburg.
La prigionia fu dura e penosa. Una delle detenute, Valliamma Munuswami Mudaliar, una sedicenne di Johannesburg, uscì di prigione ridotta a uno scheletro. Gandhi andò a visitarla e la trovò confinata in un letto. Era molto alta e il suo corpo emaciato faceva una terribile impressione.
“Valliamma”,
chiese Gandhi,
“sei pentita di essere andata in prigione?”
“Pentita?”,
esclamò.
“Sono pronta a tornarvi subito se vengono ad arrestarmi.”
“Anche se questo dovesse costarti la vita?”
“Non mi importerebbe affatto. Chi non vorrebbe morire per la propria patria?”
Pochi giorni dopo, il 22 febbraio 1914, Valliamma moriva, prima eroina della dottrina più alta che la storia dell’uomo abbia prodotto nel corso delle lotte politiche [http://scnc.ukzn.ac.za/doc/B/Vs/Valliamma_Munuswami_Mudliar_1898_1914_Child_Martyr_A_True_Story.pdf]. Ma il Satyagraha era, ormai, un’arma nelle mani del popolo indiano e del suo straordinario leader.
La battaglia per l’abolizione della tassa di 3 sterline sui disoccupati fu lunga.
Nel 1916, il governo inglese decise di abolirla.
Gandhi, così, commenta quel momento iniziale della sua lotta:
“Il sacrificio delle sorelle indiane fu, assolutamente, disinteressato, perché conoscevano appena la questione legale per cui lottavano. Molte di loro non avevano la minima idea della patria e il loro patriottismo era fatto solo di fede. Molte erano illetterate e non potevano, quindi, leggere neppure i giornali. Ma avevano, egualmente, compreso che un colpo fierissimo era stato inferto all’onore degli indiani e la volontaria prigionia era un grido di angoscia e di preghiera offerto dal profondo del loro cuore.”
Dal Sudafrica il Satyagraha passò in India.
Altre e ben più impegnative lotte si presentavano davanti a Gandhi e, sebbene questa non sia, neppure in succinto, una biografia del grande leader del pacifismo mondiale, della cui tragica morte, per mano di un fanatico, è stato, proprio lo scorso 30 gennaio, il sessantaquattresimo anniversario, merita almeno, ricordare quale prezzo di privazioni, di coraggio, di estenuante lotta abbia pagato, personalmente, alla causa del riscatto indiano. I suoi digiuni leggendari – nel settembre del 1932, stette, senza cibo, 142 ore – i lunghi periodi di carcerazione, la paziente tenacia con cui affrontava i funzionari dell’amministrazione inglese per discutere questioni di capitale importanza, quali la concessione all’India di uno statuto federativo, primo passo verso l’indipendenza, i formidabili problemi organizzativi impostigli dal governo di una massa popolare sempre più impaziente di agire, tutto ciò dà appena la misura di un uomo che ha creato da nulla, o meglio da quel nulla che è la volontà umana, ispirata da una fede religiosa e da una giusta causa, una delle più ammirevoli rivoluzioni di tutti i tempi.
Tornato in India, nel 1915, Gandhi prese parte alla guerra come infermiere e si impegnò, a fondo, nella lotta politica.
Nel 1919, fu nominato presidente del Congresso Nazionale Indiano e guida della lotta da questo condotta per il riconoscimento dell’autonomia. Il Satyagraha fu applicato, in quegli anni del dopoguerra, alla resistenza opposta alla Legge Rowlat, varata dagli inglesi per combattere il movimento rivoluzionario nel Bengala. L’agitazione, che ne conseguì, fu talmente violenta che Gandhi si vide costretto a sospendere il movimento che, tuttavia, fu ripreso, nel 1920, sotto la forma pacifica della non-cooperazione. Per conseguire l’indipendenza economica dell’India fu deciso di rinunciare all’uso delle bevande alcoliche e delle vetture e alla partecipazione agli uffici di governo. Anche questa volta seguirono disordini violenti, ma Gandhi non rinunciò, mai, alla sua dottrina e riuscì, sempre, a ricondurre le sue lotte nell’alveo originale del principio della non-violenza.
La rinuncia era la sua arma preferita.
L’aveva appresa fin da giovane, di ritorno dagli studi in Inghilterra, traendone l’ispirazione dalla lettura dei testi sacri indiani e della Bibbia. Un esempio illustre questo suo singolare noviziato sulla strada dell’astinenza come mezzo di elevazione morale.  
“Avevo letto”,
scriveva nella sua Autobiografia,
“in un libro sul vegetarianismo, che il sale non è un ingrediente necessario alla vita dell’uomo, che, al contrario, una dieta insipida è più sana. Avevo letto e constatato che i fisici più deboli devono evitare i legumi. A me piacevano molto. Ora avvenne che Kasturba (sua moglie), la quale subito dopo l’operazione pareva stesse un poco meglio, avesse iniziato, di nuovo, ad avere emorragie e la malattia sembrasse ostinata. La cura idroterapica per se stessa non dava risultati. Kasturba non aveva molta fede nei miei rimedi, per quanto non si opponesse a adottarli. Ma non voleva sentire il parere di estranei. Così, quando tutte le cure tentate fallirono, le consigliai di evitare il sale e i legumi. Da principio, non voleva saperne, sebbene io cercassi di convincerla con ragionamenti e mettendo in opera la mia autorità. Infine, mi provocò, dicendomi che, se si fosse trattato di me, non mi sarei privato di questi ingredienti, anche se consigliato a farlo. Fui, al tempo stesso, addolorato e lieto di questa risposta, perché ebbi, così, l’opportunità di mostrarle il mio amore.
Le dissi:
“Ti sbagli, se io fossi sofferente e il dottore mi consigliasse di non prendere questi due alimenti gli obbedirei senza esitazione. E, intanto, senza avere sentito alcun parere medico, ti giuro che starò, un anno, senza toccare né sale né legumi, anche nel caso in cui non seguissi il mio esempio.”
Kasturba fu colpita dalle mie parole e, profondamente, addolorata mi rispose:
“Perdonami, conoscendoti come ti conosco, non avrei dovuto provocarti. Ti prometto di astenermi da quegli alimenti, ma tu non considerare come un voto le parole che hai pronunciato poco fa. Ne avrei troppo rimorso.”
“Tu avrai grande beneficio”,
risposi,
“dall’evitare, d’ora innanzi, il sale e non dubito che ti sentirai subito meglio. Quanto a me, io non posso ritrarre un voto fatto seriamente, tanto più che, sono certo, ne trarrò giovamento, perché ogni privazione, qualunque sia la causa che la provochi, è benefica all’uomo. Lasciami fare. Sarà una prova per me e un aiuto morale per te.”
Rinunciò a discutere.
“Sei troppo ostinato, non dai ascolto a nessuno!”,
esclamò, cercando conforto nelle lacrime.
Ho voluto raccontare questo incidente come un esempio di Satyagraha e posso dire che questo è uno dei più dolci ricordi della mia vita.”
L’episodio illustra le motivazioni semplici, ma profonde, della forza morale dell’uomo, il quale, proprio perché rappresentava, a un altissimo grado, la saggezza che proviene da un fermo convincimento morale, non poteva non cadere, come è caduto, sotto l’arma di un fanatico. Accadde la sera del 30 gennaio 1948, mentre l’India era dilaniata dalla lotta esplosa tra indù e musulmani dopo la proclamazione dell’indipendenza.
Gandhi fu assassinato a New Delhi, con tre pallottole nel petto, da un bramino legato al gruppo estremista Mahasabha, Nathuran Godse.
L’assassinio fu consumato in mezzo a una folla assiepata, come ogni giorno, nel vasto giardino della residenza del Mahatma, per un appuntamento quotidiano con l’apostolo. Trafitto dalle pallottole, Gandhi ebbe il tempo di pronunciare due volte la stessa parola:
“Rama! Rama! (Dio! Dio!)”
Erano le sole parole che avrebbe voluto dire prima di morire. Ed era anche la morte che aveva detto di preferire.
“Non desidero morire di una paralisi delle mie facoltà, come un uomo sconfitto. La pallottola di un assassino potrebbe porre fine alla mia vita. L’accoglierei con gioia. Ma soprattutto vorrei morire facendo il mio dovere fino all’ultimo respiro.”
Queste parole erano state pronunciate da Gandhi, la sera prima della sua morte, il 29 gennaio 1948. Sembrerà strano che l’apostolo della non-violenza abbia desiderato per sé una morte violenta. Ma questo è, in un certo senso, nella fatalità delle cose.
La violenza è nella natura irrazionale dell’uomo!
La non-violenza è nella verità della sua anima, quella verità che Gandhi ha, eroicamente, cercato tutta la vita.
La sua lezione è, forse, troppo lontana da noi, da una società come quella occidentale, estremamente tecnicizzata e razionalizzata, che a certe manifestazioni della fede guarda come a pericolose e, ormai, superate superstizioni.
Eppure, è certo che laddove un uomo soffre per una affermazione della verità, laddove, per lo stesso motivo, un popolo intero soffre e lotta, là è presente l’insegnamento di Gandhi.


Daniela Zini
Copyright © 12 febbraio 2012 ADZ

domenica 28 gennaio 2018

LE TEMPS DES FEMMES, C’EST LE TEMPS DE L’ « OIKOS » de Daniela Zini


LE TEMPS DES FEMMES,

C’EST LE TEMPS DE L’ « OIKOS »

Forough Farrokhzad [1935-1967]



Y a-t-il un Temps féminin ?
Y a-t-il une Poésie féminine ?
Sans remonter le cours de ce que Luce Irigaray appelle « le mystère oublié des généalogies féminines » je parlerai de Forough Farrokhzad, dont la vie témoigne d’une liberté qui ne cesse d’inspirer des générations de femmes. Peu d’œuvres, à part celle de Sappho, ont su nous transmettre un regard sur le monde féminin.
Révolutionnaire en politique, Forough Farrokhzad ne l’est pas moins en littérature, où elle se proclame l’adepte de Nima Yusshij et dénonce les idoles qui servent d’alibi, à ses yeux, à l’embourgeoisement des âmes et à l’asservissement de l’art.
Certes, la nouveauté de Forough par rapport à ce que l’on appelle, de manière toujours un peu vague,  la tradition  est un fait acquis, mais il ne faut pas oublier que l’apport de ce ton et de ce regard nouveaux, loin de signifier la rupture avec une tradition dépassée, visait à revivifier un style perdu, une écriture qui préférait l’économie des moyens et la concision fulgurante à la rhétorique verbeuse et au pathos de bons sentiments. Il est vrai qu’une certaine poésie moderne naît avec Forough, mais quand on parle de la modernité de Forough, il s’agit de s’entendre sur le sens exact des mots. Forough a mis en œuvre son étonnant génie de synthèse non pour patauger dans les eaux tièdes du juste milieu, mais pour aiguiser ses propres contradictions.
Forough reste vivante, non parce que ses poèmes sont de morceaux de choix et de proie pour les auteurs d’anthologies et de manuels universitaires, mais parce que, contrairement à la plupart de ses contemporains, elle n’a pas triché, elle n’a pas manqué ses déchirements, ses doutes, ses petitesses, ses rancœurs sous les oripeaux de la belle littérature. Si les écrits qu’elle a laissés nous touchent encore, tous ses écrits et pas seulement ses poèmes, mais jusqu’au moindre fragment, jusqu’aux pages raturées de ses brouillons, c’est parce qu’ils demeurent un brûlant foyer de tensions. A cet égard, il serait temps de dissiper une confusion trop longtemps entretenue par les excès du structuralisme. S’il est évident que dans l’étude d’un auteur la connaissance de la vie ne remplacera jamais celle de l’œuvre, que l’œuvre existe en soi et pour soi, cela ne signifie pas que l’on doive se priver d’un instrument précieux de compréhension du processus même de la création. La portée d’une œuvre est liée à ses enjeux, non seulement aux déterminations qui ont pesé sur son élaboration, mais à la place de l’œuvre dans la vie, de la vie dans le siècle, à l’apport de l’œuvre au flux mouvant et changeant des idées et des formes, à la fonction de l’écrivain dans la société. Bref, il s’agit de réhabiliter l’histoire de la littérature. Dans le cas de Forough Farrokhzad, les enjeux sont d’autant plus cruciaux qu’ils portent sur la conception même du langage poétique qui, après elle, va basculer vers d’autres horizons. C’est pourquoi, avant d’aborder l’analyse des textes en tant que tels, il importe de les situer dans leur cadre historique et biographique.  
Il est difficile d’être plus lucide envers l’égalitarisme terrifiant qui, sous ses yeux, entraînait le nivelage de toutes les valeurs esthétiques et culturelles sous le pied d’un utilitarisme nauséeux. Forough a été la première à déchiffrer dans la société de son temps des tares appelées à proliférer et à prospérer, de véritables maladies de l’âme qui risquent à terme d’entraîner la mort de l’homme comme être pensant.
Les poètes ont un sixième sens qui leur éclaire l’avenir.
La  poésie possède clairement le sens d’une résistance. Dans le cas de pays en guerre, ou occupés, la poésie peut prendre la tente d’un combat idéologique. Cet aspect militant de la poésie est une évidence pour de nombreux espaces en guerre, ou soumis à une censure. Le sens subversif des mots assemblés dans le poème se double souvent d’un renouvellement des formes plus ou moins radical : c’est un autre combat, cette fois-ci interne au poème, et un travail fondateur de destruction-reconstruction. Forough a toujours attaché une importance capitale à la composition de son œuvre, à l’architecture de son livre. Sans doute, cette préoccupation a-t-elle l’une des causes de l’extrême lenteur avec laquelle elle a préparé l’élaboration et la publication de ses recueils de poèmes. En fait, il ne s’agissait pas seulement pour lui de réunir dans un seul volume des poèmes épars, mais de les intégrer dans une forme douée d’une forte cohésion, d’une nécessité organique.
Il va de soi que le titre qui va finalement couronner cette somme et lui donner à jamais un sens, ce titre est venu signer un projet qui, longtemps avant de se déclarer et de tenter de s’accomplir, a été le fil conducteur latent d’une inspiration paresseusement et savamment orientée. Le charme vagabond de la poésie est de se plier à la vie, en quoi elle est proche du journal intime. C’est pourquoi une œuvre poétique donne toujours quelque prise à l’illusion rétrospective. Toute la question est de savoir si la forme qui satisfait enfin l’esprit et le cœur, l’œil et l’oreille, est une illusion ou au contraire une construction qui se révèle sa charpente qu’au terme d’un long et capricieux parcours. Parler d’inspiration à propos de la poésie, c’est rappeler qu’elle est tissée d’une succession de moment de hasard ou, si l’on préfère, de grâce. Et, portant, cette succession apparemment décousue, car tel est le prix de la liberté, de l’improvisation, obéit de manière secrète à une exigence d’unité ; elle est mue par un dessein. Forough avait très tôt pressenti que le mot de liberté couvrirait un jour le contraire de ce qu’il était censé signifier pour les partisans de l’idée de progrès. Elle savait qu’il était vain de lutter contre une abjection appelée un jour à devenir universelle. Elle en avait déduit qu’il n’y avait désormais pas d’autre chemin pour la poésie que d’affronter cette abjection pour y puiser les éléments d’une beauté nouvelle.
En tout cas, elle nous a laissé, par son diabolique courage et par son incurable optimisme, par sa foi dans l’art, en dépit de tout, un admirable exemple de résistance à une ignominie sociale qui ne devait cesser de grandir et qui, aujourd’hui, étale sous nos yeux ses tristes turpitudes.
Le remariage de son père, le colonel Mohammad Farrokhzad, alors que la future poétesse n’a que seize ans, va marquer profondément sa sensibilité. Il serait simpliste d’expliquer sa vocation de poète par cette blessure, mais comment nier l’incidence d’une situation ressentie par elle comme un abandon sur son œuvre, sur sa vision du monde. Nul doute que l’incurable nostalgie du paradis perdu qui retentit dans ses plus beaux vers provient de cette faille. On ne peut dissocier sa création poétique de ce déchirement existentiel auquel elle devra son identité, son frémissement et aussi sa fragilité, sa relativité. Le travail souterrain qui a suivi cette brusque révélation de sa solitude et de sa singularité, bien qu’il n’explique en rien son éveil à la Poésie, et encore moins son génie poétique, entrera certainement pour beaucoup dans sa volonté d’être poète. Par là même, les traces indélébiles que laissera dans son âme cette expérience précoce d’un délaissement éprouvé comme une véritable déréliction, forgeront la fondamentale ambiguïté de son attitude envers la vie, envers le monde et surtout envers le langage. On peut même identifier l’éveil en elle de la vocation poétique à ce passage du délaissement à la déréliction, mot chargé de connotations coraniques, qui désigne l’état d’abandon de l’homme par Dieu. Le sentiment de déréliction est celui-là éprouvé par le Christ au Jardin des Oliviers, quand il reprocha à son père de l’avoir abandonné. La déréliction, c’est le désespoir de l’âme laissée à elle-même, de l’âme qui se sent exclue de la grâce divine.
L’usage poétique de la parole est scellé par cet agrandissement de la destinée individuelle en drame universel, cosmique, le drame de l’humanité déchue. On peut donc parler de prise de parole du poète, comme on parle de prise d’un sacrement.
Sa poésie, c’est, d’une part, la vie faite œuvre, l’être et le temps humains transmués en langage, mais c’est en même temps la création poétique saisie à jamais dans sa gangue de chair : c’est ce patient assemblage de mots qui fait un poème, cette constellation sans cesse changeante et mouvante de poèmes qui fait un livre, mots et poèmes révélés dans leur fragilité, emportés dans un courant qui est celui de l’existence, avec tout ce que celle-ci comporte de rare et de banal, d’unique et de commun, de fugace, de hasardeux et d’éternel. Cette osmose qui rend l’œuvre et la vie aussi indissociables que des vases communicants explique le choix par Forough d’un terme aussi surprenant au premier abord que celui de Prisonnière pour titre du premier de ses projets aboutis. Il est vrai qu’il ne s’agissait pas d’un titre général, mais aussi partiel que soit le regroupement de poèmes qu’il était appelé à désigner, un mot porteur sous la plume d’une poétesse aussi éprise de perfection et aussi soucieuse d’affirmer ses ambitions que l’était Forough. Ses poésies décrivent un voyage initiatique. En dépit de la division thématique et de la fragmentation en poèmes distincts, il est aisé d’y lire une histoire, une histoire intérieure, l’histoire d’une âme. Son œuvre est composée de cinq recueils qui dessinent une courbe descendante.
Si Forough avait eu le temps de développer ses idées, on imagine quel étrange système de la mode en serait sorti !


Daniela Zini
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