“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 14 gennaio 2018

IL TRADIMENTO DELL'INTELLETTUALE di Daniela Zini



IL TRADIMENTO
DELL’INTELLETTUALE



di
Daniela Zini

“La mia indipendenza che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza.”
Pier Paolo Pasolini


“There is no such thing, at this date of the world’s history, in America, as an independent press. You know it and I know it.
There is not one of you who dares to write your honest opinions, and if you did, you know beforehand that it would never appear in print. I am paid weekly for keeping my honest opinion out of the paper I am connected with. Others of you are paid similar salaries for similar things, and any of you who would be so foolish as to write honest opinions would be out on the streets looking for another job. If I allowed my honest opinions to appear in one issue of my paper, before twenty-four hours my occupation would be gone.
The business of the journalists is to destroy the truth, to lie outright, to pervert, to vilify, to fawn at the feet of mammon, and to sell his country and his race for his daily bread. You know it and I know it, and what folly is this toasting an independent press?
We are the tools and vassals of rich men behind the scenes. We are the jumping jacks, they pull the strings and we dance. Our talents, our possibilities and our lives are all the property of other men. We are intellectual prostitutes.”
John Swinton [1829-1901]


Quando viene messa in discussione non l’esistenza in sé, ma l’esistenza nella Società, l’essere-per-gli-altri, allora il fatto di protestare costituisce una prova sufficiente: protesto, dunque, esisto.
Noi discutiamo delle proteste, dunque, esistiamo.
E come il cogito di Cartesio rappresenta l’inizio e non la fine dell’attività riflessiva – come se, avendo dimostrato la sua esistenza pensando, potesse, poi, esistere senza ulteriore riflessione –, così l’“io protesto” costituisce solo il punto di partenza della Storia delle rivendicazioni.
Esprimere la propria protesta è una delle forme elementari per far valere i propri diritti e reagire alla protesta rappresenta una delle forme elementari di riconoscimento reciproco.
Censura politica, accusa morale, interrogazione scettica, commento satirico, profezia biliosa, speculazione utopica, la critica della società assume tutte queste forme.
Non è mia intenzione stabilire quando l’Uomo abbia rivendicato, per la prima volta, il diritto di criticare, aspramente, i propri simili.
È accaduto molto tempo fa!
Va, nondimeno, rimarcato che la critica sociale ha una Storia.
I profeti dell’Antico Israele, a esempio, debbono essere stati consapevoli del proprio ruolo di critici della Società, seppure si ritenessero messaggeri divini.
Il profeta Amos, benché  parlasse in nome di Dio, quando diceva:
“Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni.”,
esprimeva e sapeva di esprimere la propria collera e il proprio disprezzo.
E lo stesso Socrate, quando interrogava i suoi concittadini sul loro concetto di bene, non era, forse, impegnato in quella che, oggi, chiameremo “critica ideologica”?
Non vi è dubbio che avesse un senso pienamente sviluppato del proprio ruolo critico:   

Che se voi ucciderete me, non sarà facile troviate un altro al pari di me il quale – non vi sembri risibile il paragone – realmente sia stato posto dal Dio ai fianchi della città come ai fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafano. Così appunto mi pare che il Dio abbia posto me ai fianchi della città: né mai io cesso di stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto il giorno, dovunque. Io dico, dunque, che un altro come me non vi nascerà facilmente, o cittadini: e perciò, se mi volete dare ascolto, mi risparmierete. Ma voi, forse, siete infastiditi meco come chi stia per assopirsi se uno lo sveglia, e tirate colpi; e così per obbedienza ad Anito, mi condannerete a morte tranquillamente, e poi tutto il resto della vostra vita, seguiterete a dormire se il Dio non si curi di voi mandandovi qualchedun altro in vece mia. E che sia proprio io persona siffatta che il Dio abbia scelta per dare in dono alla città, potrete riconoscere anche da questo: che non pare umano io abbia trascurati tutti gli affari miei e sopporti ormai da tanti anni che siano trascurate le cose di casa mia, e sempre invece io badi alle vostre, standovi da presso, un per uno, come farebbe un padre o un fratello maggiore, per persuadervi a seguire la virtù. Che se da questa vita io avessi qualche profitto, e per i consigli che do ricevessi qualche compenso, allora una ragione ci sarebbe: ma già lo vedete anche voi ora che gli accusatori miei, i quali mi hanno accusato così sfrontatamente di tante altre colpe, di questa non hanno avuto mai la sfrontatezza di accusarmi, portandovi davanti un solo testimone a provare che anche una sola volta io mi sia fatto pagare un compenso o l’abbia domandato. E il testimone sicuro ch’è vero quello che dico posso portarvelo io: la mia povertà.”
Platone, Apologia


Molti sofisti debbono avere avuto un concetto analogo di se stessi, anche se meno stravagante.
La Letteratura medievale e rinascimentale, “Specchio dei Principi”, a esempio, si chiede solo cosa dovrebbe pensare e fare il principe e non si esprime affatto sulla forma di governo esercitata dal principe o sull’ordine gerarchico da lui difeso.
Censura i principi dotati di un cattivo carattere, ma mai il principato in sé.
In tale ottica, la critica sistematica delle istituzioni politiche e delle strutture sociali si può definire, a ragione, una creazione moderna.
I bohémiens dell’Ottocento, a esempio, nonostante il loro disprezzo per il filiteismo della società borghese, solo occasionalmente e, in modo discontinuo, manifestarono interesse per cambiare la società. Vivevano del loro disprezzo, ma non producevano una critica seria.
“La sensibilità della Bohème”,
scrive Alasdair Chalmers MacIntyre,
“la taglia completamente fuori dalla vasta massa dell’umanità, di cui i bohémiens sono dal punto di vista economico dei parassiti.”
Non sembra esservi un grande desiderio di istruire o riformare la massa, anche se è, spesso, presente il desiderio di impressionare gli elementi più vigili. Forse, gli artisti e gli intellettuali bohémiens esternavano le tensioni interne della Società borghese tra individualismo radicale e convenzionale rispettabilità, come ha suggerito Jerrold Seigel, ma, solitamente, in modo troppo eccentrico per risultare criticamente rilevante.
Karl Marx sosteneva che “l’arma della critica” apre solo la strada alla “critica delle armi”.
Ma critica e rivoluzione sono due attività diverse.
Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro e John Colet, criticarono tutti la loro società, ma nessuno di loro fu un rivoluzionario.
E nel Novecento, i philosophes français, che erano, certamente, critici, si trovavano a loro agio, nei salotti di Parigi e, perfino, nelle corti d’Europa. Jean-Paul Sartre avrebbe voluto, forse, essere un rivoluzionario, ma al filosofo che fu lume e guida della vita intellettuale francese e editore della rivista più influente dell’Europa del Dopoguerra non se ne presentò, mai, l’occasione.
E ancora gli scrittori satirici romani, i frati domenicani del Medioevo, gli umanisti del Rinascimento, tutti sono stati, a modo loro, critici della Società. E che la critica si appunti su individui o su strutture politiche e sociali è, sempre, di carattere morale. I suoi termini fondamentali sono corruzione e virtù, oppressione e giustizia, egoismo e bene pubblico. Se “vi è del marcio in Danimarca”, il marciume è costituito da una politica errata o da una sua realizzazione non corretta o da un insieme di relazioni sbagliato.
Di cos’altro potrebbe trattarsi?
I rischi dell’attività critica sono diversi in rapporto alla situazione politica e sociale.
Perfino Gesù avrebbe, forse, potuto predicare senza rischio se non fosse stato per la presenza dei romani!
Per alcuni l’attività critica comporta la prigione e la morte, per altri è, virtualmente, priva di rischi. Si corrono rischi più gravi quando si dà voce alle proteste comuni contro un regime dittatoriale, come in Argentina sotto i generali, in Polonia all’epoca di Solidarnosc o in Sudafrica sotto il regime dell’Apartheid.
Il critico, che parla a voce alta, a dispetto dei poteri costituiti, è, dunque, un eroe e, a volte, è doppiamente un eroe, perché critica sia il Potere sia il Popolo che si lamenta e non protesta a voce sufficientemente alta oppure si limita a protestare senza mai agire o ad agire in modo avventato e inefficace.
Immaginiamo un critico della società che spezzi i legami con la famiglia e la patria, scopra la Vera Dottrina e, poi, torni per giudicare i vecchi compagni e il loro modo di vivere sulla base dei suoi nuovi parametri oggettivi.
Non vorremmo ucciderlo se fosse a conoscenza della Verità e ci giudicasse spassionatamente, con imparzialità come un perfetto estraneo?
Il critico sfida sia gli amici sia gli avversari, condannandosi, in tale  modo, alla solitudine intellettuale e politica.  
Indifferente alle passioni e ai sentimenti, molto più che alle comodità fisiche della gente comune, il critico rappresenta le passioni umane anziché viverle. È puramente disinteressato, si lascia guidare unicamente dalla sete di Verità, noncurante delle esigenze della società.
È pericoloso per un intellettuale avere una Patria, in quanto le tentazioni del nazionalismo sono le tentazioni più forti. Deve giudicare il proprio Paese come se fosse cittadino di un altro Paese.
La ricerca della Verità a spese dei suoi legami familiari o civici è un elemento che contraddistingue il critico e la Verità che scopre attraverso il distacco conferisce alla critica il suo carattere particolare di autorità.
Il distacco rende possibile la critica, ma questa possibilità è conquistata a caro prezzo, perché richiede una rottura volontaria con la comunità.
In casi estremi si trasforma in nemico del suo Popolo.
È il caso di Gesù, visto come profeta e redentore, che ci viene presentato, mentre dice ai suoi apostoli:
“Non crediate che sia venuto a portare la pace sulla Terra: non sono venuto a portare pace, ma la spada. Sono venuto, infatti, a separare il figlio dal padre e la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera, così che i nemici dell’uomo saranno i suoi stessi familiari.”
E la condanna a morte gli conferisce la suprema dignità di chi accetta il rischio, riservata altrimenti, come ha rilevato Simone de Beauvoir, a cacciatori e a guerrieri. L’attività critica sarebbe una occupazione da donnicciola – come sembra essere, spesso, la protesta comune – se non implicasse pericolo alcuno.
La critica può essere dolorosa, ma il critico ci parla come Amleto alla madre:
“Devo essere crudele per essere giusto.”
Sarebbe felice di tacere, ma la Giustizia gli forza la mano.   
Il primo compito dell’intellettuale è perseguire la Verità; il secondo è rendere pubblica la Verità al mondo.
Gli intellettuali non possono impedire ai politici e ai  militari di riempire la Storia con il chiasso dei loro odi e dei loro massacri; ma possono impedire loro di credersi grandi perché impegnati a compierli.
Per la sopravvivenza della civiltà non è necessario proibire il male o rinunciare al male, ma riconoscere il male, cosicché, anche quando viene violata, la morale resta tale.
Come osservava Niccolò Machiavelli, è un bene che i principi siano ipocriti, perché, così, possono riconoscere i principi che trasgrediscono. Machiavelli può, anche, avere insegnato ciò che è male, in alcune circostanze e non senza malinconia, ma per lui e per i principi da lui “ammaestrati”, il male, anche se utile e necessario alla politica, non cessava di essere male.
Il tradimento degli intellettuali è la mancata formulazione di questo giudizio.
Machiavelli, scrivendo di Cesare Borgia, ha fornito un esempio che gli intellettuali moderni hanno, spesso, imitato, compiacendosi davanti allo specchio delle loro menti di assumere le vesti non di potenti leaders politici, ma di chi ha accesso al potere, di chi è felice di bisbigliare all’orecchio del principe.
Il traditore ama la sua Nazione e vuole che sia forte e, poi, convinto che la forza dipenda dall’autorità, difende sistemi autocratici, forme di governo arbitrarie… la ragione di Stato, le religioni che insegnano la cieca sottomissione obbediente.
I falsi intellettuali sono i moralisti del realismo.
Si collocano all’interno del mondo reale, ne condividono le passioni, cui conferiscono l’autorità della mente e dello spirito.
Moralizzano la politica, conferendo alla politica un’aura di moralità e insegnano ai politici non tanto a compiere il male – in quanto ne comprendono bene la utilità e la necessità – quanto a pensare che il male sia un bene.
E, quindi, il male compiuto è tanto più grave, poiché viene intrapreso con entusiasmo e perseguito sistematicamente, perseguito con la coscienza pulita, senza i dubbi, le esitazioni e le notti insonni che costituiscono, spesso, l’unico contributo utile reso dagli intellettuali agli uomini e alle donne che abitano la sfera del reale.     
Ciò che è fondamentale è l’indipendenza del critico, il suo essere libero da responsabilità di governo, dall’autorità religiosa, dal potere corporativo, dalla disciplina di partito.
È una figura di opposizione e deve rimanere indipendente se vuole mantenere la propria opposizione.
Ma ritengo che non sia utile descrivere l’atteggiamento del critico, in stile sartriano, come opposizione assoluta, come antagonismo indiscriminato. Questa descrizione introduce nel mondo della critica sociale il modo di concepire se stessi tipico dell’avanguardia letteraria:
“L’homme de lettres”,
scriveva Charles Baudelaire,
“est l’ennemi du monde.”
L’opposizione totale è una specie di malafede.
Quando il pesce puzza, di’ che puzza; quando non puzza, non dire che puzza!
La speranza, così viva, solo pochi decenni fa, che l’attività critica avrebbe controllato e dato forma alla ribellione delle masse, sembra, oggi, morta e sepolta.
In realtà, questa speranza è morta di molte morti: negli Anni Venti e nei primi Anni Trenta, con la nascita del fascismo; alla fine degli Anni Trenta, con l’avvento della guerra;  negli Anni Cinquanta, con la tardiva denuncia dello stalinismo e, alla fine degli Anni Sessanta, con l’autodistruzione della nuova sinistra.
Chi può contare le sconfitte o valutare la portata della delusione?
Nell’ultimo anno prima della Seconda Guerra Mondiale il romanziere Edward Morgan Forster così si esprimeva in favore della disperazione:
“Non vi è nulla di disonorevole nella disperazione. Nel 1938-39 un uomo è vivo in modo tanto più completo quanta più disperazione è capace di prendere su di sé senza affondare.”
Dobbiamo preoccuparci, tuttavia, per la qualità della sua vita.
La cosa importante è non affondare e in che modo ci si tiene a galla se non criticando ciò che accade nelle acque circostanti?
“Sempre, in qualsiasi situazione,”,
ha scritto Martin Buber,
“è possibile fare qualcosa.”
Forse, non sempre!
La critica non è, mai, priva di motivi e giustificazioni, ma vi possono essere momenti terribili in cui non serva a nulla. E, nondimeno, due anni dopo l’affermazione di Forster sulla disperazione, George Orwell scriveva il suo pamphlet, The lion and the Unicorn, auspicando una rivoluzione inglese e un governo laburista; sei anni più tardi, Ignazio Silone tornava in Italia e aderiva al partito socialista e, nove anni dopo, Buber si trovava di fronte alla realtà del tutto inaspettata dell’indipendenza di Israele.
Le occasioni per fare critica, vale a dire le occasioni per sperare, sorgono anche nella peggiore epoca.
È necessario, dunque, che il critico sia pronto e conservi la propria indipendenza, mantenendo il contatto con la protesta comune, lucidando il suo specchio.
È come un pendolare in attesa di un treno che non ha orario.
Non sono solo le Guerre Mondiali o le crisi rivoluzionarie o le lotte di liberazione a fornire occasioni di critica.
Non operiamo sempre su così vasta scala, né, per ovvi motivi, dovremmo augurarcelo.
Le rivolte locali, le campagne riformiste, gli scioperi economici, le battaglie elettorali non sono meno importanti o promettenti delle rivoluzioni.
Sono solo meno pericolosi e assai più frequenti! 
Il critico deve lavorare per collegare l’evento in piccolo a una visione più ampia.
Trovare la propria strada sia nelle piccole sia nelle grandi battaglie, avere fiducia, superare le sconfitte, mantenere una forma di critica dall’interno, rilevante per la politica democratica e a questa fedele, questo significa, per me, avere coraggio nell’esercizio della critica della Società. 


Daniela Zini
Copyright © 14 gennaio 2018 ADZ


[1] “In America, in questo momento storico del mondo, non esiste una stampa indipendente. Lo sapete voi e lo so io. Non vi è nessuno tra voi che oserebbe scrivere le sue oneste idee e, se lo facesse,  già saprebbe che non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato settimanalmente per tenere le mie oneste idee fuori dal giornale con il quale collaboro. Altri di voi sono pagati con gli stessi salari per cose simili e chi di voi fosse così folle da scrivere oneste idee, si ritroverebbe subito sulla strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie oneste opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattro ore io avrei perso il mio posto.
Il compito del giornalista è distruggere la verità, mentire spudoratamente, corrompere, diffamare, scodinzolare ai piedi di Mammone e vendere il proprio Paese e la propria gente per il proprio pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io e quale follia è questa di brindare a una stampa indipendente?
Noi siamo gli strumenti e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite appartengono totalmente ad altri. Noi siamo prostitute intellettuali.”

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