di
Daniela Zini
“La mia
indipendenza che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza.”
Pier Paolo Pasolini
“There is no
such thing, at this date of the world’s history, in America, as an independent
press. You know it and I know it.
There is not
one of you who dares to write your honest opinions, and if you did, you know
beforehand that it would never appear in print. I am paid weekly for keeping my
honest opinion out of the paper I am connected with. Others of you are paid
similar salaries for similar things, and any of you who would be so foolish as
to write honest opinions would be out on the streets looking for another job.
If I allowed my honest opinions to appear in one issue of my paper, before
twenty-four hours my occupation would be gone.
The business of
the journalists is to destroy the truth, to lie outright, to pervert, to
vilify, to fawn at the feet of mammon, and to sell his country and his race for
his daily bread. You know it and I know it, and what folly is this toasting an
independent press?
We are the
tools and vassals of rich men behind the scenes. We are the jumping jacks, they
pull the strings and we dance. Our talents, our possibilities and our lives are
all the property of other men. We are intellectual prostitutes.”
John Swinton [1829-1901]
Quando viene messa in discussione non l’esistenza
in sé, ma l’esistenza nella Società, l’essere-per-gli-altri, allora il fatto di
protestare costituisce una prova sufficiente: protesto, dunque, esisto.
Noi discutiamo delle proteste, dunque, esistiamo.
E come il cogito
di Cartesio rappresenta l’inizio e non la fine dell’attività riflessiva – come
se, avendo dimostrato la sua esistenza pensando, potesse, poi, esistere senza
ulteriore riflessione –, così l’“io protesto” costituisce solo il
punto di partenza della Storia delle rivendicazioni.
Esprimere la propria protesta è una delle forme
elementari per far valere i propri diritti e reagire alla protesta rappresenta
una delle forme elementari di riconoscimento reciproco.
Censura politica, accusa morale, interrogazione
scettica, commento satirico, profezia biliosa, speculazione utopica, la critica
della società assume tutte queste forme.
Non è mia intenzione stabilire quando l’Uomo
abbia rivendicato, per la prima volta, il diritto di criticare, aspramente, i propri
simili.
È accaduto molto tempo fa!
Va, nondimeno, rimarcato che la critica sociale
ha una Storia.
I profeti dell’Antico Israele, a esempio, debbono
essere stati consapevoli del proprio ruolo di critici della Società, seppure si
ritenessero messaggeri divini.
Il profeta Amos, benché parlasse in nome di Dio, quando diceva:
“Io
detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni.”,
esprimeva e sapeva di esprimere la propria
collera e il proprio disprezzo.
E lo stesso Socrate, quando interrogava i suoi
concittadini sul loro concetto di bene, non era, forse, impegnato in quella
che, oggi, chiameremo “critica ideologica”?
Non vi è dubbio che avesse un senso pienamente
sviluppato del proprio ruolo critico:
“Che se voi ucciderete me, non sarà
facile troviate un altro al pari di me il quale – non vi sembri risibile il
paragone – realmente sia stato posto dal Dio ai fianchi della città come ai
fianchi di un cavallo grande e di buona razza, ma per la sua stessa grandezza
un poco tardo e bisognoso di essere stimolato, un tafano. Così appunto mi pare
che il Dio abbia posto me ai fianchi della città: né mai io cesso di
stimolarvi, di persuadervi, di rampognarvi, uno per uno, standovi addosso tutto
il giorno, dovunque. Io dico, dunque, che un altro come me non vi nascerà
facilmente, o cittadini: e perciò, se mi volete dare ascolto, mi risparmierete.
Ma voi, forse, siete infastiditi meco come chi stia per assopirsi se uno lo
sveglia, e tirate colpi; e così per obbedienza ad Anito, mi condannerete a
morte tranquillamente, e poi tutto il resto della vostra vita, seguiterete a
dormire se il Dio non si curi di voi mandandovi qualchedun altro in vece mia. E
che sia proprio io persona siffatta che il Dio abbia scelta per dare in dono
alla città, potrete riconoscere anche da questo: che non pare umano io abbia
trascurati tutti gli affari miei e sopporti ormai da tanti anni che siano
trascurate le cose di casa mia, e sempre invece io badi alle vostre, standovi
da presso, un per uno, come farebbe un padre o un fratello maggiore, per
persuadervi a seguire la virtù. Che se da questa vita io avessi qualche
profitto, e per i consigli che do ricevessi qualche compenso, allora una
ragione ci sarebbe: ma già lo vedete anche voi ora che gli accusatori miei, i
quali mi hanno accusato così sfrontatamente di tante altre colpe, di questa non
hanno avuto mai la sfrontatezza di accusarmi, portandovi davanti un solo
testimone a provare che anche una sola volta io mi sia fatto pagare un compenso
o l’abbia domandato. E il testimone sicuro ch’è vero quello che dico posso
portarvelo io: la mia povertà.”
Platone, Apologia
Molti sofisti debbono avere avuto un concetto analogo
di se stessi, anche se meno stravagante.
La Letteratura medievale e rinascimentale, “Specchio
dei Principi”, a esempio, si chiede solo cosa dovrebbe pensare e fare il
principe e non si esprime affatto sulla forma di governo esercitata dal
principe o sull’ordine gerarchico da lui difeso.
Censura i principi dotati di un cattivo
carattere, ma mai il principato in sé.
In tale ottica, la critica sistematica delle
istituzioni politiche e delle strutture sociali si può definire, a ragione, una
creazione moderna.
I bohémiens
dell’Ottocento, a esempio, nonostante il loro disprezzo per il filiteismo della
società borghese, solo occasionalmente e, in modo discontinuo, manifestarono
interesse per cambiare la società. Vivevano del loro disprezzo, ma non
producevano una critica seria.
“La
sensibilità della Bohème”,
scrive Alasdair Chalmers MacIntyre,
“la
taglia completamente fuori dalla vasta
massa dell’umanità, di cui i bohémiens sono dal punto di vista economico dei
parassiti.”
Non sembra esservi un grande desiderio di
istruire o riformare la massa, anche se è, spesso, presente il desiderio di
impressionare gli elementi più vigili. Forse, gli artisti e gli intellettuali bohémiens esternavano le tensioni
interne della Società borghese tra individualismo radicale e convenzionale
rispettabilità, come ha suggerito Jerrold Seigel, ma, solitamente, in modo
troppo eccentrico per risultare criticamente rilevante.
Karl Marx sosteneva che “l’arma della critica”
apre solo la strada alla “critica delle armi”.
Ma critica e rivoluzione sono due attività
diverse.
Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro e John Colet, criticarono
tutti la loro società, ma nessuno di loro fu un rivoluzionario.
E nel Novecento, i philosophes français, che erano, certamente, critici, si trovavano
a loro agio, nei salotti di Parigi e, perfino, nelle corti d’Europa. Jean-Paul Sartre
avrebbe voluto, forse, essere un rivoluzionario, ma al filosofo che fu lume e
guida della vita intellettuale francese e editore della rivista più influente
dell’Europa del Dopoguerra non se ne presentò, mai, l’occasione.
E ancora gli scrittori satirici romani, i frati
domenicani del Medioevo, gli umanisti del Rinascimento, tutti sono stati, a
modo loro, critici della Società. E che la critica si appunti su individui o su
strutture politiche e sociali è, sempre, di carattere morale. I suoi termini
fondamentali sono corruzione e virtù, oppressione e giustizia, egoismo e bene
pubblico. Se “vi è del marcio in Danimarca”, il marciume è costituito da una
politica errata o da una sua realizzazione non corretta o da un insieme di
relazioni sbagliato.
Di cos’altro potrebbe trattarsi?
I rischi dell’attività critica sono diversi in
rapporto alla situazione politica e sociale.
Perfino Gesù avrebbe, forse, potuto predicare
senza rischio se non fosse stato per la presenza dei romani!
Per alcuni l’attività critica comporta la
prigione e la morte, per altri è, virtualmente, priva di rischi. Si corrono
rischi più gravi quando si dà voce alle proteste comuni contro un regime
dittatoriale, come in Argentina sotto i generali, in Polonia all’epoca di Solidarnosc o in Sudafrica sotto il
regime dell’Apartheid.
Il critico, che parla a voce alta, a dispetto dei
poteri costituiti, è, dunque, un eroe e, a volte, è doppiamente un eroe, perché
critica sia il Potere sia il Popolo che si lamenta e non protesta a voce
sufficientemente alta oppure si limita a protestare senza mai agire o ad agire
in modo avventato e inefficace.
Immaginiamo un critico della società che spezzi i
legami con la famiglia e la patria, scopra la Vera Dottrina e, poi, torni per
giudicare i vecchi compagni e il loro modo di vivere sulla base dei suoi nuovi
parametri oggettivi.
Non vorremmo ucciderlo se fosse a conoscenza
della Verità e ci giudicasse spassionatamente, con imparzialità come un
perfetto estraneo?
Il critico sfida sia gli amici sia gli avversari,
condannandosi, in tale modo, alla
solitudine intellettuale e politica.
Indifferente alle passioni e ai sentimenti, molto
più che alle comodità fisiche della gente comune, il critico rappresenta le
passioni umane anziché viverle. È puramente disinteressato, si lascia guidare
unicamente dalla sete di Verità, noncurante delle esigenze della società.
È pericoloso per un intellettuale avere una Patria,
in quanto le tentazioni del nazionalismo sono le tentazioni più forti. Deve
giudicare il proprio Paese come se fosse cittadino di un altro Paese.
La ricerca della Verità a spese dei suoi legami
familiari o civici è un elemento che contraddistingue il critico e la Verità
che scopre attraverso il distacco conferisce alla critica il suo carattere
particolare di autorità.
Il distacco rende possibile la critica, ma questa
possibilità è conquistata a caro prezzo, perché richiede una rottura volontaria
con la comunità.
In casi estremi si trasforma in nemico del suo
Popolo.
È il caso di Gesù, visto come profeta e
redentore, che ci viene presentato, mentre dice ai suoi apostoli:
“Non
crediate che sia venuto a portare la pace sulla Terra: non sono venuto a
portare pace, ma la spada. Sono venuto, infatti, a separare il figlio dal padre
e la figlia dalla madre e la nuora dalla suocera, così che i nemici dell’uomo
saranno i suoi stessi familiari.”
E la condanna a morte gli conferisce la suprema
dignità di chi accetta il rischio, riservata altrimenti, come ha rilevato
Simone de Beauvoir, a cacciatori e a guerrieri. L’attività critica sarebbe una
occupazione da donnicciola – come sembra essere, spesso, la protesta comune –
se non implicasse pericolo alcuno.
La critica può essere dolorosa, ma il critico ci
parla come Amleto alla madre:
“Devo
essere crudele per essere giusto.”
Sarebbe felice di tacere, ma la Giustizia gli
forza la mano.
Il primo compito dell’intellettuale è perseguire
la Verità; il secondo è rendere pubblica la Verità al mondo.
Gli intellettuali non possono impedire ai
politici e ai militari di riempire la Storia
con il chiasso dei loro odi e dei loro massacri; ma possono impedire loro di
credersi grandi perché impegnati a compierli.
Per la sopravvivenza della civiltà non è
necessario proibire il male o rinunciare al male, ma riconoscere il male,
cosicché, anche quando viene violata, la morale resta tale.
Come osservava Niccolò Machiavelli, è un bene che
i principi siano ipocriti, perché, così, possono riconoscere i principi che
trasgrediscono. Machiavelli può, anche, avere insegnato ciò che è male, in
alcune circostanze e non senza malinconia, ma per lui e per i principi da lui “ammaestrati”,
il male, anche se utile e necessario alla politica, non cessava di essere male.
Il tradimento degli intellettuali è la mancata
formulazione di questo giudizio.
Machiavelli, scrivendo di Cesare Borgia, ha
fornito un esempio che gli intellettuali moderni hanno, spesso, imitato,
compiacendosi davanti allo specchio delle loro menti di assumere le vesti non
di potenti leaders politici, ma di chi
ha accesso al potere, di chi è felice di bisbigliare all’orecchio del principe.
Il traditore ama la sua Nazione e vuole che sia
forte e, poi, convinto che la forza dipenda dall’autorità, difende sistemi
autocratici, forme di governo arbitrarie… la ragione di Stato, le religioni che
insegnano la cieca sottomissione obbediente.
I falsi intellettuali sono i moralisti del
realismo.
Si collocano all’interno del mondo reale, ne
condividono le passioni, cui conferiscono l’autorità della mente e dello
spirito.
Moralizzano la politica, conferendo alla politica
un’aura di moralità e insegnano ai politici non tanto a compiere il male – in
quanto ne comprendono bene la utilità e la necessità – quanto a pensare che il
male sia un bene.
E, quindi, il male compiuto è tanto più grave,
poiché viene intrapreso con entusiasmo e perseguito sistematicamente, perseguito
con la coscienza pulita, senza i dubbi, le esitazioni e le notti insonni che
costituiscono, spesso, l’unico contributo utile reso dagli intellettuali agli
uomini e alle donne che abitano la sfera del reale.
Ciò che è fondamentale è l’indipendenza del
critico, il suo essere libero da responsabilità di governo, dall’autorità
religiosa, dal potere corporativo, dalla disciplina di partito.
È una figura di opposizione e deve rimanere
indipendente se vuole mantenere la propria opposizione.
Ma ritengo che non sia utile descrivere l’atteggiamento
del critico, in stile sartriano, come opposizione assoluta, come antagonismo
indiscriminato. Questa descrizione introduce nel mondo della critica sociale il
modo di concepire se stessi tipico dell’avanguardia letteraria:
“L’homme de lettres”,
scriveva Charles
Baudelaire,
“est
l’ennemi du monde.”
L’opposizione totale è una specie di malafede.
Quando il pesce puzza, di’ che puzza; quando non
puzza, non dire che puzza!
La speranza, così viva, solo pochi decenni fa,
che l’attività critica avrebbe controllato e dato forma alla ribellione delle
masse, sembra, oggi, morta e sepolta.
In realtà, questa speranza è morta di molte
morti: negli Anni Venti e nei primi Anni Trenta, con la nascita del fascismo; alla
fine degli Anni Trenta, con l’avvento della guerra; negli Anni Cinquanta, con la tardiva denuncia
dello stalinismo e, alla fine degli Anni Sessanta, con l’autodistruzione della nuova
sinistra.
Chi può contare le sconfitte o valutare la
portata della delusione?
Nell’ultimo anno prima della Seconda Guerra
Mondiale il romanziere Edward Morgan Forster così si esprimeva in favore della
disperazione:
“Non
vi è nulla di disonorevole nella disperazione. Nel 1938-39 un uomo è vivo in
modo tanto più completo quanta più disperazione è capace di prendere su di sé
senza affondare.”
Dobbiamo preoccuparci, tuttavia, per la qualità
della sua vita.
La cosa importante è non affondare e in che modo
ci si tiene a galla se non criticando ciò che accade nelle acque circostanti?
“Sempre,
in qualsiasi situazione,”,
ha scritto Martin Buber,
“è
possibile fare qualcosa.”
Forse, non sempre!
La critica non è, mai, priva di motivi e
giustificazioni, ma vi possono essere momenti terribili in cui non serva a
nulla. E, nondimeno, due anni dopo l’affermazione di Forster sulla
disperazione, George Orwell scriveva il suo pamphlet, The lion and the Unicorn, auspicando
una rivoluzione inglese e un governo laburista; sei anni più tardi, Ignazio
Silone tornava in Italia e aderiva al partito socialista e, nove anni dopo, Buber
si trovava di fronte alla realtà del tutto inaspettata dell’indipendenza di
Israele.
Le occasioni per fare critica, vale a dire le
occasioni per sperare, sorgono anche nella peggiore epoca.
È necessario, dunque, che il critico sia pronto e
conservi la propria indipendenza, mantenendo il contatto con la protesta
comune, lucidando il suo specchio.
È come un pendolare in attesa di un treno che non
ha orario.
Non sono solo le Guerre Mondiali o le crisi
rivoluzionarie o le lotte di liberazione a fornire occasioni di critica.
Non operiamo sempre su così vasta scala, né, per
ovvi motivi, dovremmo augurarcelo.
Le rivolte locali, le campagne riformiste, gli
scioperi economici, le battaglie elettorali non sono meno importanti o
promettenti delle rivoluzioni.
Sono solo meno pericolosi e assai più frequenti!
Il critico deve lavorare per collegare l’evento
in piccolo a una visione più ampia.
Trovare la propria strada sia nelle piccole sia
nelle grandi battaglie, avere fiducia, superare le sconfitte, mantenere una
forma di critica dall’interno, rilevante per la politica democratica e a questa
fedele, questo significa, per me, avere coraggio nell’esercizio della critica
della Società.
Daniela Zini
Copyright © 14
gennaio 2018 ADZ
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