“He who controls the past controls the future.
He who
controls the present controls the past.”
George
Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by accident.
If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
à mon Père, le premier Homme de ma
vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa.
La vraie Mort,
c’est le rien.
Il faut
résister à cela, que la Mort soit quelque chose, qu’elle fasse partie de la
Vie, qu’elle soit en état de complicité incessante.
Notre façon d’être
avec la Mort, de rencontrer la Mort, est toujours une répétition. C’est à la
fois la répétition d’une Mort, la répétition du Passé et du Futur.
Et chaque Mort
qui nous arrive est alimentée par la source, le torrent des autres Morts.
Et ce que nous
perdons, à chaque fois, c’est un Enfant.
Lorsque mon
Père… – je crois que je ne parviendrai jamais à articuler ces quatre petits
mots si lourds:
“Mon père est mort.”
– j’ai perdu l’enfant
qu’il était pour moi, l’Enfant que j’étais pour Lui, l’Enfant que je suis pour
moi.
Tout pour moi
dans la Vie s’accompagne d’un indice de “encore”.
Ainsi, mon
Père est encore là.
Je ne peux pas
traverser un jardin avec Lui et regarder un fil d’herbe pousser, sans me
dédoubler et me voir, à ce moment même, regarder ce fil d’herbe avec mon Père,
bercée par les notes d’une Musique ouvrant un Passé-Futur.
Nous pouvons
vivre notre Mort dans la fin brutale d’un Amour, dans la perte narcissique.
Nous devenons mortels et faisons la connaissance de la mortalité dans ce
rapport à l’Autre. De telle sorte que la moitié sera séparée de la moitié et
devra la garder.
Quant à ceux qui emportent un morceau de nous-mêmes, il y a un tissage à faire, c’est un
immense travail.
Renouer sans
cesse, tendre l’oreille, tendre l’attention.
Ce n’est pas
un se rappeler, mais appeler, évoquer.
Notre Sort, c’est
de ne pas laisser derrière nous.
Crediamo,
veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da
società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo
assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta,
dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte
delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno
alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi,
che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può
essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce
del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo
assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti
della stampa, riuniti presso l’Hotel
Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul
pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società
libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i
pericoli che vengono invocati
a giustificazione. […]”
La
storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di
potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.
Pressoché
tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste
società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che
si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il
mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che
suscitano appena se ne parli.
E
se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che
ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono
state, sono così potenti come si pretende?
Vi
è motivo di temerle?
Tante
domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società
segrete più celebri della storia.
In
questo reportage, solidamente
documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute,
riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il
linguaggio, che sono loro propri.
Se
le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di
meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo
sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in
paranoia.
Dedicare
una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto
[di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci
che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una
conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari,
diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e
illuminante. Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono
stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui
non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un
disco volante.
Una
delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è
che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive
Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in
miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio
delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce
di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e,
forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe
stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla
ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché
si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il
divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una
unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio
dell’uomo alla parola, i due poli della
sua esistenza.
Nessuno
sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia
stato, mai, abitato.
Ma
che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo
bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le
proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi
concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque,
l’iniziazione.
È
possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere
nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un
mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità,
i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo
greco-romano.
In
seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi
Templari.
Nel
Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il
leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della
Massoneria.
Il
XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società
segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più
diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica.
Il
periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in
particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a
apocalittiche.
La
storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste
una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto
delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma
ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E,
per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste
società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti
più antichi in nostro possesso.
Vi
farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso,
sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò,
subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di
affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la
manipolazione.
Un
nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
7. OPERATION HUSKYdi Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO
DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
V. LA MAFIA
AMERICANA
di
Daniela Zini
The Untouchables
Seduti da sinistra: Jim Berenton, Al Aman, Gus Simons, Ray
Casserly, Walter Miller; in piedi da sinistra: Tom Scott, Lee Donahue, Bob
Ford, Ivan Caushift, Sconosciuto, Eliot Ness.
Scena tratta dal film Il Padrino di
Francis Ford Coppola: Amerigo Bonasera [Salvatore Corsitto] chiede a don Vito
Corleone [Marlon Brando] la vendetta per l’aggressione alla figlia [sfigurata
da alcuni ragazzi di buona famiglia dopo un tentativo di stupro].
Bonasera: Io credo
nell’America. L’America ha fatto la mia fortuna e io crescii mia figlia come un’americana.
Ci detti libertà ma ci insegnai puro a non disonorare la famiglia. Idda avia un
boyfriend non italiano, se ne ivano u cinema insieme, tornavano a casa tardi e
io non protestavo. Due mesi fa lui l’invitò in macchina conn’autro amico suo,
la fecero bere whisky e poi cercarono di approfittarsi di lei. Lei resistette.
L’onore lo mantenne. Iddi la pestarono come un animale. Quando arrivai all’ospedale
la sua faccia faceva paura, la mascella era rotta, l’aviano cusuta cu fil di
ferro e neanche chiangere poteva, tant’era o male. Ma io chiangeva, povera
figghia mea, ca a luce era degli occhi miei, bellissima era... non sarà cchiù
bedda come prima [Pausa. Piange. Gli portano un bicchierino di liquore] M’avite
a scusare. Andai alla polizia da buon americano, i due furono pigghiati e
processati. O giudice li condannò, ma non avìano precedenti e ci dette la
condizionale, sospensione della pena, li fece uscire nello stesso giorno. Io
restai dint’a chell’aula come un fesso e quei due bastardi mi ridevano in
faccia. Allora dissi a mia moglie: per la giustizia dobbiamo andare da Don
Corleone.
Don Corleone: Ma
perché andaste alla polizia, perché non veniste da me subito?
Bonasera: Che cosa
volete da mia, domandatemi tutto, ma facite chiddu che m’aspetto da voi.
Don Corleone:
Sarebbe a dire...?
1.
Il braccio violento del dollaro
Charles Marion
Russel, In without knocking.
Charles
Marion Russel, The Hold Up.
Dal rapido arricchimento di trafficanti senza scrupoli, dai
bari, dalla omertà e le collusioni ebbe origine il banditismo organizzato su
scala nazionale.
La prima forma di gangsterismo risale all’epoca in cui i
pionieri, ammazzatisi durante un’annata per trarre qualcosa dalla terra,
acquistata con ipoteche offerte con maliziosa “liberalità” dai banchieri, non
potevano fare fronte ai loro impegni; allora entravano in scena i pistoleros assoldati dalle banche, i
quali trovavano, sempre, il modo di far pagare, puntualmente, ai debitori le
loro rate. Del pari, a questi fuorilegge non occorse molto per persuadere i Pellirosse
a cedere le terre di loro proprietà ai capitalisti e anche andarsene senza
troppe storie. D’altronde, rimasero tristemente famosi i cacciatori di Indiani
, arruolati dai costruttori della ferrovia del Colorado. Anche le autorità, in
certi casi, ricorrevano con disinvoltura ai delinquenti.
I misfatti di Butch Cassidy, Al Capone, Albert Anastasia.
Charles Marion
Russel, Camp Cook’s Troubles.
Non si arriva a comprendere la incredibile
potenza del gangsterismo degli Anni Venti o dei bosses della droga se non si risale alle origini di quel fenomeno –
il banditismo – che, se non fu, esclusivamente, americano, negli Stati Uniti
fece scuola ed ebbe i suoi episodi più drammatici.
È, perfino, ovvio che la delinquenza
organizzata non avrebbe potuto compiere pressoché indisturbata imprese che
hanno del fantastico, ben oltre il “colpo” in banca o l’assalto al treno, se
non avesse avuto alle spalle appoggi e protezioni di ogni genere e una
organizzazione perfetta, di tipo industriale. A questo complesso di omertà e di
collusioni noi oggi diamo un nome, Mafia, e sappiamo che la Mafia non è
soltanto un nome, anche se, forse, non si arriverà, mai, a definire cosa sia,
in tutte le sue molteplici e sconcertanti sfaccettature. Ma resta il fatto che
la criminalità si è sviluppata, ha prosperato e si è estesa come una piovra su
infiniti settori, perché vi è sempre stato chi se ne è servito per i suoi fini.
È per questo che una storia del
genere deve, necessariamente, prendere le mosse dai primi dell’Ottocento. A
quell’epoca le potenti compagnie formate dai banchieri europei per finanziare i
primi coloni e i primi mercanti si erano, già, trasformate in “gruppi” – l’embrione
dei giganteschi trusts –, i cui
capitali provenivano dal rapido arricchimento di trafficanti senza scrupoli, di
cercatori di oro, di bari.
Quegli avventurieri del dollaro,
divenuti favolosamente ricchi, nel giro di pochi anni, non comprendevano perché,
possedendo 10, dovessero accontentarsi di guadagnare 20 e non 100, se quando
avevano 1 avevano guadagnato 10.
Perché, avendo 100, non avrebbero
dovuto puntare a 1.000?
La differenza tra 10 e 1.000 era la
stessa tra corretti investimenti commerciali e speculazione, tra onestà e
criminalità.
I grandi finanzieri di allora – i
fondatori delle varie dinastie del dollaro – non ebbero esitazioni.
Il settore che prometteva i più lauti
guadagni era la compravendita di terre.
Il famoso Va’ all’Ovest, giovanotto, e fa’ fortuna fu uno degli slogans di maggiore successo nella
storia della pubblicità e la molla che mise in moto interi popoli.
Dall’Europa continuavano a giungere, ogni
anno, decine di migliaia di emigranti, all’inseguimento del loro pot o’ gold, il loro “pizzico di oro”,
le loro briciole di fortuna. A questi si aggiungevano decine di migliaia di braccianti
e di operai – trapiantati da qualche generazione nelle città della costa
atlantica – delusi nelle loro speranze e nelle loro ambizioni.
Tutti volevano una seconda occasione
e chiedevano terre, disposti a pagare tutto ciò che possedevano per acquistarle.
Nessun problema per questo: gli
immensi territori ancora incolti e disabitati delle praterie bastavano per
tutti.
Per i baroni del dollaro si trattava
solo di giungere prima degli altri e di assicurarsi, legalmente, la proprietà
delle terre, in modo che i pionieri, una volta arrivati sul posto, non avessero
scelta: o acquistare da loro, ai prezzi che loro imponevano o tornare indietro,
alla schiavitù del bracciantato o alla frustrazione delle fabbriche.
E, innegabilmente, nessuno tornava indietro.
Se i suoi risparmi non erano
sufficienti ad acquistare la fattoria su cui aveva messo gli occhi, la banca
locale – emanazione di un più potente gruppo finanziario – gli offriva una
vantaggiosa ipoteca.
Avrebbe pagato un po’ all’anno, con i
suoi raccolti…
Qualche anno di stenti, poi, il
padrone della fattoria sarebbe stato lui.
Una prospettiva, senza dubbio alcuno,
allettante.
Perché, per gli speculatori di terre,
tutto funzionasse secondo le previsioni, consentendo guadagni del 1.000 per 1,
vi erano due sole difficoltà.
La prima, che quelle terre i proprietari
ne avevano già, anche se non legalmente riconosciuti: gli Indiani.
La seconda, che era difficile far
tirare fuori la rata della ipoteca a gente che, arrivata finalmente al primo
raccolto, si rendeva conto di essersi ammazzata di fatiche e di sacrifici per
nulla, per dare tutto alla banca che aveva acceso l’ipoteca e restare più
poveri di prima.
Nacque così l’imprevedibile alleanza
tra banchieri e fuorilegge.
Chiunque sapesse maneggiare le armi e
non avesse scrupoli a usarle fu arruolato dai banchieri.
Molti erano ricercati per furto e
omicidi, rifugiatisi nel West per eludere le prigioni di Boston.
Al soldo dei potenti padroni
trovarono l’immunità e, perfino, una solida rispettabilità.
Pensavano i pistoleros a persuadere i Pellirosse a cedere le terre e ad
andarsene senza troppe storie.
Sappiamo come!
Provvedevano loro a convincere i
coloni a pagare, puntualmente, le rate dell’ipoteca.
Era meno pesante privarsi dei nove
decimi del raccolto davanti a un paio di pistole spianate, sapendo che, già,
qualcuno aveva saldato il debito, perdendo non solo il raccolto, ma anche la
fattoria e la vita!
Gli speculatori prosperavano e, con
loro, prosperarono le bande dei desperados.
Di loro si servirono anche i costruttori delle ferrovie – rimasero tristemente
famosi i cacciatori di Indiani, arruolati dal reverendo John Milton Chivington,
proprio per conto dei costruttori della ferrovia del Colorado – e i grandi
latifondisti del Sud, per tenere buoni gli schiavi delle piantagioni di cotone.
La delinquenza è, sempre, stato il
braccio violento del dollaro, neppure troppo nascosto.
Del resto, le stesse autorità
ricorrevano con disinvoltura all’aiuto dei fuorilegge, quando per loro era
conveniente.
Quando nel 1814, New Orleans si trovò
sotto il tiro delle artiglierie inglesi, per salvare la città venne chiesto
aiuto a Pierre e Jean Lafitte, i famigerati pirati cui si attribuivano decine
di saccheggi e di omicidi.
Charles Marion Russell insiem e a Wallace Stairley, 1887.
Charles Marion Russell ed Ensign Sweet, circa 1888.
Charles Marion Russel, 1909.
Da sinistra: Frank Bird Linderman, il Capo dei Chippewa Big Rock
e Charles Marion Russell, 1916.
Nel 1854, il Kansas ebbe il
riconoscimento di territorio non organizzato, preludio al suo ingresso tra gli
Stati Uniti dell’Unione con tutti i diritti conseguenti.
William Clarke Quantrill
L’avvenimento ebbe notevoli
ripercussioni, in quanto allora gli Stati favorevoli allo schiavismo erano
esattamente in parità con quelli che, invece, intendevano abolirlo. Il voto dei
rappresentanti del nuovo Stato sarebbe risultato determinante per far pendere
la bilancia da una parte o dall’altra, con tutte le conseguenze politiche ed
economiche.
Ma gli stessi abitanti del Kansas
erano ancora incerti e divisi.
Per portarli dalla loro parte, le
organizzazioni degli Stati vicini – schiavisti e non – ricorsero ai fatti,
giacché le parole si erano dimostrate troppo poco convincenti.
I fatti furono, ancora una volta, l’intimidazione,
la minaccia, la paura. I più noti antischiavisti furono massacrati a colpi di
fucile in una serie di imboscate; i più fortunati videro sparire tutto il loro
bestiame o trovarono le loro fattorie in fiamme. Gli autori di quelle imprese
erano i bushwakers, briganti delle
foreste, banditi mascherati che piombavano al galoppo sfrenato, sparavano,
uccidevano, incendiavano e, subito, sparivano; ma sparivano portandosi via
intere mandrie di cavalli e migliaia di capi di bestiame.
Fu, subito, evidente che erano stati
i grandi allevatori e i proprietari terrieri del Missouri – ai quali
occorrevano gli schiavi per la prosperità delle loro aziende – a organizzare
quelle bande: a mettere insieme gli uomini, ad armarli e a lanciarli contro i
loro avversari.
I finanzieri dell’Illinois, cui
conveniva un futuro di tipo industriale e non agricolo, e, quindi, l’abolizione
della schiavitù, ricorsero allo stesso mezzo: formarono altre bande, i jayshawkers, razziatori, che aizzarono
contro le fattorie e gli allevamenti degli schiavisti del Kansas.
Così, per oltre dieci anni, in quei
territori, rapine, furti di bestiame, saccheggi, massacri furono non
criminalità, ma guerriglia.
Nel 1861, il capo riconosciuto delle
varie bande di bushwakers era un
ladro di cavalli arrivato dal Maryland, Clarke “Charley” Quantrill. A costui,
allo scoppio della Guerra Civile, lo stesso presidente confederato, Jefferson
Davis, concesse una “patente” perché operasse con le sue bande irregolari lungo
il confine, ai danni dei Nordisti.
Il maggiore Quantrill – non sappiamo se
l’ex-ladro di cavalli il grado se lo fosse autoattribuito oppure lo avesse ricevuto
ufficialmente – riorganizzò la sua banda, cui diede il nome di Brigata Nera, su basi militari e vi
accolse molti delinquenti con molti delitti sulla coscienza e qualche giovane
idealista.
Le principali azioni di guerra
compiute dalla Brigata Nera furono
una serie di assalti al treno e di rapine in banca, interpretate come azioni di
sabotaggio, culminate nel Massacro di Centralia, dove furono uccisi in una
imboscata più di duecento federali: ma erano cavalleggeri che inseguivano i
banditi.
Charles Marion Russel, 1910.
Non di rado, le azioni erano
architettate dallo stato maggiore sudista. Fu, certamente, questo il caso della
spedizione su Missouri City, progettata dal generale Sterling Price, comandante
della cavalleria confederata, per far saltare il ponte di quella città, che era
il transito obbligato per i rifornimenti alle truppe unioniste. Price affidò la
missione a una delle bande di Quantrill, quella capitanata da William Anderson,
un ex-ladro di cavalli del Kansas, che, per la sua ferocia veramente inumana,
veniva chiamato Bill il Sanguinario. Autore di più di trecento omicidi, aveva
la barbara usanza di strappare alle vittime lo scalpo per adornarsene la
giubba. A chi gli chiedeva perché non si accontentasse di tagliare gli orecchi
ai prigionieri, come facevano gli altri uomini della Brigata Nera, rispondeva:
“Perché degli orecchi non so
cosa farmene.”
Ma a Missouri City ad Anderson andò
male.
Le spie avevano preavvertito i
Nordisti.
Bill il Sanguinario e i suoi dodici
guerriglieri caddero nell’imboscata che era stata tesa, proprio all’imbocco del
ponte che dovevano distruggere. In un attimo furono crivellati di pallottole.
La testa di Anderson fu tagliata e conficcata su un palo telegrafico, come
monito.
Tra i giovani idealisti accorsi nelle
fila della Brigata Nera vi furono i
fratelli Frank e Jesse James, con quattro loro cugini, gli Younger. Tutti
ragazzi di ottima famiglia, che tra i parenti più stretti contavano ufficiali
confederati, pastori protestanti, allevatori, medici. Come guerriglieri non fecero gran che; ma,
svaligiando banche e assaltando treni, appresero abbastanza da poter continuare
da soli, una volta finita la guerra.
E Jesse James fu il capo della prima
banda vera e propria di fuorilegge, che insanguinò il Missouri e gli Stati
vicini, fino al 1882, quando il suo capo venne ucciso a tradimento. Ma, proprio
per il suo passato di guerrigliero della Confederazione, Jesse James riuscì a
circondarsi di un mito romantico, da Robin Hood della prateria, che gli valse
simpatie e protezioni.
Un mito di cui avrebbero beneficiato
anche molti suoi emuli.
Seduti da sinistra a destra: Harry A.
Longabaugh, alias Sundance Kid; Ben
Kilpatrick, alias Tall Texan; Robert
Leroy Parker, alias Butch Cassidy; in
piedi: Will Carver, alias News Carver, e Harvey Logan, alias Kid Curry, Fort
Worth, Texas, 1900.
Di Charles Earl Bowles, detto Black Bart, i giornali mettevano in
risalto che era un ex-ufficiale confederato e con questo avevano l’aria di
giustificare le sue imprese: una trentina di rapine. Bowles era un insegnante,
divenuto bandito per caso. Aveva il vizio di fare scherzi a chiunque. Una sera,
udì le sonagliere della diligenza e architettò un nuovo scherzo al postiglione,
suo amico. Si bendò il volto, strappò da un albero un rametto che poteva
sembrare una pistola e si mise in mezzo alla strada…
Con sua sorpresa, il postiglione gli
lanciò ai piedi la cassetta dei valori e frustò i cavalli per darsi alla fuga.
“Se rapinare le diligenze è così
facile”,
considerò il maestro,
“è meglio che lasci la scuola e
mi dedichi a questo genere di passatempo.”
La storia di Black Bart è rivelatrice di un clima di paura e di sfiducia nella
giustizia, che bastò da solo a far largo al banditismo. A questo andavano
aggiunti i rancori sordi dei poveri che, costretti a lavorare come schiavi, per
compensi irrisori, dovevano subire continue umiliazioni da parte dei cattle barons, i baroni del bestiame e
dei loro pistoleros.
Era inevitabile che ai loro occhi un
fuorilegge apparisse una specie di guerrigliero eroico e idealista, che
combatteva gli odiati padroni come loro non avevano il coraggio di fare, e che
gli offrissero omertà e protezione.
Un giorno, uno di questi peones – un ragazzo di soli dodici anni
– reagì all’insulto di un pistolero,
strappandogli la pistola dalla fondina e scaricandogliela nel petto. Poiché l’uomo
era l’intendente del baron locale, il
ragazzo fu costretto a fuggire per sottrarsi non tanto alla giustizia, quanto
alla vendetta. Fu raggiunto, portato nel saloon
e processato; condannato all’impiccagione con una sentenza sbrigativa. Mentre i
suoi catturatori appendevano la corda a una trave, il ragazzo approfittò di un
loro attimo di distrazione per impadronirsi di una pistola e farsi largo,
sparando furiosamente.
Riuscì, ancora, a fuggire, ma, oramai,
la sua vita era segnata.
Poteva soltanto darsi al
banditismo.
Si
chiamava William Bonney, detto Billy the
Kid.
Billy divenne popolarissimo, esaltato
da innumerevoli ballate.
Il popolo e gli stessi giornalisti
videro in lui un purissimo Robin Hood…
La realtà era ben altra.
The
Kid,
il Ragazzo, era uno spietato assassino e teneva il conto degli omicidi commessi
facendo per ciascuno una tacca sul calcio della pistola.
Quando cadde, il 14 luglio 1881,
fulminato dall’infallibile carabina dello sceriffo Pat Garrett che gli aveva
dato, a lungo, la caccia, la sua pistola aveva ventuno tacche; ma a quelle
uccisioni si dovevano aggiungere gli ancora più numerosi neri e indiani, che
Billy non considerava degni di figurare nella sua macabra contabilità.
A parte queste sfumature patriottiche
e romantiche, la vera matrice del banditismo furono i pistoleros, assoldati dagli allevatori per difendere le loro
mandrie e per rubare le mandrie dei concorrenti.
Tra le varie guerre di cui è ricca la
storia americana, vi fu anche la cosiddetta guerra degli allevatori, combattuta,
nel 1880, tra i grandi allevatori di bestiame per il possesso dei pascoli e
trascinatasi per un decennio.
Si formarono alla scuola dei cattle barons anche Bill Doolin e Butch
Cassidy, gli autori delle più clamorose rapine della fine dell’Ottocento; ma,
per entrambi, banche e treni erano solo un diversivo al loro “lavoro” regolare
di pistoleros, al soldo di qualche grande
allevatore. Ed entrambi, benché si fossero macchiati di numerosi omicidi,
vennero lasciati in pace fino a quando rimasero fedeli ai padroni.
Va aperta una parentesi, per spiegare
come mai in quegli anni tanti giovani si dedicassero al banditismo.
Per Jesse James e i fuorilegge del
suo tempo la spiegazione era evidente.
Per la generazione successiva, gli
sconvolgimenti della Guerra Civile erano lontani e dimenticati, ma a questi si
era sostituita la miseria, conseguenza della grande siccità del 1883 e del
tracollo dei prezzi che il bestiame subì nel 1885 e negli anni successivi. La
grave disoccupazione tra i cow-boys e
tutti quelli che vivevano dell’allevamento del bestiame – conseguenza anche
dello smembramento dei ranches
sconfinati a favore della creazione di più piccoli appezzamenti agricoli – fu l’anticamera
inevitabile della delinquenza.
Centinaia di cow-boys disoccupati iniziarono a battere le praterie in cerca di
che sfamarsi. Un furto, una rapina, una taglia li spingevano sempre più
lontano, finché trovavano accampamenti sperduti formati da altri desperados come loro. Ladri di cavalli,
fuorilegge, cow-boys senza tetto e
senza lavoro, banditi di ogni risma, ricercati costituivano allora delle strane
comunità, che andavano molto oltre i limiti di una banda di fuorilegge: erano
città, Nazione, con le proprie leggi, le proprie autorità, il proprio
esercito.
Al Brown’s Hole, un ciuffo di rocce
nella prateria del Wyoming Settentrionale, una di queste comunità diede vita a
due bande separate, ma interdipendenti: il Branco
Selvaggio, che si agglomerò intorno a Butch Cassidy e la Fascia Rossa di Sam Champion. Godevano
della protezione dei banchieri più ricchi e potenti dello Stato, che vendevano
per loro conto il bestiame rubato e partecipavano agli utili. Sembra
impossibile che degli autentici geni dell’alta finanza si sporcassero le mani
per le provvigioni ingenti, ma per loro trascurabili, che ricavavano dalla
compravendita del bestiame rubato.
E, infatti, erano ben altri i
guadagni.
Quando dalle loro banche veniva
spedito un carico d’oro, le preziose casse venivano caricate sul treno o sulla
diligenza sotto gli occhi di tutti: l’intera città poteva testimoniarlo. Poi,
accadeva, regolarmente, che treni e diligenze venissero svaligiati lungo il
viaggio. Solo trenta anni dopo, venne scoperto che le casse contenevano sassi e
nient’altro. Era tutta una messinscena, perché i banchieri potessero farsi rifondere
dalle società assicuratrici furti che non avevano mai subito. E i fuorilegge,
che dall’assalto al treno ricavavano solo dei sassi, venivano compensati
lautamente per quei favori, con la possibilità di vendere il bestiame rubato,
di cui altrimenti non avrebbero mai potuto disfarsi. Gli allevatori,
danneggiati dai furti continui, ottennero la costituzione di una commissione
governativa per il controllo del bestiame. Tutto inutile; la comunità del Brown’s
Hole veniva avvertita delle ispezioni con almeno un mese di anticipo, perché
avesse tutto il tempo di far sparire i capi rubati.
Ottennero l’arresto di ben 180
componenti della banda; ma uno solo venne effettivamente processato e
condannato: la spia che aveva portato all’arresto degli altri!
Infine, gli allevatori decisero di
farsi giustizia da soli.
Formarono un comitato di sterminio e
armarono un esercito di un migliaio di pistoleros,
che, l’8 aprile 1892, mosse all’attacco del Brown’s Hole. Lo scontro era appena
iniziato, quando intervennero numerosi squadroni di cavalleria che, galoppando
tra le due schiere opposte, intimarono la cessazione del fuoco. La conclusione
della battaglia può sembrarci paradossale: 240 arresti. Tutti ed
esclusivamente, gli uomini armati dagli allevatori, che furono costretti a
sfilare, disarmati e solidamente legati, sotto gli occhi dei fuorilegge.
Legalmente, erano stati loro a essere
sorpresi in flagrante reato!
I banchieri non erano gli unici
personaggi potenti legati al Branco
Selvaggio e alla Fascia Rossa. Le
due bande avevano come consulente tecnico A. G. Angus e come avvocato difensore
Charles W. Burnitt: il primo era sceriffo di Buffalo City, il secondo sindaco
della stessa città.
Ancora una volta balzano agli occhi
le analogie con i gangsters più
vicini a noi.
Albert Anastasia, il boss di New York, dal 1930 al 1957, poté
agire indisturbato per un quarto di secolo, perché si era assicurato i servigi
di William O’Dwyer e James Moran, sindaco e cancelliere della città. Quando l’imprevedibile
associazione venne smascherata, Moran finì in prigione, O’Dwyer se la cavò con
le dimissioni.
Tutti gli ingredienti del banditismo
dell’Ottocento si ritrovano – con i perfezionamenti dovuti alla tecnica e all’organizzazione
moderna – nel gangsterismo degli Anni Venti, che trasferì nelle metropoli i
metodi dei pistoleros e dei barons del West.
In realtà, la trasformazione del
banditismo campagnolo nel gangsterismo stracittadino avvenne molto prima.
Foto segnaletica di Albert Anastasia
Parghelia, 26 settembre 1902 – New York, 25 ottobre 1957
Già, alla fine dell’Ottocento, a New
York, Chicago, Detroit e in infinite altre città vi erano associazioni
criminali che prendevano il sopravvento su quelle rivali a colpi di pistola e
stabilivano il proprio potere con la connivenza delle autorità locali; ma erano
ancora imprese a livello artigianale, legate alla intraprendenza e al prestigio
di qualche fuorilegge intorno al quale gravitavano pochi accoliti, che si
scioglievano con l’arresto o la morte del capo.
Perché la criminalità potesse
portarsi a un livello “industriale”, occorrevano, ancora, una “manodopera”
molto più numerosa e soprattutto “cervelli”, che sapessero trovare il modo di
beffarsi della legge, agendo sul filo della legalità e procurandosi protettori
influenti per quello che ricadeva sotto i rigori della legge.
Con la massiccia emigrazione
siciliana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il
gangsterismo all’americana trovò e le braccia e le menti.
Fu la mafia a “mettere ordine” nel
banditismo americano e a dargli mete ambiziose.
E, dal matrimonio tra banditi e
mafiosi, sarebbe nata la figura ancora inedita del gangster.
Cessarono, allora, attacchi ai treni e
svaligiamenti di banche. Erano colpi fruttuosi ma sporadici.
Rendeva molto di più – se bene
organizzato – ed era meno rischioso il racket,
che era stato inventato da Butch Cassidy.
Il bandito, quando decise di mettersi
sulla retta via, aveva escogitato un buon sistema per vivere nel lusso di cui
non sapeva fare a meno. Si presentava a un allevatore e gli offriva i suoi
servigi come pistolero, chiedendo un
lauto premio di ingaggio. Se qualcuno rifiutava, pochi giorni dopo – quando
trovava la mandria dimezzata o il ranch
in fiamme – si pentiva di non avere assunto una buona pistola per difendere i
suoi beni…
Pochi esempi bastarono perché tutti
comprendessero.
Nessuno più rifiutò di ingaggiare il pistolero; il quale, incassato il
premio, restava un paio di giorni e, poi, se ne andava in cerca di un nuovo padrone.
Queste “protezioni” furono il primo
campo di azione dei nuovi gangsters.
Nella foto i fratelli Anastasia, una delle tante famiglie
mafiose italo-americane: da sinistra, seduti Antonio [Tony], Giuseppe [Joe],
don Salvatore, Umberto [Albert]. In piedi Gerardo [a destra] e il nipote Antonio.
Tony era il capo del potente sindacato dei portuali, Albert [https://www.youtube.com/watch?v=x4llq2Vnu_M],
destinato a morire falciato da una raffica di mitra, mentre era dal barbiere, ]
il creatore dell’Anonima Assassini.
Don Salvatore, arrivato a New York dalla Calabria, per raggiungere i fratelli
dopo essersi fatto prete, giurò fino all’ultimo di non sapere nulla delle loro
attività criminali:
“La tragedia della
mia vita cominciò con un giornale deposto da una vecchia signora sui banchi
della chiesa della Cromwell Avenue.”
Era il Natale del 1950 e scoprì, su quel quotidiano, che la
Commissione sul Crimine avrebbe interrogato “il ras della malavita newyorkese”
Albert Anastasia.
“Vidi nero, mi
coprii di freddo e di sudore, un fiotto di sangue mi uscì dal naso; ho ripreso
conoscenza il giorno dopo, mi tennero per ventiquattr’ore sotto la tenda a
ossigeno.”
I piccoli bottegai furono i primi a comprendere
la convenienza di quella specie di assicurazione contro gli infortuni:
infortuni molto brutti!
Le diverse famiglie mafiose si
spartirono fraternamente le rispettive zone di influenza e, di solito, stavano
ai patti.
Se qualcuno, troppo avido, usciva dai
suoi confini, provvedeva il saggio e autorevole padrino ad ammonirlo.
Se non si ravvedeva…
Un cadavere in più all’obitorio,
senza che nessuno sapesse chi fosse e come fosse stato freddato.
Albert Anastasia
A poco a poco, il racket si estese ai locali notturni,
alle case da gioco e alla prostituzione.
Dopo la prima guerra mondiale, mise
sotto il suo controllo interi settori pubblici, come l’assunzione degli
scaricatori portuali e gli appalti dei trasporti.
Non otteneva un lavoro o non lavorava
a lungo, chi non accettava un “protettore”.
Anche allora, come un secolo prima,
la chiave di volta del sistema erano i pistoleros.
Di questi, uno dei più famosi era Walter Stevens, che si metteva al servizio,
indifferentemente, dei padroni contro gli scioperanti oppure dei sindacati
contro i crumiri, a seconda di chi lo pagasse meglio.
Ma lui, invece delle pistole, usava
le bombe.
Al Capone lo notò e lo ingaggiò come
suo braccio destro.
Più di ogni altro, erano proprio i gangsters ad avere bisogno di pistoleros decisi a tutto!
Fu il proibizionismo ad aprire al
gangsterismo nuove prospettive; e fu Al Capone – un napoletano soprannominato Scarface, lo Sfregiato – a intuire la possibilità del contrabbando di
alcolici.
Lo
Sfregiato, con la sua gang
dei siciliani, comprese che per lui era giunto il momento di farsi valere. Si
fece largo tra la delinquenza newyorkese più con la diplomazia che con la
violenza, poi, si trasferì a Chicago. E, quando a contrastargli il passo,
rimasero solo Charles Dean O’Bannion e la sua gang degli irlandesi non esitò a passare al mitra.
Foto segnaletica di Al Capone
New York, 17 gennaio 1899 – Miami, 25 gennaio 1947
Divenuto in tale modo il capo
riconosciuto e rispettato del banditismo a Chicago, appoggiato e ascoltato
anche da cosche e famiglie delle altre città, Al Capone impose la sua volontà
da dittatore. Il suo primo diktat –
che nessuno osò mai trasgredire – stabilì che il 70% dei proventi del racket fosse investito per “oliare” la
legge.
Se si tiene conto che solo la sua
banda guadagnava non meno di un milione di dollari al mese con il contrabbando
dei liquori, si fa presto a misurare in cifre la corruzione delle autorità
cittadine di allora.
Personaggi politici, magistrati,
poliziotti divennero suoi protetti e suoi protettori.
Il massacro di San Valentino, Chicago, 14 febbraio 1929.
In tale modo, lo Sfregiato poté uscire dalla semiclandestinità in cui i gangsters avevano agito fino ad allora,
per permettersi il fasto addirittura hollywoodiano dei due piani dell’Hotel Metropole [50 stanze], in cui
stabilì il suo quartier generale. E al Metropole
si vedevano, ogni giorno, deputati, senatori, procuratori distrettuali,
giudici, magnati della finanza e dell’industria in attesa di essere ricevuti
dal “re”.
Questo era il braccio diplomatico di
Al Capone, che servì a lasciare campo libero a Walter Stevens e al braccio
violento, che si rivolgeva soprattutto – e con spietata efferatezza – contro
gli altri malviventi.
Lo
Sfregiato era un amante dell’ordine.
Gli serviva che la gente potesse
uscire sicura di sera, per recarsi ad affollare i bar da lui riforniti, le sue
bische, le sue case di appuntamento.
Gli serviva che non vi fossero
crimini troppo clamorosi, perché i suoi altolocati protettori non si trovassero
costretti a adottare giri di vite che avrebbero colpito anche i protetti…
Guai ai rapinatori, ai banditi da
strapazzo, ai delinquenti isolati!
Paradossalmente, il periodo del regno
di Al Capone fu uno dei più tranquilli della vita di Chicago: a parte l’eliminazione
di quanti gli davano fastidio.
Il 14 febbraio 1929, il giorno di San
Valentino, nessuno ebbe dubbi sulla provenienza degli uomini travestiti da poliziotti
che massacrarono, a colpi di mitra, sette uomini della Banda Moran, un gruppo di desperados
che aveva osato rubare – nientemeno! – alcuni camions carichi di whisky,
di proprietà di Al Capone.
Il Massacro di San Valentino scosse l’opinione
pubblica e fece intervenire l’FBI.
Ancora una volta, non fu possibile
concretare, in prove giudiziarie, ciò che tutti sapevano perfettamente.
Lo
Sfregiato risultò inattaccabile; nel momento della
sparatoria era in compagnia del procuratore distrettuale di Miami…
Tuttavia Al Capone iniziava a dare
fastidio alla “Famiglia”.
Stava spuntando il nuovo astro:
Albert Anastasia.
Calabrese – il suo vero nome era
Umberto Anastasio – era emigrato, clandestinamente, in America, nel 1917,
saltando in mare da una nave all’ancora nel porto di New York.
Sapeva, già, dove recarsi.
Fu assegnato, immediatamente, al
fronte del porto e si meritò un macabro soprannome: il Boia.
Nel 1920, fu vittima di un infortunio
professionale.
Riconosciuto colpevole della
uccisione di Joe Turino, uno scaricatore di porto che non tollerava protettori,
fu condannato a morte.
Ma la “Famiglia” si mobilitò per
salvarlo.
I migliori avvocati degli Stati Uniti
ottennero una serie di rinvii della esecuzione e, infine, una revisione del
processo.
Anastasia fu assolto per
insufficienza di prove: i quattro testimoni a carico, nel frattempo, erano
tutti morti!
La villa, nella quale il boss
di Chicago Al Capone pianificò la strage di San Valentino, compiuta dai suoi
uomini il 14 febbraio del 1929, si trova a Palm Island, Miami, ha quattro
camere da letto, una piscina, una residenza per gli ospiti con altre due camere
da letto, e si estende su una superficie di novemila metri quadrati. Parte
della proprietà anche una piccola spiaggia privata che si affaccia su Biscayne
Bay, con una vista sullo skyline di
Miami.
Grazie alla protezione di Joe Adonis,
il Boia entrò nella Unione Siciliana, nella stanza dei
bottoni del gangsterismo mafioso.
Nel 1930, costituì una sua banda,
ignorando, completamente, lo Sfregiato, che, abbandonato al suo destino dalla “Famiglia”,
era, già, un re detronizzato, anche se restava nella lussuosa reggia del Metropole.
Albert Anastasia [il
primo da sinistra], in uniforme americana, fotografato insieme ai suoi
commilitoni in Sicilia.
Capo dell’Anonima Assassini, fu, come molti altri mafiosi, al
seguito delle truppe americane e dell’OSS,
durante lo sbarco alleato.
Quando, il 12 Ottobre 1957, si riunirono, a Palermo, i bosses siciliani e statunitensi, sotto
gli occhi della polizia, venne decisa la sua condanna a morte per alcuni sgarri
ad altri bosses e perché calabrese e non siciliano.
La sentenza verrà, puntualmente, eseguita a New York.
Probabilmente l’FBI salvò Al Capone da una sorte peggiore.
Nel 1931, l’FBI lo arrestò per frode fiscale, giacché non si era potuta
concretare contro di lui un’accusa più grave.
Il giudice calcò la mano.
Undici anni di lavori forzati!
Al Capone dovette scontarli tutti ad
Alcatraz.
Nessuno si preoccupò di tirarlo
fuori.
Quando ne uscì, dopo avere scontato
la pena fino all’ultimo giorno, era un povero squilibrato che non poteva più
dare fastidio a nessuno.
Anastasia regnò fino al 1957.
Finita l’epoca d’oro del
proibizionismo, dovette allargare la sua sfera di azione su altri campi: la
speculazione edilizia, le slot-machines
e i flippers, il contrabbando di
sigarette con l’Europa.
“[…] Il 14 settembre del 1948 viene presentata alla Camera dei
deputati, una proposta di legge per la costituzione di una Commissione
Parlamentare d’Inchiesta sulla situazione dell’ordine in Sicilia. Nella
discussione che ne scaturisce l’onorevole Domenico Magrì, democristiano,
sdegnato dichiara: […].
Noi sappiamo che il fenomeno Giuliano si va sempre più
limitando, sempre più circoscrivendo sotto l’azione delle forze dell’ordine, e
dico che è tempo di riportare ai limiti della realtà questo mito che è stato ingrandito,
ingigantito dai gazzettieri che hanno bisogno dei pezzi di colore, dalle
giornaliste isteriche e dalla ricerca affannosa e incontrollata di speculazione
politica. Io vi dico, onorevoli colleghi, che è tempo che cessi questa
scandalosa speculazione […].
Nel dibattito al Senato del 22 giugno 1949, a seguito
dell’interpellanza del senatore Cerica al ministro dell’interno “sulle
condizioni della pubblica sicurezza nella provincia di Palermo”, il senatore
Casadei sottolinea come “[… ] Prima del 2 giugno [1946] la Sicilia fu
spettatrice di strani connubi. Si agitarono contemporaneamente contro la
Repubblica noti capi dell’esercito, grandi nomi della proprietà feudale, alti
nomi del clero. E la Mafia e il banditismo appoggiarono attivamente talune
correnti politiche, senza peraltro riuscire ad assicurarsi, nella fase di
allora, una salda alleanza con quello che avrebbe potuto essere il futuro
partito di governo. Sta di fatto che il banditismo, la mafia ed il separatismo
furono lanciati in quel tempo nelle posizioni più esposte contro l’autorità
dello Stato unitario. Il Governo, che risentiva ancora della spinta democratica
del CLN, affrontò la situazione con vaste operazioni, e dopo qualche mese il
problema dell’EVIS e delle grandi bande armate fu risolto. I risultati
definitivi, però, non li conoscemmo mai. Si disse che nuovi rapporti erano
andati creandosi fra il banditismo da una parte e l’Ispettorato di Polizia e
l’Alto Comando Militare della Sicilia dall’altro. Ma tutto, come sempre, rimase
nel buio. Vennero poi le elezioni del 20 aprile 1947. La vittoria clamorosa del
Blocco del Popolo significò principalmente due cose: in primo luogo il
formidabile slancio in avanti delle masse lavoratrici; in secondo luogo la fine
di ogni illusione legittimista e separatista. Nelle critiche privilegiate fu un
grido di allarme! E accadde che il banditismo e la mafia furono violentemente
scagliate contro il movimento sindacalista, contro il movimento
cooperativistico. E la fase che potremmo chiamare anticomunista del banditismo
siciliano.
“È la fase di Portella della Ginestra del cui strage Giuliano si
vanta pubblicamente sui giornali. È la fase in cui nessuna azione straordinaria
di Polizia viene intrapresa in Sicilia; in cui nessun responsabile, salvo
qualche esecutore materiale, viene arrestato […].
Fino a quando perdurò questa fase di persecuzioni contro le
masse operaie? Fate attenzione: fino al 18 aprile 1948. Infatti dopo il
successo elettorale governativo si constata subito che la funzione del
banditismo diventa molto problematica, mentre la Mafia più “legale” si
costituisce un forte titolo di merito verso i partiti di governo […].
Ma il ministro dell’interno sa in quali condizioni economiche,
sociali, ambientali e politiche è inserito il problema che avrebbe il dovere di
risolvere? Conosce il ministro dell’interno l’esistenza di quella
organizzazione a delinquere che è la Mafia e i rapporti di questa col mondo
ufficiale? […].
Orbene quando un ministro e, di conseguenza, i suoi sottoposti
affermano che siamo di fronte a un semplice problema di Polizia, non solo urta
contro la realtà dei fatti, ma dimostra di non avere compreso i termini e
quindi di non possedere le capacità per risolverlo. Che se poi egli affermasse
una cosa che non pensa, allora il suo atteggiamento assumerebbe una gravità
tale da aiutare obbiettivamente la non soluzione del problema […].”
Alla richiesta al governo della sostituzione del ministro dell’interno,
Mario Scelba, e di una inchiesta che accerti le collisioni sospettate, De
Gasperi risponde: “[…] Quello che è strano e che trovo veramente caratteristico
in questa mozione è che questa volta il ministro dell’interno, il quale è
accusato di solito di essere l’uomo della repressione, l’uomo dell’ordine
agrario, della dittatura poliziesca, oggi viene accusato di essere troppo
debole per mantenere l’ordine e la tranquillità […].
Riguardo all’inchiesta, una breve parola. Una inchiesta in una
Regione che ha novanta tra senatori e deputati regionali, e quindi un governo
regionale, un’inchiesta è difficile giustificarla e legittimarla. Dovrebbero
essere in fin dei conti i rappresentanti del resto d’Italia che vanno in
Sicilia con uno scopo specifico corrispondente a un male specifico per una clinica
specifica. Questo è evidentemente esagerato. Mi pare che non ci sia la base per
ricorrere a questo sistema. Ma vengo ad una conseguenza pratica. Le inchieste
che sono state oggetto di approfondito esame hanno portato senza dubbio
vantaggi, ma esse non sono soprattutto necessarie per gli abusi avvenuti; esse,
durante il corso di una operazione, sono fatali perché non fanno che deprimere
l’impegno e il dovere delle forze di pubblica sicurezza.
“Non è possibile a quei carabinieri a quei membri della polizia,
i cui compagni sono caduti, andare a dire: “Aspettate un po’, adesso viene
un’inchiesta generale del Parlamento per vedere cosa avete fatto!”. Si sa che
le inchieste si trasformano quasi sempre in inchieste sul conto delle
operazioni di polizia; questo vorrebbe dire interrompere per lungo tempo il
corso naturale delle cose […].”
Nella notte del 4 luglio 1950 Salvatore Giuliano viene ucciso,
mentre alla Corte d’assise di Viterbo si celebrava il processo per la strage di
Portella della Ginestra. La versione ufficiale è che il bandito è caduto a
seguito di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Dopo ventun anni l’ex-ministro
dell’interno Mario Scelba si rammarica con un membro della Commissione
Antimafia, il democristiano onorevole Giuseppe Azzaro, perché gli vengono mosse
ancora accuse sull’increscioso episodio. Scelba sostiene d’avere fatto tutto il
suo dovere, affidando nel 1954 a tre generali di corpo d’armata un’inchiesta
sulla fine del bandito. II documento cui fa cenno Scelba viene acquisito agli
atti della Commissione Antimafia: si sostiene che fu Gaspare Pisciotta a
sparare a Giuliano, ma che questi rimase in vita, sebbene ferito. Fu il
capitano Perenze a falciare Giuliano con una raffica di mitra. Giuliano poteva
essere catturato vivo, ma così non si volle. Da vivo sicuramente avrebbe potuto
fare i veri nomi dei mandanti di tanti assassini. E ciò non sarebbe certamente
giovato a politici e politicanti di chiara estrazione. Il 3 giugno del 1951,
per la seconda volta, si tengono in Sicilia le elezioni per il rinnovo
dell’Assemblea Regionale. La Democrazia Cristiana ottiene il 31,20 per cento
dei voti [666.268]; il Blocco del Popolo il 30,19 [644.384 voti]; il Movimento
Sociale Italiano, al suo pruno vagito, il 12,82 per cento [273.772 voti]. II Movimento
separatista non è neppure pure presente nelle liste: i parlamentari che lo
avevano rappresentato si sono inquadrati, nella maggior parte dei casi, nei
partiti di destra […].”
Salvo Barbagallo, L’avvenire che non venne
Salvatore Giuliano insieme a don Vito Genovese.
Salvatore Giuliano
“Sdraiato su un fianco, la faccia a mangiare la polvere, un
ginocchio ripiegato e il braccio destro steso parallelo al corpo, l’uomo aveva
infilato al medio della mano destra un brillante enorme. Indossava una
maglietta senza maniche, un paio di pantaloni di tela, calzini e sandali. Aveva
le mani pulite, curate, mentre i capelli erano in disordine, come se si fosse
appena alzato dal letto, e sulle guance una barba di due giorni. Sul fianco
destro, pendeva una fondina di pistola, aperta; l’arma che quella fondina aveva
contenuto stava ad alcuni centimetri dalla faccia dell’uomo, bagnata da un
rivolo di sangue, in parte assorbito dalla polvere, mentre accanto alla mano
destra stava un mitragliatore Beretta. La maglietta, in origine bianca,
sembrava adesso la maglietta di un’uniforme separatista, mezza chiara e mezza
scura, poiché una enorme chiazza di sangue ne aveva macchiato una parte in
rosso scarlatto.”
Gaspare Pisciotta
Poco dopo la morte di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio
1950, Gaspare Pisciotta fu arrestato. In carcere, fece la sorprendente
rivelazione che fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno, una affermazione che
contraddiceva la versione delle forze dell’ordine che Giuliano fosse stato
ucciso dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze in uno scontro a fuoco a
Castelvetrano:
“Io, Gaspare Pisciotta, ho assassinato Giuliano durante il
sonno. Questo avvenne dietro accordo personale con il signor Scelba, ministro
degli Interni.”
I componenti della Banda Giuliano in Corte di assise, 12 giugno
1950.
Il
Primo Maggio del 1947 a Portella
della Ginestra, una località ad appena 3 chilometri da Palermo,
si consumò la prima
Strage dell’Italia repubblicana.
La Banda di Salvatore
Giuliano, ispirata ed armata da latifondisti e mafiosi, fece
fuoco su centinaia di persone, comprese donne bambini, che si erano riunite con
il loro sindacato per festeggiare
il Primo Maggio e rilanciare la lotta per l’occupazione delle
terre incolte.
Fu la prima
Strage della Storia della Repubblica e, anche, la prima di
quelle restate avvolte dai segreti, dai depistaggi, dall’intreccio tra Mafia,
politica, servizi.
La responsabilità materiale era, ovviamente, della Banda Giuliano, ma non si volle, mai, andare fino
in fondo nelle indagini sui mandanti e neppure prendere in considerazione le
gravissime denunce di Gaspare
Pisciotta, luogotenente di Giuliano, che aveva indicato nomi e
cognomi dei possibili mandanti politici, in sede regionale e nazionale, a
partire da quei settori della Democrazia Cristiana che con la Mafia avevano
trovato le opportune forme di connivenza e di convivenza.
Pisciotta morì avvelenato
in carcere dopo aver annunciato in aula l’intenzione di vuotare il sacco e consegnare un memoriale.
“La vecchia
credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva.
Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo
sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il
ventre all’aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò
di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a
danzare. C’era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri
scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i
cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava
contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di
mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto
squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il
corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un
sacco pieno di stracci. E poi quell’odore di polvere da sparo.
La carneficina
durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un
silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume
Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle
di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli
custodi silenti e smarriti.
Era il l° maggio
1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell’Italia
repubblicana.”
Sandro Provvisionato, Misteri d’Italia. [50 anni di trame e
delitti senza colpevoli].
Il
Primo Maggio del 1947, a Portella della Ginestra, circa 2.000
lavoratori, in prevalenza agricoltori, provenienti da San Cipirello, Piana
degli Albanesi e San Giuseppe Jato, tre Comuni della provincia di Palermo, si
radunarono nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Pelavet, per
manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre
incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle recenti
elezioni per l’Assemblea
Regionale Siciliana, svoltesi il 20 Aprile di quell’anno e nelle
quali la coalizione PSI - PCI aveva conquistato 29 rappresentanti [con il
29% circa dei voti] contro i soli 21 della DC [crollata al 20% circa].
All’improvviso dal
monte Pelavet, sulla folla in festa, partirono numerose raffiche di mitra,
che si protrassero per circa un quarto d’ora e lasciarono sul terreno 11 morti [nove
adulti e due bambini]e 27 feriti, alcuni dei quali morirono in seguito per le
ferite riportate.
È l’8 maggio del
1947, una settimana dopo la strage di Portella della Ginestra. Mike Stern, agente
del CIC [Counter Intelligence Corps],
il controspionaggio statunitense, e con la copertura già all’epoca di
giornalista giunto il giorno prima a Palermo, è a pranzo in un casolare con la
famiglia Giuliano [vi sono tutti, da Turiddu alla madre e il padre e alcuni
parenti e anche membri della banda]. L’agente rimarrà una settimana in
compagnia di Salvatore Giuliano.
Rosalia Lombardo, madre di Gaspare Pisciotta.
Maria Lombardo, madre di Salvatore Giuliano.
Il
25 ottobre 1957, il Boia si stava
facendo radere dal barbiere dello Sheraton
Hotel.
Entrarono
due clienti.
Estrassero
le pistole e lo imbottirono di dieci pallottole, a bruciapelo.
don Vito Cascio Ferro
Nel 1909, quando
Joe Petrosino venne assassinato a Palermo nella centrale Piazza Marina, Cascio
Ferro fu sospettato di essere stato l’autore dell’omicidio, ma l’accusa decadde
grazie all’alibi fornitogli dall’onorevole Domenico De Michele Ferrantelli,
deputato di Bivona, di cui Cascio Ferro era il più importante capo-elettore. L’onorevole
affermò che nel momento in cui Petrosino fu ucciso, Cascio Ferro era ospite in
casa sua. Nel 2014, dopo oltre un secolo dall’assassinio del detective, alcune intercettazioni
telefoniche, svolte nell’ambito dell’Operazione
Apocalisse – in cui venne intercettato Domenico Palazzotto dal Nucleo
Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza di Palermo e che si
concluse con numerosi arresti il 23 Giugno 2014 – hanno confermato il
coinvolgimento di Cascio Ferro, quale mandante dell’omicidio di Joe Petrosino,
e di Paolo Palazzotto, quale esecutore [http://www.lavocechestecca.com/2018/02/27/joe-pet/].
Joe Petrosino
Padula,
30 agosto 1860 – Palermo, 12 marzo 1909
Charles “Lucky”
Luciano
Lercara
Friddi, 24 novembre 1897 – Napoli, 26 gennaio 1962
Foto segnaletica
di Charles “Lucky” Luciano.
Charles “Lucky” Luciano insieme a Meyer
Lansky.
Meyer Lansky
Hrodna,
4 luglio 1902 – Miami, 15 gennaio 1983
Meyer Lansky
Meyer Lansky, Israele, agosto 1971.
Joe Masseria
Menfi,
17 gennaio 1886 – New York, 15 aprile 1931
Salvatore Maranzano
Castellammare, 31 luglio 1886 – New York, 10 settembre 1931
Joe Masseria e Salvatore Maranzano erano nati entrambi in
Sicilia, nel
1886, e raggiunsero gli Stati Uniti in tempi diversi.
Masseria vi giunse, per primo, nel 1903, ed è proprio tra le
strade di New York che iniziò la sua carriera criminale sotto l’ala protettrice
del boss Giuseppe Morello.
Salvatore
Maranzano nacque a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, il 31
luglio 1886. Da giovane studiò in seminario, ma si ritirò presto, venendo
affiliato nella cosca mafiosa locale e sposando Elisabetta Minore, figlia di un
boss mafioso trapanese.
Nel 1927, Maranzano fuggì in Nordamerica a causa delle
persecuzioni contro i mafiosi in Sicilia, attuate dal prefetto di ferro Cesare
Mori. Giunto a New York, si stabilì nella comunità di immigrati siciliani che
abitavano a Brooklyn, dove era attiva una cosca di compaesani di Castellammare guidata
dal mafioso Nicola Schiro, alla quale Maranzano si unì. Durante il
Proibizionismo, Maranzano installò una grande distilleria illegale nella contea
di Dutchess, che divenne una delle più grandi dello Stato di New York.
Nel 1930, Masseria entrò in contrasto con Maranzano, che faceva
dirottare i camions carichi di
alcolici e distruggeva le birrerie illegali di sua proprietà.
Masseria, allora, ordinò l’uccisione di Gaetano Reina, uno dei
suoi alleati che credeva stesse tramando con Maranzano.
Scoppiò, così, un conflitto che divenne noto come Guerra Castellammarese
[https://www.youtube.com/watch?v=Jg6OB_eB9gc, https://www.youtube.com/watch?v=Jg6OB_eB9gc]
e si concluse quando Charles “Lucky” Luciano organizzò l’assassinio di Joe
Masseria, il 15 aprile 1931, nel ristorante Scarpato’s,
a Coney Island.
Masseria pranzò con Luciano, che si alzò per andare al gabinetto
pochi istanti prima che una squadra di killers,
formata da Bugsy Siegel, Vito Genovese, Joe Adonis e Albert Anastasia entrasse
e uccidesse Masseria. Eliminato il suo capo, Luciano cercò la pace con
Maranzano, che si fece eleggere capo dei capi dagli altri bosses e passò le attività criminali del defunto Masseria a Luciano
come premio.
Ma, poco tempo dopo, Maranzano pianificò l’assassinio dello
stesso Luciano, per via dei suoi stretti legami con gangsters non-siciliani, e ingaggiò il killer Vincent “Mad Dog” Coll per eliminare Luciano e Genovese.
Il 10 settembre
1931, Maranzano convocò Luciano e Genovese nel suo ufficio in Park Avenue; ma,
al loro posto, si presentarono quattro killers
ebrei, travestiti da agenti del fisco, che pugnalarono Maranzano e lo
finirono a colpi di pistola.
I killers ebrei erano stati assoldati da
Lansky e da Luciano, il quale si era accordato con il mafioso siciliano Gaetano
Lucchese.
In seguito alla
morte di Maranzano, la cosca castellammarese venne rilevata dal boss Joseph Bonanno e divenne nota come Famiglia
Bonanno.
Salvatore
Maranzano è seppellito al Saint John's Cemetery nel Queens di New York,
curiosamente vicino alle tombe di Luciano e di Genovese.
Salvatore Maranzano
Vincent “Mad Dog” Coll
[https://www.youtube.com/watch?v=1FuA8JVsYGM]
Vincent “Mad Dog” Coll
Joseph Bonanno, soprannominato Joe Bananas.
Joseph Bonanno, soprannominato Joe Bananas
Castellammare
del Golfo, 18 gennaio 1905 – Tucson, 12 maggio 2002
Giuseppe Bonanno
nacque a Castellamare del Golfo, in provincia di Trapani, il 18 gennaio 1905.
Il padre di Bonanno, Salvatore, faceva parte della cosca mafiosa locale e, nel
1908, si trasferì a Brooklyn insieme alla famiglia per sfuggire a una condanna.
Nel 1911, tornò in Sicilia per una faida scoppiata a Castellammare del Golfo con
la cosca rivale dei Buccellato, che si concluse, nel 1913, quando Salvatore
Bonanno uccise il capo rivale Felice Buccellato. Nel 1915, Joseph Bonanno
rimase orfano del padre, che morì per un attacco cardiaco, e nel 1920, perse
anche la madre. Nel 1924, Bonanno venne schedato come antifascista insieme al
cugino Pietro Magaddino e, per sottrarsi alle procedure in corso, si trasferì,
clandestinamente, dapprima a Cuba e in Florida e, successivamente, a Brooklyn,
dove si unì alla cosca di castellammaresi di Nicola Schirò, che, in seguito, venne
sostituito da Salvatore Maranzano. Dopo l’assassinio di Maranzano, su ordine di
Charles “Lucky” Luciano, Bonanno prese il comando della cosca castellammarese e
si associò a Luciano, divenendo uno dei membri della Commissione.
NY Times del 23 settembre 1952 – Il sindaco di New York Vincent
Impellitteri riceve il busto di Enrico Fardella dall’onorevole Giovanni
Francesco Alliata, principe di Montereale
Foto segnaletica di Frank Sinatra
Venne scoperto che erano due
componenti della banda di Brooklyn dei fratelli Gallo, che avevano agito per
conto di don Vito Genovese.
Era tempo di rimettersi a lavorare in
grande.
Con la droga.
Frank Sinatra insieme a John Fitzgerald
Kennedy.
Frank Sinatra insieme ad Aladena “Jimmy” Fratianno.
Da sinistra a
destra: Paul Castellano, Gregory DePalma, Frank Sinatra, Frank Marson, Carlo
Gambino, Jimmy “the Weasel” Fratianno, Salvatore Spatola, Joe Gambino, Richard “Nerves”
Fusco, e Sconosciuto, Westchester
Premier Theater, NYC, 1976.
Mario Puzo
Nella versione Blu-Ray
del film Il Padrino, Francis Ford Coppola menziona, brevemente, Frank
Sinatra durante le sequenze di Johnny Fontane, dichiarando che “ovviamente Johnny è stato
ispirato in qualche modo a Frank”.
Una somiglianza che fece imbestialire Frank Sinatra, così
arrabbiato da rimproverare Mario Puzo, stando a quanto avrebbe dichiarato lo
stesso scrittore, in un articolo dell’agosto del 1972, riportato sul New York Magazine [https://books.google.it/books?id=axgh_X1bPe0C&pg=PA27&lpg=PA27&dq=On+the+way+out+the+millionaire+started+leading+me+toward+a+table.+His+right-hand+man+took+me+by+the+other+hand...+%E2%80%98I%27d+like+you+to+meet+my+good+friend,+Mario+Puzo,%27+said+the+millionaire.+%E2%80%98I+don%27t+think+so,%27+Sinatra+said...+I+was+trying+to+get+past+the+right-hand+man+and+get+the+hell+out+of+there...+The+millionaire+was+actually+in+tears.+%E2%80%98Frank,+I%27m+sorry,+God,+Frank,+I+didn%27t+know,+Frank,+I%27m+sorry%E2%80%A6%27&source=bl&ots=jObfXWtZ2Y&sig=juKguGoVb91dxNTEZ2ayIn2VVbc&hl=en&sa=X&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false]
.
L’autore era, infatti, impegnato alla stesura della
sceneggiatura del film, quando venne
invitato da un milionario che preferì restare anonimo, a una cena al Chasen’s, un famoso luogo di ritrovo,
vicino a Beverly Hills, aperto nel 1936 e chiuso nel 1995:
“Quello che mi ha
fatto davvero strano però è stato ricevere minacce del genere da un italiano
del Nord. Nessun settentrionale osava sfidare fisicamente un meridionale,
sarebbe stata una situazione simile ad Einstein che punta il coltello a Capone!
Quelli del Nord non si impicciano mai coi meridionali, tranne quando devono
farli imprigionare o deportare in qualche isola deserta.
La cena comunque
proseguì e Frank continuò a punzecchiarmi senza alzare gli occhi dal piatto,
finché non trovai la forza di andarmene. Ero umiliato e lui deve essersene
accorto, infatti continuò ad urlarmi dietro, invitandomi a mettermi un cappio
al collo.”
The Untouchables [Gli Intoccabili] è un film del 1987, diretto da
Brian De Palma e scritto da David Mamet.
Il cast annovera Kevin Costner nel ruolo
dell’agente federale Eliot Ness, Esan Connery nei panni del poliziotto
irlandese Jimmy Malone, Andy Garcia, il giovane poliziotto italo-americano
George Stone, e Robert De Niro nel ruolo del boss Al Capone. Per la sua
interpretazione Sean Connery vinse un Oscar
quale migliore attore non protagonista.
Il film è ispirato all’autobiografia di Ness,
che aveva già dato vita negli Stati Uniti alla serie televisiva The Untouchables [Gli Intoccabili] con Robert
Stack.
Daniela Zini
Copyright © 31 gennaio 2019 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The
President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally
worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments
tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting
tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his program.
For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes
support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers
to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task
of informing and alerting the American people. For I have complete confidence
in the response and dedication of our citizens whenever they are fully
informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the
only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s
efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has
warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
Il reverendo John Milton Chivington è stato un militare
statunitense, divenuto famoso per essere stato artefice del Massacro di
Sand Creek.
“Siamo a Castellammare Castellammare del Golfo, 13 mila abitanti in provincia di Trapani, dove il 21
gennaio 1905 nacque Joe Bonanno, alias Joe Bananas, il mafioso che dagli anni
Trenta agli anni Sessanta fu l’indiscusso capo del clan castellammarese di New
York, il boss che si dava del tu con capi di stato, ministri, giudici, alti
prelati, e che era considerato un “padre” da tanta gente comune che si
rivolgeva a lui per ottenere favori. Un capomafia di prima grandezza, morto tre
mesi fa, a 97 anni nel suo letto, che l’immaginario collettivo associa al don
Vito Corleone del romanzo di Mario Puzo. A Castellammare del Golfo vivono le
ultime due persone che per tanto tempo gli sono state vicine: Antonio Mione e
Laura Di Filippi. Il primo è stato per diversi anni al suo servizio, la seconda
è la cugina di secondo grado. Battezzato nella chiesa di Sant’Antonio da Felice
Buccellato, capo della “Famiglia” rivale, Joe Bonanno fu portato ancora in
fasce a Brooklyn per via di una condanna riportata dal padre Salvatore,
proprietario terriero e capo dell’omonima “Famiglia”, che per evitare il
carcere decise di rifugiarsi oltreoceano. Nel 1915 don Totò tornò nell’Isola
perché al suo paese si era accesa l’antica rivalità fra i clan dei Bonanno e
dei Buccellato. Il patriarca ristabilì l’ordine e sfuggì alla galera: quella
vecchia condanna, non si sa come, nel frattempo era stata cancellata. A
Castellammare, Joe frequentò le elementari ed ebbe come compagno di scuola il
futuro ministro Bernardo Mattarella. Negli anni successivi frequentò il primo
anno dell’istituto nautico di Trapani e di Palermo perché la sua aspirazione
giovanile era quella di fare il capitano di lungo corso. La morte di entrambi i
genitori e l’avvento del fascismo lo spinsero a tornare definitivamente in America.
Era il 1924. “Odiavo Mussolini che imponeva a tutti di indossare la camicia
nera”, spiegherà lui stesso nell’autobiografia pubblicata da Mondadori. Sarà.
Fatto sta che erano i tempi delle repressioni del prefetto Mori. Dopo un
tortuoso viaggio – fece tappa a Marsiglia, a Parigi, a L’Avana, a Tampa – si stabilì
a Brooklyn. All’inizio facendo diversi mestieri, perfino l’attore nel cinema
muto. Poi aprendo una distilleria clandestina, contrabbandando alcolici e
tabacchi, aprendo case da gioco e investendo i guadagni in attività
apparentemente lecite, industria, edilizia, commercio, società di
import-export. Negli Anni Trenta entrò a far parte del clan castellammarese di
New York, a quel tempo capeggiato dal suo “maestro” Salvatore Maranzano, e
composto dai mammasantissima del suo paese, Magaddino, Genovese, Plaja,
Bonventre. Era il periodo della guerra di Mafia fra i castellammaresi e la “Famiglia”
di Joe Masseria, di cui faceva parte l’astro nascente Lucky Luciano. Luciano
nel ‘31, in seguito a un accordo segreto stipulato proprio con Maranzano,
uccise Masseria per prenderne il posto. Dopo l’omicidio di Masseria, Maranzano
diventò il leader indiscusso della mafia newyorchese, ma non durò molto. Pochi
mesi dopo Luciano fece fuori anche lui, e stipulò la pace proprio con Joe
Bananas, che a soli 26 anni divenne il boss dei castellammaresi. Che da quel
momento lo chiamarono “Padre”. Nel novembre del ‘31 sposò Fay Labruzzo e
ricevette da Al Capone una busta con 5mila dollari. Antonio Mione aveva quasi
dieci anni quando emigrò in America. Oggi ne ha 78, a Castellammare lo chiamano
“l’ americano”: da tempo suole trascorrere i mesi estivi nel paese natio,
frequentando un circolo che, per ironia della sorte, si trova in via Bernardo
Mattarella. “Mio padre – dice - faceva il pescatore. Eravamo poveri. Nel 1932
decidemmo di emigrare. Feci il postino per 22 anni. Un giorno scrissi allo zu’
Peppino: “Vorrei avere l’onore di essere ricevuto da voi”. ‘U zù Peppino aveva
molto rispetto per la gente del suo paese. Nel giro di pochi giorni mi rispose
e mi diede appuntamento nella sua magnifica villa con piscina. Mi ricevette
nello studio. Cominciai ad amarlo subito, come si ama un padre: “Sa, zu’
Peppino, avrei bisogno di un lavoro”. Mi ascoltò in silenzio, poi disse in
siciliano: “Verresti a lavorare da me?”. Stetti al suo servizio per molti anni
facendo di tutto: cucinavo, ricevevo persone, raccoglievo le olive e i fichi,
preparavo i piatti preferiti: bucatini al pomodoro e pasta con il finocchietto
selvatico. Curavo il padrone come e meglio di un medico. Una volta perse tanto
sangue a causa di una pustola che gli si era formata alla gamba: lo salvai. In
guerra ero stato in infermeria e sapevo come curare le ferite. Quando venivo a
Castellammare mi raccomandava di recarmi nella chiesa dove era stato battezzato”.
Verso la metà degli Anni Cinquanta, Joe Bonanno partecipò al primo grande
vertice della Mafia all’Hotel delle Palme di Palermo, dove si decisero i nuovi
assetti mondiali del crimine organizzato e si stabilirono le nuove rotte della
droga. Pochi giorni prima era sbarcato all’aeroporto romano di Fiumicino,
atteso in pompa magna dall’allora ministro Bernardo Mattarella. Un incontro,
quello con il politico siciliano che, secondo le testimonianze raccolte, si
ripeterà in America. Poi eccolo a Castellammare del Golfo: “Per l’occasione –
scrive Danilo Dolci – sono venuti a incontrarlo, riverenti e ossequiosi, tutti
i mafiosi locali, tra cui suo cugino Gaspare Magaddino col figlio, Vincenzo
Rimi, Diego Plaja, Joe Garofalo, Cola Buccellato, i Vitale, Vito Messina: cioè
tutti i maggiori mafiosi che hanno sostenuto l’avvio della carriera politica di
Mattarella”. Fino a quel momento Joe Bonanno aveva subito una sola condanna
come imprenditore tessile: 40 dollari di multa per violazione della legge sul
lavoro. Sottocapo della sua “Famiglia” era Carmine Galante, consigliere Frank
Garofalo, due pezzi da novanta del commercio degli stupefacenti. “La Famiglia
Bonanno – spiega Michele Pantaleone nel libro “Mafia e droga” – ha una media di
cinque arresti a testa: un membro su cinque è stato arrestato per omicidio, uno
su tre per violazione della legge sui narcotici”. Eppure lui, il vecchio Joe,
ha sempre smentito di avere avuto a che fare col traffico di droga. Anzi, negli
anni Sessanta, quando il giudice istruttore di Palermo Aldo Vigneri lo rinviò a
giudizio assieme a una dozzina di trafficanti di droga, lui fu assolto per
insufficienza di prove. Nel ‘63 cominciò il suo declino: un affiliato al suo
clan, Joe Valachi, vuotò il sacco sulle cinque “famiglie” che comandavano a New
York. Al senatore Mclellan e alla commissione sul crimine organizzato fece il
suo nome. Raccontò addirittura che quando giurò fedeltà a Cosa Nostra, fra i
molti presenti scelse proprio Joe Bananas come padrino: “Costui mi punse il
dito per farne uscire del sangue, simbolo di fratellanza, e prestai giuramento
alle leggi di Cosa nostra”. Tutta l’America scoprì che dietro il volto perbene
dell’uomo d’affari si nascondeva un boss di prima grandezza. Da quel momento si
spezzarono gli equilibri del crimine organizzato e scoppiò una nuova guerra di Mafia
che lasciò tanti morti sul campo. Lui se la cavò simulando un sequestro di
persona [31 ottobre 1964]. Stette lontano da New York per diverso tempo: molti
lo credettero morto. In realtà era fuggito. Per alcuni in Tunisia. Per gli
investigatori fra Palermo e Alcamo, ospite di quel Frank Garofalo espulso
alcuni anni prima dall’America, e di Vincenzo Rimi, uno dei boss più importanti
del trapanese. Quando le acque si placarono si ritirò per sempre a Tucson, al
confine con il Messico, dove avrebbe coltivato gli ulivi, ma anche i suoi
affari e le sue amicizie altolocate. Un prete di Tucson avrebbe testimoniato di
averlo visto in chiesa addirittura con Robert Kennedy, fratello di John e ministro
della giustizia. “A Tucson – spiega Antonio Mione – molti politici di tutto il
mondo erano di casa, soprattutto statunitensi, italiani e messicani. Era
rispettato e riverito come un vescovo. Dicono che fosse il capo della Mafia
americana, che avesse ucciso e fatto uccidere tanti uomini. Per me non è vero,
non l’ho mai sentito parlare male di nessuno; si arrabbiava soltanto quando
qualcuno diffamava la Sicilia. Era un benefattore. Per questo a Tucson è stato
eretto un mausoleo in suo onore”. Laura Di Filippi trascorre i mesi estivi in
una casetta attorniata dagli ulivi, su una collina che domina il mare di
Scopello. Settantadue anni, ex-insegnante di lettere, da alcuni mesi è
paralizzata da un ictus, ma conserva una memoria lucidissima: “Quando morirono
i genitori di Joe fu mia nonna, Laura Di Filippi, a prendersi cura di lui. Mio
cugino è sempre cresciuto seguendo i principi del rispetto e della buona
educazione. Era legatissimo alla sua terra: sapeste quanti pacchi spedì durante
la guerra, contenevano ogni ben di dio, zucchero, caffè, vestiti, scarpe,
saponi, profumi. Per darci la possibilità di curarci dalla malaria mandò
perfino il chinino. Era alto e prestante, come i suoi figli. Quando andai in
Arizona gli portai un quadro che raffigurava il golfo di Castellammare: lo
appese nel salotto fra gli oggetti più cari. Fra gli Anni Cinquanta e Novanta
venne parecchie volte al suo paese, l’ultima fu nel ‘90: volle andare al
cimitero a far visita ai genitori. Poi venne a pranzo in questa casa: gli
preparai i busiati fatti in casa e il pesce arrosto. Discutemmo del più e del
meno, si commosse una sola volta, quando parlammo dei suoi genitori. Quando l’11
maggio di quest’anno è morto, ai funerali erano presenti migliaia di persone.
Il corteo era preceduto da sette limousine nere”.
“Cappucci, donne e tavoli da gioco. Un nome della nobiltà siciliana con
una mai sopita nostalgia della corona ed un passato di militante di destra,
coinvolto negli episodi più oscuri della vita politica siciliana, dalla strage
di Portella delle Ginestre al tentato golpe Borghese. Un patrimonio dilapidato
in una vita da bohémien nelle grandi capitali europee, un ambiguo giro d’affari con potentissimi e facoltosi uomini sudamericani. Nella movimentata
roulette della sua vita, Giovanni Alliata, principe di Montereale, meglio
conosciuto come Gianfranco, era riuscito ad arrivare alla bella età di 73 anni
senza conoscere mai l’onta delle manette. Ma ieri la sua “attiva” militanza
massonica lo ha portato in carcere su ordine della Procura di Palmi. Questa
volta il principe Alliata non ha avuto la soffiata giusta. Come quella che, nel
1970, gli consentì di sfuggire alla cattura ordinata dalla Procura della
Repubblica di Roma nell’ ambito dell’inchiesta sul fallito golpe Borghese.
Secondo i giudici romani, Gianfranco Alliata di Montereale avrebbe avuto un
ruolo nel progetto politico-militare per il quale le destre avevano chiesto
anche la collaborazione di Cosa Nostra. Al principe Junio Valerio Borghese,
Luciano Liggio disse di no, il golpe fallì e poco prima che la magistratura
romana emettesse una serie di ordini di cattura, Gianfranco Alliata di Montereale
fuggì all’estero. Per qualche tempo si nascose a Malta poi, a proscioglimento
avvenuto, tornò in Italia. Le cronache non riportano mai alcun legame diretto
del principe con la mafia, ma un bandito, Gaspare Pisciotta, il luogotenente di
Salvatore Giuliano assassinato all’Ucciardone con un caffé alla stricnina, fece
il suo nome come uno dei mandanti della Strage di Portella delle Ginestre. Sin
dall’immediato dopoguerra il principe finanziò circoli monarchici e movimenti
separatisti. Nel 1946 sborsava la bella cifra di 2 milioni al mese per
foraggiare ogni tipo di attività separatista. E niente di meglio delle logge
massoniche per tramare nell’ombra contro il “regime democratico”. Gran maestro
di Piazza del Gesù fu “papa” di una loggia coperta nella quale riusciva a
tessere le sue trame politiche ma anche i suoi ambigui rapporti con uomini d’affari
del Sudamerica. Un legame mai reciso con il suo paese d’ origine, il Brasile. È
a Rio de Janeiro che, nel 1921, la signora Olga Matarasso dà alla luce
Gianfranco Alliata di Montereale che, in modo mai chiarito, erediterà poi una
vera e propria fortuna da proprietari terrieri ed industriali brasiliani. Un
patrimonio miliardario dilapidato sui tavoli da gioco di mezza Europa in una
vita da grande bohémien. A Palermo, il principe Alliata vive al Grand Hotel des
Palmes, nel ‘ 50 sposa la bella austriaca Hannalore, ma è un matrimonio che
dura poco. Nonostante il passare degli anni, il principe non si è mai
rassegnato alla democrazia. Per far rinascere i fasti della monarchia o per
portare al potere le destre avrebbe fatto tutto. E non a caso il suo nome
compare tra i destinatari di un avviso di garanzia inviato dalla magistratura
di Padova che indagava sull’attività del gruppo neofascista della Rosa dei
Venti. Al Fronte nazionale monarchico dava una mano tenendo su un giornale, “Il
popolo di Roma”. Neanche un enfisema polmonare, negli ultimi anni, era riuscito
a tenerlo lontano dalle trame. Ai tempi che cambiano aveva imparato ad
adeguarsi, aveva capito che oggi per “finanziare” la politica bisogna
controllare e gestire pacchetti di voti e con la sua loggia massonica aveva “reintegrato”
quel patrimonio sperperato in 73 anni di vita, prima di finire in manette.”
Alessandra
Ziniti, La vita di un bohémien con la nostalgia della corona, la Repubblica, 12
maggio 1994.