“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 31 gennaio 2019

Giulio Andreotti :L'Europa non ha una politica dell'immigrazione









10 ANNI FA, ANDREOTTI DICEVA LA SUA CIRCA LA MANCANZA DI UNA POLITICA EUROPEA SULL'IMMIGRAZIONE E IL RESPINGIMENTO IN MARE DEI CLANDESTINI.

SOCIETA' SEGRETE: V. LA MAFIA AMERICANA 1. IL BRACCIO VIOLENTO DEL DOLLARO di Daniela Zini


“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident.
If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt



à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa.

La vraie Mort, c’est le rien.
Il faut résister à cela, que la Mort soit quelque chose, qu’elle fasse partie de la Vie, qu’elle soit en état de complicité incessante.
Notre façon d’être avec la Mort, de rencontrer la Mort, est toujours une répétition. C’est à la fois la répétition d’une Mort, la répétition du Passé et du Futur.
Et chaque Mort qui nous arrive est alimentée par la source, le torrent des autres Morts.
Et ce que nous perdons, à chaque fois, c’est un Enfant.
Lorsque mon Père… – je crois que je ne parviendrai jamais à articuler ces quatre petits mots si lourds:
Mon père est mort.
– j’ai perdu l’enfant qu’il était pour moi, l’Enfant que j’étais pour Lui, l’Enfant que je suis pour moi.
Tout pour moi dans la Vie s’accompagne d’un indice de “encore”.
Ainsi, mon Père est encore là.
Je ne peux pas traverser un jardin avec Lui et regarder un fil d’herbe pousser, sans me dédoubler et me voir, à ce moment même, regarder ce fil d’herbe avec mon Père, bercée par les notes d’une Musique ouvrant un Passé-Futur.
Nous pouvons vivre notre Mort dans la fin brutale d’un Amour, dans la perte narcissique. Nous devenons mortels et faisons la connaissance de la mortalité dans ce rapport à l’Autre. De telle sorte que la moitié sera séparée de la moitié et devra la garder.
Quant à ceux qui emportent un morceau de nous-mêmes, il y a un tissage à faire, c’est un immense travail.
Renouer sans cesse, tendre l’oreille, tendre l’attention.
Ce n’est pas un se rappeler, mais appeler, évoquer.
Notre Sort, c’est de ne pas laisser derrière nous.

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante. Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!





SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. UN MUOITTU SULU UN BAISTA NI SIEBBONO CHIOSSAI!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
7. OPERATION HUSKYdi Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini


V. LA MAFIA
AMERICANA


di
Daniela Zini

The Untouchables

Seduti da sinistra: Jim Berenton, Al Aman, Gus Simons, Ray Casserly, Walter Miller; in piedi da sinistra: Tom Scott, Lee Donahue, Bob Ford, Ivan Caushift, Sconosciuto, Eliot Ness. 
Scena tratta dal film Il Padrino di Francis Ford Coppola: Amerigo Bonasera [Salvatore Corsitto] chiede a don Vito Corleone [Marlon Brando] la vendetta per l’aggressione alla figlia [sfigurata da alcuni ragazzi di buona famiglia dopo un tentativo di stupro].
Bonasera: Io credo nell’America. L’America ha fatto la mia fortuna e io crescii mia figlia come un’americana. Ci detti libertà ma ci insegnai puro a non disonorare la famiglia. Idda avia un boyfriend non italiano, se ne ivano u cinema insieme, tornavano a casa tardi e io non protestavo. Due mesi fa lui l’invitò in macchina conn’autro amico suo, la fecero bere whisky e poi cercarono di approfittarsi di lei. Lei resistette. L’onore lo mantenne. Iddi la pestarono come un animale. Quando arrivai all’ospedale la sua faccia faceva paura, la mascella era rotta, l’aviano cusuta cu fil di ferro e neanche chiangere poteva, tant’era o male. Ma io chiangeva, povera figghia mea, ca a luce era degli occhi miei, bellissima era... non sarà cchiù bedda come prima [Pausa. Piange. Gli portano un bicchierino di liquore] M’avite a scusare. Andai alla polizia da buon americano, i due furono pigghiati e processati. O giudice li condannò, ma non avìano precedenti e ci dette la condizionale, sospensione della pena, li fece uscire nello stesso giorno. Io restai dint’a chell’aula come un fesso e quei due bastardi mi ridevano in faccia. Allora dissi a mia moglie: per la giustizia dobbiamo andare da Don Corleone.
Don Corleone: Ma perché andaste alla polizia, perché non veniste da me subito?
Bonasera: Che cosa volete da mia, domandatemi tutto, ma facite chiddu che m’aspetto da voi.
Don Corleone: Sarebbe a dire...?



1.     Il braccio violento del dollaro
Charles Marion Russel, In without knocking[2].

 
Charles Marion Russel, The Hold Up.

Dal rapido arricchimento di trafficanti senza scrupoli, dai bari, dalla omertà e le collusioni ebbe origine il banditismo organizzato su scala nazionale.


La prima forma di gangsterismo risale all’epoca in cui i pionieri, ammazzatisi durante un’annata per trarre qualcosa dalla terra, acquistata con ipoteche offerte con maliziosa “liberalità” dai banchieri, non potevano fare fronte ai loro impegni; allora entravano in scena i pistoleros assoldati dalle banche, i quali trovavano, sempre, il modo di far pagare, puntualmente, ai debitori le loro rate. Del pari, a questi fuorilegge non occorse molto per persuadere i Pellirosse a cedere le terre di loro proprietà ai capitalisti e anche andarsene senza troppe storie. D’altronde, rimasero tristemente famosi i cacciatori di Indiani , arruolati dai costruttori della ferrovia del Colorado. Anche le autorità, in certi casi, ricorrevano con disinvoltura ai delinquenti.
I misfatti di Butch Cassidy, Al Capone, Albert Anastasia.    

Charles Marion Russel, Camp Cook’s Troubles.

Non si arriva a comprendere la incredibile potenza del gangsterismo degli Anni Venti o dei bosses della droga se non si risale alle origini di quel fenomeno – il banditismo – che, se non fu, esclusivamente, americano, negli Stati Uniti fece scuola ed ebbe i suoi episodi più drammatici.
È, perfino, ovvio che la delinquenza organizzata non avrebbe potuto compiere pressoché indisturbata imprese che hanno del fantastico, ben oltre il “colpo” in banca o l’assalto al treno, se non avesse avuto alle spalle appoggi e protezioni di ogni genere e una organizzazione perfetta, di tipo industriale. A questo complesso di omertà e di collusioni noi oggi diamo un nome, Mafia, e sappiamo che la Mafia non è soltanto un nome, anche se, forse, non si arriverà, mai, a definire cosa sia, in tutte le sue molteplici e sconcertanti sfaccettature. Ma resta il fatto che la criminalità si è sviluppata, ha prosperato e si è estesa come una piovra su infiniti settori, perché vi è sempre stato chi se ne è servito per i suoi fini.
È per questo che una storia del genere deve, necessariamente, prendere le mosse dai primi dell’Ottocento. A quell’epoca le potenti compagnie formate dai banchieri europei per finanziare i primi coloni e i primi mercanti si erano, già, trasformate in “gruppi” – l’embrione dei giganteschi trusts –, i cui capitali provenivano dal rapido arricchimento di trafficanti senza scrupoli, di cercatori di oro, di bari.
Quegli avventurieri del dollaro, divenuti favolosamente ricchi, nel giro di pochi anni, non comprendevano perché, possedendo 10, dovessero accontentarsi di guadagnare 20 e non 100, se quando avevano 1 avevano guadagnato 10.
Perché, avendo 100, non avrebbero dovuto puntare a 1.000?
La differenza tra 10 e 1.000 era la stessa tra corretti investimenti commerciali e speculazione, tra onestà e criminalità.
I grandi finanzieri di allora – i fondatori delle varie dinastie del dollaro – non ebbero esitazioni.
Il settore che prometteva i più lauti guadagni era la compravendita di terre.


Il famoso Va’ all’Ovest, giovanotto, e fa’ fortuna fu uno degli slogans di maggiore successo nella storia della pubblicità e la molla che mise in moto interi popoli.
Dall’Europa continuavano a giungere, ogni anno, decine di migliaia di emigranti, all’inseguimento del loro pot o’ gold, il loro “pizzico di oro”, le loro briciole di fortuna. A questi si aggiungevano decine di migliaia di braccianti e di operai – trapiantati da qualche generazione nelle città della costa atlantica – delusi nelle loro speranze e nelle loro ambizioni.
Tutti volevano una seconda occasione e chiedevano terre, disposti a pagare tutto ciò che possedevano per acquistarle.
Nessun problema per questo: gli immensi territori ancora incolti e disabitati delle praterie bastavano per tutti.
Per i baroni del dollaro si trattava solo di giungere prima degli altri e di assicurarsi, legalmente, la proprietà delle terre, in modo che i pionieri, una volta arrivati sul posto, non avessero scelta: o acquistare da loro, ai prezzi che loro imponevano o tornare indietro, alla schiavitù del bracciantato o alla frustrazione delle fabbriche.
E, innegabilmente, nessuno tornava indietro.
Se i suoi risparmi non erano sufficienti ad acquistare la fattoria su cui aveva messo gli occhi, la banca locale – emanazione di un più potente gruppo finanziario – gli offriva una vantaggiosa ipoteca.
Avrebbe pagato un po’ all’anno, con i suoi raccolti…
Qualche anno di stenti, poi, il padrone della fattoria sarebbe stato lui.
Una prospettiva, senza dubbio alcuno, allettante.          
Perché, per gli speculatori di terre, tutto funzionasse secondo le previsioni, consentendo guadagni del 1.000 per 1, vi erano due sole difficoltà.
La prima, che quelle terre i proprietari ne avevano già, anche se non legalmente riconosciuti: gli Indiani.
La seconda, che era difficile far tirare fuori la rata della ipoteca a gente che, arrivata finalmente al primo raccolto, si rendeva conto di essersi ammazzata di fatiche e di sacrifici per nulla, per dare tutto alla banca che aveva acceso l’ipoteca e restare più poveri di prima. 
Nacque così l’imprevedibile alleanza tra banchieri e fuorilegge.
Chiunque sapesse maneggiare le armi e non avesse scrupoli a usarle fu arruolato dai banchieri.
Molti erano ricercati per furto e omicidi, rifugiatisi nel West per eludere le prigioni di Boston.
Al soldo dei potenti padroni trovarono l’immunità e, perfino, una solida rispettabilità.
Pensavano i pistoleros a persuadere i Pellirosse a cedere le terre e ad andarsene senza troppe storie.
Sappiamo come!
Provvedevano loro a convincere i coloni a pagare, puntualmente, le rate dell’ipoteca.
Era meno pesante privarsi dei nove decimi del raccolto davanti a un paio di pistole spianate, sapendo che, già, qualcuno aveva saldato il debito, perdendo non solo il raccolto, ma anche la fattoria e la vita! 
Gli speculatori prosperavano e, con loro, prosperarono le bande dei desperados. Di loro si servirono anche i costruttori delle ferrovie – rimasero tristemente famosi i cacciatori di Indiani, arruolati dal reverendo John Milton Chivington[3], proprio per conto dei costruttori della ferrovia del Colorado – e i grandi latifondisti del Sud, per tenere buoni gli schiavi delle piantagioni di cotone.
La delinquenza è, sempre, stato il braccio violento del dollaro, neppure troppo nascosto.
Del resto, le stesse autorità ricorrevano con disinvoltura all’aiuto dei fuorilegge, quando per loro era conveniente.
Quando nel 1814, New Orleans si trovò sotto il tiro delle artiglierie inglesi, per salvare la città venne chiesto aiuto a Pierre e Jean Lafitte, i famigerati pirati cui si attribuivano decine di saccheggi e di omicidi.

Charles Marion Russell insiem e a Wallace Stairley, 1887.

Charles Marion Russell ed Ensign Sweet, circa 1888.

Charles Marion Russel, 1909.

Da sinistra: Frank Bird Linderman, il Capo dei Chippewa Big Rock e Charles Marion Russell, 1916.

Poi, agli inizi della Guerra Civile, vi fu il caso ancora più sconcertante del maggiore William Clarke Quantrill [https://www.youtube.com/watch?v=nWXnqHnXloc] e della sua Brigata Nera.
Nel 1854, il Kansas ebbe il riconoscimento di territorio non organizzato, preludio al suo ingresso tra gli Stati Uniti dell’Unione con tutti i diritti conseguenti.
 
William Clarke Quantrill

L’avvenimento ebbe notevoli ripercussioni, in quanto allora gli Stati favorevoli allo schiavismo erano esattamente in parità con quelli che, invece, intendevano abolirlo. Il voto dei rappresentanti del nuovo Stato sarebbe risultato determinante per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra, con tutte le conseguenze politiche ed economiche.
Ma gli stessi abitanti del Kansas erano ancora incerti e divisi.
Per portarli dalla loro parte, le organizzazioni degli Stati vicini – schiavisti e non – ricorsero ai fatti, giacché le parole si erano dimostrate troppo poco convincenti.
I fatti furono, ancora una volta, l’intimidazione, la minaccia, la paura. I più noti antischiavisti furono massacrati a colpi di fucile in una serie di imboscate; i più fortunati videro sparire tutto il loro bestiame o trovarono le loro fattorie in fiamme. Gli autori di quelle imprese erano i bushwakers, briganti delle foreste, banditi mascherati che piombavano al galoppo sfrenato, sparavano, uccidevano, incendiavano e, subito, sparivano; ma sparivano portandosi via intere mandrie di cavalli e migliaia di capi di bestiame.
Fu, subito, evidente che erano stati i grandi allevatori e i proprietari terrieri del Missouri – ai quali occorrevano gli schiavi per la prosperità delle loro aziende – a organizzare quelle bande: a mettere insieme gli uomini, ad armarli e a lanciarli contro i loro avversari.
I finanzieri dell’Illinois, cui conveniva un futuro di tipo industriale e non agricolo, e, quindi, l’abolizione della schiavitù, ricorsero allo stesso mezzo: formarono altre bande, i jayshawkers, razziatori, che aizzarono contro le fattorie e gli allevamenti degli schiavisti del Kansas.
Così, per oltre dieci anni, in quei territori, rapine, furti di bestiame, saccheggi, massacri furono non criminalità, ma guerriglia.
Nel 1861, il capo riconosciuto delle varie bande di bushwakers era un ladro di cavalli arrivato dal Maryland, Clarke “Charley” Quantrill. A costui, allo scoppio della Guerra Civile, lo stesso presidente confederato, Jefferson Davis, concesse una “patente” perché operasse con le sue bande irregolari lungo il confine, ai danni dei Nordisti.
Il maggiore Quantrill – non sappiamo se l’ex-ladro di cavalli il grado se lo fosse autoattribuito oppure lo avesse ricevuto ufficialmente – riorganizzò la sua banda, cui diede il nome di Brigata Nera, su basi militari e vi accolse molti delinquenti con molti delitti sulla coscienza e qualche giovane idealista.
Le principali azioni di guerra compiute dalla Brigata Nera furono una serie di assalti al treno e di rapine in banca, interpretate come azioni di sabotaggio, culminate nel Massacro di Centralia, dove furono uccisi in una imboscata più di duecento federali: ma erano cavalleggeri che inseguivano i banditi.

Charles Marion Russel, 1910.

Non di rado, le azioni erano architettate dallo stato maggiore sudista. Fu, certamente, questo il caso della spedizione su Missouri City, progettata dal generale Sterling Price, comandante della cavalleria confederata, per far saltare il ponte di quella città, che era il transito obbligato per i rifornimenti alle truppe unioniste. Price affidò la missione a una delle bande di Quantrill, quella capitanata da William Anderson, un ex-ladro di cavalli del Kansas, che, per la sua ferocia veramente inumana, veniva chiamato Bill il Sanguinario. Autore di più di trecento omicidi, aveva la barbara usanza di strappare alle vittime lo scalpo per adornarsene la giubba. A chi gli chiedeva perché non si accontentasse di tagliare gli orecchi ai prigionieri, come facevano gli altri uomini della Brigata Nera, rispondeva:
“Perché degli orecchi non so cosa farmene.”    
Ma a Missouri City ad Anderson andò male.
Le spie avevano preavvertito i Nordisti.
Bill il Sanguinario e i suoi dodici guerriglieri caddero nell’imboscata che era stata tesa, proprio all’imbocco del ponte che dovevano distruggere. In un attimo furono crivellati di pallottole. La testa di Anderson fu tagliata e conficcata su un palo telegrafico, come monito.
Tra i giovani idealisti accorsi nelle fila della Brigata Nera vi furono i fratelli Frank e Jesse James, con quattro loro cugini, gli Younger. Tutti ragazzi di ottima famiglia, che tra i parenti più stretti contavano ufficiali confederati, pastori protestanti, allevatori, medici.  Come guerriglieri non fecero gran che; ma, svaligiando banche e assaltando treni, appresero abbastanza da poter continuare da soli, una volta finita la guerra.
E Jesse James fu il capo della prima banda vera e propria di fuorilegge, che insanguinò il Missouri e gli Stati vicini, fino al 1882, quando il suo capo venne ucciso a tradimento. Ma, proprio per il suo passato di guerrigliero della Confederazione, Jesse James riuscì a circondarsi di un mito romantico, da Robin Hood della prateria, che gli valse simpatie e protezioni.
Un mito di cui avrebbero beneficiato anche molti suoi emuli. 

Seduti da sinistra a destra: Harry A. Longabaugh, alias Sundance Kid; Ben Kilpatrick, alias Tall Texan; Robert Leroy Parker, alias Butch Cassidy; in piedi: Will Carver, alias News Carver, e Harvey Logan, alias Kid Curry, Fort Worth, Texas, 1900.

Di Charles Earl Bowles, detto Black Bart, i giornali mettevano in risalto che era un ex-ufficiale confederato e con questo avevano l’aria di giustificare le sue imprese: una trentina di rapine. Bowles era un insegnante, divenuto bandito per caso. Aveva il vizio di fare scherzi a chiunque. Una sera, udì le sonagliere della diligenza e architettò un nuovo scherzo al postiglione, suo amico. Si bendò il volto, strappò da un albero un rametto che poteva sembrare una pistola e si mise in mezzo alla strada…
Con sua sorpresa, il postiglione gli lanciò ai piedi la cassetta dei valori e frustò i cavalli per darsi alla fuga.
“Se rapinare le diligenze è così facile”,
considerò il maestro,
“è meglio che lasci la scuola e mi dedichi a questo genere di passatempo.”
La storia di Black Bart è rivelatrice di un clima di paura e di sfiducia nella giustizia, che bastò da solo a far largo al banditismo. A questo andavano aggiunti i rancori sordi dei poveri che, costretti a lavorare come schiavi, per compensi irrisori, dovevano subire continue umiliazioni da parte dei cattle barons, i baroni del bestiame e dei loro pistoleros.
Era inevitabile che ai loro occhi un fuorilegge apparisse una specie di guerrigliero eroico e idealista, che combatteva gli odiati padroni come loro non avevano il coraggio di fare, e che gli offrissero omertà e protezione.
Un giorno, uno di questi peones – un ragazzo di soli dodici anni – reagì all’insulto di un pistolero, strappandogli la pistola dalla fondina e scaricandogliela nel petto. Poiché l’uomo era l’intendente del baron locale, il ragazzo fu costretto a fuggire per sottrarsi non tanto alla giustizia, quanto alla vendetta. Fu raggiunto, portato nel saloon e processato; condannato all’impiccagione con una sentenza sbrigativa. Mentre i suoi catturatori appendevano la corda a una trave, il ragazzo approfittò di un loro attimo di distrazione per impadronirsi di una pistola e farsi largo, sparando furiosamente.
Riuscì, ancora, a fuggire, ma, oramai, la sua vita era segnata.
Poteva soltanto darsi al banditismo. 
Si chiamava William Bonney, detto Billy the Kid.
Billy divenne popolarissimo, esaltato da innumerevoli ballate.
Il popolo e gli stessi giornalisti videro in lui un purissimo Robin Hood…
La realtà era ben altra.
The Kid, il Ragazzo, era uno spietato assassino e teneva il conto degli omicidi commessi facendo per ciascuno una tacca sul calcio della pistola.
Quando cadde, il 14 luglio 1881, fulminato dall’infallibile carabina dello sceriffo Pat Garrett che gli aveva dato, a lungo, la caccia, la sua pistola aveva ventuno tacche; ma a quelle uccisioni si dovevano aggiungere gli ancora più numerosi neri e indiani, che Billy non considerava degni di figurare nella sua macabra contabilità.
A parte queste sfumature patriottiche e romantiche, la vera matrice del banditismo furono i pistoleros, assoldati dagli allevatori per difendere le loro mandrie e per rubare le mandrie dei concorrenti.
Tra le varie guerre di cui è ricca la storia americana, vi fu anche la cosiddetta guerra degli allevatori, combattuta, nel 1880, tra i grandi allevatori di bestiame per il possesso dei pascoli e trascinatasi per un decennio.  


Si formarono alla scuola dei cattle barons anche Bill Doolin e Butch Cassidy, gli autori delle più clamorose rapine della fine dell’Ottocento; ma, per entrambi, banche e treni erano solo un diversivo al loro “lavoro” regolare di pistoleros, al soldo di qualche grande allevatore. Ed entrambi, benché si fossero macchiati di numerosi omicidi, vennero lasciati in pace fino a quando rimasero fedeli ai padroni.
Va aperta una parentesi, per spiegare come mai in quegli anni tanti giovani si dedicassero al banditismo.
Per Jesse James e i fuorilegge del suo tempo la spiegazione era evidente. 


Per la generazione successiva, gli sconvolgimenti della Guerra Civile erano lontani e dimenticati, ma a questi si era sostituita la miseria, conseguenza della grande siccità del 1883 e del tracollo dei prezzi che il bestiame subì nel 1885 e negli anni successivi. La grave disoccupazione tra i cow-boys e tutti quelli che vivevano dell’allevamento del bestiame – conseguenza anche dello smembramento dei ranches sconfinati a favore della creazione di più piccoli appezzamenti agricoli – fu l’anticamera inevitabile della delinquenza.
Centinaia di cow-boys disoccupati iniziarono a battere le praterie in cerca di che sfamarsi. Un furto, una rapina, una taglia li spingevano sempre più lontano, finché trovavano accampamenti sperduti formati da altri desperados come loro. Ladri di cavalli, fuorilegge, cow-boys senza tetto e senza lavoro, banditi di ogni risma, ricercati costituivano allora delle strane comunità, che andavano molto oltre i limiti di una banda di fuorilegge: erano città, Nazione, con le proprie leggi, le proprie autorità, il proprio esercito. 
Al Brown’s Hole, un ciuffo di rocce nella prateria del Wyoming Settentrionale, una di queste comunità diede vita a due bande separate, ma interdipendenti: il Branco Selvaggio, che si agglomerò intorno a Butch Cassidy e la Fascia Rossa di Sam Champion. Godevano della protezione dei banchieri più ricchi e potenti dello Stato, che vendevano per loro conto il bestiame rubato e partecipavano agli utili. Sembra impossibile che degli autentici geni dell’alta finanza si sporcassero le mani per le provvigioni ingenti, ma per loro trascurabili, che ricavavano dalla compravendita del bestiame rubato.
E, infatti, erano ben altri i guadagni.
Quando dalle loro banche veniva spedito un carico d’oro, le preziose casse venivano caricate sul treno o sulla diligenza sotto gli occhi di tutti: l’intera città poteva testimoniarlo. Poi, accadeva, regolarmente, che treni e diligenze venissero svaligiati lungo il viaggio. Solo trenta anni dopo, venne scoperto che le casse contenevano sassi e nient’altro. Era tutta una messinscena, perché i banchieri potessero farsi rifondere dalle società assicuratrici furti che non avevano mai subito. E i fuorilegge, che dall’assalto al treno ricavavano solo dei sassi, venivano compensati lautamente per quei favori, con la possibilità di vendere il bestiame rubato, di cui altrimenti non avrebbero mai potuto disfarsi. Gli allevatori, danneggiati dai furti continui, ottennero la costituzione di una commissione governativa per il controllo del bestiame. Tutto inutile; la comunità del Brown’s Hole veniva avvertita delle ispezioni con almeno un mese di anticipo, perché avesse tutto il tempo di far sparire i capi rubati.
Ottennero l’arresto di ben 180 componenti della banda; ma uno solo venne effettivamente processato e condannato: la spia che aveva portato all’arresto degli altri!
Infine, gli allevatori decisero di farsi giustizia da soli.
Formarono un comitato di sterminio e armarono un esercito di un migliaio di pistoleros, che, l’8 aprile 1892, mosse all’attacco del Brown’s Hole. Lo scontro era appena iniziato, quando intervennero numerosi squadroni di cavalleria che, galoppando tra le due schiere opposte, intimarono la cessazione del fuoco. La conclusione della battaglia può sembrarci paradossale: 240 arresti. Tutti ed esclusivamente, gli uomini armati dagli allevatori, che furono costretti a sfilare, disarmati e solidamente legati, sotto gli occhi dei fuorilegge.
Legalmente, erano stati loro a essere sorpresi in flagrante reato!
I banchieri non erano gli unici personaggi potenti legati al Branco Selvaggio e alla Fascia Rossa. Le due bande avevano come consulente tecnico A. G. Angus e come avvocato difensore Charles W. Burnitt: il primo era sceriffo di Buffalo City, il secondo sindaco della stessa città.
Ancora una volta balzano agli occhi le analogie con i gangsters più vicini a noi.
Albert Anastasia, il boss di New York, dal 1930 al 1957, poté agire indisturbato per un quarto di secolo, perché si era assicurato i servigi di William O’Dwyer e James Moran, sindaco e cancelliere della città. Quando l’imprevedibile associazione venne smascherata, Moran finì in prigione, O’Dwyer se la cavò con le dimissioni.
Tutti gli ingredienti del banditismo dell’Ottocento si ritrovano – con i perfezionamenti dovuti alla tecnica e all’organizzazione moderna – nel gangsterismo degli Anni Venti, che trasferì nelle metropoli i metodi dei pistoleros e dei barons del West.   
In realtà, la trasformazione del banditismo campagnolo nel gangsterismo stracittadino avvenne molto prima.

Foto segnaletica di Albert Anastasia
Parghelia, 26 settembre 1902 – New York, 25 ottobre 1957

Già, alla fine dell’Ottocento, a New York, Chicago, Detroit e in infinite altre città vi erano associazioni criminali che prendevano il sopravvento su quelle rivali a colpi di pistola e stabilivano il proprio potere con la connivenza delle autorità locali; ma erano ancora imprese a livello artigianale, legate alla intraprendenza e al prestigio di qualche fuorilegge intorno al quale gravitavano pochi accoliti, che si scioglievano con l’arresto o la morte del capo. 
Perché la criminalità potesse portarsi a un livello “industriale”, occorrevano, ancora, una “manodopera” molto più numerosa e soprattutto “cervelli”, che sapessero trovare il modo di beffarsi della legge, agendo sul filo della legalità e procurandosi protettori influenti per quello che ricadeva sotto i rigori della legge.
Con la massiccia emigrazione siciliana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il gangsterismo all’americana trovò e le braccia e le menti.
Fu la mafia a “mettere ordine” nel banditismo americano e a dargli mete ambiziose.
E, dal matrimonio tra banditi e mafiosi, sarebbe nata la figura ancora inedita del gangster.
Cessarono, allora, attacchi ai treni e svaligiamenti di banche. Erano colpi fruttuosi ma sporadici.
Rendeva molto di più – se bene organizzato – ed era meno rischioso il racket, che era stato inventato da Butch Cassidy.
Il bandito, quando decise di mettersi sulla retta via, aveva escogitato un buon sistema per vivere nel lusso di cui non sapeva fare a meno. Si presentava a un allevatore e gli offriva i suoi servigi come pistolero, chiedendo un lauto premio di ingaggio. Se qualcuno rifiutava, pochi giorni dopo – quando trovava la mandria dimezzata o il ranch in fiamme – si pentiva di non avere assunto una buona pistola per difendere i suoi beni…
Pochi esempi bastarono perché tutti comprendessero.
Nessuno più rifiutò di ingaggiare il pistolero; il quale, incassato il premio, restava un paio di giorni e, poi, se ne andava in cerca di un nuovo padrone.  
Queste “protezioni” furono il primo campo di azione dei nuovi gangsters.

Nella foto i fratelli Anastasia, una delle tante famiglie mafiose italo-americane: da sinistra, seduti Antonio [Tony], Giuseppe [Joe], don Salvatore, Umberto [Albert]. In piedi Gerardo [a destra] e il nipote Antonio. Tony era il capo del potente sindacato dei portuali, Albert [https://www.youtube.com/watch?v=x4llq2Vnu_M], destinato a morire falciato da una raffica di mitra, mentre era dal barbiere, ] il creatore dell’Anonima Assassini. Don Salvatore, arrivato a New York dalla Calabria, per raggiungere i fratelli dopo essersi fatto prete, giurò fino all’ultimo di non sapere nulla delle loro attività criminali:
“La tragedia della mia vita cominciò con un giornale deposto da una vecchia signora sui banchi della chiesa della Cromwell Avenue.”
Era il Natale del 1950 e scoprì, su quel quotidiano, che la Commissione sul Crimine avrebbe interrogato “il ras della malavita newyorkese” Albert Anastasia.
“Vidi nero, mi coprii di freddo e di sudore, un fiotto di sangue mi uscì dal naso; ho ripreso conoscenza il giorno dopo, mi tennero per ventiquattr’ore sotto la tenda a ossigeno.”

I piccoli bottegai furono i primi a comprendere la convenienza di quella specie di assicurazione contro gli infortuni: infortuni molto brutti!
Le diverse famiglie mafiose si spartirono fraternamente le rispettive zone di influenza e, di solito, stavano ai patti.
Se qualcuno, troppo avido, usciva dai suoi confini, provvedeva il saggio e autorevole padrino ad ammonirlo.
Se non si ravvedeva…
Un cadavere in più all’obitorio, senza che nessuno sapesse chi fosse e come fosse stato freddato.

Albert Anastasia

A poco a poco, il racket si estese ai locali notturni, alle case da gioco e alla prostituzione.
Dopo la prima guerra mondiale, mise sotto il suo controllo interi settori pubblici, come l’assunzione degli scaricatori portuali e gli appalti dei trasporti.
Non otteneva un lavoro o non lavorava a lungo, chi non accettava un “protettore”.
Anche allora, come un secolo prima, la chiave di volta del sistema erano i pistoleros. Di questi, uno dei più famosi era Walter Stevens, che si metteva al servizio, indifferentemente, dei padroni contro gli scioperanti oppure dei sindacati contro i crumiri, a seconda di chi lo pagasse meglio.
Ma lui, invece delle pistole, usava le bombe.
Al Capone lo notò e lo ingaggiò come suo braccio destro.
Più di ogni altro, erano proprio i gangsters ad avere bisogno di pistoleros decisi a tutto! 
Fu il proibizionismo ad aprire al gangsterismo nuove prospettive; e fu Al Capone – un napoletano soprannominato Scarface, lo Sfregiato – a intuire la possibilità del contrabbando di alcolici.
Lo Sfregiato, con la sua gang dei siciliani, comprese che per lui era giunto il momento di farsi valere. Si fece largo tra la delinquenza newyorkese più con la diplomazia che con la violenza, poi, si trasferì a Chicago. E, quando a contrastargli il passo, rimasero solo Charles Dean O’Bannion e la sua gang degli irlandesi non esitò a passare al mitra.

Foto segnaletica di Al Capone
New York, 17 gennaio 1899 – Miami, 25 gennaio 1947

Divenuto in tale modo il capo riconosciuto e rispettato del banditismo a Chicago, appoggiato e ascoltato anche da cosche e famiglie delle altre città, Al Capone impose la sua volontà da dittatore. Il suo primo diktat – che nessuno osò mai trasgredire – stabilì che il 70% dei proventi del racket fosse investito per “oliare” la legge.
Se si tiene conto che solo la sua banda guadagnava non meno di un milione di dollari al mese con il contrabbando dei liquori, si fa presto a misurare in cifre la corruzione delle autorità cittadine di allora.
Personaggi politici, magistrati, poliziotti divennero suoi protetti e suoi protettori. 

Il massacro di San Valentino, Chicago, 14 febbraio 1929.

In tale modo, lo Sfregiato poté uscire dalla semiclandestinità in cui i gangsters avevano agito fino ad allora, per permettersi il fasto addirittura hollywoodiano dei due piani dell’Hotel Metropole [50 stanze], in cui stabilì il suo quartier generale. E al Metropole si vedevano, ogni giorno, deputati, senatori, procuratori distrettuali, giudici, magnati della finanza e dell’industria in attesa di essere ricevuti dal “re”.
Questo era il braccio diplomatico di Al Capone, che servì a lasciare campo libero a Walter Stevens e al braccio violento, che si rivolgeva soprattutto – e con spietata efferatezza – contro gli altri malviventi.
Lo Sfregiato era un amante dell’ordine.
Gli serviva che la gente potesse uscire sicura di sera, per recarsi ad affollare i bar da lui riforniti, le sue bische, le sue case di appuntamento.
Gli serviva che non vi fossero crimini troppo clamorosi, perché i suoi altolocati protettori non si trovassero costretti a adottare giri di vite che avrebbero colpito anche i protetti…




Guai ai rapinatori, ai banditi da strapazzo, ai delinquenti isolati!   
Paradossalmente, il periodo del regno di Al Capone fu uno dei più tranquilli della vita di Chicago: a parte l’eliminazione di quanti gli davano fastidio.
Il 14 febbraio 1929, il giorno di San Valentino, nessuno ebbe dubbi sulla provenienza degli uomini travestiti da poliziotti che massacrarono, a colpi di mitra, sette uomini della Banda Moran, un gruppo di desperados che aveva osato rubare – nientemeno! – alcuni camions carichi di whisky, di proprietà di Al Capone.
Il Massacro di San Valentino scosse l’opinione pubblica e fece intervenire l’FBI


Ancora una volta, non fu possibile concretare, in prove giudiziarie, ciò che tutti sapevano perfettamente.
Lo Sfregiato risultò inattaccabile; nel momento della sparatoria era in compagnia del procuratore distrettuale di Miami…
Tuttavia Al Capone iniziava a dare fastidio alla “Famiglia”.
Stava spuntando il nuovo astro: Albert Anastasia.
Calabrese – il suo vero nome era Umberto Anastasio – era emigrato, clandestinamente, in America, nel 1917, saltando in mare da una nave all’ancora nel porto di New York.
 

Sapeva, già, dove recarsi. 
Fu assegnato, immediatamente, al fronte del porto e si meritò un macabro soprannome: il Boia.
Nel 1920, fu vittima di un infortunio professionale.
Riconosciuto colpevole della uccisione di Joe Turino, uno scaricatore di porto che non tollerava protettori, fu condannato a morte.
Ma la “Famiglia” si mobilitò per salvarlo.
I migliori avvocati degli Stati Uniti ottennero una serie di rinvii della esecuzione e, infine, una revisione del processo.
Anastasia fu assolto per insufficienza di prove: i quattro testimoni a carico, nel frattempo, erano tutti morti!


La villa, nella quale il boss di Chicago Al Capone pianificò la strage di San Valentino, compiuta dai suoi uomini il 14 febbraio del 1929, si trova a Palm Island, Miami, ha quattro camere da letto, una piscina, una residenza per gli ospiti con altre due camere da letto, e si estende su una superficie di novemila metri quadrati. Parte della proprietà anche una piccola spiaggia privata che si affaccia su Biscayne Bay, con una vista sullo skyline di Miami.

Grazie alla protezione di Joe Adonis, il Boia entrò nella Unione Siciliana, nella stanza dei bottoni del gangsterismo mafioso.
Nel 1930, costituì una sua banda, ignorando, completamente, lo Sfregiato, che, abbandonato al suo destino dalla “Famiglia”, era, già, un re detronizzato, anche se restava nella lussuosa reggia del Metropole.

Albert Anastasia [il primo da sinistra], in uniforme americana, fotografato insieme ai suoi commilitoni in Sicilia.
Capo dell’Anonima Assassini, fu, come molti altri mafiosi, al seguito delle truppe americane e dell’OSS, durante lo sbarco alleato.
Quando, il 12 Ottobre 1957, si riunirono, a Palermo, i bosses siciliani e statunitensi, sotto gli occhi della polizia, venne decisa la sua condanna a morte per alcuni sgarri ad altri bosses e perché calabrese e non siciliano.
La sentenza verrà, puntualmente, eseguita a New York.

Probabilmente l’FBI salvò Al Capone da una sorte peggiore.
Nel 1931, l’FBI lo arrestò per frode fiscale, giacché non si era potuta concretare contro di lui un’accusa più grave.
Il giudice calcò la mano.
Undici anni di lavori forzati!
Al Capone dovette scontarli tutti ad Alcatraz.
Nessuno si preoccupò di tirarlo fuori.
Quando ne uscì, dopo avere scontato la pena fino all’ultimo giorno, era un povero squilibrato che non poteva più dare fastidio a nessuno.
Anastasia regnò fino al 1957.
Finita l’epoca d’oro del proibizionismo, dovette allargare la sua sfera di azione su altri campi: la speculazione edilizia, le slot-machines e i flippers, il contrabbando di sigarette con l’Europa.
 
“[…] Il 14 settembre del 1948 viene presentata alla Camera dei deputati, una proposta di legge per la costituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla situazione dell’ordine in Sicilia. Nella discussione che ne scaturisce l’onorevole Domenico Magrì, democristiano, sdegnato dichiara: […].
Noi sappiamo che il fenomeno Giuliano si va sempre più limitando, sempre più circoscrivendo sotto l’azione delle forze dell’ordine, e dico che è tempo di riportare ai limiti della realtà questo mito che è stato ingrandito, ingigantito dai gazzettieri che hanno bisogno dei pezzi di colore, dalle giornaliste isteriche e dalla ricerca affannosa e incontrollata di speculazione politica. Io vi dico, onorevoli colleghi, che è tempo che cessi questa scandalosa speculazione […].
Nel dibattito al Senato del 22 giugno 1949, a seguito dell’interpellanza del senatore Cerica al ministro dell’interno “sulle condizioni della pubblica sicurezza nella provincia di Palermo”, il senatore Casadei sottolinea come “[… ] Prima del 2 giugno [1946] la Sicilia fu spettatrice di strani connubi. Si agitarono contemporaneamente contro la Repubblica noti capi dell’esercito, grandi nomi della proprietà feudale, alti nomi del clero. E la Mafia e il banditismo appoggiarono attivamente talune correnti politiche, senza peraltro riuscire ad assicurarsi, nella fase di allora, una salda alleanza con quello che avrebbe potuto essere il futuro partito di governo. Sta di fatto che il banditismo, la mafia ed il separatismo furono lanciati in quel tempo nelle posizioni più esposte contro l’autorità dello Stato unitario. Il Governo, che risentiva ancora della spinta democratica del CLN, affrontò la situazione con vaste operazioni, e dopo qualche mese il problema dell’EVIS e delle grandi bande armate fu risolto. I risultati definitivi, però, non li conoscemmo mai. Si disse che nuovi rapporti erano andati creandosi fra il banditismo da una parte e l’Ispettorato di Polizia e l’Alto Comando Militare della Sicilia dall’altro. Ma tutto, come sempre, rimase nel buio. Vennero poi le elezioni del 20 aprile 1947. La vittoria clamorosa del Blocco del Popolo significò principalmente due cose: in primo luogo il formidabile slancio in avanti delle masse lavoratrici; in secondo luogo la fine di ogni illusione legittimista e separatista. Nelle critiche privilegiate fu un grido di allarme! E accadde che il banditismo e la mafia furono violentemente scagliate contro il movimento sindacalista, contro il movimento cooperativistico. E la fase che potremmo chiamare anticomunista del banditismo siciliano.
“È la fase di Portella della Ginestra del cui strage Giuliano si vanta pubblicamente sui giornali. È la fase in cui nessuna azione straordinaria di Polizia viene intrapresa in Sicilia; in cui nessun responsabile, salvo qualche esecutore materiale, viene arrestato […].
Fino a quando perdurò questa fase di persecuzioni contro le masse operaie? Fate attenzione: fino al 18 aprile 1948. Infatti dopo il successo elettorale governativo si constata subito che la funzione del banditismo diventa molto problematica, mentre la Mafia più “legale” si costituisce un forte titolo di merito verso i partiti di governo […].
Ma il ministro dell’interno sa in quali condizioni economiche, sociali, ambientali e politiche è inserito il problema che avrebbe il dovere di risolvere? Conosce il ministro dell’interno l’esistenza di quella organizzazione a delinquere che è la Mafia e i rapporti di questa col mondo ufficiale? […].
Orbene quando un ministro e, di conseguenza, i suoi sottoposti affermano che siamo di fronte a un semplice problema di Polizia, non solo urta contro la realtà dei fatti, ma dimostra di non avere compreso i termini e quindi di non possedere le capacità per risolverlo. Che se poi egli affermasse una cosa che non pensa, allora il suo atteggiamento assumerebbe una gravità tale da aiutare obbiettivamente la non soluzione del problema […].”
Alla richiesta al governo della sostituzione del ministro dell’interno, Mario Scelba, e di una inchiesta che accerti le collisioni sospettate, De Gasperi risponde: “[…] Quello che è strano e che trovo veramente caratteristico in questa mozione è che questa volta il ministro dell’interno, il quale è accusato di solito di essere l’uomo della repressione, l’uomo dell’ordine agrario, della dittatura poliziesca, oggi viene accusato di essere troppo debole per mantenere l’ordine e la tranquillità […].
Riguardo all’inchiesta, una breve parola. Una inchiesta in una Regione che ha novanta tra senatori e deputati regionali, e quindi un governo regionale, un’inchiesta è difficile giustificarla e legittimarla. Dovrebbero essere in fin dei conti i rappresentanti del resto d’Italia che vanno in Sicilia con uno scopo specifico corrispondente a un male specifico per una clinica specifica. Questo è evidentemente esagerato. Mi pare che non ci sia la base per ricorrere a questo sistema. Ma vengo ad una conseguenza pratica. Le inchieste che sono state oggetto di approfondito esame hanno portato senza dubbio vantaggi, ma esse non sono soprattutto necessarie per gli abusi avvenuti; esse, durante il corso di una operazione, sono fatali perché non fanno che deprimere l’impegno e il dovere delle forze di pubblica sicurezza.
“Non è possibile a quei carabinieri a quei membri della polizia, i cui compagni sono caduti, andare a dire: “Aspettate un po’, adesso viene un’inchiesta generale del Parlamento per vedere cosa avete fatto!”. Si sa che le inchieste si trasformano quasi sempre in inchieste sul conto delle operazioni di polizia; questo vorrebbe dire interrompere per lungo tempo il corso naturale delle cose […].”
Nella notte del 4 luglio 1950 Salvatore Giuliano viene ucciso, mentre alla Corte d’assise di Viterbo si celebrava il processo per la strage di Portella della Ginestra. La versione ufficiale è che il bandito è caduto a seguito di un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Dopo ventun anni l’ex-ministro dell’interno Mario Scelba si rammarica con un membro della Commissione Antimafia, il democristiano onorevole Giuseppe Azzaro, perché gli vengono mosse ancora accuse sull’increscioso episodio. Scelba sostiene d’avere fatto tutto il suo dovere, affidando nel 1954 a tre generali di corpo d’armata un’inchiesta sulla fine del bandito. II documento cui fa cenno Scelba viene acquisito agli atti della Commissione Antimafia: si sostiene che fu Gaspare Pisciotta a sparare a Giuliano, ma che questi rimase in vita, sebbene ferito. Fu il capitano Perenze a falciare Giuliano con una raffica di mitra. Giuliano poteva essere catturato vivo, ma così non si volle. Da vivo sicuramente avrebbe potuto fare i veri nomi dei mandanti di tanti assassini. E ciò non sarebbe certamente giovato a politici e politicanti di chiara estrazione. Il 3 giugno del 1951, per la seconda volta, si tengono in Sicilia le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Regionale. La Democrazia Cristiana ottiene il 31,20 per cento dei voti [666.268]; il Blocco del Popolo il 30,19 [644.384 voti]; il Movimento Sociale Italiano, al suo pruno vagito, il 12,82 per cento [273.772 voti]. II Movimento separatista non è neppure pure presente nelle liste: i parlamentari che lo avevano rappresentato si sono inquadrati, nella maggior parte dei casi, nei partiti di destra […].”
Salvo Barbagallo, L’avvenire che non venne
 


Salvatore Giuliano insieme a don Vito Genovese.

Salvatore Giuliano
“Sdraiato su un fianco, la faccia a mangiare la polvere, un ginocchio ripiegato e il braccio destro steso parallelo al corpo, l’uomo aveva infilato al medio della mano destra un brillante enorme. Indossava una maglietta senza maniche, un paio di pantaloni di tela, calzini e sandali. Aveva le mani pulite, curate, mentre i capelli erano in disordine, come se si fosse appena alzato dal letto, e sulle guance una barba di due giorni. Sul fianco destro, pendeva una fondina di pistola, aperta; l’arma che quella fondina aveva contenuto stava ad alcuni centimetri dalla faccia dell’uomo, bagnata da un rivolo di sangue, in parte assorbito dalla polvere, mentre accanto alla mano destra stava un mitragliatore Beretta. La maglietta, in origine bianca, sembrava adesso la maglietta di un’uniforme separatista, mezza chiara e mezza scura, poiché una enorme chiazza di sangue ne aveva macchiato una parte in rosso scarlatto.”




 
Gaspare Pisciotta
Poco dopo la morte di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950, Gaspare Pisciotta fu arrestato. In carcere, fece la sorprendente rivelazione che fu lui ad uccidere Giuliano nel sonno, una affermazione che contraddiceva la versione delle forze dell’ordine che Giuliano fosse stato ucciso dal capitano dei Carabinieri Antonio Perenze in uno scontro a fuoco a Castelvetrano:
“Io, Gaspare Pisciotta, ho assassinato Giuliano durante il sonno. Questo avvenne dietro accordo personale con il signor Scelba, ministro degli Interni.”

I componenti della Banda Giuliano in Corte di assise, 12 giugno 1950.

Il Primo Maggio del 1947 a Portella della Ginestra, una località ad appena 3 chilometri da Palermo, si consumò la prima Strage dell’Italia repubblicana.
La Banda di Salvatore Giuliano, ispirata ed armata da latifondisti e mafiosi, fece fuoco su centinaia di persone, comprese donne bambini, che si erano riunite con il loro sindacato per festeggiare il Primo Maggio e rilanciare la lotta per l’occupazione delle terre incolte.
Persero la vita: Vito Allotta,  Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Lorenzo Di Maggio, Filippo Di Salvo, Giovanni Grifò,  Castrenza Intravaia, Vincenza La Fata, Serafino Lascari, Giovanni Megna e Francesco Vicari [http://www.edscuola.it/archivio/interlinea/stragi_47.htm].
Fu la prima Strage della Storia della Repubblica e, anche, la prima di quelle restate avvolte dai segreti, dai depistaggi, dall’intreccio tra Mafia, politica, servizi.
La responsabilità materiale era, ovviamente, della Banda Giuliano, ma non si volle, mai, andare fino in fondo nelle indagini sui mandanti e neppure prendere in considerazione le gravissime denunce di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, che aveva indicato nomi e cognomi dei possibili mandanti politici, in sede regionale e nazionale, a partire da quei settori della Democrazia Cristiana che con la Mafia avevano trovato le opportune forme di connivenza e di convivenza.
Pisciotta morì avvelenato in carcere dopo aver annunciato in aula l’intenzione di vuotare il sacco e consegnare un memoriale.
“La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all’aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C’era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell’odore di polvere da sparo.
La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti.
Era il l° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell’Italia repubblicana.”
Sandro Provvisionato, Misteri d’Italia. [50 anni di trame e delitti senza colpevoli].

Il Primo Maggio del 1947, a Portella della Ginestra, circa 2.000 lavoratori, in prevalenza agricoltori, provenienti da San Cipirello, Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato, tre Comuni della provincia di Palermo, si radunarono nella vallata circoscritta dai monti Kumeta e Pelavet, per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 Aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI - PCI aveva conquistato 29 rappresentanti [con il 29% circa dei voti] contro i soli 21 della DC [crollata al 20% circa].
All’improvviso dal monte Pelavet, sulla folla in festa, partirono numerose raffiche di mitra, che si protrassero per circa un quarto d’ora e lasciarono sul terreno 11 morti [nove adulti e due bambini]e 27 feriti, alcuni dei quali morirono in seguito per le ferite riportate.


È l’8 maggio del 1947, una settimana dopo la strage di Portella della Ginestra. Mike Stern, agente del CIC [Counter Intelligence Corps], il controspionaggio statunitense, e con la copertura già all’epoca di giornalista giunto il giorno prima a Palermo, è a pranzo in un casolare con la famiglia Giuliano [vi sono tutti, da Turiddu alla madre e il padre e alcuni parenti e anche membri della banda]. L’agente rimarrà una settimana in compagnia di Salvatore Giuliano.


Rosalia Lombardo, madre di Gaspare Pisciotta.


Maria Lombardo, madre di Salvatore Giuliano.


Il 25 ottobre 1957, il Boia si stava facendo radere dal barbiere dello Sheraton Hotel.
Entrarono due clienti.
Estrassero le pistole e lo imbottirono di dieci pallottole, a bruciapelo.

don Vito Cascio Ferro
Nel 1909, quando Joe Petrosino venne assassinato a Palermo nella centrale Piazza Marina, Cascio Ferro fu sospettato di essere stato l’autore dell’omicidio, ma l’accusa decadde grazie all’alibi fornitogli dall’onorevole Domenico De Michele Ferrantelli, deputato di Bivona, di cui Cascio Ferro era il più importante capo-elettore. L’onorevole affermò che nel momento in cui Petrosino fu ucciso, Cascio Ferro era ospite in casa sua. Nel 2014, dopo oltre un secolo dall’assassinio del detective, alcune intercettazioni telefoniche, svolte nell’ambito dell’Operazione Apocalisse – in cui venne intercettato Domenico Palazzotto dal Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza di Palermo e che si concluse con numerosi arresti il 23 Giugno 2014 – hanno confermato il coinvolgimento di Cascio Ferro, quale mandante dell’omicidio di Joe Petrosino, e di Paolo Palazzotto, quale esecutore [http://www.lavocechestecca.com/2018/02/27/joe-pet/].

Joe Petrosino
Padula, 30 agosto 1860 – Palermo, 12 marzo 1909



Charles “Lucky” Luciano
Lercara Friddi, 24 novembre 1897 – Napoli, 26 gennaio 1962

Foto segnaletica di Charles “Lucky” Luciano.


Negli Anni Venti, l’Hotel Claridge fu il quartier generale di Lucky Luciano [https://www.youtube.com/watch?v=zDQ_Qt5e9P].




Charles “Lucky” Luciano insieme a Meyer Lansky.

Meyer Lansky
 Hrodna, 4 luglio 1902 – Miami, 15 gennaio 1983

Meyer Lansky

Meyer Lansky, Israele, agosto 1971.

Joe Masseria
Menfi, 17 gennaio 1886 – New York, 15 aprile 1931

 Salvatore Maranzano 
Castellammare, 31 luglio 1886 – New York, 10 settembre 1931 
Joe Masseria e Salvatore Maranzano erano nati entrambi in Sicilia, nel
1886,  e raggiunsero gli Stati Uniti in tempi diversi.
Masseria vi giunse, per primo, nel 1903, ed è proprio tra le strade di New York che iniziò la sua carriera criminale sotto l’ala protettrice del boss Giuseppe Morello.
Salvatore Maranzano nacque a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, il 31 luglio 1886. Da giovane studiò in seminario, ma si ritirò presto, venendo affiliato nella cosca mafiosa locale e sposando Elisabetta Minore, figlia di un boss mafioso trapanese.
Nel 1927,  Maranzano fuggì in Nordamerica a causa delle persecuzioni contro i mafiosi in Sicilia, attuate dal prefetto di ferro Cesare Mori. Giunto a New York, si stabilì nella comunità di immigrati siciliani che abitavano a Brooklyn, dove era attiva una cosca di compaesani di Castellammare guidata dal mafioso Nicola Schiro, alla quale Maranzano si unì. Durante il Proibizionismo, Maranzano installò una grande distilleria illegale nella contea di Dutchess, che divenne una delle più grandi dello Stato di New York.
Nel 1930, Masseria entrò in contrasto con Maranzano, che faceva dirottare i camions carichi di alcolici e distruggeva le birrerie illegali di sua proprietà.
Masseria, allora, ordinò l’uccisione di Gaetano Reina, uno dei suoi alleati che credeva stesse tramando con Maranzano.
Scoppiò, così, un conflitto che divenne noto come Guerra Castellammarese [https://www.youtube.com/watch?v=Jg6OB_eB9gc,  https://www.youtube.com/watch?v=Jg6OB_eB9gc] e si concluse quando Charles “Lucky” Luciano organizzò l’assassinio di Joe Masseria, il 15 aprile 1931, nel ristorante Scarpato’s, a Coney Island. 
Masseria pranzò con Luciano, che si alzò per andare al gabinetto pochi istanti prima che una squadra di killers, formata da Bugsy Siegel, Vito Genovese, Joe Adonis e Albert Anastasia entrasse e uccidesse Masseria. Eliminato il suo capo, Luciano cercò la pace con Maranzano, che si fece eleggere capo dei capi dagli altri bosses e passò le attività criminali del defunto Masseria a Luciano come premio.
Ma, poco tempo dopo, Maranzano pianificò l’assassinio dello stesso Luciano, per via dei suoi stretti legami con gangsters non-siciliani, e ingaggiò il killer Vincent “Mad Dog” Coll per eliminare Luciano e Genovese.
Il 10 settembre 1931, Maranzano convocò Luciano e Genovese nel suo ufficio in Park Avenue; ma, al loro posto, si presentarono quattro killers ebrei, travestiti da agenti del fisco, che pugnalarono Maranzano e lo finirono a colpi di pistola.
I killers ebrei erano stati assoldati da Lansky e da Luciano, il quale si era accordato con il mafioso siciliano Gaetano Lucchese.
In seguito alla morte di Maranzano, la cosca castellammarese venne rilevata dal boss Joseph Bonanno e divenne nota come Famiglia Bonanno.
Salvatore Maranzano è seppellito al Saint John's Cemetery nel Queens di New York, curiosamente vicino alle tombe di Luciano e di Genovese.
 

Salvatore Maranzano

Vincent “Mad Dog” Coll 
[https://www.youtube.com/watch?v=1FuA8JVsYGM]

Vincent “Mad Dog” Coll



 Joseph Bonanno, soprannominato Joe Bananas.

Joseph Bonanno, soprannominato Joe Bananas[4].
Castellammare del Golfo, 18 gennaio 1905 – Tucson, 12 maggio 2002
 
Giuseppe Bonanno nacque a Castellamare del Golfo, in provincia di Trapani, il 18 gennaio 1905. Il padre di Bonanno, Salvatore, faceva parte della cosca mafiosa locale e, nel 1908, si trasferì a Brooklyn insieme alla famiglia per sfuggire a una condanna. Nel 1911, tornò in Sicilia per una faida scoppiata a Castellammare del Golfo con la cosca rivale dei Buccellato, che si concluse, nel 1913, quando Salvatore Bonanno uccise il capo rivale Felice Buccellato. Nel 1915, Joseph Bonanno rimase orfano del padre, che morì per un attacco cardiaco, e nel 1920, perse anche la madre. Nel 1924, Bonanno venne schedato come antifascista insieme al cugino Pietro Magaddino e, per sottrarsi alle procedure in corso, si trasferì, clandestinamente, dapprima a Cuba e in Florida e, successivamente, a Brooklyn, dove si unì alla cosca di castellammaresi di Nicola Schirò, che, in seguito, venne sostituito da Salvatore Maranzano. Dopo l’assassinio di Maranzano, su ordine di Charles “Lucky” Luciano, Bonanno prese il comando della cosca castellammarese e si associò a Luciano, divenendo uno dei membri della Commissione. 
  



 
NY Times del 23 settembre 1952 – Il sindaco di New York Vincent Impellitteri riceve il busto di Enrico Fardella dall’onorevole Giovanni Francesco Alliata, principe di Montereale[5]

 Foto segnaletica di Frank Sinatra


Venne scoperto che erano due componenti della banda di Brooklyn dei fratelli Gallo, che avevano agito per conto di don Vito Genovese.
Era tempo di rimettersi a lavorare in grande.
Con la droga.


Frank Sinatra insieme a John Fitzgerald Kennedy.


Frank Sinatra insieme ad Aladena “Jimmy” Fratianno.


Da sinistra a destra: Paul Castellano, Gregory DePalma, Frank Sinatra, Frank Marson, Carlo Gambino, Jimmy “the Weasel” Fratianno, Salvatore Spatola, Joe Gambino, Richard “Nerves” Fusco, e Sconosciuto, Westchester Premier Theater, NYC, 1976.





 Mario Puzo
Nella versione Blu-Ray del film Il Padrino, Francis Ford Coppola menziona, brevemente, Frank Sinatra durante le sequenze di Johnny Fontane, dichiarando che “ovviamente Johnny è stato ispirato in qualche modo a Frank”.
L’autore era, infatti, impegnato alla stesura della sceneggiatura del film, quando venne invitato da un milionario che preferì restare anonimo, a una cena al Chasen’s, un famoso luogo di ritrovo, vicino a Beverly Hills, aperto nel 1936 e chiuso nel 1995:
“Quello che mi ha fatto davvero strano però è stato ricevere minacce del genere da un italiano del Nord. Nessun settentrionale osava sfidare fisicamente un meridionale, sarebbe stata una situazione simile ad Einstein che punta il coltello a Capone! Quelli del Nord non si impicciano mai coi meridionali, tranne quando devono farli imprigionare o deportare in qualche isola deserta.
La cena comunque proseguì e Frank continuò a punzecchiarmi senza alzare gli occhi dal piatto, finché non trovai la forza di andarmene. Ero umiliato e lui deve essersene accorto, infatti continuò ad urlarmi dietro, invitandomi a mettermi un cappio al collo.”

The Untouchables [Gli Intoccabili] è un film del 1987, diretto da Brian De Palma e scritto da David Mamet.
Il cast annovera Kevin Costner nel ruolo dell’agente federale Eliot Ness, Esan Connery nei panni del poliziotto irlandese Jimmy Malone, Andy Garcia, il giovane poliziotto italo-americano George Stone, e Robert De Niro nel ruolo del boss Al Capone. Per la sua interpretazione Sean Connery vinse un Oscar  quale migliore attore non protagonista.
Il film è ispirato all’autobiografia di Ness, che aveva già dato vita negli Stati Uniti alla serie televisiva The Untouchables [Gli Intoccabili] con Robert Stack.




Daniela Zini
Copyright © 31 gennaio 2019 ADZ


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]

[2] Per Charles Russell, che divenne il più grande pittore del West, dopo la morte prematura di Frederic Remington, l’Indiano era l’unico vero americano. Aveva combattuto per il suo Paese, “ma ora non aveva più né voto né cittadinanza”. Russell da giovane aveva fatto il cowboy nel Montana, e iniziò come affrescatore di quotidiane lotte con vacche e tori, combattute da quei ragazzi che vivevano sotto un cielo di stelle. 

[3] Il reverendo John Milton Chivington è stato un militare statunitense, divenuto famoso per essere stato artefice del Massacro di Sand Creek.

[4]“Siamo a Castellammare Castellammare del Golfo, 13 mila abitanti in provincia di Trapani, dove il 21 gennaio 1905 nacque Joe Bonanno, alias Joe Bananas, il mafioso che dagli anni Trenta agli anni Sessanta fu l’indiscusso capo del clan castellammarese di New York, il boss che si dava del tu con capi di stato, ministri, giudici, alti prelati, e che era considerato un “padre” da tanta gente comune che si rivolgeva a lui per ottenere favori. Un capomafia di prima grandezza, morto tre mesi fa, a 97 anni nel suo letto, che l’immaginario collettivo associa al don Vito Corleone del romanzo di Mario Puzo. A Castellammare del Golfo vivono le ultime due persone che per tanto tempo gli sono state vicine: Antonio Mione e Laura Di Filippi. Il primo è stato per diversi anni al suo servizio, la seconda è la cugina di secondo grado. Battezzato nella chiesa di Sant’Antonio da Felice Buccellato, capo della “Famiglia” rivale, Joe Bonanno fu portato ancora in fasce a Brooklyn per via di una condanna riportata dal padre Salvatore, proprietario terriero e capo dell’omonima “Famiglia”, che per evitare il carcere decise di rifugiarsi oltreoceano. Nel 1915 don Totò tornò nell’Isola perché al suo paese si era accesa l’antica rivalità fra i clan dei Bonanno e dei Buccellato. Il patriarca ristabilì l’ordine e sfuggì alla galera: quella vecchia condanna, non si sa come, nel frattempo era stata cancellata. A Castellammare, Joe frequentò le elementari ed ebbe come compagno di scuola il futuro ministro Bernardo Mattarella. Negli anni successivi frequentò il primo anno dell’istituto nautico di Trapani e di Palermo perché la sua aspirazione giovanile era quella di fare il capitano di lungo corso. La morte di entrambi i genitori e l’avvento del fascismo lo spinsero a tornare definitivamente in America. Era il 1924. “Odiavo Mussolini che imponeva a tutti di indossare la camicia nera”, spiegherà lui stesso nell’autobiografia pubblicata da Mondadori. Sarà. Fatto sta che erano i tempi delle repressioni del prefetto Mori. Dopo un tortuoso viaggio – fece tappa a Marsiglia, a Parigi, a L’Avana, a Tampa – si stabilì a Brooklyn. All’inizio facendo diversi mestieri, perfino l’attore nel cinema muto. Poi aprendo una distilleria clandestina, contrabbandando alcolici e tabacchi, aprendo case da gioco e investendo i guadagni in attività apparentemente lecite, industria, edilizia, commercio, società di import-export. Negli Anni Trenta entrò a far parte del clan castellammarese di New York, a quel tempo capeggiato dal suo “maestro” Salvatore Maranzano, e composto dai mammasantissima del suo paese, Magaddino, Genovese, Plaja, Bonventre. Era il periodo della guerra di Mafia fra i castellammaresi e la “Famiglia” di Joe Masseria, di cui faceva parte l’astro nascente Lucky Luciano. Luciano nel ‘31, in seguito a un accordo segreto stipulato proprio con Maranzano, uccise Masseria per prenderne il posto. Dopo l’omicidio di Masseria, Maranzano diventò il leader indiscusso della mafia newyorchese, ma non durò molto. Pochi mesi dopo Luciano fece fuori anche lui, e stipulò la pace proprio con Joe Bananas, che a soli 26 anni divenne il boss dei castellammaresi. Che da quel momento lo chiamarono “Padre”. Nel novembre del ‘31 sposò Fay Labruzzo e ricevette da Al Capone una busta con 5mila dollari. Antonio Mione aveva quasi dieci anni quando emigrò in America. Oggi ne ha 78, a Castellammare lo chiamano “l’ americano”: da tempo suole trascorrere i mesi estivi nel paese natio, frequentando un circolo che, per ironia della sorte, si trova in via Bernardo Mattarella. “Mio padre – dice - faceva il pescatore. Eravamo poveri. Nel 1932 decidemmo di emigrare. Feci il postino per 22 anni. Un giorno scrissi allo zu’ Peppino: “Vorrei avere l’onore di essere ricevuto da voi”. ‘U zù Peppino aveva molto rispetto per la gente del suo paese. Nel giro di pochi giorni mi rispose e mi diede appuntamento nella sua magnifica villa con piscina. Mi ricevette nello studio. Cominciai ad amarlo subito, come si ama un padre: “Sa, zu’ Peppino, avrei bisogno di un lavoro”. Mi ascoltò in silenzio, poi disse in siciliano: “Verresti a lavorare da me?”. Stetti al suo servizio per molti anni facendo di tutto: cucinavo, ricevevo persone, raccoglievo le olive e i fichi, preparavo i piatti preferiti: bucatini al pomodoro e pasta con il finocchietto selvatico. Curavo il padrone come e meglio di un medico. Una volta perse tanto sangue a causa di una pustola che gli si era formata alla gamba: lo salvai. In guerra ero stato in infermeria e sapevo come curare le ferite. Quando venivo a Castellammare mi raccomandava di recarmi nella chiesa dove era stato battezzato”. Verso la metà degli Anni Cinquanta, Joe Bonanno partecipò al primo grande vertice della Mafia all’Hotel delle Palme di Palermo, dove si decisero i nuovi assetti mondiali del crimine organizzato e si stabilirono le nuove rotte della droga. Pochi giorni prima era sbarcato all’aeroporto romano di Fiumicino, atteso in pompa magna dall’allora ministro Bernardo Mattarella. Un incontro, quello con il politico siciliano che, secondo le testimonianze raccolte, si ripeterà in America. Poi eccolo a Castellammare del Golfo: “Per l’occasione – scrive Danilo Dolci – sono venuti a incontrarlo, riverenti e ossequiosi, tutti i mafiosi locali, tra cui suo cugino Gaspare Magaddino col figlio, Vincenzo Rimi, Diego Plaja, Joe Garofalo, Cola Buccellato, i Vitale, Vito Messina: cioè tutti i maggiori mafiosi che hanno sostenuto l’avvio della carriera politica di Mattarella”. Fino a quel momento Joe Bonanno aveva subito una sola condanna come imprenditore tessile: 40 dollari di multa per violazione della legge sul lavoro. Sottocapo della sua “Famiglia” era Carmine Galante, consigliere Frank Garofalo, due pezzi da novanta del commercio degli stupefacenti. “La Famiglia Bonanno – spiega Michele Pantaleone nel libro “Mafia e droga” – ha una media di cinque arresti a testa: un membro su cinque è stato arrestato per omicidio, uno su tre per violazione della legge sui narcotici”. Eppure lui, il vecchio Joe, ha sempre smentito di avere avuto a che fare col traffico di droga. Anzi, negli anni Sessanta, quando il giudice istruttore di Palermo Aldo Vigneri lo rinviò a giudizio assieme a una dozzina di trafficanti di droga, lui fu assolto per insufficienza di prove. Nel ‘63 cominciò il suo declino: un affiliato al suo clan, Joe Valachi, vuotò il sacco sulle cinque “famiglie” che comandavano a New York. Al senatore Mclellan e alla commissione sul crimine organizzato fece il suo nome. Raccontò addirittura che quando giurò fedeltà a Cosa Nostra, fra i molti presenti scelse proprio Joe Bananas come padrino: “Costui mi punse il dito per farne uscire del sangue, simbolo di fratellanza, e prestai giuramento alle leggi di Cosa nostra”. Tutta l’America scoprì che dietro il volto perbene dell’uomo d’affari si nascondeva un boss di prima grandezza. Da quel momento si spezzarono gli equilibri del crimine organizzato e scoppiò una nuova guerra di Mafia che lasciò tanti morti sul campo. Lui se la cavò simulando un sequestro di persona [31 ottobre 1964]. Stette lontano da New York per diverso tempo: molti lo credettero morto. In realtà era fuggito. Per alcuni in Tunisia. Per gli investigatori fra Palermo e Alcamo, ospite di quel Frank Garofalo espulso alcuni anni prima dall’America, e di Vincenzo Rimi, uno dei boss più importanti del trapanese. Quando le acque si placarono si ritirò per sempre a Tucson, al confine con il Messico, dove avrebbe coltivato gli ulivi, ma anche i suoi affari e le sue amicizie altolocate. Un prete di Tucson avrebbe testimoniato di averlo visto in chiesa addirittura con Robert Kennedy, fratello di John e ministro della giustizia. “A Tucson – spiega Antonio Mione – molti politici di tutto il mondo erano di casa, soprattutto statunitensi, italiani e messicani. Era rispettato e riverito come un vescovo. Dicono che fosse il capo della Mafia americana, che avesse ucciso e fatto uccidere tanti uomini. Per me non è vero, non l’ho mai sentito parlare male di nessuno; si arrabbiava soltanto quando qualcuno diffamava la Sicilia. Era un benefattore. Per questo a Tucson è stato eretto un mausoleo in suo onore”. Laura Di Filippi trascorre i mesi estivi in una casetta attorniata dagli ulivi, su una collina che domina il mare di Scopello. Settantadue anni, ex-insegnante di lettere, da alcuni mesi è paralizzata da un ictus, ma conserva una memoria lucidissima: “Quando morirono i genitori di Joe fu mia nonna, Laura Di Filippi, a prendersi cura di lui. Mio cugino è sempre cresciuto seguendo i principi del rispetto e della buona educazione. Era legatissimo alla sua terra: sapeste quanti pacchi spedì durante la guerra, contenevano ogni ben di dio, zucchero, caffè, vestiti, scarpe, saponi, profumi. Per darci la possibilità di curarci dalla malaria mandò perfino il chinino. Era alto e prestante, come i suoi figli. Quando andai in Arizona gli portai un quadro che raffigurava il golfo di Castellammare: lo appese nel salotto fra gli oggetti più cari. Fra gli Anni Cinquanta e Novanta venne parecchie volte al suo paese, l’ultima fu nel ‘90: volle andare al cimitero a far visita ai genitori. Poi venne a pranzo in questa casa: gli preparai i busiati fatti in casa e il pesce arrosto. Discutemmo del più e del meno, si commosse una sola volta, quando parlammo dei suoi genitori. Quando l’11 maggio di quest’anno è morto, ai funerali erano presenti migliaia di persone. Il corteo era preceduto da sette limousine nere”.

Luciano Mirone, Il boss arrivato da Castellammare che dava del tu a giudici e ministri, la Repubblica, 8 ottobre 2002 [https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/10/08/il-boss-arrivato-da-castellammare-che-dava.html].

[5] “Cappucci, donne e tavoli da gioco. Un nome della nobiltà siciliana con una mai sopita nostalgia della corona ed un passato di militante di destra, coinvolto negli episodi più oscuri della vita politica siciliana, dalla strage di Portella delle Ginestre al tentato golpe Borghese. Un patrimonio dilapidato in una vita da bohémien nelle grandi capitali europee, un ambiguo giro d’affari con potentissimi e facoltosi uomini sudamericani. Nella movimentata roulette della sua vita, Giovanni Alliata, principe di Montereale, meglio conosciuto come Gianfranco, era riuscito ad arrivare alla bella età di 73 anni senza conoscere mai l’onta delle manette. Ma ieri la sua “attiva” militanza massonica lo ha portato in carcere su ordine della Procura di Palmi. Questa volta il principe Alliata non ha avuto la soffiata giusta. Come quella che, nel 1970, gli consentì di sfuggire alla cattura ordinata dalla Procura della Repubblica di Roma nell’ ambito dell’inchiesta sul fallito golpe Borghese. Secondo i giudici romani, Gianfranco Alliata di Montereale avrebbe avuto un ruolo nel progetto politico-militare per il quale le destre avevano chiesto anche la collaborazione di Cosa Nostra. Al principe Junio Valerio Borghese, Luciano Liggio disse di no, il golpe fallì e poco prima che la magistratura romana emettesse una serie di ordini di cattura, Gianfranco Alliata di Montereale fuggì all’estero. Per qualche tempo si nascose a Malta poi, a proscioglimento avvenuto, tornò in Italia. Le cronache non riportano mai alcun legame diretto del principe con la mafia, ma un bandito, Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Salvatore Giuliano assassinato all’Ucciardone con un caffé alla stricnina, fece il suo nome come uno dei mandanti della Strage di Portella delle Ginestre. Sin dall’immediato dopoguerra il principe finanziò circoli monarchici e movimenti separatisti. Nel 1946 sborsava la bella cifra di 2 milioni al mese per foraggiare ogni tipo di attività separatista. E niente di meglio delle logge massoniche per tramare nell’ombra contro il “regime democratico”. Gran maestro di Piazza del Gesù fu “papa” di una loggia coperta nella quale riusciva a tessere le sue trame politiche ma anche i suoi ambigui rapporti con uomini d’affari del Sudamerica. Un legame mai reciso con il suo paese d’ origine, il Brasile. È a Rio de Janeiro che, nel 1921, la signora Olga Matarasso dà alla luce Gianfranco Alliata di Montereale che, in modo mai chiarito, erediterà poi una vera e propria fortuna da proprietari terrieri ed industriali brasiliani. Un patrimonio miliardario dilapidato sui tavoli da gioco di mezza Europa in una vita da grande bohémien. A Palermo, il principe Alliata vive al Grand Hotel des Palmes, nel ‘ 50 sposa la bella austriaca Hannalore, ma è un matrimonio che dura poco. Nonostante il passare degli anni, il principe non si è mai rassegnato alla democrazia. Per far rinascere i fasti della monarchia o per portare al potere le destre avrebbe fatto tutto. E non a caso il suo nome compare tra i destinatari di un avviso di garanzia inviato dalla magistratura di Padova che indagava sull’attività del gruppo neofascista della Rosa dei Venti. Al Fronte nazionale monarchico dava una mano tenendo su un giornale, “Il popolo di Roma”. Neanche un enfisema polmonare, negli ultimi anni, era riuscito a tenerlo lontano dalle trame. Ai tempi che cambiano aveva imparato ad adeguarsi, aveva capito che oggi per “finanziare” la politica bisogna controllare e gestire pacchetti di voti e con la sua loggia massonica aveva “reintegrato” quel patrimonio sperperato in 73 anni di vita, prima di finire in manette.”
Alessandra Ziniti, La vita di un bohémien con la nostalgia della corona, la Repubblica, 12 maggio 1994.