“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 18 gennaio 2019

GENOCIDIO I. IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO 2. PER 10 ARCHIBUGI GLI INDIANI VENDETTERO NEW YORK AGLI INGLESI di Daniela Zini


GENOCIDIO

Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
πατία σεμνή, τῶν  λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς  σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 δεκαετία 390 ή 430]


“Que le XXIe ne soit plus, comme ce siècle qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
Yves Ternon[1]

 “Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario dei genocidi armeno[2] e assiro-caldeo[3] e dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[4] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
“Perché?”
 
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire[5], comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.  
La potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il genocidio appartiene, incontestabilmente, a questa categoria “di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità” e minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo” [Preambolo dello Statuto di Roma,  http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti-ue/Documents/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf]. È il crimine più grave riconosciuto dal diritto internazionale, ma anche uno dei più difficili da provare da un punto di vista legale, perché si deve riuscire a provare questa intenzione specifica.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.

“Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una Nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella Nazionalità.” [6]

Vi era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva che “in base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
Due anni dopo, il 9 dicembre 1948, alla vigilia dell’adozione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo [http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm], veniva approvata, dalla maggioranza dei rappresentanti degli Stati, la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19994549/201406110000/0.311.11.pdf], che all’articolo 2 recita:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)  uccisione di membri del gruppo;
b)   lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)  il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)  misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e)  trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso”[Principi di Norimberga].
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità[7].
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e  non si potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale misura complici, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale,  era reale. Le milizie massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò, puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva, allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del  XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee. Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel 1908.

“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato dice: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”

A dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò, rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione. La prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i  Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo. Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!


I. IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO

di
Daniela Zini


GENOCIDIO
I. IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO
1. L’Olocausto di un antico e fiero Popolo: gli Amerindi
di Daniela Zini

GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
1. Holocaust
di Daniela Zini

GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
2. 75 anni fa: La Risiera di San Sabba

 

Primo Febbraio
Giorno della Memoria degli Indiani di America[8]

“Quando ti avvicini a un piccolo ruscello e ti vuoi lavare, devi prima metterti in raccoglimento e parlare all’acqua che scorre. Non è possibile immergere semplicemente la mano e lavarti il volto con l’acqua fresca, devi mostrare timore e camminare piano fino al ruscello.
Una volta arrivato prendi un po’ d’acqua e bagnati quattro volte il volto, poi china il capo e prega.
Ogni corso d’acqua dell’antica regione dei Chiricahua è per noi sacro”.
Toro Seduto

 
Una vecchia leggenda Cherokee racconta che, un giorno, il Capo di un grande villaggio decise che fosse arrivato il momento di insegnare al nipote prediletto cosa fosse la vita. Lo portò nella foresta e lo fece sedere ai piedi di un grande albero e gli spiegò:
“Figlio mio, nella mente e nel cuore di ogni essere umano si combatte una lotta incessante. Anche se io sono vecchio Capo, guida della nostra gente, che mi considera saggio, quella lotta avviene anche dentro di me. Se non ne conosci l’esistenza, ti spaventerai e non saprai mai quale direzione prendere. Forse, qualche volta, nella vita vincerai, ma poi, senza capire perché, all’improvviso, ti ritroverai perso, confuso e in preda alla paura, e rischierai di perdere tutto quello che hai faticato tanto a conquistare.
Crederai di fare le scelte giuste per, poi, scoprire che erano sbagliate. Se non comprendi le forze del bene e del male, la vita individuale e quella collettiva, il vero sé e il falso sé, vivrai sempre in grande tumulto.
È come se ci fossero due grandi Lupi che vivono dentro di ognuno: uno Bianco, l’altro Nero.
Il Lupo Bianco è buono, gentile e innocuo. Vive in armonia con tutto ciò che lo circonda e non arreca offesa quando non lo si offende. Il Lupo buono, ben ancorato e forte nella comprensione di chi è e di cosa è capace, combatte solo quando è necessario e quando deve proteggere se stesso e la sua famiglia. Anche in questo caso lo fa nel modo giusto. Sta molto attento a tutti gli altri Lupi del suo branco e non devia, mai, dalla propria natura.
Ma vi è anche un Lupo Nero che vive in ognuno ed è molto diverso. È rumoroso, arrabbiato, scontento, geloso e pauroso. Le più piccole cose gli provocano eccessi di rabbia. Litiga con chiunque, continuamente, senza ragione. Non riesce a pensare con chiarezza poiché avidità, rabbia e odio in lui sono troppo grandi. Ma la sua è rabbia impotente, figlio mio, poiché non riesce a cambiare niente. Quel Lupo cerca guai ovunque vada e li trova facilmente. Non si fida di nessuno, quindi, non ha veri amici.
A volte, è difficile vivere con questi due Lupi dentro di sé, perché entrambi lottano, strenuamente, per dominare l’anima.”
Il ragazzo chiese ansiosamente:
“Quale dei due lupi vince, nonno?”
Con voce ferma, il Capo rispose:
“Tutti e due, figlio mio. Se scelgo di nutrire solo il Lupo Bianco, quello Nero mi aspetta al varco per approfittare di qualche momento di squilibrio o in cui sono troppo impegnato e non riesco ad avere il controllo di tutte le responsabilità. Il Lupo Nero, allora, attaccherà il Lupo Bianco. Sarà sempre arrabbiato e in lotta per ottenere l’attenzione che pretende. Ma se gli presto un po’ di attenzione, perché comprendo la sua natura, se ne riconosco la potente forza, se gli faccio sapere che lo rispetto per il suo carattere e gli chiederò aiuto se la nostra tribù si trovasse mai in gravi problemi, lui sarà felice. Anche il Lupo Bianco sarà felice. Così entrambi vincono. E tutti noi vinciamo.”
Confuso, il ragazzo chiese:
“Non comprendo, nonno, come possono vincere entrambi?”
Il Capo indiano continuò:
“Il Lupo Nero ha molte importanti qualità di cui posso aver bisogno in certe circostanze. È temerario, determinato e non cede mai. È intelligente, astuto e capace di pensieri e strategie tortuose. Sono caratteristiche importanti in tempo di guerra. Ha sensi molto acuti e affinati che soltanto chi guarda con gli occhi delle tenebre può valorizzare. Nel caso di un attacco, può essere il nostro miglior alleato.”
Il Capo Cherokee tirò fuori due pezzi di carne dalla sacca e li gettò a terra: uno a sinistra e uno a destra. Li indicò, poi disse:
“Qui alla mia sinistra vi è il cibo per il Lupo Bianco e alla mia destra il cibo per il Lupo Nero. Se scelgo di nutrirli entrambi, non lotteranno, mai, per attirare la mia attenzione e potrò usare ognuno dei due nel modo che mi è necessario. E, dal momento che non vi sarà guerra tra i due, potrò ascoltare la voce della mia coscienza più profonda, scegliendo quale dei due potrà aiutarmi meglio in ogni circostanza.
Se comprendi che vi sono due grandi forze dentro di te e le consideri con eguale rispetto, saranno entrambi vincenti e convivranno in pace. La pace, figlio mio, è la missione dei Cherokee, il fine ultimo della vita. Un uomo che ottiene la pace interiore ha tutto. Un uomo che è lacerato dalla guerra che si combatte dentro di lui, è niente.” 



Primo Gennaio del 1891 Piede Grosso giace morto nella neve, dopo il Massacro di Wounded Knee [https://www.youtube.com/watch?v=mEwWXNN6bIs,  https://www.youtube.com/watch?v=2VB2LdOU6vo].


2. Per 10 archibugi gli Indiani vendettero New York agli Inglesi
I coloni alla conquista dell’America iniziarono a comperarla con specchietti e perline colorate.
 
Gli Olandesi, che con 24 barilotti di rum avevano acquistato dai Canarsee il territorio su cui sarebbe sorta Brooklyn, lo rivendettero 40 anni dopo, per un valore pari a 10 milioni di volte quello pagato. Ed ecco la valuta fissata dai “visi pallidi” per i trattati commerciali con i Pellirosse: con una treccia di tabacco si poteva avere il raccolto di un ettaro di terra; con un barilotto di alcol 300 chilogrammi di oro. Dalla truffa perpetrata con modi tanto cinici nei confronti di un Popolo che aveva il difetto di essere buono, pacifico e ingenuo, i pionieri giunsero, infine ai massacri, pur di impossessarsi delle immense estensioni di quello sterminato Paese. 

“Non avrei mai dovuto arrendermi: avrei dovuto combattere fino a quando non fossi rimasto l’ultimo uomo vivo.”
Geronimo

Furono i mercanti di pellicce della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali e della Compagnia della Nuova Svezia ad avvicinare per primi i grandi Popoli indiani dell’interno.
Era il 1650.
Fino ad allora i coloni avevano avuto rapporti molto sporadici con le tribù che vivevano lungo la costa atlantica. Episodi sempre identici, ripetuti centinaia di volte: un selvaggio seminudo sorpreso a spiare gli strani uomini dallo strano colore di pelle e dagli strani vestiti, con quelle mostruose canne tonanti; l’arrivo di una numerosa delegazione di notabili fiabescamente abbigliati di pelli, penne, conchiglie; l’offerta di doni, come all’altare di una divinità da placare… e,poi, più nulla.
Improvvisamente, i selvaggi sparivano. Gli esploratori che, invogliati dai primi doni e desiderosi di procurarsene degli altri, si spingevano lungo il corso dei fiumi, trovavano soltanto le tracce dei primitivi villaggi, sgombrati, frettolosamente, da un giorno all’altro. 
Come fossero, quanti fossero, come vivessero quei singolari abitanti delle foreste – fauna pressoché alla stessa stregua degli orsi e dei cervi – erano argomenti su cui ciascuno poteva lasciare briglia sciolta alla fantasia, senza timore di potere essere contraddetto. I cronisti dell’epoca hanno descritto i Pellirosse come pigmei oppure come giganti. Secondo alcuni, coperti di peli e con chiome lunghissime; secondo altri, nudi e imberbi come bambini. Mostruosi e deformi in alcuni resoconti; autentici semidei in altri.
Oggi, rileggendo quelle favole ammantate di pretese storiche, di concreto si apprende solo quanto fossero sconosciuti i misteriosi e pittoreschi Amerindi: i marziani di tre secoli fa. Su un solo punto tutte le descrizioni sono d’accordo: nel dipingerli come esseri estremamente primitivi, innocui e ingenui come bambini, timidi e paurosi. Come bambini, per renderli felici bastavano vetri colorati e chincaglierie prive di valore, che accendessero la loro fantasia; pronti per ottenerli, a dare in cambio pellicce preziose e ornamenti di argento massiccio, del cui valore sembravano non rendersi assolutamente conto. Come cagnolini, che si potevano accattivare con un osso.
Gli Olandesi che, inseguendo le vaghe e allettanti notizie su grosse tribù che vivevano nell’interno e possedevano montagne di pellicce, giunsero nelle terre del Delaware – nell’alto corso del fiume, che da quel Popolo ha preso il nome – non furono delusi. Ma, certamente, furono anche sbalorditi quando scoprirono che i Delaware abitavano in vaste città  perfettamente e civilmente organizzate; coltivavano – sia pure con metodi primordiali, ma estremamente pratici e razionali – vaste estensioni di campi, da cui traevano il sostentamento; avevano un loro originalissimo sistema di scrittura, che alle lettere dell’alfabeto o agli ideogrammi sostituiva figure molto realistiche, anche se stilizzate al massimo. La loro antica Civiltà era testimoniata dal Walam Olum – qualcosa come gli Annales dei Romani – su cui venivano registrati e tramandati tutti gli avvenimenti salienti nella vita del loro Popolo. Ma, di fatto, erano degli ingenui semplicioni. Da loro Olandesi e Svedesi ottennero quantità enormi di pellicce praticamente per nulla. E non soltanto pelli. Per ventiquattro barilotti di rum gli Olandesi acquistarono dai Canarsee il territorio su cui sorse Brooklyn, che, quaranta anni dopo, rivendettero agli Inglesi per un valore pari a dieci milioni di volte quello che lo avevano pagato.
Da un’altra tribù, i Wappinger, gli Inglesi acquistarono direttamente Manhattan, Bronx e Westchester – ossia tutto il rimanente dell’attuale territorio di New York – per la somma davvero non esosa di dieci archibugi!
La “valuta” con cui i mercanti pagavano i loro acquisti erano specchietti e perline colorate, che accendevano la fantasia degli Indiani. Secondo i trattati commerciali stipulati a quel tempo, una treccia di tabacco era il valore del raccolto di un ettaro di terra; un barilotto di alcol equivaleva a dieci volte il suo peso in metalli pregiati, fosse rame, argento e oro. I mercanti pagavano volentieri con alcol. Gli Indiani ne erano avidi ed erano disposti a pagarlo a qualunque prezzo; ma, non essendovi abituati, si ubriacavano presto e, allora, era ancora più facile ottenere da loro tutto ciò che si desiderava, comprese le loro stesse terre…
Samuel de Champlain, l’esploratore e trafficante francese, escogitò una originale unità di misura. Piantava in terra quattro archibugi, agli angoli di un quadrato i cui lati erano eguali all’altezza dei fucili. Tutte le pelli che potevano essere stipate in quel cubo immaginario erano il costo dei quattro archibugi, un prezzo ancora abbastanza equo, tenuto conto che per gli Indiani il possesso dei fucili voleva dire caccia abbondante, vitto sicuro, protezione dagli attacchi delle tribù vicine. La “stadera” dei quattro fucili venne adottata ovunque, ma gli insaziabili successori di Samuel de Champlain non si accontentarono dei notevoli guadagni che realizzavano in tale modo. Fecero costruire archibugi che avevano il calcio lungo tre volte più del normale e, in tale modo, fecero sì che il quantitativo di pelli corrispondente ai quattro fucili divenisse tre o quattro volte maggiore.      
Per circa trenta anni, i rapporti di affari tra coloni e Indiani furono di questo tipo; ma i Delaware ne erano soddisfattissimi, tanto che portavano loro stessi le pelli nei posti commerciali che, nel frattempo, erano stati allestiti sulle coste. Le cose si complicarono quando ai primi coloni si aggiunsero i Quaccheri. Erano pacifici – la loro religione proibiva, perfino, di portare le armi – ma molto numerosi. Ciascuno di loro era emigrato in America con il fermo proposito di coltivare più terra che poteva. Acquistare le terre dagli Indiani non era difficile né dispendioso; ma, presto, si verificarono le drammatiche conseguenze di un colossale equivoco, che doveva perpetuarsi per più di un secolo. Per gli Indiani, la terra non era un bene che si potesse possedere, ma, tutt’al più, di cui potersi servire. Per loro esisteva non la proprietà, ma il territorio di caccia, vale a dire una determinata zona su cui una tribù aveva acquistato e, più spesso, conquistato il diritto di abbattere la selvaggina o raccogliere frutti e bacche selvatiche.

Statua di Samuel de Champlain

Quando i Pellirosse vendevano un territorio, in realtà, intendevano solo consentire all’acquirente di recarsi a caccia nelle loro terre. I coloni intendevano l’acquisto in maniera ben diversa. Appena stipulato il contratto, la prima cosa che si preoccupavano di fare era recingere le loro terre con paletti e filo spinato. Ma quei segnali non avevano significato alcuno per i Pellirosse, che non esitavano a entrare se le tracce di un animale li portavano in quella direzione; come i pionieri non esitavano a sparare contro i “ladri” che sorprendevano. Se qualcuno non era abbastanza forte o coraggioso da difendersi da solo, chiamava in aiuto i soldati; il contratto di acquisto gli dava il diritto che la sua proprietà fosse protetta.
Si avviò, così, una catena di vendette e di ritorsioni. I pionieri si organizzarono per “dare una lezione” agli Indiani, che chiamarono a raccolta i volontari per mettersi sul “sentiero di guerra”. I pionieri si facevano forti della loro presunzione di “essere civili” e delle loro armi; si trovarono di fronte nemici molto più numerosi e perfettamente organizzati, i cui archi erano molto più veloci e micidiali dei loro fucili ad avancarica. George Washington, che aveva comandato un distaccamento impegnato nella guerriglia indiana e aveva sperimentato quanto gli archi fossero temibili, quando divenne presidente degli Stati Uniti propose che fossero gli archi e non i fucili l’armamento dell’esercito regolare.
A quell’epoca, il rappresentante del governo inglese nelle colonie era William Penn, un uomo di buonsenso. Questi comprese che in una guerra i coloni avrebbero avuto tutto da perdere e scelse la strada delle trattative amichevoli: una politica che, per qualche tempo, fu, anche, seguita dai suoi successori, perché si era visto che se ne potevano trarre i maggiori vantaggi.
Nel 1686, dopo tre anni di trattative, Penn negoziò con Tamanend, il capo dei Delaware, l’acquisto delle loro terre. Gli Indiani accettarono di lasciare agli Inglesi una striscia lungo tutta la riva settentrionale del fiume, profonda quanto un uomo fosse riuscito a inoltrarsi in tre giorni di cammino. In quell’occasione, Penn dimostrò, anche, una lodevole moderazione. Dopo avere camminato nella foresta per un giorno e mezzo, considerò che il territorio di cui aveva preso possesso era ampiamente sufficiente ai bisogni dei suoi coloni e si astenne dal proseguire, rinunciando, anche, al resto delle terre cui avrebbe avuto diritto in base agli accordi.   
I suoi successori non furono altrettanto onesti.
Reclamarono dai Delaware altre terre, per il restante giorno e mezzo di cammino e gli Indiani fecero sapere che erano pronti a tenere fede alla parola data da Tamanend.
I coloni, avidi di terra, studiarono uno stratagemma perché “un giorno e mezzo di cammino” significasse molto più di quanto intendeva stabilire il trattato.
Si misero al lavoro di buona lena…

Statua di William Penn

Quando giunse il giorno stabilito per la misurazione, presero il via i coloni più veloci e resistenti, che si erano allenati con scrupolo. Nelle foreste trovarono la comoda pista che, nel frattempo, era stata aperta da squadre di boscaioli e sterratori. Nelle trentasei ore stabilite, il più veloce di loro percorse più di cento chilometri, raggiungendo i Monti Poconos. Gli Indiani non fecero discussioni: sgombrarono quella vasta zona e si ritirarono oltre le montagne. 

Statua di Lapowinsa

Mezzo secolo dopo, i coloni ebbero bisogno di altre terre e cercarono di ottenerle con “trattati” dello stesso tipo. Ma l’esperienza aveva insegnato ai Delaware e il loro capo, Lapowinsa, rifiutò perfino di trattare. Gli Inglesi non erano ancora abbastanza numerosi perché potessero permettersi di affrontare direttamente un Popolo forte e combattivo come quello che avevano di fronte. Ma sapevano che i Delaware avevano nemici atavici: gli Irochesi e Susquehannock. Fornirono loro fucili e cavalli, chiedendo in cambio tutte le terre che sarebbero riusciti a strappare ai Delaware. In quella guerra sanguinosa i Delaware furono sterminati – ne sopravvissero un centinaio –, ma gli inglesi entrarono in possesso del territorio dell’attuale Pennsylvania. 
Nella Virginia viveva un altro grande Popolo indiano, i Powhatan che erano più di 50mila. Erano assolutamente pacifici, ottimi agricoltori e appunto per questo attaccati alle loro terre, che rifiutarono di vendere.
Contro di loro i discendenti dei Padri Pellegrini organizzarono, sistematicamente, tre spedizioni punitive, ogni anno. Arrivavano improvvisi, mettevano in fuga gli Indiani a colpi di fucile e davano alle fiamme i villaggi, i campi, i raccolti, perché i Powhatan non potessero più piantare il grano. In tale modo, li condannarono a morire di fame. Non ancora soddisfatti di quei metodi, troppo lenti per la loro bramosia, regalarono agli Indiani “acqua di fuoco” a barili; ma mescolavano all’alcol la varecchina, che corrodeva le viscere e, in pochi giorni, portava chi la beveva a una morte atroce. Inquinarono le sorgenti; reclutarono chiunque avesse contratto il vaiolo o la febbre gialla – impegnandosi a pagare forti somme ai loro eredi –, perché andassero a portare il contagio nei villaggi Indiani.
Contro i Powhatan i coloni non spararono neppure un colpo di fucile, ma, in trenta anni, quel Popolo si ridusse a soli 300 individui, che furono prelevati con la forza e deportati in quei veri e propri campi di concentramento che erano le riserve.
E questa fu la conquista della Virginia!
Delaware e Powhatan non furono certamente i Popoli più importanti nella drammatica e sanguinosa Storia indiana. Li ho ricordati così ampiamente, perché fu sulla loro pelle che gli Americani idearono e collaudarono una “politica” basata sul raggiro e sul massacro, che, nel secolo successivo, doveva essere solo arricchita da altri stratagemmi e spinta alle più inumane conseguenze.
Le eccezioni – i casi in cui gli Indiani furono trattati con umanità e con giustizia, o più semplicemente da esseri umani – si contano ancora meno sulla punta delle dita e, forse, si riducono all’unico esempio degli Indiani Cherokee.
Nel 1775, il governo coloniale affidò il compito di stabilire contatti con quelle tribù a uno scout, il cui nome è rimasto nella leggenda: Daniel Boone. Questi, accolto come amico, stipulò un trattato, in base al quale i Cherokee cedevano, contro un compenso di 10mila dollari, i territori corrispondenti all’attuale Stato del Kentucky.

Statua di Daniel Boone

Non sembra troppo equo un compenso di 10 centesimi di dollaro per chilometro quadrato; invece, l’accordo fu giusto e conveniente per entrambi, giacché lasciava gli Indiani padroni di una estensione pressoché eguale di terre, largamente sufficiente ai loro bisogni, mentre il sostanzioso aiuto in danaro li metteva in condizione di potere provvedere ai loro più urgenti bisogni. Il trattato, inoltre, forniva ai Cherokee una serie di garanzie per la loro libertà e l’assicurazione che non sarebbero stati molestati, in modo alcuno, “fino a quando crescerà l’erba”.
Gli effetti della cessione si dimostrarono particolarmente benefici proprio per i Cherokee, che, negli anni successivi, conobbero un lungo periodo di pace e di prosperità, al punto che non pochi di loro possedevano, perfino, degli schiavi neri. Tuttavia il trattato non fu rispettato a lungo. Gli speculatori di terre ricorsero a ogni mezzo per indurre gli Indiani e, talvolta, costringerli  a cedere altri appezzamenti per cifre ridicole. I metodi terroristici degli incappucciati del Ku Klux Klan, che sarebbero stati, poi, ripresi contro i neri, furono sperimentati, appunto, contro i Cherokee.
Nel 1807, i Cherokee erano, già, stati privati dei tre quarti delle loro terre; tuttavia, in quell’anno, l’allora presidente Thomas Jefferson rinnovò, con diciannove trattati distinti, le garanzie che erano state concesse ai Cherokee trenta anni prima. Iniziò un nuovo e più energico periodo di auto-civilizzazione di quel Popolo, che decise di abbandonare le sue forme di autocivilizzazione tribale per darsi un governo repubblicano, sul modello degli Stati Uniti. Tale processo, che non ha paragoni nell’intera Storia degli Indiani di America portò, in pochi anni, alla costituzione di un vero e proprio parlamento, composto dai rappresentanti liberamente eletti da ciascun villaggio. Le prime leggi promulgate dal parlamento dei Cherokee concernevano l’abolizione della “vendetta di sangue” e alcune misure assistenziali a favore degli orfani.
Nel 1830, il capo dei Cherokee era Sequoyah un metis, che aveva solo un terzo di sangue indiano, in quanto discendeva  da uno delle centinaia di pionieri e cacciatori che avevano sposato delle Cherokee e anche sua madre era figlia di un bianco e di una indiana. Quell’anno ai Cherokee venne intimato di abbandonare le loro terre e di trasferirsi molto più a Ovest, nell’Oklahoma, in base al cervellotico progetto di costituire uno Stato indiano a Nord del Texas. Il parlamento Cherokee respinse il progetto e la fermezza di Sequoyah dissuase il governo americano dall’effettuare ulteriori pressioni.
Vi erano altri popoli, meno pacifici, che bisognava “persuadere”…
Furono i Choctaw – un Popolo che viveva sulle rive occidentali del Mississipi, in corrispondenza dell’attuale Arkansas – a essere “persuasi” per primi. A loro non venne lasciata alcuna scelta: o andarsene, con un gruzzolo di 50mila dollari, che avrebbe consentito loro di sopperire alle spese del lungo viaggio, o restare…
Ma, in tale caso, restare sottoterra!
Alcune “azioni dimostrative” palesarono ai Choctaw che i “visi pallidi” non scherzavano. Accettarono e fu loro dato un termine entro il quale tutte le loro terre avrebbero dovuto essere sgombrate: il novembre del 1830.
Il giorno arrivò.
Ma non erano, ancora, arrivati i 50mila dollari.
Si scoprì, in seguito, che li aveva intascati un agente governativo, il quale non fu perseguito in modo alcuno. I Choctaw, tuttavia, furono, egualmente, costretti a partire, sotto la minaccia delle armi.
Fu una emigrazione tragica, nella neve e nel ghiaccio, funestata, a ogni metro, dalla fame, dalle malattie, dai mille pericoli naturali e, perfino, dagli attacchi di altre bande di Indiani.
I Mississipi e i Memphis, le due tribù principali, furono bloccate dai ghiacci e 800 Indiani morirono di fame.
Le altre tribù giunsero nell’Oklahoma più che dimezzate.
Dopo i Choctaw fu la volta dei Chickasaw.
E, allora, le autorità americane poterono tornare a “occuparsi” dei Cherokee.
Gli Stati maggiormente interessati ai loro territori avviarono delle trattative di propria iniziativa, non con le autorità indiane, ma con i singoli capi locali. Il governatore della Georgia giunse a proclamare che i Cherokee erano “cosa appartenente” al suo Stato e che i loro territori erano “cosa pubblica”, a disposizione di chiunque ne avesse reclamato per primo la proprietà.
Contro tale ingiusto decreto Sequoyah insorse, non facendo scendere i suoi Indiani sul sentiero di guerra, ma – fatto davvero unico! – denunciando il governatore della Georgia al Tribunale Supremo, per violazione dei trattati. Il suo primo ricorso venne respinto, ma, nel 1832, la Corte Suprema, che Sequoyah era riuscito a investire del caso, sentenziò la incostituzionalità delle leggi della Georgia, ostili agli Indiani.
La sentenza, tuttavia, doveva restare lettera morta.
Sarebbe stato necessario imporne il rispetto di autorità, ma a chi gli prospettò la necessità di ottenere dal governatore della Georgia che le leggi incostituzionali fossero annullate, ricorrendo se necessario alla forza, Andrew Jackson, l’allora presidente degli Stati Uniti, rispose:
“Il giudice ha pronunciato la sentenza. Ora, pensi lui a farla eseguire.”
Jackson era uno dei più accesi sostenitori della politica di “eliminazione” dei Pellirosse.
Era stato lui a sentenziare che “gli unici Indiani buoni sono gli Indiani morti” e aveva messo in pratica le sue teorie combattendo contro i Creek – la grande Nazione indiana dall’Alabama – e distruggendoli con l’inganno, con la corruzione e con la violenza.
Era giunto alla presidenza, proprio, in virtù della fama che si era guadagnato in quell’occasione…
Ma, a parte i sentimenti personali di Jackson, la Georgia aveva accolto la sentenza con reazioni così aspre che qualunque misura destinata a imporre l’applicazione della sentenza avrebbe scatenato una guerra civile.
Non valeva la pena di rischiare tanto per gli Indiani!
Così, nel 1836, le truppe intervennero per costringere i Cherokee a lasciare le loro terre con la forza.
Ammassati in miserabili processioni di uomini, donne, vecchi e bambini, sospinti dalle baionette, bersagliati dalle pallottole a ogni minimo cenno di insubordinazione, gli Indiani dovettero percorrere, a piedi, in pieno inverno, i 1300 chilometri che li separavano dall’Oklahoma.
Più di un quarto di loro morirono lungo la strada, uccisi dal freddo, dalla fame, dalle malattie, dalle pallottole e quelli che raggiunsero l’Oklahoma dovettero conquistarsi il loro “spazio vitale”, combattendo, sanguinosamente, contro le tribù che li avevano preceduti in quei territori.
Con i Sauk e i Fox, le Nazioni alleate che occupavano la vallata del Mississipi tra il Wisconsin e il Minnesota, andò diversamente.
Le loro terre facevano gola agli speculatori che – grazie a una poderosa organizzazione finanziaria e ad appoggi di ogni genere – si accaparravano praticamente per nulla enormi estensioni di territorio, che, poi, lottizzavano tra i pionieri ricavando guadagni favolosi.

Statua di Sequoyah

Uno di questi gruppi si mise in contatto con il capo dei Sauk, Keokuk, e lo convinse a cedere non solo le terre della sua tribù, ma anche quelle dei Fox, promettendogli in cambio l’aiuto del governo americano perché fosse riconosciuto capo dei due Popoli. Quando il tradimento di Keokuk venne scoperto, nel consiglio indiano si verificò una vera e propria rissa. Falco Nero, il capo dei Fox, sbatté il calcio del fucile sulla testa di Keokuk e rifiutò di riconoscere i patti sottoscritti dal traditore, che, come conseguenza, avrebbero avuto il trasferimento dei Fox a Ovest del Mississipi.

Statua di Keokuk

Le autorità americane – “illuminate” sul caso dagli speculatori di terre – considerarono la decisione dei Fox alla stregua di una ribellione e inviarono contro di loro una spedizione militare.
Falco Nero e i suoi guerrieri opposero una valorosa quanto inutile resistenza. Furono sconfitti, in poche settimane, e il loro capo subì l’umiliazione di essere portato in giro per le maggiori città dell’Est, come un trofeo vivente. Non gli venne data pace neppure dopo la morte: le sue ossa furono messe in mostra, come macabro cimelio, all’Esposizione di New York.

Statua di Falco Nero

Andò allo stesso modo nel Colorado, dove al posto degli speculatori di terre era giunti i costruttori della ferrovia, che non avevano avuto difficoltà a convincere gli Arapaho a vendere le sottili strisce di terra di cui avevano bisogno; ma avevano tenuto ben nascosto che su quelle terre sarebbe passato il “cavallo di acciaio”. Gli Indiani sapevano che avrebbe comportato l’arrivo di migliaia e migliaia di pionieri che, per sistemare le loro fattorie e i loro allevamenti, non avrebbero avuto scrupoli nel costringerli ad andarsene.   
     
Ralph Waldo Emerson



 
 
Letter to Martin Van Buren President of the United States[9]
Sir,
The seat you fill places you in a relation of credit and nearness to every citizen. By right and natural position, every citizen is your friend. Before any acts contrary to his own judgment or interest have repelled the affections of any man, each may look with trust and living anticipation to your government. Each has the highest right to call your attention to such subjects as are of a public nature, and properly belong to the chief magistrate; and the good magistrate will feel a joy in meeting such confidence. In this belief and at the instance of a few of my friends and neighbors, I crave of your patience a short hearing for their sentiments and my own: and the circumstances that my name will be utterly unknown to you will only give the fairer chance to your equitable construction of what I have to say.
Sir, my communication respects the sinister rumors that fill this part of the country concerning the Cherokee people. The interest always felt in the aboriginal population – an interest naturally growing as that decays – has been heightened in regard to this tribe. Even in our distant State some good rumor of their worth and civility has arrived. We have learned with joy their improvement in the social arts. We have read their newspapers. We have seen some of them in our schools and colleges. In common with the great body of the American people, we have witnessed with sympathy the painful labors of these red men to redeem their own race from the doom of eternal inferiority, and to borrow and domesticate in the tribe the arts and customs of the Caucasian race. And notwithstanding the unaccountable apathy with which of late years the Indians have been sometimes abandoned to their enemies, it is not to be doubted that it is the good pleasure and the understanding of all humane persons in the Republic, of the men and the matrons sitting in the thriving independent families all over the land, that they shall be duly cared for; that they shall taste justice and love from all to whom we have delegated the office of dealing with them.
The newspapers now inform us that, in December, 1835, a treaty contracting for the exchange of all the Cherokee territory was pretended to be made by an agent on the part of the United States with some persons appearing on the part of the Cherokees; that the fact afterwards transpired that these deputies did by no means represent the will of the nation; and that, out of eighteen thousand souls composing the nation, fifteen thousand six hundred and sixty-eight have protested against the so-called treaty. It now appears that the government of the United States choose to hold the Cherokees to this sham treaty, and are proceeding to execute the same. Almost the entire Cherokee Nation stand up and say, “This is not our act. Behold us. Here are we. Do not mistake that handful of deserters for us;” and the American President and the Cabinet, the Senate and the House of Representatives, neither hear these men nor see them, and are contracting to put this active nation into carts and boats, and to drag them over mountains and rivers to a wilderness at a vast distance beyond the Mississippi. As a paper purporting to be an army order fixes a month from this day as the hour for this doleful removal.
In the name of God, sir, we ask you if this be so. Do the newspapers rightly inform us? Man and women with pale and perplexed faces meet one another in the streets and churches here, and ask if this be so. We have inquired if this be a gross misrepresentation from the party opposed to the government and anxious to blacken it with the people. We have looked at the newspapers of different parties and find a horrid confirmation of the tale. We are slow to believe it. We hoped the Indians were misinformed, and that their remonstrance was premature, and will turn out to be a needless act of terror.
The piety, the principle that is left in the United States, if only in its coarsest form, a regard to the speech of men, forbid us to entertain it as a fact. Such a dereliction of all faith and virtue, such a denial of justice, and such deafness to screams for mercy were never heard of in times of peace and in the dealing of a nation with its own allies and wards, since the earth was made. Sir, does this government think that the people of the United States are become savage and mad? From their mind are the sentiments of love and a good nature wiped clean out? The soul of man, the justice, the mercy that is the heart in all men from Maine to Georgia, does abhor this business.
In speaking thus the sentiments of my neighbors and my own, perhaps I overstep the bounds of decorum. But would it not be a higher indecorum coldly to argue a matter like this? We only state the fact that a crime is projected that confounds our understanding by its magnitude, a crime that really deprives us as well as the Cherokees of a country for how could we call the conspiracy that should crush these poor Indians our government, or the land that was cursed by their parting and dying imprecations our country, any more? You, sir, will bring down that renowned chair in which you sit into infamy if your seal is set to this instrument of perfidy; and the name of this nation, hitherto the sweet omen of religion and liberty, will stink to the world.
You will not do us the injustice of connecting this remonstrance with any sectional and party feeling. It is in our hearts the simplest commandment of brotherly love. We will not have this great and solemn claim upon national and human justice huddled aside under the flimsy plea of its being a party act. Sir, to us the questions upon which the government and the people have been agitated during the past year, touching the prostration of the currency and of trade, seem but motes in comparison. These hard times, it is true, have brought the discussion home to every farmhouse and poor man’s house in this town; but it is the chirping of grasshoppers beside the immortal question whether justice shall be done by the race of civilized to the race of savage man, whether all the attributes of reason, of civility, of justice, and even of mercy, shall be put off by the American people, and so vast an outrage upon the Cherokee Nation and upon human nature shall be consummated.
One circumstance lessens the reluctance with which I intrude at this time on your attention my conviction that the government ought to be admonished of a new historical fact, which the discussion of this question has disclosed, namely, that there exists in a great part of the Northern people a gloomy diffidence in the moral character of the government.
On the broaching of this question, a general expression of despondency, of disbelief that any good will accrue from a remonstrance on an act of fraud and robbery, appeared in those men to whom we naturally turn for aid and counsel. Will the American government steal? Will it lie? Will it kill? – We ask triumphantly. Our counselors and old statesmen here say that ten years ago they would have staked their lives on the affirmation that the proposed Indian measures could not be executed; that the unanimous country would put them down. And now the steps of this crime follow each other so fast, at such fatally quick time, that the millions of virtuous citizens, whose agents the government are, have no place to interpose, and must shut their eyes until the last howl and wailing of these tormented villages and tribes shall afflict the ear of the world.
I will not hide from you, as an indication of the alarming distrust, that a letter addressed as mine is, and suggesting to the mind of the Executive the plain obligations of man, has a burlesque character in the apprehensions of some of my friends. I, sir, will not beforehand treat you with the contumely of this distrust. I will at least state to you this fact, and show you how plain and humane people, whose love would be honor, regard the policy of the government, and what injurious inferences they draw as to the minds of the governors. A man with your experience in affairs must have seen cause to appreciate the futility of opposition to the moral sentiment. However feeble the sufferer and however great the oppressor, it is in the nature of things that the blow should recoil upon the aggressor. For God is in the sentiment, and it cannot be withstood. The potentate and the people perish before it; but with it, and its executor, they are omnipotent.
I write thus, sir, to inform you of the state of mind these Indian tidings have awakened here, and to pray with one voice more that you, whose hands are strong with the delegated power of fifteen millions of men, will avert with that might the terrific injury which threatens the Cherokee tribe.
With great respect, sir, I am your fellow citizen,
Ralph Waldo Emerson
Accampamento Arapaho
Il numero esatto delle vittime del Massacro di Sand Creek non è chiaro. Nel suo rapporto reso alla commissione di inchiesta dopo i fatti, il colonnello John Chivington riferì di 500 o 600 nativi morti, sostenendo che circa la totalità delle vittime erano guerrieri e che il numero di donne e bambini rimasti uccisi era molto basso.
I dati forniti da Chivington furono largamente sottodimensionati da altri testimoni oculari degli eventi.
Per il commerciante John Smith vi furono 70 o 80 morti tra gli Indiani, di cui solo 20 o 30 erano guerrieri.
George Bent, in una lettera al giornalista e attivista per i diritti dei nativi dell’America del Nord Samuel F. Tappan del 15 marzo 1889, alluse a 137 vittime, di cui 28 uomini e 109 donne e bambini.
Il maggiore Scott Anthony annoverò non più di 125 vittime, mentre il tenente Joseph Cramer tra le 125 e le 175. 
 

John Chivington
 
Nel gennaio del 1865, gli eventi di Sand Creek arrivarono all’attenzione dello United States Congress Joint Committee on the Conduct of the War, un comitato investigativo del congresso degli Stati Uniti di America,  che diede questo giudizio:
“Per quanto riguarda il colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; occupando l’importante posizione di comandante di un distretto militare, che gli ha concesso l’onore di governare tutto ciò che rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia, mai, attraversato il cuore di un uomo.
In conclusione, questo comitato è dell’opinione che al fine di vendicare la causa di giustizia e mantenere l’onore della Nazione, pronte e rigorose misure debbano essere adottate per rimuovere chiunque avesse così vilipeso il governo presso cui sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso, coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi.”
Ma non vi furono conseguenze, tutti colpevoli, tutti innocenti….


Si sono presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio di un temporale
C’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek
I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
E quella musica distante diventò sempre più forte
Chiusi gli occhi per tre volte
Mi ritrovai ancora lì
Chiesi a mio nonno è solo un sogno
Mio nonno disse sì
A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek
Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
Il lampo in un orecchio e nell’altro il paradiso
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l’albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek
Quando il sole alzò la testa oltre le spalle della notte
C’eran solo cani e fumo e tende capovolte
Tirai una freccia in cielo
Per farlo respirare
Tirai una freccia al vento
Per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek
Si sono presi i nostri cuori sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio di un temporale
Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek


 George Armstrong Custer

Quando gli Arapaho scoprirono l’imbroglio decisero, in grande consiglio, di denunciare il patto di cessione delle terre.
 

Il governatore del Colorado invitò Antilope Bianca e Pentola Nera – i due capi Indiani di maggiore prestigio – a una conferenza per risolvere la questione “amichevolmente e giustamente”. Gli Arapaho accolsero l’invito e tutti i loro capi si recarono a Denver, che allora si chiamava ancora Fort Lyon. Si accamparono per l’ultima tappa su un torrente chiamato Sand Creek a una cinquantina di chilometri.
 
Antilope Bianca

Era l’occasione che attendeva il reverendo John Chivington, un pastore protestante, che vedeva nei Pellirosse l’incarnazione dei demoni e riteneva di avere un’unica missione: “ricacciare gli Indiani all’Inferno”. Speculatori terrieri e costruttori della ferrovia gli avevano dato danaro e mezzi perché attuasse la sua “missione”, e aveva arruolato un esercito di desperados e pistoleros.   
Nottetempo, Chivington attaccò di sorpresa l’accampamento degli Arapaho, con un migliaio dei suoi “cacciatori di Indiani”.
Furono massacrati e fucilati uomini, donne e bambini, tra i quali Antilope Bianca e la moglie di Pentola Nera. Pentola Nera, invece, riuscì a fuggire, sebbene ferito, e preparò la vendetta. 
Il Massacro del Sand Creek avvenne il 29 novembre 1864 e, come inevitabile conseguenza, determinò una rivolta indiana che, per quattro anni, insanguinò  il Colorado e i territori vicini. Sioux e Cheyenne inviarono aiuti agli Arapaho di Pentola Nera e contro di loro mosse il famoso Settimo Cavalleria del colonnello George Armstrong Custer, costituito, appositamente, per combattere gli Indiani, che, in quell’occasione, fece la sua prima uscita.
La battaglia decisiva avvenne sulle rive dell’Arikaree, dove gli Indiani si erano accampati. Custer attaccò in forze e i Pellirosse non ebbero possibilità di scampo. Si arresero soltanto dopo che tutti i capi erano stati uccisi.
Ma Custer non si accontentò di quel facile successo. Sulla via del ritorno si imbatté in un altro accampamento indiano. Erano Corde di Arco, una tribù di Arapaho che non aveva partecipato all’insurrezione e si era, sempre, mostrata pacifica.
Custer diede ai suoi cavalleggeri l’ordine di “distruggere il villaggio, impiccare gli uomini e prendere prigionieri le donne e i bambini” .
L’ordine venne eseguito drasticamente. 
Il trionfo del colonnello fu di breve durata.
L’indignazione per il nuovo, ingiustificabile massacro fece insorgere i Kiowa, i Comanche e le sette Nazioni dei Sioux.
E fu Custer a doversi ritirare. Finché Cavallo Pazzo e Toro Seduto si presero una terribile rivincita, uccidendo Custer e tutti i suoi cavalleggeri tra le gole del Little Big Horn.
I Pellirosse conclusero la loro drammatica epopea con quella indiscutibile, ma inutile vittoria. I Sioux erano, oramai, l’unico Popolo rimasto a difendere l’indipendenza degli Indiani. Contro di loro si abbatté la potenza militare degli Stati Uniti.


“Una visione molto grande è necessaria e l’uomo che la sperimenta, deve seguirla come l’aquila cerca il blu più profondo del cielo.”
Cavallo Pazzo

“Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato, Voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato.”
Toro Seduto






Cinquantesimo anniversario della Battaglia di Little Big Horn



“La vita non ci tradirà se noi non la tradiremo. Essa è come un giovane ruscello, che dalla sorgente inizia il suo corso con forza, ma esita e si ferma infangandosi quando la sua corsa è ostacolata da terreni difficili da attraversare. Anche noi siamo esposti ad attirare detriti che ci intorbidiscono, ma possiamo ripulirci e continuare il nostro corso.
Noi siamo vita e abbiamo la possibilità di nutrire o lasciar deperire. I rimpianti fanno deperire, ma pace e tranquillità sono nutrimento.
Guarda il tramonto e le ombre che giocano sulla pianura, osserva le macchie rosate che coprono come scialli le colline. La vita è là, risvegliala e afferrala. Questo ci ha insegnato il Tsa la gi.
Il cambiamento è continuo; ogni cosa per il bene; nulla a caso.”
Falco Volante



Per vendicare Custer, contro i Sioux vennero mandati quattro interi corpi di armata, con artiglierie e mitragliatrici, le micidiali Gatling a tamburo. Sotto quel fuoco infernale, le ultime bande disperse cercarono scampo nell’ospitale Canada.
Nel 1876 – l’anno terribile di Toro Seduto e Cavallo Pazzo – gli Amerindi ancora viventi in tutti gli Stati Uniti e il Canada si erano ridotti a non più di 50mila; eppure già da mezzo secolo era stato costituito l’Indian Service, un organismo governativo che aveva il compito dichiarato di “prestare assistenza” ai Pellirosse.
Di quale assistenza si trattasse, lo dice fin troppo eloquentemente il fatto che il Servizio fosse alle dirette dipendenze del Ministero della Guerra!
Venne trasferito al Ministero dell’Interno soltanto nel 1849 e, allora, vennero, anche, precisate le sue responsabilità, tra le quali figurava al primo posto l’acquisto di terre, cui l’ufficio provvide così radicalmente che, nel 1943, fu necessario rovesciare le competenze dell’Indian Service, incaricandolo di acquistare terre per le “riserve” in cui gli Indiani potessero essere ospitati. Quindi, i vari problemi sanitari – ma, solo nel 1884, venne aperto il primo ambulatorio nelle riserve indiane – e l’aiuto economico – il primo provvedimento adottato sotto tale “voce” fu l’ammissione di un Indiano alla scuola industriale di Hampton, in Virginia, nel 1870 –.  
L’Indian Service venne riorganizzato in modo da potere assolvere concretamente la sua funzione umanitaria e riparatrice nel 1933, per merito del presidente Roosevelt, che era un grande estimatore della civiltà indiana.
Ma, oramai, gli Indiani erano nulla più che un tardivo pentimento da ecologi: esseri da preservare, gelosamente, nei parchi nazionali, alla stregua degli ultimi bisonti e degli ultimi grizzly.


Daniela Zini
Copyright © 18 gennaio 2019 ADZ



[1]Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte dello Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e ideologici,  che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo di azione.

[2] Il 12 aprile 2015, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

[3] Nel 2015, noi abbiamo commemorato i 100 anni del genocidio armeno, ma il genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].

[4] Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita ancora polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione. 

[5] Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese del 1994”.
Allo scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
 Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile esperienza di assistere impotente a questa tragedia lo porta a due tentativi di suicidio.
Nel 2003, Dallaire pubblica Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano. 

[6] Raphael Lemkin, Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata, 1944, pag. 79.

[7] La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di  “digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno, infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide con quella del Popolo stesso.

[8] Il Primo febbraio del 1876 è il giorno in cui gli Stati Uniti d’America dichiararono guerra ai Sioux, che non volevano abbandonare i territori dove era stato scoperto l’oro. E fu l’inizio del Massacro di Wounded Knee, il nome con cui è passato alla Storia l’eccidio di centinaia di uomini, donne e bambini Miniconjou, un gruppo di Lakota Sioux, trucidati dalla cavalleria degli Stati Uniti di America, il 29 dicembre 1980, nella valle del torrente Wounded Knee.

Secondo un censimento dello studioso Russel Thornton, dal 1775 al 1890, almeno 45mila nativi americani persero la vita.

[9] La Lettera al presidente degli Stati Uniti di America Martin Van Buren del reverendo Ralph Waldo Emerson, datata 23 aprile 1838, fu pubblicata sul Daily National Intelligencer di Washington, il 14 maggio 1838, e ristampata, il 19 maggio 1838, sulla Yeoman’s Gazette di Concord, e, in giugno, sul Christian Register, sull’Old Colony Memorial e sul Liberator.

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