GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 – δεκαετία 390 ή 430]
“Que le XXIe ne soit plus, comme ce
siècle qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si
sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel
2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti,
del centenario dei genocidi armeno
e assiro-caldeo e
dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7
milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi
– chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una
risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
“Perché?”
Ricordiamo
tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come
dimenticare un simile orrore?
Dei
7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila
furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi,
noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto
evitare un genocidio.
Il
16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda,
dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere
intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò
un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur],
gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni
Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo
rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le
vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al
regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il
coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel
1993, il generale canadese Roméo Dallaire,
comandante del contingente ONU UNAMIR,
in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di
pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano
la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del
presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire
aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati
regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i
rischi di nuove violenze.
Il
famoso telegramma all’ONU, nel
gennaio del 1994, rimase inascoltato.
La
potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne
lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR],
costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti
negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano,
ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci
soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente,
con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come
mosche.
Noi
sapevamo che persone morivano.
Credevamo
di sapere!
Non
sapevamo nulla…
I
media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo
che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle
efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che
determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei
loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango
eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi
costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il
carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse
un nuovo termine per designare i
crimini commessi dai nazisti.
“Nuovi concetti richiedono nuovi
termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un
gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una
pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica
genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua
formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via.
Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata
distruzione di una Nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminando
in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un
“piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione
delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli.
Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle
istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti
nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato
gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della
libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui
che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in
quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro
identità, ma in quanto membri di quella Nazionalità.”
Vi
era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì
questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco
di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied
Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un
regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di
tutti i loro membri.
Durante
il processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio
divenne di uso comune.
In
breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11
dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva
che “in base alla legge internazionale il
genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la
Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla
vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano
stati distrutti in tutto o in parte”.
Nella presente Convenzione, per
genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso, come tale:
a)
uccisione
di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità
fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il
fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a
provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure
miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento
forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.
Su
insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano
scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco,
intervenuto nella stesura conclusiva – “di
caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di
rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo
generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali
gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due
elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un
elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti
enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito,
generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La
violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono
integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non
è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato,
può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione
internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione
terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per
condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento
esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di
questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le
azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro
qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo,
la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo,
del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza
che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o
negarne un nesso.
Non
è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel
suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne,
se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza
del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali
più ragguardevoli.
Non
è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio
di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può
provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un
massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa
intenzione è assente o non può essere provata.
Un
genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di
pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì,
che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno
del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non
punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non
solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia
commesso”[Principi di Norimberga].
A
oggi, il Tribunale Penale Internazionale
per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti
principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27
condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU,
il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi.
Diversamente, il Tribunale Penale
Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha
pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per
fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo
condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come
espresso dal Segretario Generale dell’ONU,
il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia
dell’Umanità.
La
Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un
genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si
interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà
troppo tardi e non si potrà essere
sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la
soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un
genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale
misura complici, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in
essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è
accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel
1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale, era reale. Le milizie massacravano e
deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza
internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò
un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In
Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano
un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale
a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi
erano massive.
Era
legittimo intervenire!
Ma
l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte
sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I
franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La
conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e
Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo
per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si
deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non
sia, realmente, rimossa.
Di
fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in
cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel
1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un
sistema di allarme precoce – early
warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di
insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di
controllo fisiologico, un biofeedback
system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu
accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io
non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore,
né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un
ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del
genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo
Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato
fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli
ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In
tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo:
il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal
30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime
potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle
leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato
decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle
persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni
ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per
evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per
rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra
le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò,
puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio
degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva,
allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per
impedire lo sviluppo del mostro.
Il
caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della
ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del
21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere
le minoranze ortodosse.
Nel
corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri
cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II
dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di
intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano,
contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel
1908.
“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il
Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro
Rumjancev e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade
Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato dice: La Porta Sublime promette
la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”
A
dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò,
rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al
fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi
l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo
sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma
era la guerra!
L’Intesa
minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La
Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene
dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della
Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che
rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che
ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e
la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni
Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità
di prevenire un genocidio.
La
volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come
sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla
politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia
di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per
rinunciare ad avviare un processo di prevenzione. La prevenzione più efficace
sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e,
successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata
superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono
altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la
mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali
riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni
economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento
di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e
consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti,
servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che
serva altri fini.
I
Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione
di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno
sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America
e il processo di colonizzazione.
Analogamente,
in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre
terre quali schiavi.
Tali
pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava
legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero
loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In
tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che
debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di
esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo,
bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono
stati vittime di genocidi.
In
Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente
americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato
milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o
di professare idee opposte alle loro.
Ma
sono necessarie, queste querelles
lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno
per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non
si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime.
Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.
Si
deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo. Non è una pratica
compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È
il senso della Memoria Collettiva!
I. IL GENOCIDIO DEL POPOLO
INDIANO
di
Daniela
Zini
GENOCIDIO
I.
IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO
1.
L’Olocausto di un antico e fiero Popolo: gli Amerindi
di
Daniela Zini
GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA
DELL’UOMO
1. Holocaust
di Daniela Zini
GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA
DELL’UOMO
2. 75 anni
fa: La Risiera di San Sabba
Primo Febbraio
Giorno della Memoria degli Indiani di America
“Quando ti avvicini a un piccolo
ruscello e ti vuoi lavare, devi prima metterti in raccoglimento e parlare all’acqua
che scorre. Non è possibile immergere semplicemente la mano e lavarti il volto
con l’acqua fresca, devi mostrare timore e camminare piano fino al ruscello.
Una volta arrivato prendi un po’
d’acqua e bagnati quattro volte il volto, poi china il capo e prega.
Ogni corso d’acqua dell’antica
regione dei Chiricahua è per noi sacro”.
Toro Seduto
Una vecchia leggenda Cherokee racconta che,
un giorno, il Capo di un grande villaggio decise che fosse arrivato il momento
di insegnare al nipote prediletto cosa fosse la vita. Lo portò nella foresta e
lo fece sedere ai piedi di un grande albero e gli spiegò:
“Figlio
mio, nella mente e nel cuore di ogni essere umano si combatte una lotta
incessante. Anche se io sono vecchio Capo, guida della nostra gente, che mi
considera saggio, quella lotta avviene anche dentro di me. Se non ne conosci l’esistenza,
ti spaventerai e non saprai mai quale direzione prendere. Forse, qualche volta,
nella vita vincerai, ma poi, senza capire perché, all’improvviso, ti ritroverai
perso, confuso e in preda alla paura, e rischierai di perdere tutto quello che
hai faticato tanto a conquistare.
Crederai di fare le scelte giuste per, poi,
scoprire che erano sbagliate. Se non comprendi le forze del bene e del male, la
vita individuale e quella collettiva, il vero sé e il falso sé, vivrai sempre
in grande tumulto.
È come se ci fossero due grandi Lupi che
vivono dentro di ognuno: uno Bianco, l’altro Nero.
Il Lupo Bianco è buono, gentile e innocuo.
Vive in armonia con tutto ciò che lo circonda e non arreca offesa quando non lo
si offende. Il Lupo buono, ben ancorato e forte nella comprensione di chi è e
di cosa è capace, combatte solo quando è necessario e quando deve proteggere se
stesso e la sua famiglia. Anche in questo caso lo fa nel modo giusto. Sta molto
attento a tutti gli altri Lupi del suo branco e non devia, mai, dalla propria
natura.
Ma vi è anche un Lupo Nero che vive in
ognuno ed è molto diverso. È rumoroso, arrabbiato, scontento, geloso e pauroso.
Le più piccole cose gli provocano eccessi di rabbia. Litiga con chiunque,
continuamente, senza ragione. Non riesce a pensare con chiarezza poiché
avidità, rabbia e odio in lui sono troppo grandi. Ma la sua è rabbia impotente,
figlio mio, poiché non riesce a cambiare niente. Quel Lupo cerca guai ovunque
vada e li trova facilmente. Non si fida di nessuno, quindi, non ha veri amici.
A volte, è difficile vivere con questi due
Lupi dentro di sé, perché entrambi lottano, strenuamente, per dominare l’anima.”
Il ragazzo chiese ansiosamente:
“Quale dei due lupi vince, nonno?”
Con voce ferma, il Capo rispose:
“Tutti e due, figlio mio. Se scelgo di
nutrire solo il Lupo Bianco, quello Nero mi aspetta al varco per approfittare
di qualche momento di squilibrio o in cui sono troppo impegnato e non riesco ad
avere il controllo di tutte le responsabilità. Il Lupo Nero, allora, attaccherà
il Lupo Bianco. Sarà sempre arrabbiato e in lotta per ottenere l’attenzione che
pretende. Ma se gli presto un po’ di attenzione, perché comprendo la sua
natura, se ne riconosco la potente forza, se gli faccio sapere che lo rispetto
per il suo carattere e gli chiederò aiuto se la nostra tribù si trovasse mai in
gravi problemi, lui sarà felice. Anche il Lupo Bianco sarà felice. Così
entrambi vincono. E tutti noi vinciamo.”
Confuso, il ragazzo chiese:
“Non comprendo, nonno, come possono
vincere entrambi?”
Il Capo indiano continuò:
“Il Lupo Nero ha molte importanti qualità
di cui posso aver bisogno in certe circostanze. È temerario, determinato e non
cede mai. È intelligente, astuto e capace di pensieri e strategie tortuose.
Sono caratteristiche importanti in tempo di guerra. Ha sensi molto acuti e
affinati che soltanto chi guarda con gli occhi delle tenebre può valorizzare.
Nel caso di un attacco, può essere il nostro miglior alleato.”
Il Capo Cherokee tirò fuori due pezzi di
carne dalla sacca e li gettò a terra: uno a sinistra e uno a destra. Li indicò,
poi disse:
“Qui alla mia sinistra vi è il cibo per il
Lupo Bianco e alla mia destra il cibo per il Lupo Nero. Se scelgo di nutrirli
entrambi, non lotteranno, mai, per attirare la mia attenzione e potrò usare
ognuno dei due nel modo che mi è necessario. E, dal momento che non vi sarà
guerra tra i due, potrò ascoltare la voce della mia coscienza più profonda,
scegliendo quale dei due potrà aiutarmi meglio in ogni circostanza.
Se comprendi che vi sono due grandi forze
dentro di te e le consideri con eguale rispetto, saranno entrambi vincenti e
convivranno in pace. La pace, figlio mio, è la missione dei Cherokee, il fine
ultimo della vita. Un uomo che ottiene la pace interiore ha tutto. Un uomo che
è lacerato dalla guerra che si combatte dentro di lui, è niente.”
2. Per 10 archibugi gli Indiani vendettero New York agli Inglesi
I coloni alla
conquista dell’America iniziarono a comperarla con specchietti e perline
colorate.
Gli Olandesi,
che con 24 barilotti di rum avevano acquistato dai Canarsee il territorio su
cui sarebbe sorta Brooklyn, lo rivendettero 40 anni dopo, per un valore pari a
10 milioni di volte quello pagato. Ed ecco la valuta fissata dai “visi pallidi”
per i trattati commerciali con i Pellirosse: con una treccia di tabacco si
poteva avere il raccolto di un ettaro di terra; con un barilotto di alcol 300
chilogrammi di oro. Dalla truffa perpetrata con modi tanto cinici nei confronti
di un Popolo che aveva il difetto di essere buono, pacifico e ingenuo, i
pionieri giunsero, infine ai massacri, pur di impossessarsi delle immense
estensioni di quello sterminato Paese.
“Non avrei mai dovuto arrendermi: avrei
dovuto combattere fino a quando non fossi rimasto l’ultimo uomo vivo.”
Geronimo
Furono i mercanti di pellicce della Compagnia
Olandese delle Indie Occidentali e della Compagnia della Nuova Svezia ad
avvicinare per primi i grandi Popoli indiani dell’interno.
Era il 1650.
Fino ad allora i coloni avevano avuto rapporti
molto sporadici con le tribù che vivevano lungo la costa atlantica. Episodi
sempre identici, ripetuti centinaia di volte: un selvaggio seminudo sorpreso a
spiare gli strani uomini dallo strano colore di pelle e dagli strani vestiti,
con quelle mostruose canne tonanti; l’arrivo di una numerosa delegazione di
notabili fiabescamente abbigliati di pelli, penne, conchiglie; l’offerta di
doni, come all’altare di una divinità da placare… e,poi, più nulla.
Improvvisamente, i selvaggi sparivano. Gli
esploratori che, invogliati dai primi doni e desiderosi di procurarsene degli
altri, si spingevano lungo il corso dei fiumi, trovavano soltanto le tracce dei
primitivi villaggi, sgombrati, frettolosamente, da un giorno all’altro.
Come fossero, quanti fossero, come vivessero
quei singolari abitanti delle foreste – fauna pressoché alla stessa stregua
degli orsi e dei cervi – erano argomenti su cui ciascuno poteva lasciare
briglia sciolta alla fantasia, senza timore di potere essere contraddetto. I
cronisti dell’epoca hanno descritto i Pellirosse come pigmei oppure come giganti.
Secondo alcuni, coperti di peli e con chiome lunghissime; secondo altri, nudi e
imberbi come bambini. Mostruosi e deformi in alcuni resoconti; autentici
semidei in altri.
Oggi, rileggendo quelle favole ammantate di
pretese storiche, di concreto si apprende solo quanto fossero sconosciuti i
misteriosi e pittoreschi Amerindi: i marziani di tre secoli fa. Su un solo
punto tutte le descrizioni sono d’accordo: nel dipingerli come esseri
estremamente primitivi, innocui e ingenui come bambini, timidi e paurosi. Come
bambini, per renderli felici bastavano vetri colorati e chincaglierie prive di
valore, che accendessero la loro fantasia; pronti per ottenerli, a dare in
cambio pellicce preziose e ornamenti di argento massiccio, del cui valore
sembravano non rendersi assolutamente conto. Come cagnolini, che si potevano
accattivare con un osso.
Gli Olandesi che, inseguendo le vaghe e allettanti
notizie su grosse tribù che vivevano nell’interno e possedevano montagne di
pellicce, giunsero nelle terre del Delaware – nell’alto corso del fiume, che da
quel Popolo ha preso il nome – non furono delusi. Ma, certamente, furono anche
sbalorditi quando scoprirono che i Delaware abitavano in vaste città perfettamente e civilmente organizzate;
coltivavano – sia pure con metodi primordiali, ma estremamente pratici e
razionali – vaste estensioni di campi, da cui traevano il sostentamento;
avevano un loro originalissimo sistema di scrittura, che alle lettere dell’alfabeto
o agli ideogrammi sostituiva figure molto realistiche, anche se stilizzate al
massimo. La loro antica Civiltà era testimoniata dal Walam Olum – qualcosa come gli Annales
dei Romani – su cui venivano registrati e tramandati tutti gli avvenimenti
salienti nella vita del loro Popolo. Ma, di fatto, erano degli ingenui semplicioni.
Da loro Olandesi e Svedesi ottennero quantità enormi di pellicce praticamente
per nulla. E non soltanto pelli. Per ventiquattro barilotti di rum gli Olandesi
acquistarono dai Canarsee il territorio su cui sorse Brooklyn, che, quaranta
anni dopo, rivendettero agli Inglesi per un valore pari a dieci milioni di
volte quello che lo avevano pagato.
Da un’altra tribù, i Wappinger, gli Inglesi
acquistarono direttamente Manhattan, Bronx e Westchester – ossia tutto il
rimanente dell’attuale territorio di New York – per la somma davvero non esosa
di dieci archibugi!
La “valuta” con cui i mercanti pagavano i loro
acquisti erano specchietti e perline colorate, che accendevano la fantasia
degli Indiani. Secondo i trattati commerciali stipulati a quel tempo, una
treccia di tabacco era il valore del raccolto di un ettaro di terra; un
barilotto di alcol equivaleva a dieci volte il suo peso in metalli pregiati,
fosse rame, argento e oro. I mercanti pagavano volentieri con alcol. Gli Indiani
ne erano avidi ed erano disposti a pagarlo a qualunque prezzo; ma, non
essendovi abituati, si ubriacavano presto e, allora, era ancora più facile
ottenere da loro tutto ciò che si desiderava, comprese le loro stesse terre…
Samuel de Champlain, l’esploratore e
trafficante francese, escogitò una originale unità di misura. Piantava in terra
quattro archibugi, agli angoli di un quadrato i cui lati erano eguali all’altezza
dei fucili. Tutte le pelli che potevano essere stipate in quel cubo immaginario
erano il costo dei quattro archibugi, un prezzo ancora abbastanza equo, tenuto
conto che per gli Indiani il possesso dei fucili voleva dire caccia abbondante,
vitto sicuro, protezione dagli attacchi delle tribù vicine. La “stadera” dei
quattro fucili venne adottata ovunque, ma gli insaziabili successori di Samuel
de Champlain non si accontentarono dei notevoli guadagni che realizzavano in
tale modo. Fecero costruire archibugi che avevano il calcio lungo tre volte più
del normale e, in tale modo, fecero sì che il quantitativo di pelli corrispondente
ai quattro fucili divenisse tre o quattro volte maggiore.
Per circa trenta anni, i rapporti di affari tra
coloni e Indiani furono di questo tipo; ma i Delaware ne erano
soddisfattissimi, tanto che portavano loro stessi le pelli nei posti
commerciali che, nel frattempo, erano stati allestiti sulle coste. Le cose si
complicarono quando ai primi coloni si aggiunsero i Quaccheri. Erano pacifici –
la loro religione proibiva, perfino, di portare le armi – ma molto numerosi.
Ciascuno di loro era emigrato in America con il fermo proposito di coltivare
più terra che poteva. Acquistare le terre dagli Indiani non era difficile né
dispendioso; ma, presto, si verificarono le drammatiche conseguenze di un
colossale equivoco, che doveva perpetuarsi per più di un secolo. Per gli Indiani,
la terra non era un bene che si potesse possedere, ma, tutt’al più, di cui potersi
servire. Per loro esisteva non la proprietà, ma il territorio di caccia, vale a
dire una determinata zona su cui una tribù aveva acquistato e, più spesso,
conquistato il diritto di abbattere la selvaggina o raccogliere frutti e bacche
selvatiche.
Statua di Samuel de Champlain
Quando i Pellirosse vendevano un territorio, in
realtà, intendevano solo consentire all’acquirente di recarsi a caccia nelle
loro terre. I coloni intendevano l’acquisto in maniera ben diversa. Appena
stipulato il contratto, la prima cosa che si preoccupavano di fare era
recingere le loro terre con paletti e filo spinato. Ma quei segnali non avevano
significato alcuno per i Pellirosse, che non esitavano a entrare se le tracce
di un animale li portavano in quella direzione; come i pionieri non esitavano a
sparare contro i “ladri” che sorprendevano. Se qualcuno non era abbastanza
forte o coraggioso da difendersi da solo, chiamava in aiuto i soldati; il
contratto di acquisto gli dava il diritto che la sua proprietà fosse protetta.
Si avviò, così, una catena di vendette e di
ritorsioni. I pionieri si organizzarono per “dare una lezione” agli Indiani,
che chiamarono a raccolta i volontari per mettersi sul “sentiero di guerra”. I
pionieri si facevano forti della loro presunzione di “essere civili” e delle
loro armi; si trovarono di fronte nemici molto più numerosi e perfettamente
organizzati, i cui archi erano molto più veloci e micidiali dei loro fucili ad
avancarica. George Washington, che aveva comandato un distaccamento impegnato
nella guerriglia indiana e aveva sperimentato quanto gli archi fossero
temibili, quando divenne presidente degli Stati Uniti propose che fossero gli
archi e non i fucili l’armamento dell’esercito regolare.
A quell’epoca, il rappresentante del governo
inglese nelle colonie era William Penn, un uomo di buonsenso. Questi comprese
che in una guerra i coloni avrebbero avuto tutto da perdere e scelse la strada
delle trattative amichevoli: una politica che, per qualche tempo, fu, anche,
seguita dai suoi successori, perché si era visto che se ne potevano trarre i
maggiori vantaggi.
Nel 1686, dopo tre anni di trattative, Penn
negoziò con Tamanend, il capo dei Delaware, l’acquisto delle loro terre. Gli Indiani
accettarono di lasciare agli Inglesi una striscia lungo tutta la riva
settentrionale del fiume, profonda quanto un uomo fosse riuscito a inoltrarsi
in tre giorni di cammino. In quell’occasione, Penn dimostrò, anche, una
lodevole moderazione. Dopo avere camminato nella foresta per un giorno e mezzo,
considerò che il territorio di cui aveva preso possesso era ampiamente
sufficiente ai bisogni dei suoi coloni e si astenne dal proseguire, rinunciando,
anche, al resto delle terre cui avrebbe avuto diritto in base agli
accordi.
I suoi successori non furono altrettanto
onesti.
Reclamarono dai Delaware altre terre, per il
restante giorno e mezzo di cammino e gli Indiani fecero sapere che erano pronti
a tenere fede alla parola data da Tamanend.
I coloni, avidi di terra, studiarono uno
stratagemma perché “un giorno e mezzo di cammino” significasse molto più di
quanto intendeva stabilire il trattato.
Si misero al lavoro di buona lena…
Statua di William Penn
Quando giunse il giorno stabilito per la
misurazione, presero il via i coloni più veloci e resistenti, che si erano allenati
con scrupolo. Nelle foreste trovarono la comoda pista che, nel frattempo, era
stata aperta da squadre di boscaioli e sterratori. Nelle trentasei ore
stabilite, il più veloce di loro percorse più di cento chilometri, raggiungendo
i Monti Poconos. Gli Indiani non fecero discussioni: sgombrarono quella vasta
zona e si ritirarono oltre le montagne.
Statua di Lapowinsa
Mezzo secolo dopo, i coloni ebbero bisogno di
altre terre e cercarono di ottenerle con “trattati” dello stesso tipo. Ma l’esperienza
aveva insegnato ai Delaware e il loro capo, Lapowinsa, rifiutò perfino di
trattare. Gli Inglesi non erano ancora abbastanza numerosi perché potessero
permettersi di affrontare direttamente un Popolo forte e combattivo come quello
che avevano di fronte. Ma sapevano che i Delaware avevano nemici atavici: gli Irochesi
e Susquehannock. Fornirono loro fucili e cavalli, chiedendo in cambio tutte le
terre che sarebbero riusciti a strappare ai Delaware. In quella guerra
sanguinosa i Delaware furono sterminati – ne sopravvissero un centinaio –, ma
gli inglesi entrarono in possesso del territorio dell’attuale
Pennsylvania.
Nella Virginia viveva un altro grande Popolo
indiano, i Powhatan che erano più di 50mila. Erano assolutamente pacifici,
ottimi agricoltori e appunto per questo attaccati alle loro terre, che
rifiutarono di vendere.
Contro di loro i discendenti dei Padri
Pellegrini organizzarono, sistematicamente, tre spedizioni punitive, ogni anno.
Arrivavano improvvisi, mettevano in fuga gli Indiani a colpi di fucile e davano
alle fiamme i villaggi, i campi, i raccolti, perché i Powhatan non potessero
più piantare il grano. In tale modo, li condannarono a morire di fame. Non
ancora soddisfatti di quei metodi, troppo lenti per la loro bramosia,
regalarono agli Indiani “acqua di fuoco” a barili; ma mescolavano all’alcol la
varecchina, che corrodeva le viscere e, in pochi giorni, portava chi la beveva
a una morte atroce. Inquinarono le sorgenti; reclutarono chiunque avesse
contratto il vaiolo o la febbre gialla – impegnandosi a pagare forti somme ai
loro eredi –, perché andassero a portare il contagio nei villaggi Indiani.
Contro i Powhatan i coloni non spararono
neppure un colpo di fucile, ma, in trenta anni, quel Popolo si ridusse a soli
300 individui, che furono prelevati con la forza e deportati in quei veri e
propri campi di concentramento che erano le riserve.
E questa fu la conquista della Virginia!
Delaware e Powhatan non furono certamente i
Popoli più importanti nella drammatica e sanguinosa Storia indiana. Li ho ricordati
così ampiamente, perché fu sulla loro pelle che gli Americani idearono e
collaudarono una “politica” basata sul raggiro e sul massacro, che, nel secolo
successivo, doveva essere solo arricchita da altri stratagemmi e spinta alle
più inumane conseguenze.
Le eccezioni – i casi in cui gli Indiani furono
trattati con umanità e con giustizia, o più semplicemente da esseri umani – si
contano ancora meno sulla punta delle dita e, forse, si riducono all’unico
esempio degli Indiani Cherokee.
Nel 1775, il governo coloniale affidò il
compito di stabilire contatti con quelle tribù a uno scout, il cui nome è rimasto nella leggenda: Daniel Boone. Questi,
accolto come amico, stipulò un trattato, in base al quale i Cherokee cedevano,
contro un compenso di 10mila dollari, i territori corrispondenti all’attuale
Stato del Kentucky.
Statua di Daniel Boone
Non sembra troppo equo un compenso di 10
centesimi di dollaro per chilometro quadrato; invece, l’accordo fu giusto e
conveniente per entrambi, giacché lasciava gli Indiani padroni di una
estensione pressoché eguale di terre, largamente sufficiente ai loro bisogni,
mentre il sostanzioso aiuto in danaro li metteva in condizione di potere
provvedere ai loro più urgenti bisogni. Il trattato, inoltre, forniva ai
Cherokee una serie di garanzie per la loro libertà e l’assicurazione che non
sarebbero stati molestati, in modo alcuno, “fino a quando crescerà l’erba”.
Gli effetti della cessione si dimostrarono
particolarmente benefici proprio per i Cherokee, che, negli anni successivi,
conobbero un lungo periodo di pace e di prosperità, al punto che non pochi di
loro possedevano, perfino, degli schiavi neri. Tuttavia il trattato non fu
rispettato a lungo. Gli speculatori di terre ricorsero a ogni mezzo per indurre
gli Indiani e, talvolta, costringerli a
cedere altri appezzamenti per cifre ridicole. I metodi terroristici degli
incappucciati del Ku Klux Klan, che
sarebbero stati, poi, ripresi contro i neri, furono sperimentati, appunto,
contro i Cherokee.
Nel 1807, i Cherokee erano, già, stati privati
dei tre quarti delle loro terre; tuttavia, in quell’anno, l’allora presidente
Thomas Jefferson rinnovò, con diciannove trattati distinti, le garanzie che
erano state concesse ai Cherokee trenta anni prima. Iniziò un nuovo e più
energico periodo di auto-civilizzazione di quel Popolo, che decise di
abbandonare le sue forme di autocivilizzazione tribale per darsi un governo repubblicano,
sul modello degli Stati Uniti. Tale processo, che non ha paragoni nell’intera Storia
degli Indiani di America portò, in pochi anni, alla costituzione di un vero e
proprio parlamento, composto dai rappresentanti liberamente eletti da ciascun
villaggio. Le prime leggi promulgate dal parlamento dei Cherokee concernevano l’abolizione
della “vendetta di sangue” e alcune misure assistenziali a favore degli orfani.
Nel 1830, il capo dei Cherokee era Sequoyah un metis, che aveva solo un terzo di sangue
indiano, in quanto discendeva da uno
delle centinaia di pionieri e cacciatori che avevano sposato delle Cherokee e
anche sua madre era figlia di un bianco e di una indiana. Quell’anno ai
Cherokee venne intimato di abbandonare le loro terre e di trasferirsi molto più
a Ovest, nell’Oklahoma, in base al cervellotico progetto di costituire uno Stato
indiano a Nord del Texas. Il parlamento Cherokee respinse il progetto e la
fermezza di Sequoyah dissuase il governo americano dall’effettuare ulteriori
pressioni.
Vi erano altri popoli, meno pacifici, che
bisognava “persuadere”…
Furono i Choctaw – un Popolo che viveva sulle
rive occidentali del Mississipi, in corrispondenza dell’attuale Arkansas – a
essere “persuasi” per primi. A loro non venne lasciata alcuna scelta: o
andarsene, con un gruzzolo di 50mila dollari, che avrebbe consentito loro di
sopperire alle spese del lungo viaggio, o restare…
Ma, in tale caso, restare sottoterra!
Alcune “azioni dimostrative” palesarono ai
Choctaw che i “visi pallidi” non scherzavano. Accettarono e fu loro dato un
termine entro il quale tutte le loro terre avrebbero dovuto essere sgombrate: il
novembre del 1830.
Il giorno arrivò.
Ma non erano, ancora, arrivati i 50mila dollari.
Si scoprì, in seguito, che li aveva intascati
un agente governativo, il quale non fu perseguito in modo alcuno. I Choctaw,
tuttavia, furono, egualmente, costretti a partire, sotto la minaccia delle
armi.
Fu una emigrazione tragica, nella neve e nel
ghiaccio, funestata, a ogni metro, dalla fame, dalle malattie, dai mille
pericoli naturali e, perfino, dagli attacchi di altre bande di Indiani.
I Mississipi e i Memphis, le due tribù
principali, furono bloccate dai ghiacci e 800 Indiani morirono di fame.
Le altre tribù giunsero nell’Oklahoma più che
dimezzate.
Dopo i Choctaw fu la volta dei Chickasaw.
E, allora, le autorità americane poterono
tornare a “occuparsi” dei Cherokee.
Gli Stati maggiormente interessati ai loro
territori avviarono delle trattative di propria iniziativa, non con le autorità
indiane, ma con i singoli capi locali. Il governatore della Georgia giunse a
proclamare che i Cherokee erano “cosa appartenente” al suo Stato e che i loro
territori erano “cosa pubblica”, a disposizione di chiunque ne avesse reclamato
per primo la proprietà.
Contro tale ingiusto decreto Sequoyah insorse,
non facendo scendere i suoi Indiani sul sentiero di guerra, ma – fatto davvero
unico! – denunciando il governatore della Georgia al Tribunale Supremo, per
violazione dei trattati. Il suo primo ricorso venne respinto, ma, nel 1832, la
Corte Suprema, che Sequoyah era riuscito a investire del caso, sentenziò la
incostituzionalità delle leggi della Georgia, ostili agli Indiani.
La sentenza, tuttavia, doveva restare lettera
morta.
Sarebbe stato necessario imporne il rispetto di
autorità, ma a chi gli prospettò la necessità di ottenere dal governatore della
Georgia che le leggi incostituzionali fossero annullate, ricorrendo se
necessario alla forza, Andrew Jackson, l’allora presidente degli Stati Uniti,
rispose:
“Il giudice ha pronunciato la sentenza.
Ora, pensi lui a farla eseguire.”
Jackson era uno dei più accesi sostenitori
della politica di “eliminazione” dei Pellirosse.
Era stato lui a sentenziare che “gli
unici Indiani buoni sono gli Indiani morti” e aveva messo in pratica le
sue teorie combattendo contro i Creek – la grande Nazione indiana dall’Alabama
– e distruggendoli con l’inganno, con la corruzione e con la violenza.
Era giunto alla presidenza, proprio, in virtù
della fama che si era guadagnato in quell’occasione…
Ma, a parte i sentimenti personali di Jackson,
la Georgia aveva accolto la sentenza con reazioni così aspre che qualunque
misura destinata a imporre l’applicazione della sentenza avrebbe scatenato una
guerra civile.
Non valeva la pena di rischiare tanto per gli
Indiani!
Così, nel 1836, le truppe intervennero per
costringere i Cherokee a lasciare le loro terre con la forza.
Ammassati in miserabili processioni di uomini,
donne, vecchi e bambini, sospinti dalle baionette, bersagliati dalle pallottole
a ogni minimo cenno di insubordinazione, gli Indiani dovettero percorrere, a
piedi, in pieno inverno, i 1300 chilometri che li separavano dall’Oklahoma.
Più di un quarto di loro morirono lungo la
strada, uccisi dal freddo, dalla fame, dalle malattie, dalle pallottole e
quelli che raggiunsero l’Oklahoma dovettero conquistarsi il loro “spazio
vitale”, combattendo, sanguinosamente, contro le tribù che li avevano preceduti
in quei territori.
Con i Sauk e i Fox, le Nazioni alleate che
occupavano la vallata del Mississipi tra il Wisconsin e il Minnesota, andò diversamente.
Le loro terre facevano gola agli speculatori
che – grazie a una poderosa organizzazione finanziaria e ad appoggi di ogni
genere – si accaparravano praticamente per nulla enormi estensioni di
territorio, che, poi, lottizzavano tra i pionieri ricavando guadagni favolosi.
Statua di Sequoyah
Uno di questi gruppi si mise in contatto con il
capo dei Sauk, Keokuk, e lo convinse a cedere non solo le terre della sua
tribù, ma anche quelle dei Fox, promettendogli in cambio l’aiuto del governo
americano perché fosse riconosciuto capo dei due Popoli. Quando il tradimento
di Keokuk venne scoperto, nel consiglio indiano si verificò una vera e propria
rissa. Falco Nero, il capo dei Fox, sbatté il calcio del fucile sulla testa di
Keokuk e rifiutò di riconoscere i patti sottoscritti dal traditore, che, come conseguenza,
avrebbero avuto il trasferimento dei Fox a Ovest del Mississipi.
Statua di Keokuk
Le autorità americane – “illuminate” sul caso
dagli speculatori di terre – considerarono la decisione dei Fox alla stregua di
una ribellione e inviarono contro di loro una spedizione militare.
Falco Nero e i suoi guerrieri opposero una
valorosa quanto inutile resistenza. Furono sconfitti, in poche settimane, e il
loro capo subì l’umiliazione di essere portato in giro per le maggiori città
dell’Est, come un trofeo vivente. Non gli venne data pace neppure dopo la
morte: le sue ossa furono messe in mostra, come macabro cimelio, all’Esposizione
di New York.
Statua di Falco Nero
Andò allo stesso modo nel Colorado, dove al
posto degli speculatori di terre era giunti i costruttori della ferrovia, che
non avevano avuto difficoltà a convincere gli Arapaho a vendere le sottili
strisce di terra di cui avevano bisogno; ma avevano tenuto ben nascosto che su
quelle terre sarebbe passato il “cavallo di acciaio”. Gli Indiani sapevano che
avrebbe comportato l’arrivo di migliaia e migliaia di pionieri che, per
sistemare le loro fattorie e i loro allevamenti, non avrebbero avuto scrupoli
nel costringerli ad andarsene.
Ralph
Waldo Emerson
Letter
to Martin Van Buren President of the United States
Sir,
The seat you fill places you in a relation of credit and nearness to every
citizen. By right and natural position, every citizen is your friend. Before
any acts contrary to his own judgment or interest have repelled the affections
of any man, each may look with trust and living anticipation to your
government. Each has the highest right to call your attention to such subjects
as are of a public nature, and properly belong to the chief magistrate; and the
good magistrate will feel a joy in meeting such confidence. In this belief and
at the instance of a few of my friends and neighbors, I crave of your patience
a short hearing for their sentiments and my own: and the circumstances that my
name will be utterly unknown to you will only give the fairer chance to your
equitable construction of what I have to say.
Sir,
my communication respects the sinister rumors that fill this part of the
country concerning the Cherokee people. The interest always felt in the
aboriginal population – an interest naturally growing as that decays – has been
heightened in regard to this tribe. Even in our distant State some good rumor
of their worth and civility has arrived. We have learned with joy their
improvement in the social arts. We have read their newspapers. We have seen
some of them in our schools and colleges. In common with the great body of the
American people, we have witnessed with sympathy the painful labors of these
red men to redeem their own race from the doom of eternal inferiority, and to
borrow and domesticate in the tribe the arts and customs of the Caucasian race.
And notwithstanding the unaccountable apathy with which of late years the
Indians have been sometimes abandoned to their enemies, it is not to be doubted
that it is the good pleasure and the understanding of all humane persons in the
Republic, of the men and the matrons sitting in the thriving independent
families all over the land, that they shall be duly cared for; that they shall
taste justice and love from all to whom we have delegated the office of dealing
with them.
The
newspapers now inform us that, in December, 1835, a treaty contracting for the
exchange of all the Cherokee territory was pretended to be made by an agent on
the part of the United States with some persons appearing on the part of the
Cherokees; that the fact afterwards transpired that these deputies did by no
means represent the will of the nation; and that, out of eighteen thousand
souls composing the nation, fifteen thousand six hundred and sixty-eight have
protested against the so-called treaty. It now appears that the government of
the United States choose to hold the Cherokees to this sham treaty, and are
proceeding to execute the same. Almost the entire Cherokee Nation stand up and
say, “This is not our act. Behold us. Here are we. Do not mistake that handful
of deserters for us;” and the American President and the Cabinet, the Senate
and the House of Representatives, neither hear these men nor see them, and are
contracting to put this active nation into carts and boats, and to drag them
over mountains and rivers to a wilderness at a vast distance beyond the
Mississippi. As a paper purporting to be an army order fixes a month from this
day as the hour for this doleful removal.
In the
name of God, sir, we ask you if this be so. Do the newspapers rightly inform
us? Man and women with pale and perplexed faces meet one another in the streets
and churches here, and ask if this be so. We have inquired if this be a gross
misrepresentation from the party opposed to the government and anxious to
blacken it with the people. We have looked at the newspapers of different
parties and find a horrid confirmation of the tale. We are slow to believe it.
We hoped the Indians were misinformed, and that their remonstrance was
premature, and will turn out to be a needless act of terror.
The
piety, the principle that is left in the United States, if only in its coarsest
form, a regard to the speech of men, forbid us to entertain it as a fact. Such
a dereliction of all faith and virtue, such a denial of justice, and such
deafness to screams for mercy were never heard of in times of peace and in the
dealing of a nation with its own allies and wards, since the earth was made.
Sir, does this government think that the people of the United States are become
savage and mad? From their mind are the sentiments of love and a good nature
wiped clean out? The soul of man, the justice, the mercy that is the heart in
all men from Maine to Georgia, does abhor this business.
In
speaking thus the sentiments of my neighbors and my own, perhaps I overstep the
bounds of decorum. But would it not be a higher indecorum coldly to argue a
matter like this? We only state the fact that a crime is projected that
confounds our understanding by its magnitude, a crime that really deprives us
as well as the Cherokees of a country for how could we call the conspiracy that
should crush these poor Indians our government, or the land that was cursed by
their parting and dying imprecations our country, any more? You, sir, will
bring down that renowned chair in which you sit into infamy if your seal is set
to this instrument of perfidy; and the name of this nation, hitherto the sweet
omen of religion and liberty, will stink to the world.
You
will not do us the injustice of connecting this remonstrance with any sectional
and party feeling. It is in our hearts the simplest commandment of brotherly
love. We will not have this great and solemn claim upon national and human
justice huddled aside under the flimsy plea of its being a party act. Sir, to
us the questions upon which the government and the people have been agitated
during the past year, touching the prostration of the currency and of trade,
seem but motes in comparison. These hard times, it is true, have brought the
discussion home to every farmhouse and poor man’s house in this town; but it is
the chirping of grasshoppers beside the immortal question whether justice shall
be done by the race of civilized to the race of savage man, whether all the
attributes of reason, of civility, of justice, and even of mercy, shall be put
off by the American people, and so vast an outrage upon the Cherokee Nation and
upon human nature shall be consummated.
One
circumstance lessens the reluctance with which I intrude at this time on your
attention my conviction that the government ought to be admonished of a new
historical fact, which the discussion of this question has disclosed, namely,
that there exists in a great part of the Northern people a gloomy diffidence in
the moral character of the government.
On the
broaching of this question, a general expression of despondency, of disbelief
that any good will accrue from a remonstrance on an act of fraud and robbery,
appeared in those men to whom we naturally turn for aid and counsel. Will the
American government steal? Will it lie? Will it kill? – We ask triumphantly.
Our counselors and old statesmen here say that ten years ago they would have
staked their lives on the affirmation that the proposed Indian measures could
not be executed; that the unanimous country would put them down. And now the
steps of this crime follow each other so fast, at such fatally quick time, that
the millions of virtuous citizens, whose agents the government are, have no
place to interpose, and must shut their eyes until the last howl and wailing of
these tormented villages and tribes shall afflict the ear of the world.
I will
not hide from you, as an indication of the alarming distrust, that a letter
addressed as mine is, and suggesting to the mind of the Executive the plain
obligations of man, has a burlesque character in the apprehensions of some of
my friends. I, sir, will not beforehand treat you with the contumely of this
distrust. I will at least state to you this fact, and show you how plain and
humane people, whose love would be honor, regard the policy of the government,
and what injurious inferences they draw as to the minds of the governors. A man
with your experience in affairs must have seen cause to appreciate the futility
of opposition to the moral sentiment. However feeble the sufferer and however
great the oppressor, it is in the nature of things that the blow should recoil
upon the aggressor. For God is in the sentiment, and it cannot be withstood.
The potentate and the people perish before it; but with it, and its executor,
they are omnipotent.
I
write thus, sir, to inform you of the state of mind these Indian tidings have
awakened here, and to pray with one voice more that you, whose hands are strong
with the delegated power of fifteen millions of men, will avert with that might
the terrific injury which threatens the Cherokee tribe.
With
great respect, sir, I am your fellow citizen,
Ralph
Waldo Emerson
Accampamento Arapaho
Il numero esatto delle vittime
del Massacro di Sand Creek non è chiaro. Nel suo rapporto reso alla commissione
di inchiesta dopo i fatti, il colonnello John Chivington riferì di 500 o 600
nativi morti, sostenendo che circa la totalità delle vittime erano guerrieri e
che il numero di donne e bambini rimasti uccisi era molto basso.
I dati forniti da Chivington
furono largamente sottodimensionati da altri testimoni oculari degli eventi.
Per il commerciante John Smith vi
furono 70 o 80 morti tra gli Indiani, di cui solo 20 o 30 erano guerrieri.
George Bent, in una lettera al
giornalista e attivista per i diritti dei nativi dell’America del
Nord Samuel F. Tappan del 15 marzo 1889, alluse a 137 vittime, di cui
28 uomini e 109 donne e bambini.
Il maggiore Scott Anthony annoverò
non più di 125 vittime, mentre il tenente Joseph Cramer tra le 125 e le 175.
John Chivington
Nel gennaio del 1865, gli eventi
di Sand Creek arrivarono all’attenzione dello United States Congress Joint Committee on the
Conduct of the War, un comitato investigativo
del congresso degli Stati Uniti di America, che diede questo
giudizio:
“Per
quanto riguarda il colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente
trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando
l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di
giustizia e di umanità; occupando l’importante posizione di comandante di un
distretto militare, che gli ha concesso l’onore di governare tutto ciò che
rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e
vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli
conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in
un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia
sicurezza, ha sfruttato l’assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione
di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia, mai,
attraversato il cuore di un uomo.
In
conclusione, questo comitato è dell’opinione che al fine di vendicare la causa
di giustizia e mantenere l’onore della Nazione, pronte e rigorose misure
debbano essere adottate per rimuovere chiunque avesse così vilipeso il governo
presso cui sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso,
coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi.”
Ma non vi furono conseguenze,
tutti colpevoli, tutti innocenti….
Si sono presi il nostro cuore
sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola
dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio di un temporale
C’è un dollaro d’argento sul
fondo del Sand Creek
I nostri guerrieri troppo lontani
sulla pista del bisonte
E quella musica distante diventò
sempre più forte
Chiusi gli occhi per tre volte
Mi ritrovai ancora lì
Chiesi a mio nonno è solo un
sogno
Mio nonno disse sì
A volte i pesci cantano sul fondo
del Sand Creek
Sognai talmente forte che mi uscì
il sangue dal naso
Il lampo in un orecchio e
nell’altro il paradiso
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l’albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Ora i bambini dormono sul fondo
del Sand Creek
Quando il sole alzò la testa
oltre le spalle della notte
C’eran solo cani e fumo e tende
capovolte
Tirai una freccia in cielo
Per farlo respirare
Tirai una freccia al vento
Per farlo sanguinare
La terza freccia cercala sul
fondo del Sand Creek
Si sono presi i nostri cuori
sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola
dormivamo senza paura
Fu un generale di vent’anni
Occhi turchini e giacca uguale
Fu un generale di vent’anni
Figlio di un temporale
Ora i bambini dormono sul fondo
del Sand Creek
George Armstrong Custer
Quando gli Arapaho scoprirono l’imbroglio
decisero, in grande consiglio, di denunciare il patto di cessione delle terre.
Il governatore del Colorado invitò Antilope Bianca
e Pentola Nera – i due capi Indiani di maggiore prestigio – a una conferenza
per risolvere la questione “amichevolmente e giustamente”. Gli Arapaho
accolsero l’invito e tutti i loro capi si recarono a Denver, che allora si
chiamava ancora Fort Lyon. Si accamparono per l’ultima tappa su un torrente
chiamato Sand Creek a una cinquantina di chilometri.
Antilope Bianca
Era l’occasione che attendeva il reverendo John
Chivington, un pastore protestante, che vedeva nei Pellirosse l’incarnazione
dei demoni e riteneva di avere un’unica missione: “ricacciare gli Indiani all’Inferno”.
Speculatori terrieri e costruttori della ferrovia gli avevano dato danaro e
mezzi perché attuasse la sua “missione”, e aveva arruolato un esercito di desperados e pistoleros.
Nottetempo, Chivington attaccò di sorpresa
l’accampamento degli Arapaho, con un migliaio dei suoi “cacciatori di Indiani”.
Furono massacrati e fucilati uomini, donne e
bambini, tra i quali Antilope Bianca e la moglie di Pentola Nera. Pentola Nera,
invece, riuscì a fuggire, sebbene ferito, e preparò la vendetta.
Il Massacro del Sand Creek avvenne il 29
novembre 1864 e, come inevitabile conseguenza, determinò una rivolta indiana
che, per quattro anni, insanguinò il
Colorado e i territori vicini. Sioux e Cheyenne inviarono aiuti agli Arapaho di
Pentola Nera e contro di loro mosse il famoso Settimo Cavalleria del colonnello
George Armstrong Custer, costituito, appositamente, per combattere gli Indiani,
che, in quell’occasione, fece la sua prima uscita.
La battaglia decisiva avvenne sulle rive dell’Arikaree,
dove gli Indiani si erano accampati. Custer attaccò in forze e i Pellirosse non
ebbero possibilità di scampo. Si arresero soltanto dopo che tutti i capi erano
stati uccisi.
Ma Custer non si accontentò di quel facile
successo. Sulla via del ritorno si imbatté in un altro accampamento indiano.
Erano Corde di Arco, una tribù di Arapaho che non aveva partecipato
all’insurrezione e si era, sempre, mostrata pacifica.
Custer diede ai suoi cavalleggeri l’ordine di “distruggere
il villaggio, impiccare gli uomini e prendere prigionieri le donne e i bambini”
.
L’ordine venne eseguito drasticamente.
Il trionfo del colonnello fu di breve durata.
L’indignazione per il nuovo, ingiustificabile
massacro fece insorgere i Kiowa, i Comanche e le sette Nazioni dei Sioux.
E fu Custer a doversi ritirare. Finché Cavallo
Pazzo e Toro Seduto si presero una terribile rivincita, uccidendo Custer e
tutti i suoi cavalleggeri tra le gole del Little Big Horn.
I Pellirosse conclusero la loro drammatica
epopea con quella indiscutibile, ma inutile vittoria. I Sioux erano, oramai,
l’unico Popolo rimasto a difendere l’indipendenza degli Indiani. Contro di loro
si abbatté la potenza militare degli Stati Uniti.
“Una visione molto grande è necessaria e
l’uomo che la sperimenta, deve seguirla come l’aquila cerca il blu più profondo
del cielo.”
Cavallo Pazzo
“Solo
dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà
inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato, Voi vi accorgerete che il
denaro non può essere mangiato.”
Toro
Seduto
Cinquantesimo anniversario
della Battaglia di Little Big Horn
“La vita non ci tradirà se noi non la tradiremo. Essa è come un giovane ruscello, che dalla sorgente inizia
il suo corso con forza, ma esita e si ferma infangandosi quando la sua corsa è
ostacolata da terreni difficili da attraversare. Anche noi siamo esposti ad
attirare detriti che ci intorbidiscono, ma possiamo ripulirci e continuare il
nostro corso.
Noi siamo
vita e abbiamo la possibilità di nutrire o lasciar deperire. I rimpianti fanno
deperire, ma pace e tranquillità sono nutrimento.
Guarda il
tramonto e le ombre che giocano sulla pianura, osserva le macchie rosate che coprono
come scialli le colline. La vita è là, risvegliala e afferrala. Questo ci ha insegnato
il Tsa la gi.
Il cambiamento
è continuo; ogni cosa per il bene; nulla a caso.”
Falco Volante
Per vendicare Custer, contro i Sioux vennero
mandati quattro interi corpi di armata, con artiglierie e mitragliatrici, le
micidiali Gatling a tamburo. Sotto
quel fuoco infernale, le ultime bande disperse cercarono scampo nell’ospitale
Canada.
Nel 1876 – l’anno terribile di Toro Seduto e
Cavallo Pazzo – gli Amerindi ancora viventi in tutti gli Stati Uniti e il
Canada si erano ridotti a non più di 50mila; eppure già da mezzo secolo era
stato costituito l’Indian Service, un
organismo governativo che aveva il compito dichiarato di “prestare assistenza” ai Pellirosse.
Di quale assistenza si trattasse, lo dice fin
troppo eloquentemente il fatto che il Servizio fosse alle dirette dipendenze
del Ministero della Guerra!
Venne trasferito al Ministero dell’Interno
soltanto nel 1849 e, allora, vennero, anche, precisate le sue responsabilità, tra
le quali figurava al primo posto l’acquisto di terre, cui l’ufficio provvide
così radicalmente che, nel 1943, fu necessario rovesciare le competenze dell’Indian Service, incaricandolo di
acquistare terre per le “riserve” in cui gli Indiani potessero essere ospitati.
Quindi, i vari problemi sanitari – ma, solo nel 1884, venne aperto il primo
ambulatorio nelle riserve indiane – e l’aiuto economico – il primo
provvedimento adottato sotto tale “voce” fu l’ammissione di un Indiano alla
scuola industriale di Hampton, in Virginia, nel 1870 –.
L’Indian Service
venne riorganizzato in modo da potere assolvere concretamente la sua
funzione umanitaria e riparatrice nel 1933, per merito del presidente
Roosevelt, che era un grande estimatore della civiltà indiana.
Ma, oramai, gli Indiani erano nulla più che un
tardivo pentimento da ecologi: esseri da preservare, gelosamente, nei parchi
nazionali, alla stregua degli ultimi bisonti e degli ultimi grizzly.
Daniela Zini
Copyright © 18 gennaio
2019 ADZ
Una delle caratteristiche più rilevanti
concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte
dello Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in
quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon
evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura
dello Stato:
“Se
le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale
e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se
dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo
svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e
potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i
mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico,
il monopolio dei mezzi militari e ideologici,
che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto
dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del
genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti,
non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e
avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo
di azione.
Il
12 aprile 2015, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il
massacro degli armeni, “generalmente
considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco
Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato”
le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito”
di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi,
assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E,
nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e
altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un
fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni
dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è
nell’interesse di tutti.”,
aveva
riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.
Il
17 aprile 2015, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia,
la qualifica di genocidio cambogiano suscita ancora polemiche. Il 17 aprile
1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro
capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders
di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della
popolazione.
Nel
1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone
particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese
del 1994”.
Allo
scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del
contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a
disposizione,”,
scrive
al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
Il suo appello rimane inascoltato.
La
terribile esperienza di assistere impotente a questa tragedia lo porta a due tentativi
di suicidio.
Nel
2003, Dallaire pubblica Shake Hands with
the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa
luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal
12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel
Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano.
La
Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei
diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta
durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico
sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla
crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore
Teodosio un anno di “digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo
Ambrogio.
Nel
1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio
da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e
crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo
accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli
uomini”, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il
20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e
distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto
dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle
persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel
1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere
l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con
la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti
della popolazione maronita.
Vanno,
infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia
coincide con quella del Popolo stesso.
Il
Primo febbraio del 1876 è il giorno in cui gli Stati Uniti d’America dichiararono
guerra ai Sioux, che non volevano abbandonare i territori dove era stato
scoperto l’oro. E fu l’inizio del Massacro di Wounded Knee, il nome con cui è
passato alla Storia l’eccidio di centinaia di uomini, donne e
bambini Miniconjou,
un gruppo di Lakota Sioux, trucidati dalla cavalleria degli Stati Uniti di America, il 29
dicembre 1980, nella valle del torrente Wounded Knee.
Secondo un censimento dello
studioso Russel Thornton, dal 1775 al 1890, almeno 45mila nativi americani
persero la vita.
La Lettera al
presidente degli Stati Uniti di America Martin Van Buren del reverendo Ralph
Waldo Emerson, datata 23 aprile 1838, fu pubblicata sul Daily National
Intelligencer di Washington, il 14 maggio 1838, e ristampata, il 19 maggio 1838, sulla Yeoman’s
Gazette di Concord, e, in
giugno, sul Christian Register, sull’Old Colony Memorial e sul Liberator.
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