GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 –
δεκαετία 390 ή 430]
“Que le XXIe ne soit plus,
comme ce siècle qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere
Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di
commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario
dei genocidi armeno e
assiro-caldeo e
dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7
milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi
– chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una
risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
“Perché?”
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella
primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel
1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di
100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un
genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta
delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le
responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio
delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana
[OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e
Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio
e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla
pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione
incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990,
quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana.
Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità
religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire,
comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di
sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha
del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di
transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana,
al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva
denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari,
dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di
nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994,
rimase inascoltato.
La potenza più presente, dunque, la più influente in
Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti, che avevano
formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi,
di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio,
anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza
somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero
di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla
Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva
e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra
Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli
e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono
assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono
i primi esempi di tali infrazioni.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945,
spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.
“Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per
“genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico.
Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel
suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo,
gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a
“tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando,
un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una
Nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i
membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”,
costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza
di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile
piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali,
della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e
delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la
distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della
dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo
gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni
sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri
di quella nazionalità.”
Vi era, infatti, il bisogno immediato di
concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato,
nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo
libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto
nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la
loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il processo di Norimberga e nei dibattiti
post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla
legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite riconosceva che “in
base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo
civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il
genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali,
religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
Nella presente
Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi
con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso, come tale:
a)
uccisione di membri del gruppo;
b)
lesioni gravi all’integrità fisica o
mentale di membri del gruppo;
c)
il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a
condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o
parziale;
d)
misure miranti a impedire nascite all’interno del
gruppo;
e)
trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad
un altro.
Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella
definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo
il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non
permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”.
Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro
di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno,
crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per
una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno
qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento
psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo
caso particolare, “l’intenzione di
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o
religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da
individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri
alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione
alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo
organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia,
una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi
necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere
compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per
favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il
gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui,
non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri
del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma
il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto
dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza
o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione
della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter
rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte
sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata.
Parimenti, quando vengono identificati i leaders
o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime:
così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una
accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla
sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica
di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle
contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile.
È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una
violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il
diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto
internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi
lo abbia commesso”[Principi di Norimberga].
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il
Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali
responsabili del genocidio del 1994,
in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni.
Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza
Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia,
per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata
in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale
bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4].
Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di
Srebrenica.
Come espresso
dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine
antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità.
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di
intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare
la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati,
molto sovente, sarà troppo tardi e non si
potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la
soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un
genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale
misura complici, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in
essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è
accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor
Occidentale, era reale. Le milizie
massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una
forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò
un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito
serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica,
si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati
e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un
problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a
massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi
– Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX
secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si
diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul
posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la
prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport
[1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe
permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe
funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito
a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati
istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory
Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che
permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare
che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle
proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli
ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel
caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi
giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi
più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli
armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni
osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in
Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato
nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e
il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna,
rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica
soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire
dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura
politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò,
puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio
degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva,
allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per
impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra
questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine
del XVIII secolo, la Russia si era data,
con il Trattato di Küçük Kaynarca del
21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere
le minoranze ortodosse.
“Qui il 21
luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina
la Grande, il conte Pietro Rumjancev e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I,
il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato dice:
La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e
delle sue chiese.”
Nel corso del XIX secolo, questo diritto di
intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente,
utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896,
il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le
Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero
Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il
potere, nel 1908. A
dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò,
rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al
fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione
di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni,
attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i
colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria
denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale
alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo
1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità
Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le
alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata
in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo
politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria
nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone
che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è
confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica
possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione. La
prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che
raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia
critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento
militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una
soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi
elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni
diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi
mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si
dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La
minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da
giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli
vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di
sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente
quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo
di colonizzazione.
Analogamente, in
Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali
schiavi.
Tali pratiche
erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo
che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro
i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti,
allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la
condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani –
armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi,
cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati
vittime di genocidi.
In Africa e in
Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente americano, nell’America
Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli
di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte
alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse
immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere
per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare
lo spazio collettivo. Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di
rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!
I.
IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO
1. L’Olocausto di un antico
e fiero Popolo: gli Amerindi
Cristoforo Colombo [1451-1506]
Uno dei più grandi genocidi della
Storia che continua impunemente…
Negli Stati Uniti, il bianco resta
padrone!
Confessiamocelo,
gli Apache, i Cheyenne, gli Irochesi e i Sioux non ci ispirano un senso di colpa.
Non più del jazz o del blues suscitano tristezza negli intenditori
e non risvegliano in loro il tragico ricordo dei linciaggi dei neri.
Quando un americano
dell’Illinois vuole acquistare le sue sigarette a basso costo – un pacchetto
costa circa 12 dollari [8,76 euro], in America – prende la strada del Sud dello
Stato o della vicina Indiana, per rifornirsi in uno dei territori concessi alle
tribù indiane locali. Là, pagherà il suo pacchetto di sigarette 4 dollari in
media. In alcune tribù, che sono migliaia attraverso gli Stati Uniti, si può,
anche, acquistare alcol a buon mercato, giocare al casinò – in 452 di queste –
o consultare uno sciamano. È molto esotico
offrirsi una escursione in questi strani posti, ma l’americano medio non vi si
arrischia troppo. La visione offerta da molti accampamenti è quella di una bidonville. E, una volta passati i suoi
confini, è un viaggo nell’inferno che inizia.
Gli stessi Indiani,
che vivono fuori delle tribù, non vi tornano che per farsi curare quando non
hanno accesso al sistema sanitario americano.
2,1 milioni di Indiani,
vale a dire la maggioranza, vivono molto sotto la soglia di povertà.
Tale è il prezzo da pagare per gli Indiani d’America per restare sulla Terra
dei loro Antenati !
E, tuttavia, gli Stati che ospitano queste riserve non cessano di lesinare questi
diritti e di tentare di recuperare, con tutti i mezzi, questi spazi.
Una certa
propaganda, che lascia intendere che gli amerindi avrebbero fatto la scelta di
vivere in queste condizioni, ha funzionato molto bene nell’immaginario collettivo.
Ora, ciò riposa su
una contro-verità storica.
Pochi, infatti, ricordano
il grande movimento di delocalizzazione, susseguente all’Indian Removal Act,
che, nella metà del XIX secolo, costrinse gli Indiani a cedere le proprie terre
al governo e a concentrarsi nelle zone riservate loro in cambio.
Nel 1890, fu loro vietato
anche di uscire dalle loro riserve per procurarsi il cibo. A tale proposito, uno
studio del professor Jeffrey E. Holm,
dell’Università di Medicina del Nord Dakota, ha messo in evidenza come il
cambiamento della dieta alimentare, imposto, per decenni, alle tribù indiane abbia
ingenerato una sovramortalità.
Nel 2010, l’America,
sulla scia del Canada, è stata l’ultimo Paese al mondo a ratificare la Dichiarazione
delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni [http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf],
adottata il 13 settembre 2007. Una delle rare concessioni, fatte da un Paese che mette, sovente, la
Storia all’ultimo posto delle sue preoccupazioni, se non per offrirne una
versione edulcorata. Ma, in questo caso,
è impossibile idealizzare la realtà sulla quale si è costruita l’America. Una
realtà, che tocca i 2,7 milioni di amerindi, che vivono, attualmente, sul
territorio degli Stati Uniti e costituisce uno dei casi più emblematici di
violazione dei diritti umani.
Il 90% delle tribù
amerindie sono scomparse in seguito all’arrivo degli europei nell’America del
Nord, la maggioranza a causa delle
malattie, la restante a causa delle armi.
“Il Sole si leva, brilla per lungo
tempo. Tramonta. Scende ed è perso. Così sarà per gli Indiani. Passeranno
ancora un paio di anni e ciò che l’uomo bianco scrive nei suoi libri sarà tutto
ciò che si potrà ancora udire a proposito degli Indiani.”
“Cinque secoli
fa, il 12 ottobre 1492, Cristoforo Colombo scoprì l’America. In realtà quello
che allora si scoprì, nel senso che venne allo scoperto, fu la realtà della
cultura occidentale e della cristianità che l’aveva fondata, l’una e l’altra
incapaci di riconoscere come proprio simile l’uomo non occidentale. Già le
crociate in Oriente avevano messo a nudo questa verità, con la scoperta del “nuovo
mondo” questa verità non fu più contestabile, e non lo è a tutt’oggi se è vero
che quando nel 1985 Giovanni Paolo si recò in Perù, un gruppo di rappresentanti
delle etnie indie, tra i quali Ramiro Reynaga dei Quechua, gli consegnarono
questa lettera:
“Noi indios delle
Ande e dell’America abbiamo deciso di approfittare della visita di Giovanni
Paolo per restituirgli la sua Bibbia, perché in cinque secoli essa non ci ha
dato amore, né pace, né giustizia. Per favore, riprenda la sua Bibbia e la
restituisca agli oppressori, perché loro più di noi hanno bisogno dei precetti
morali in essa contenuti. Infatti, con l’arrivo di Cristoforo Colombo, in
America si sono imposti una cultura, una lingua, una religione e valori che
erano propri dell’Europa.”
Ma tutto ciò in
qualche modo è noto, meno noto, e drammaticamente più inquietante è il fatto
che quando Colombo, all’alba del 12 ottobre 1492, incontrò i primi indigeni
nella piccola isola dei Caraibi da lui battezzata San Salvador: l’uomo incontrò
se stesso e non si riconobbe. In questo fallimento è il senso di quell’evento
grandioso e tragico.”
Umberto
Galimberti, Parole Nomadi
“Si
condanna e si ordina che i ventidue criminali summenzionati e tutti gli
appartenenti alla suddetta missione che verranno catturati siano trascinati
lungo le strade di codesta città, con banditore in testa, onde rendere pubblici
i loro crimini; dopo di che, siano impiccati fino a che ne consegua la morte;
le loro morti e teste saranno tagliate, inchiodate ed esposte nei posti dove il
crimine fu commesso e portato a esecuzione; i loro corpi saranno tagliati,
fatti a pezzi e messi in mostra lungo le strade come giusta punizione e buon
esempio di vendetta pubblica. Perché così ordina il re, nostro signore, con le
sue regali leggi.”
Questa, una delle sentenze, che
seguirono il massacro di Arena, perpetrato a Trinidad, il primo dicembre del 1699,
quale ultimo, disperato atto di rivolta degli Amerindi contro gli spagnoli.
La repressione che ne seguì segnò il
compimento del genocidio, perpetrato dagli spagnoli a danno degli autoctoni
dell’Arcipelago delle Indie Occidentali.
Anche nell’Isola di Trinidad, gli
indigeni erano stati ridotti in schiavitù e distribuiti tra i coloni e le varie
missioni religiose, che controllavano lo sviluppo economico del Paese, il quale
contava poche miniere e la cui popolazione era dedita alla coltivazione del
tabacco e del cacao. Anche qui i lavori forzati, la denutrizione, le malattie
avevano decimato gli indigeni.
Alla missione di San Francisco de los
Arenales, la rivolta scoppiò improvvisa. Il tributo di sangue, come sempre
quando l’odio, a lungo represso, si scatena, fu alto.
I frati cappuccini furono tutti
uccisi.
Distrutti le statue e gli arredi
della chiesa in costruzione; il rettore linciato davanti all’altare.
Gli altri edifici della missione
furono rasi al suolo.
L’indomani, il governatore e il suo
seguito, attesi in visita ufficiale, caddero in una imboscata. Unico superstite,
un soldato della scorta, che, seppure ferito, riuscì a fuggire e a dare l’allarme.
I cadaveri del governatore e degli
altri, trafitti da decine di frecce, furono gettati nel fiume, quelli dei
religiosi seppelliti in tutta fretta.
Consapevoli delle rappresaglie che li
attendevano, i ribelli si diressero a centinaia verso la costa, con l’intenzione
di allontanarsi in canoa. Raggiunti dagli spagnoli e chiusi tra questi e l’oceano,
praticarono il suicidio collettivo, preferendo la morte alla cattura. Le donne
si gettarono con i figlioletti in mare e gli uomini, scoccata l’ultima freccia,
ne seguirono l’esempio. Molti, tuttavia, i prigionieri, che furono portati a
San José, la capitale, e là torturati in attesa di giudizio. I presunti capi,
un centinaio in tutto, furono impiccati o fucilati.
Il terrore, che seguì la rivolta,
scatenò una caccia all’Amerindio in tutta l’isola, con numerosi linciaggi e
misure repressive particolarmente severe. In pratica, vi furono condanne
capitali sui posti di lavoro.
Il massacro di Arena, secondo Mateo
de Anguiano, cronista cappuccino, ebbe un lieto fine. Nell’aprile del 1701, il
nuovo governatore, il clero e i notabili si portarono a San Francisco de los
Arenales per tentare il recupero di eventuali pietosi resti.
“Arrivarono
sul posto e vi trovarono il deserto e la distruzione […]
Con
stupore s’accorsero che il sangue versato era rimasto fresco e rosso,
nonostante il tempo trascorso, come fosse stato appena sparso. Sorpresa
meravigliosa, ma una sorpresa ancora più grande li attendeva presso le
fondamenta della chiesa. Si aspettavano di trovare soltanto ossa e vi
rinvennero, invece, i corpi interi, senza il minimo segno di corruzione e
odore, quasi fossero stati uccisi un momento prima. Fatto più miracoloso
ancora: al momento della rimozione delle salme, sangue fresco scorse copioso
dalle numerose ferite. Stupefatti da tante meraviglie, i presenti tutti
ringraziarono il Signore, deposero i cadaveri nelle bare e ritornarono, con
soddisfazione e gioia, in città.”
Un decreto reale del 1716 stabilì che
tutti gli Amerindi, “nell’interesse
del loro benessere materiale e spirituale”, dovessero essere tolti ai
coloni e alle missioni per passare sotto protezione reale; che i colpevoli di
maltrattamenti dovessero essere severamente puniti; che ogni Amerindio avesse
diritto di rifiutarsi di andare a lavorare nelle piantagioni; che i nuovi
convertiti alla fede dovessero essere esentati dal pagamento di qualsiasi
tributo.
Troppo tardi, ormai!
Le poche decine di Amerindi, datisi
alla macchia, non costituivano più un problema risolvibile con un decreto
reale, inutile, del resto, perché destinato a rimanere inapplicato come le
nuove leggi del 1542, che abolivano la schiavitù per gli indigeni.
Fu l’ammiraglio Cristoforo Colombo,
in qualità di governatore generale e viceré di tutte le terre del Nuovo Mondo,
scoperte e da scoprire, conquistate e da conquistare, cointeressato, per
accordo, al dieci per cento netto degli utili, ricavati da “ogni genere di mercanzia” – pietre preziose, oro, argento,
spezie –, che si trovasse entro i limiti dell’ammiragliato, a dare inizio,
aprendo la lunga serie di azioni dei conquistadores, al genocidio.
Spulciando tra la sua corrispondenza
e le sue attente osservazioni contenute nei diari di viaggio, assieme alle
prime avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto, traspaiono, chiaramente, pur
nella loro contraddittorietà, gli obiettivi della impresa finanziata dai reali
di Castiglia e di Aragona.
“Le
vostre altezze devono credermi che non c’è al mondo gente migliore e più
gentile. Le vostre altezze dovrebbero gioire che presto diverranno cristiani e
saranno insegnati loro i buoni costumi del vostro reame […] razza migliore non
ci potrebbe essere […] sono ben proporzionati, con corpi molto eleganti e di
bellissimo aspetto. Vanno in giro nudi come li hanno fatti le loro madri […]
non portano armi, né niente sanno di armi. Ho mostrato loro delle spade ed essi
le hanno prese per la lama tagliandosi per ignoranza. Non hanno ferro, le loro
frecce sono bacchette con denti di pesce all’estremità […] diecimila di loro
scapperanno di fronte a dieci dei nostri, tanto sono paurosi e timidi […]
sarebbero dei servitori bravi e intelligenti […] vanno bene, per essere
comandati, lavorare e seminare, fare tutto ciò che possa essere necessario,
costruire città […] questi cannibali – gente molto selvaggia e adatta allo
scopo, robusta e di notevole intelligenza – crediamo risulterebbero i migliori
schiavi […] qui c’è solo bisogno di sistemarsi e di ordinare alla gente ciò che
occorre. E io potrei, con la forza sotto di me, che non è un gran che, marciare
su tutte queste isole senza opposizione […] c’è in queste terre, senza dubbio,
una grande quantità di oro […] da qui possiamo mandare, in nome della
Santissima Trinità, schiavi e noci brasiliane, che possono essere venduti.
Possiamo vendere quattromila schiavi per almeno venti milioni e quattromila
quintali di noci brasiliane per, più o meno, lo stesso prezzo […]
Ho
visto tre soli marinai scendere a terra, senza intenzione di far del male, e
una moltitudine di Indiani scappare davanti a loro. Non sono armati e mancano
di istinto battagliero, girano nudi e sono talmente timidi che un migliaio di
loro non potrebbe resistere a tre soli dei nostri […] appena s’avvicinarono
alla scialuppa, l’equipaggio scese e cominciò a comperare, d’accordo con l’ammiraglio,
archi, frecce e altre armi. Però, venduti due archi, gli indigeni non vollero
darne di più e cominciarono a resistere agli spagnoli. Questi li attaccarono,
sfregiando con un coltello le chiappe d’uno, ferendo con una freccia il petto d’un
altro […] i cristiani ne avrebbero uccisi molti se non gli fosse stato
impedito. L’ammiraglio fu, da una parte, compiaciuto, perché così avrebbero
avuto paura dei cristiani e, dall’altra, contrariato, perché gli sarebbe
piaciuto catturarne alcuni […] è consigliabile costruire un forte, cosicché ci
obbediranno con amore e paura.”
Le prime operazioni in grande stile
furono compiute dopo il secondo viaggio. I metodi brutali degli spagnoli
avevano, già, reso gli Amerindi fortemente ostili; trentanove uomini lasciati a
Española, l’anno precedente, perché formassero la prima
colonia, erano stati tutti trucidati.
La scoperta di giacimenti d’oro tra le montagne, che rese necessaria una
sistemazione duratura in territorio indigeno, fu determinante.
“Quando
l’ammiraglio s’accorse che la gente del Paese si stava armando, armi ridicole,
in realtà, e che la loro avversione per i cristiani andava accrescendo, s’affrettò
a marciare verso l’interno, disperdendo e soggiogando con la forza delle armi
il Popolo dell’intera isola. A tale scopo scelse duecento soldati di fanteria fra
i meglio in salute, e venti della cavalleria con molte balestre, moschetti,
lance, spade e un’arma ancora più terribile per gli Indiani, venti feroci
levrieri, che, sguinzagliati e incitati, ridussero in un’ora a pezzi cento Indiani
ciascuno […] Quest’invenzione, escogitata e ceduta dal diavolo, si diffuse in
tutte le Indie […] Con i cavalli, il risultato fu uguale. La gente, che mai li
aveva visti, immaginava l’uomo e il cavallo un unico essere animale e, quando
questo “essere mostruoso” capitava davanti agli indigeni, questi erano colti
dal panico e si gettavano negli abissi. Dieci cavalieri furono sufficienti a
distruggere e sgominare con le loro lance centomila uomini ammassati contro i
cristiani.”
“Tutti
gli Indiani vennero raggruppati dall’ammiraglio in repartimientos ed
encomiendas e assegnati ai coloni sistematisi da queste parti. Dai racconti di
molti che videro ciò che accadde e, quindi, parlano di ciò come testimoni
oculari, l’Ammiraglio, quando scoprì queste isole, fece eseguire sentenze di
morte su un milione e forse più di Indiani, uomini e donne di tutte le età e
bambini. Di tale numero si crede non sopravvivano oggi, in quest’anno 1548,
cinquecento Indiani, adulti e bambini, nati qui e discendenti dal ceppo che
egli trovò all’arrivo.”
Quando Cristoforo Colombo, qualche
anno dopo, caduto in disgrazia, venne messo ai ferri, tra le accuse vere e
false che gli vennero mosse, vi era quella di aver mancato ai suoi doveri,
violando precisi ordini reali:
“[…]
e in caso una persona o più persone maltrattassero i detti Indiani in qualche
modo, il sopracitato ammiraglio, come viceré e governatore generale di loro
altezze, dovrà punirli severamente in virtù del potere accordatogli, del quale
a tale uopo è stato investito.”
Cristoforo Colombo non smentì né
affermò, ma chiese “d’essere
giudicato come un capitano andato dalla Spagna alle Indie a conquistare un Popolo,
bellicoso e numeroso, con costumi e credi completamente differenti dai nostri,
un Popolo vivente da nomade sugli altipiani e montagne che io, per volere di
Dio, ho portato sotto il dominio del re e della regina, nostri sovrani. Un
altro mondo per cui la Spagna, ch’era considerata povera, è ora la più ricca.
Devo essere giudicato come un capitano che, per tanto tempo e fino a oggi, ha
portato armi senza mai, nemmeno per un’ora, abbandonarle”.
Dopo la morte dello scopritore del
Nuovo Mondo il massacro continuò con eguale intensità. Gli Amerindi morirono a
centinaia di migliaia, sottoposti a sfruttamento intensivo nelle miniere e
nelle piantagioni, nei combattimenti impari, di fame, di epidemie. E, quando, a
Cuba, in Jamaica, a Española [Haiti] e a Portorico, isole
principali, iniziarono a scarseggiare, se ne importarono, ove possibile, dalle
altre isole dell’arcipelago e dalla terraferma, nel frattempo scoperta.
Riferisce un rapporto del 1518:
“In
conclusione, questi sono i risultati dei repartimientos dell’epoca del vecchio
ammiraglio a oggi. Quando Española fu
scoperta aveva un milione centotrentamila Indiani; oggi il loro numero non
sorpassa gli undicimila. A giudicare da quanto succede, tra tre o quattro anni,
se non si porrà rimedio, non ne resterà nemmeno uno.”
E un rapporto, datato 1582, conclude:
“Al
momento della divisione di [Portorico] c’erano cinquemila Indiani maschi e
cinquecento donne, senza contare quelli non addomesticati e che restavano da
distribuire. Oggi non rimane più un solo Indiano di quelli che furono portati
dalla terraferma. Gli altri non parlano il loro linguaggio originario, perché
sono tutti nati in quest’isola. Sono buoni cristiani.”
Alla brutalità, al giogo, ai massacri
dei conquistadores, gli Amerindi risposero con fiera resistenza.
“Quando
si videro oppressi e uccisi, esposti alle ingiurie e ingiustizie degli
spagnoli, resistettero e combatterono coraggiosamente, nudi, senza potenti
armi, né cavalli e, sebbene fossero sbudellati dalle spade, calpestati dagli
zoccoli e infilzati dalle lance dei cavalieri, diedero una prova di coraggio
maggiore di quella che avrebbero potuto dare i leoni e i più audaci uomini della
Storia. La loro sfortuna fu che mancarono di fucili e cavalli, perché, se li
avessero avuti per difendersi da nemici così spietati, non ne sarebbero periti
tanti, né coloro che li distrussero potrebbero cantare vittoria.”
Le figure di alcuni caciques,
grandi capi, che esercitavano il potere assoluto su vasti territori, come a Española,
divisa, al momento della scoperta, in cinque regni, meravigliarono i cronisti
dell’epoca per la loro dirittura morale, stoicismo e abilità in guerra. Il loro
assolutismo fu la causa prima della loro tragica fine e della riduzione in
schiavitù di intere popolazioni. La tattica degli spagnoli consistette nel
puntare, semplicemente, alla rapida cattura dei caciques, da cui
conseguiva la resa subitanea di tutti i seguaci e il loro asservimento.
Hatuey, grande capo della provincia
di Guahaba, fuggito a Cuba con un nutrito numero di guerrieri, dopo aver
combattutto, per mesi, e inflitto pesanti perdite e saputo che gli spagnoli
stavano per sbarcare e catturarlo, radunò tutti per annunciare l’imminenza dell’ultima
battaglia.
“Lo sapete
perché ci perseguitano, a che scopo lo fanno? Perché sono crudeli e cattivi?
Non per questo. Ora vi dirò il perché. Hanno un dio che amano moltissimo,
eccolo [così dicendo Hatuey mostrò un piccolo cesto contenente dell’oro]:
questo è il loro dio, che servono e adorano; per averlo ci fanno soffrire, ci
perseguitano, hanno ucciso i nostri genitori, i fratelli, il nostro Popolo e
quelli vicini, ci hanno privato di ciò che possediamo. Per lui ci cercano e ci
maltrattano. Stanno venendo qui, ora, a perseguitarci e a ucciderci. Balliamo e
cantiamo, adesso, tutti insieme, e intratteniamolo questo loro dio e
divertiamolo, in modo che, quando arriveranno, e ordinerà loro di non farci del
male.”
A Haiti, Guarionex, cacique di
Magua, la provincia di Nord-Est, la più estesa dell’isola, riuscì a rifugiarsi
presso Mayobanex, capo leale e buon vicino. Era stato battuto e la sua gente
uccisa e catturata. Pur mantenendo lo stato d’allarme nel territorio, era
riuscito, fino a quel momento, a evitare uno scontro frontale con gli spagnoli,
sulla cui superiorità non nutriva dubbi. Molto diplomaticamente aveva stretto
con loro buoni rapporti. Gli spagnoli avevano fondati motivi per lasciarlo
tranquillo; strategicamente, era conveniente investire un territorio alla volta,
per non trovarsi attorniati da troppi Amerindi in armi [a Magua si combatteva
ancora]: una invasione delle terre di Mayobanex, prive completamente di miniere
di oro, era stata esclusa; poter contare sull’appoggio di alleati indigeni
presentava notevoli vantaggi. Un consistente lancio di frecce fermò in una gola
il reparto di soldati e cavalieri che, instradato da spie, stava lentamente
avanzando verso il villaggio governato da Mayobanex. Fu inviato un parlamentare
a presentare al cacique l’ultimatum: o l’immediata consegna di Guarionex
o la guerra.
“Va’
a dire che Guarionex”,
fu la nobile risposta di Mayobanex,
“non
ha mai fatto del male a nessuno, uomo buono e virtuoso come è! È, dunque, degno
di compassione e va aiutato e difeso, in questa sua ora di bisogno. I
cristiani, invece, sono uomini malvagi, tiranni, che vengono per usurpare la
terra d’altra gente e sanno solo spargere il sangue di coloro che mai gli hanno
fatto del male. Perciò di’ loro che io, né desidero le loro cortesie, né voglio
vederli o ascoltarli e che preferisco, assieme alla mia gente, far tutto il
possibile per assistere Guarionex e distruggerli e cacciarli dal Paese.”
La lotta che seguì non durò a lungo.
Caduto prigioniero, con uno stratagemma, assieme alla moglie e i figli,
Mayobanex finì ai ferri nella fortezza di Conception, dove, due anni dopo,
morì. Guarionex, egualmente catturato, perse la vita, nel 1502, scomparendo tra
i flutti, durante una tempesta, assieme al galeone che lo trasportava in
Spagna.
Dopo le disfatte nelle battaglie
campali, si ebbero tentativi di ricorrere alla guerriglia come forma di lotta.
Per un certo periodo il movimento arrivò a impensierire non poco gli spagnoli.
“Ciguayo
era un uomo coraggioso, benché nudo come gli altri. Entrò in possesso d’una
lancia fatta di ferro di Castiglia e d’una spada, reclutò dieci o dodici Indiani
e con essi, divisi in piccoli gruppi, attaccò gli spagnoli nelle miniere, nelle
tenute e nelle fattorie. Alla fine, i soldati lo trovarono e lo attaccarono.
Combatté da cane rabbioso, come un’armatura l’avesse protetto da capo a piedi.
Sempre difendendosi, Ciguayo si ritirò in una gola. Raggiunto da una lancia che
gli attraversò il torace, continuò a lottare come un Ettore. Alla fine, senza
forze e dissanguato, gli saltarono addosso e lo finirono.”
Un suo luogotenente, certo Tamayo,
ricostituì la banda, riprendendo le operazioni di disturbo e causando “molti danni e tanta paura”. Ma,
in poco tempo, ogni resistenza fu soffocata e i guerriglieri distrutti. A Cuba,
le danze e i canti di Hatuey non servirono a rabbonire gli spagnoli e il loro
dio. Catturato e imprigionato, Hatuey fu condannato, con l’accusa di “tradimento”,
a essere bruciato vivo. Tutto era pronto per l’esecuzione e già Hatuey era
legato al palo, quando un frate francescano tentò di convincerlo a morire da
cristiano, facendosi battezzare, “perché
coloro che muoiono da cristiani vanno in Paradiso, dove eternamente vedranno
Dio e ne godranno”.
Hatuey rifiutò l’invito dicendo di
non avere nessun desiderio di andarci, in Paradiso, proprio perché là avrebbe
trovato i cristiani, vale a dire gli spagnoli.
Un minuto dopo le fiamme del rogo
avvolgevano “il traditore”.
Nel 1493, a Barcellona, Cristoforo
Colombo, rivolgendosi ai reali di Spagna, Ferdinando e Isabella, asserì:
“Dio
ha riservato alla monarchia spagnola non solo tutti i tesori del Nuovo Mondo,
ma uno più grande ancora, di inestimabile valore, il numero infinito d’anime destinato
a essere accolto nel seno di nostra madre Chiesa.”
Le buone intenzioni, se mai vi
furono, furono seppellite dalla sete dell’oro.
Daniela Zini
Copyright © 20 novembre
2015 ADZ
Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti
il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte
dello Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in
quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon
evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura
dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo,
[lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per
disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il
gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone
ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti,
lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica,
possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e
ideologici, che permettono di
pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre
al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre
caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione
dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando;
essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può
pianificare con efficacia questo tipo di azione.
Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha suscitato
grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il
presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando
dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva
delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di
Washington.
“Il presidente
[Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più
volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu
massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e
giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di
Stato americano Marie Harf.
Il 17 aprile scorso, la Cambogia ha commemorato una
data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita
ancora polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei
Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica
causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.
Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del
contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone
particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese
del 1994”.
Allo scoppio
della tragedia,
l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300
militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al
comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile
esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due tentativi di
suicidio.
Nel 2003,
Dallaire pubblica Shake Hands with the
Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che
ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su
molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono
dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di
Milano.
La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più
antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli
spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C.,
avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della
comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che
costò all’imperatore Teodosio un anno di “digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter
von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da
Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e
crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo
accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali
malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre
1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta
dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso
anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum
di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti
dei greci.
Nel 1860-61,
l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia
al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la
complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della
popolazione maronita.
Vanno, infine,
considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide
con quella del Popolo stesso.
L'Indian
Removal Act venne, fortemente, sostenuto dagli Stati Meridionali, dove la
popolazione era ansiosa di entrare in possesso delle vaste estensioni di
terreno incolte, occupate dalle tribù Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek e
Seminole.
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