“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 20 novembre 2015

GENOCIDIO I. L'OLOCAUSTO DI UN ANTICO E FIERO POPOLO: GLI AMERINDI di Daniela Zini


GENOCIDIO

ταν βλέπω σε , προσκυν, καί τούς λόγους,
τ
ς παρθένου τόν οκον στρον βλέπων
ες ορανόν γαρ στί σου τά πράγματα,
πατία σεμνή, τν  λόγων εμορφία,
χραντον στρον τς  σοφς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 – δεκαετία 390 ή 430]


“Que le XXIe ne soit plus, comme ce siècle qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
Yves Ternon[1]


“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario dei genocidi armeno[2] e assiro-caldeo[3] e dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[4] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
“Perché?”
 
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire[5], comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.   
La potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il genocidio appartiene, incontestabilmente, a questa categoria “di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità” e minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo” [Preambolo dello Statuto di Roma,  http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti-ue/Documents/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf]. È il crimine più grave riconosciuto dal diritto internazionale, ma anche uno dei più dificili da provare da un punto di vista legale, perché si deve riuscire a provare questa intenzione specifica.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.

“Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa necessariamente l’immediata distruzione di una Nazione, ad eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”

Vi era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva che “in base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
Due anni dopo, il 9 dicembre 1948, alla vigilia dell’adozione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo [http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm], veniva approvata, dalla maggioranza dei rappresentanti degli Stati, la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19994549/201406110000/0.311.11.pdf], che all’articolo 2 recita:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)             uccisione di membri del gruppo;
b)             lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)               il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)             misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e)              trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso”[Principi di Norimberga].
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità[6].
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e  non si potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale misura complici, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale,  era reale. Le milizie massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò, puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva, allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del  XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.


“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato dice: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”

Nel corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel 1908. A dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò, rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione. La prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i  Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico. Sul continente americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!

Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.

Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.

Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo. Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva! 

I.                IL GENOCIDIO DEL POPOLO INDIANO
1.       L’Olocausto di un antico e fiero Popolo: gli Amerindi


Cristoforo Colombo [1451-1506]

Uno dei più grandi genocidi della Storia che continua impunemente…
Negli Stati Uniti, il bianco resta padrone!

Confessiamocelo, gli Apache, i Cheyenne, gli Irochesi e i Sioux non ci ispirano un senso di colpa. Non più del jazz o del blues suscitano tristezza negli intenditori e non risvegliano in loro il tragico ricordo dei linciaggi dei neri.
Quando un americano dell’Illinois vuole acquistare le sue sigarette a basso costo – un pacchetto costa circa 12 dollari [8,76 euro], in America – prende la strada del Sud dello Stato o della vicina Indiana, per rifornirsi in uno dei territori concessi alle tribù indiane locali. Là, pagherà il suo pacchetto di sigarette 4 dollari in media. In alcune tribù, che sono migliaia attraverso gli Stati Uniti, si può, anche, acquistare alcol a buon mercato, giocare al casinò – in 452 di queste – o consultare uno sciamano. È molto esotico offrirsi una escursione in questi strani posti, ma l’americano medio non vi si arrischia troppo. La visione offerta da molti accampamenti è quella di una bidonville. E, una volta passati i suoi confini, è un viaggo nell’inferno che inizia.
Gli stessi Indiani, che vivono fuori delle tribù, non vi tornano che per farsi curare quando non hanno accesso al sistema sanitario americano.
2,1 milioni di Indiani, vale a dire la maggioranza, vivono molto sotto la soglia di povertà.
Tale è il prezzo da pagare per gli Indiani d’America per restare sulla Terra dei loro Antenati !
E, tuttavia, gli Stati che ospitano queste riserve non cessano di lesinare questi diritti e di tentare di recuperare, con tutti i mezzi, questi spazi.
Una certa propaganda, che lascia intendere che gli amerindi avrebbero fatto la scelta di vivere in queste condizioni, ha funzionato molto bene nell’immaginario collettivo.
Ora, ciò riposa su una contro-verità storica.
Pochi, infatti, ricordano il grande movimento di delocalizzazione, susseguente all’Indian Removal Act[7], che, nella metà del XIX secolo, costrinse gli Indiani a cedere le proprie terre al governo e a concentrarsi nelle zone riservate loro in cambio.
Nel 1890, fu loro vietato anche di uscire dalle loro riserve per procurarsi il cibo. A tale proposito, uno studio del professor Jeffrey E. Holm, dell’Università di Medicina del Nord Dakota, ha messo in evidenza come il cambiamento della dieta alimentare, imposto, per decenni, alle tribù indiane abbia ingenerato una sovramortalità.
Nel 2010, l’America, sulla scia del Canada, è stata l’ultimo Paese al mondo a ratificare la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni [http://www.un.org/esa/socdev/unpfii/documents/DRIPS_it.pdf], adottata il 13 settembre 2007. Una delle rare concessioni,  fatte da un Paese che mette, sovente, la Storia all’ultimo posto delle sue preoccupazioni, se non per offrirne una versione edulcorata. Ma,  in questo caso, è impossibile idealizzare la realtà sulla quale si è costruita l’America. Una realtà, che tocca i 2,7 milioni di amerindi, che vivono, attualmente, sul territorio degli Stati Uniti e costituisce uno dei casi più emblematici di violazione dei diritti umani.
Il 90% delle tribù amerindie sono scomparse in seguito all’arrivo degli europei nell’America del Nord,  la maggioranza a causa delle malattie, la restante a causa delle armi.
 

“Il Sole si leva, brilla per lungo tempo. Tramonta. Scende ed è perso. Così sarà per gli Indiani. Passeranno ancora un paio di anni e ciò che l’uomo bianco scrive nei suoi libri sarà tutto ciò che si potrà ancora udire a proposito degli Indiani.”
Geronimo [1829-1909][8]

“Cinque secoli fa, il 12 ottobre 1492, Cristoforo Colombo scoprì l’America. In realtà quello che allora si scoprì, nel senso che venne allo scoperto, fu la realtà della cultura occidentale e della cristianità che l’aveva fondata, l’una e l’altra incapaci di riconoscere come proprio simile l’uomo non occidentale. Già le crociate in Oriente avevano messo a nudo questa verità, con la scoperta del “nuovo mondo” questa verità non fu più contestabile, e non lo è a tutt’oggi se è vero che quando nel 1985 Giovanni Paolo si recò in Perù, un gruppo di rappresentanti delle etnie indie, tra i quali Ramiro Reynaga dei Quechua, gli consegnarono questa lettera:
“Noi indios delle Ande e dell’America abbiamo deciso di approfittare della visita di Giovanni Paolo per restituirgli la sua Bibbia, perché in cinque secoli essa non ci ha dato amore, né pace, né giustizia. Per favore, riprenda la sua Bibbia e la restituisca agli oppressori, perché loro più di noi hanno bisogno dei precetti morali in essa contenuti. Infatti, con l’arrivo di Cristoforo Colombo, in America si sono imposti una cultura, una lingua, una religione e valori che erano propri dell’Europa.”
Ma tutto ciò in qualche modo è noto, meno noto, e drammaticamente più inquietante è il fatto che quando Colombo, all’alba del 12 ottobre 1492, incontrò i primi indigeni nella piccola isola dei Caraibi da lui battezzata San Salvador: l’uomo incontrò se stesso e non si riconobbe. In questo fallimento è il senso di quell’evento grandioso e tragico.”
Umberto Galimberti, Parole Nomadi


“Si condanna e si ordina che i ventidue criminali summenzionati e tutti gli appartenenti alla suddetta missione che verranno catturati siano trascinati lungo le strade di codesta città, con banditore in testa, onde rendere pubblici i loro crimini; dopo di che, siano impiccati fino a che ne consegua la morte; le loro morti e teste saranno tagliate, inchiodate ed esposte nei posti dove il crimine fu commesso e portato a esecuzione; i loro corpi saranno tagliati, fatti a pezzi e messi in mostra lungo le strade come giusta punizione e buon esempio di vendetta pubblica. Perché così ordina il re, nostro signore, con le sue regali leggi.”

Questa, una delle sentenze, che seguirono il massacro di Arena, perpetrato a Trinidad, il primo dicembre del 1699, quale ultimo, disperato atto di rivolta degli Amerindi contro gli spagnoli.
La repressione che ne seguì segnò il compimento del genocidio, perpetrato dagli spagnoli a danno degli autoctoni dell’Arcipelago delle Indie Occidentali.
Anche nell’Isola di Trinidad, gli indigeni erano stati ridotti in schiavitù e distribuiti tra i coloni e le varie missioni religiose, che controllavano lo sviluppo economico del Paese, il quale contava poche miniere e la cui popolazione era dedita alla coltivazione del tabacco e del cacao. Anche qui i lavori forzati, la denutrizione, le malattie avevano decimato gli indigeni.
Alla missione di San Francisco de los Arenales, la rivolta scoppiò improvvisa. Il tributo di sangue, come sempre quando l’odio, a lungo represso, si scatena, fu alto.
I frati cappuccini furono tutti uccisi.
Distrutti le statue e gli arredi della chiesa in costruzione; il rettore linciato davanti all’altare.
Gli altri edifici della missione furono rasi al suolo.
L’indomani, il governatore e il suo seguito, attesi in visita ufficiale, caddero in una imboscata. Unico superstite, un soldato della scorta, che, seppure ferito, riuscì a fuggire e a dare l’allarme.
I cadaveri del governatore e degli altri, trafitti da decine di frecce, furono gettati nel fiume, quelli dei religiosi seppelliti in tutta fretta.
Consapevoli delle rappresaglie che li attendevano, i ribelli si diressero a centinaia verso la costa, con l’intenzione di allontanarsi in canoa. Raggiunti dagli spagnoli e chiusi tra questi e l’oceano, praticarono il suicidio collettivo, preferendo la morte alla cattura. Le donne si gettarono con i figlioletti in mare e gli uomini, scoccata l’ultima freccia, ne seguirono l’esempio. Molti, tuttavia, i prigionieri, che furono portati a San José, la capitale, e là torturati in attesa di giudizio. I presunti capi, un centinaio in tutto, furono impiccati o fucilati.
Il terrore, che seguì la rivolta, scatenò una caccia all’Amerindio in tutta l’isola, con numerosi linciaggi e misure repressive particolarmente severe. In pratica, vi furono condanne capitali sui posti di lavoro.
Il massacro di Arena, secondo Mateo de Anguiano, cronista cappuccino, ebbe un lieto fine. Nell’aprile del 1701, il nuovo governatore, il clero e i notabili si portarono a San Francisco de los Arenales per tentare il recupero di eventuali pietosi resti.

“Arrivarono sul posto e vi trovarono il deserto e la distruzione […]
Con stupore s’accorsero che il sangue versato era rimasto fresco e rosso, nonostante il tempo trascorso, come fosse stato appena sparso. Sorpresa meravigliosa, ma una sorpresa ancora più grande li attendeva presso le fondamenta della chiesa. Si aspettavano di trovare soltanto ossa e vi rinvennero, invece, i corpi interi, senza il minimo segno di corruzione e odore, quasi fossero stati uccisi un momento prima. Fatto più miracoloso ancora: al momento della rimozione delle salme, sangue fresco scorse copioso dalle numerose ferite. Stupefatti da tante meraviglie, i presenti tutti ringraziarono il Signore, deposero i cadaveri nelle bare e ritornarono, con soddisfazione e gioia, in città.”

Un decreto reale del 1716 stabilì che tutti gli Amerindi, “nell’interesse del loro benessere materiale e spirituale”, dovessero essere tolti ai coloni e alle missioni per passare sotto protezione reale; che i colpevoli di maltrattamenti dovessero essere severamente puniti; che ogni Amerindio avesse diritto di rifiutarsi di andare a lavorare nelle piantagioni; che i nuovi convertiti alla fede dovessero essere esentati dal pagamento di qualsiasi tributo.
Troppo tardi, ormai!
Le poche decine di Amerindi, datisi alla macchia, non costituivano più un problema risolvibile con un decreto reale, inutile, del resto, perché destinato a rimanere inapplicato come le nuove leggi del 1542, che abolivano la schiavitù per gli indigeni.
Fu l’ammiraglio Cristoforo Colombo, in qualità di governatore generale e viceré di tutte le terre del Nuovo Mondo, scoperte e da scoprire, conquistate e da conquistare, cointeressato, per accordo, al dieci per cento netto degli utili, ricavati da “ogni genere di mercanzia” – pietre preziose, oro, argento, spezie –, che si trovasse entro i limiti dell’ammiragliato, a dare inizio, aprendo la lunga serie di azioni dei conquistadores, al genocidio.
Spulciando tra la sua corrispondenza e le sue attente osservazioni contenute nei diari di viaggio, assieme alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe accaduto, traspaiono, chiaramente, pur nella loro contraddittorietà, gli obiettivi della impresa finanziata dai reali di Castiglia e di Aragona.

“Le vostre altezze devono credermi che non c’è al mondo gente migliore e più gentile. Le vostre altezze dovrebbero gioire che presto diverranno cristiani e saranno insegnati loro i buoni costumi del vostro reame […] razza migliore non ci potrebbe essere […] sono ben proporzionati, con corpi molto eleganti e di bellissimo aspetto. Vanno in giro nudi come li hanno fatti le loro madri […] non portano armi, né niente sanno di armi. Ho mostrato loro delle spade ed essi le hanno prese per la lama tagliandosi per ignoranza. Non hanno ferro, le loro frecce sono bacchette con denti di pesce all’estremità […] diecimila di loro scapperanno di fronte a dieci dei nostri, tanto sono paurosi e timidi […] sarebbero dei servitori bravi e intelligenti […] vanno bene, per essere comandati, lavorare e seminare, fare tutto ciò che possa essere necessario, costruire città […] questi cannibali – gente molto selvaggia e adatta allo scopo, robusta e di notevole intelligenza – crediamo risulterebbero i migliori schiavi […] qui c’è solo bisogno di sistemarsi e di ordinare alla gente ciò che occorre. E io potrei, con la forza sotto di me, che non è un gran che, marciare su tutte queste isole senza opposizione […] c’è in queste terre, senza dubbio, una grande quantità di oro […] da qui possiamo mandare, in nome della Santissima Trinità, schiavi e noci brasiliane, che possono essere venduti. Possiamo vendere quattromila schiavi per almeno venti milioni e quattromila quintali di noci brasiliane per, più o meno, lo stesso prezzo […]
Ho visto tre soli marinai scendere a terra, senza intenzione di far del male, e una moltitudine di Indiani scappare davanti a loro. Non sono armati e mancano di istinto battagliero, girano nudi e sono talmente timidi che un migliaio di loro non potrebbe resistere a tre soli dei nostri […] appena s’avvicinarono alla scialuppa, l’equipaggio scese e cominciò a comperare, d’accordo con l’ammiraglio, archi, frecce e altre armi. Però, venduti due archi, gli indigeni non vollero darne di più e cominciarono a resistere agli spagnoli. Questi li attaccarono, sfregiando con un coltello le chiappe d’uno, ferendo con una freccia il petto d’un altro […] i cristiani ne avrebbero uccisi molti se non gli fosse stato impedito. L’ammiraglio fu, da una parte, compiaciuto, perché così avrebbero avuto paura dei cristiani e, dall’altra, contrariato, perché gli sarebbe piaciuto catturarne alcuni […] è consigliabile costruire un forte, cosicché ci obbediranno con amore e paura.”

Le prime operazioni in grande stile furono compiute dopo il secondo viaggio. I metodi brutali degli spagnoli avevano, già, reso gli Amerindi fortemente ostili; trentanove uomini lasciati a Española, l’anno precedente, perché formassero la prima colonia, erano stati tutti trucidati.
La scoperta di giacimenti d’oro tra le montagne, che rese necessaria una sistemazione duratura in territorio indigeno, fu determinante.

“Quando l’ammiraglio s’accorse che la gente del Paese si stava armando, armi ridicole, in realtà, e che la loro avversione per i cristiani andava accrescendo, s’affrettò a marciare verso l’interno, disperdendo e soggiogando con la forza delle armi il Popolo dell’intera isola. A tale scopo scelse duecento soldati di fanteria fra i meglio in salute, e venti della cavalleria con molte balestre, moschetti, lance, spade e un’arma ancora più terribile per gli Indiani, venti feroci levrieri, che, sguinzagliati e incitati, ridussero in un’ora a pezzi cento Indiani ciascuno […] Quest’invenzione, escogitata e ceduta dal diavolo, si diffuse in tutte le Indie […] Con i cavalli, il risultato fu uguale. La gente, che mai li aveva visti, immaginava l’uomo e il cavallo un unico essere animale e, quando questo “essere mostruoso” capitava davanti agli indigeni, questi erano colti dal panico e si gettavano negli abissi. Dieci cavalieri furono sufficienti a distruggere e sgominare con le loro lance centomila uomini ammassati contro i cristiani.”

Dopo la descrizione di Bartolomé de Las Casas, unico difensore degli Amerindi, che si batté per oltre cinquanta anni, perché venissero loro garantiti la libertà e il diritto alla vita, leggiamo, nella Historia General de las Indias, Islas y Tierra-Firme del Mar Oceano [https://ia601408.us.archive.org/6/items/historiageneraly01fern/historiageneraly01fern.pdf]:

“Tutti gli Indiani vennero raggruppati dall’ammiraglio in repartimientos ed encomiendas e assegnati ai coloni sistematisi da queste parti. Dai racconti di molti che videro ciò che accadde e, quindi, parlano di ciò come testimoni oculari, l’Ammiraglio, quando scoprì queste isole, fece eseguire sentenze di morte su un milione e forse più di Indiani, uomini e donne di tutte le età e bambini. Di tale numero si crede non sopravvivano oggi, in quest’anno 1548, cinquecento Indiani, adulti e bambini, nati qui e discendenti dal ceppo che egli trovò all’arrivo.”

Quando Cristoforo Colombo, qualche anno dopo, caduto in disgrazia, venne messo ai ferri, tra le accuse vere e false che gli vennero mosse, vi era quella di aver mancato ai suoi doveri, violando precisi ordini reali:

“[…] e in caso una persona o più persone maltrattassero i detti Indiani in qualche modo, il sopracitato ammiraglio, come viceré e governatore generale di loro altezze, dovrà punirli severamente in virtù del potere accordatogli, del quale a tale uopo è stato investito.”

Cristoforo Colombo non smentì né affermò, ma chiese “d’essere giudicato come un capitano andato dalla Spagna alle Indie a conquistare un Popolo, bellicoso e numeroso, con costumi e credi completamente differenti dai nostri, un Popolo vivente da nomade sugli altipiani e montagne che io, per volere di Dio, ho portato sotto il dominio del re e della regina, nostri sovrani. Un altro mondo per cui la Spagna, ch’era considerata povera, è ora la più ricca. Devo essere giudicato come un capitano che, per tanto tempo e fino a oggi, ha portato armi senza mai, nemmeno per un’ora, abbandonarle”.

Dopo la morte dello scopritore del Nuovo Mondo il massacro continuò con eguale intensità. Gli Amerindi morirono a centinaia di migliaia, sottoposti a sfruttamento intensivo nelle miniere e nelle piantagioni, nei combattimenti impari, di fame, di epidemie. E, quando, a Cuba, in Jamaica, a Española [Haiti] e a Portorico, isole principali, iniziarono a scarseggiare, se ne importarono, ove possibile, dalle altre isole dell’arcipelago e dalla terraferma, nel frattempo scoperta.
Riferisce un rapporto del 1518:

“In conclusione, questi sono i risultati dei repartimientos dell’epoca del vecchio ammiraglio a oggi. Quando Española fu scoperta aveva un milione centotrentamila Indiani; oggi il loro numero non sorpassa gli undicimila. A giudicare da quanto succede, tra tre o quattro anni, se non si porrà rimedio, non ne resterà nemmeno uno.”

E un rapporto, datato 1582, conclude:

“Al momento della divisione di [Portorico] c’erano cinquemila Indiani maschi e cinquecento donne, senza contare quelli non addomesticati e che restavano da distribuire. Oggi non rimane più un solo Indiano di quelli che furono portati dalla terraferma. Gli altri non parlano il loro linguaggio originario, perché sono tutti nati in quest’isola. Sono buoni cristiani.”

Alla brutalità, al giogo, ai massacri dei conquistadores, gli Amerindi risposero con fiera resistenza.

“Quando si videro oppressi e uccisi, esposti alle ingiurie e ingiustizie degli spagnoli, resistettero e combatterono coraggiosamente, nudi, senza potenti armi, né cavalli e, sebbene fossero sbudellati dalle spade, calpestati dagli zoccoli e infilzati dalle lance dei cavalieri, diedero una prova di coraggio maggiore di quella che avrebbero potuto dare i leoni e i più audaci uomini della Storia. La loro sfortuna fu che mancarono di fucili e cavalli, perché, se li avessero avuti per difendersi da nemici così spietati, non ne sarebbero periti tanti, né coloro che li distrussero potrebbero cantare vittoria.”

Le figure di alcuni caciques, grandi capi, che esercitavano il potere assoluto su vasti territori, come a Española, divisa, al momento della scoperta, in cinque regni, meravigliarono i cronisti dell’epoca per la loro dirittura morale, stoicismo e abilità in guerra. Il loro assolutismo fu la causa prima della loro tragica fine e della riduzione in schiavitù di intere popolazioni. La tattica degli spagnoli consistette nel puntare, semplicemente, alla rapida cattura dei caciques, da cui conseguiva la resa subitanea di tutti i seguaci e il loro asservimento.
Hatuey, grande capo della provincia di Guahaba, fuggito a Cuba con un nutrito numero di guerrieri, dopo aver combattutto, per mesi, e inflitto pesanti perdite e saputo che gli spagnoli stavano per sbarcare e catturarlo, radunò tutti per annunciare l’imminenza dell’ultima battaglia.

“Lo sapete perché ci perseguitano, a che scopo lo fanno? Perché sono crudeli e cattivi? Non per questo. Ora vi dirò il perché. Hanno un dio che amano moltissimo, eccolo [così dicendo Hatuey mostrò un piccolo cesto contenente dell’oro]: questo è il loro dio, che servono e adorano; per averlo ci fanno soffrire, ci perseguitano, hanno ucciso i nostri genitori, i fratelli, il nostro Popolo e quelli vicini, ci hanno privato di ciò che possediamo. Per lui ci cercano e ci maltrattano. Stanno venendo qui, ora, a perseguitarci e a ucciderci. Balliamo e cantiamo, adesso, tutti insieme, e intratteniamolo questo loro dio e divertiamolo, in modo che, quando arriveranno, e ordinerà loro di non farci del male.”

A Haiti, Guarionex, cacique di Magua, la provincia di Nord-Est, la più estesa dell’isola, riuscì a rifugiarsi presso Mayobanex, capo leale e buon vicino. Era stato battuto e la sua gente uccisa e catturata. Pur mantenendo lo stato d’allarme nel territorio, era riuscito, fino a quel momento, a evitare uno scontro frontale con gli spagnoli, sulla cui superiorità non nutriva dubbi. Molto diplomaticamente aveva stretto con loro buoni rapporti. Gli spagnoli avevano fondati motivi per lasciarlo tranquillo; strategicamente, era conveniente investire un territorio alla volta, per non trovarsi attorniati da troppi Amerindi in armi [a Magua si combatteva ancora]: una invasione delle terre di Mayobanex, prive completamente di miniere di oro, era stata esclusa; poter contare sull’appoggio di alleati indigeni presentava notevoli vantaggi. Un consistente lancio di frecce fermò in una gola il reparto di soldati e cavalieri che, instradato da spie, stava lentamente avanzando verso il villaggio governato da Mayobanex. Fu inviato un parlamentare a presentare al cacique l’ultimatum: o l’immediata consegna di Guarionex o la guerra.

“Va’ a dire che Guarionex”,

fu la nobile risposta di Mayobanex,

“non ha mai fatto del male a nessuno, uomo buono e virtuoso come è! È, dunque, degno di compassione e va aiutato e difeso, in questa sua ora di bisogno. I cristiani, invece, sono uomini malvagi, tiranni, che vengono per usurpare la terra d’altra gente e sanno solo spargere il sangue di coloro che mai gli hanno fatto del male. Perciò di’ loro che io, né desidero le loro cortesie, né voglio vederli o ascoltarli e che preferisco, assieme alla mia gente, far tutto il possibile per assistere Guarionex e distruggerli e cacciarli dal Paese.”

La lotta che seguì non durò a lungo. Caduto prigioniero, con uno stratagemma, assieme alla moglie e i figli, Mayobanex finì ai ferri nella fortezza di Conception, dove, due anni dopo, morì. Guarionex, egualmente catturato, perse la vita, nel 1502, scomparendo tra i flutti, durante una tempesta, assieme al galeone che lo trasportava in Spagna.
Dopo le disfatte nelle battaglie campali, si ebbero tentativi di ricorrere alla guerriglia come forma di lotta. Per un certo periodo il movimento arrivò a impensierire non poco gli spagnoli.

“Ciguayo era un uomo coraggioso, benché nudo come gli altri. Entrò in possesso d’una lancia fatta di ferro di Castiglia e d’una spada, reclutò dieci o dodici Indiani e con essi, divisi in piccoli gruppi, attaccò gli spagnoli nelle miniere, nelle tenute e nelle fattorie. Alla fine, i soldati lo trovarono e lo attaccarono. Combatté da cane rabbioso, come un’armatura l’avesse protetto da capo a piedi. Sempre difendendosi, Ciguayo si ritirò in una gola. Raggiunto da una lancia che gli attraversò il torace, continuò a lottare come un Ettore. Alla fine, senza forze e dissanguato, gli saltarono addosso e lo finirono.”

Un suo luogotenente, certo Tamayo, ricostituì la banda, riprendendo le operazioni di disturbo e causando “molti danni e tanta paura”. Ma, in poco tempo, ogni resistenza fu soffocata e i guerriglieri distrutti. A Cuba, le danze e i canti di Hatuey non servirono a rabbonire gli spagnoli e il loro dio. Catturato e imprigionato, Hatuey fu condannato, con l’accusa di “tradimento”, a essere bruciato vivo. Tutto era pronto per l’esecuzione e già Hatuey era legato al palo, quando un frate francescano tentò di convincerlo a morire da cristiano, facendosi battezzare, “perché coloro che muoiono da cristiani vanno in Paradiso, dove eternamente vedranno Dio e ne godranno”.
Hatuey rifiutò l’invito dicendo di non avere nessun desiderio di andarci, in Paradiso, proprio perché là avrebbe trovato i cristiani, vale a dire gli spagnoli.
Un minuto dopo le fiamme del rogo avvolgevano “il traditore”.
Nel 1493, a Barcellona, Cristoforo Colombo, rivolgendosi ai reali di Spagna, Ferdinando e Isabella, asserì:

“Dio ha riservato alla monarchia spagnola non solo tutti i tesori del Nuovo Mondo, ma uno più grande ancora, di inestimabile valore, il numero infinito d’anime destinato a essere accolto nel seno di nostra madre Chiesa.”

Le buone intenzioni, se mai vi furono, furono seppellite dalla sete dell’oro.


Daniela Zini
Copyright © 20 novembre 2015 ADZ



[1] Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte dello Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e ideologici,  che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo di azione.

[2] Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

[3] Noi commemoriano questo anno, i 100 anni del genocidio armeno, ma il genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].


[4] Il 17 aprile scorso, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita ancora polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.

[5] Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese del 1994”.
Allo scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
 Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due tentativi di suicidio.
Nel 2003, Dallaire pubblica Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano.

[6] La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di  digiuno dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini in violazione alle leggi di Dio e degli uomini, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno, infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide con quella del Popolo stesso.

[7] L'Indian Removal Act venne, fortemente, sostenuto dagli Stati Meridionali, dove la popolazione era ansiosa di entrare in possesso delle vaste estensioni di terreno incolte, occupate dalle tribù Cherokee, Chickasaw, Choctaw, Creek e Seminole.



Nessun commento:

Posta un commento