“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 29 aprile 2015

PRIMO MAGGIO: LOTTAVANO CON FUOCO PER OTTO ORE DI LAVORO di Daniela Zini





Nata anche in ricordo degli operai americani che si batterono per condizioni più umane nelle fabbriche, la ricorrenza del Primo Maggio è divenuta una festa tradizionale in tutto il mondo. 

Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
vi ha fatto chinare il mento
se il fuoco ha risparmiato
le vostre Millecento
anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti.

Anche se avete chiuso
le vostre porte sul nostro muso
la notte che le pantere
ci mordevano il sedere
lasciamoci in buona fede
massacrare sui marciapiede
anche se ora ve ne fregate,
voi quella notte voi c'eravate.

E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
senza le barricate
senza feriti, senza granate,
se avete preso per buone
le verità della televisione
anche se allora vi siete assolti
siete lo stesso coinvolti.

E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Fabrizio De André, Canzone del maggio

Poiché gli uomini sono, originariamente eguali nell’ordine della Creazione, l’eguaglianza può essere stata distrutta unicamente da qualche circostanza successiva: le distinzioni tra poveri e ricchi si possono spiegare, per la maggior parte, senza dover ricorrere al suono aspro e sgradevole delle parole oppressione e avidità. L’oppressione è, spesso, la conseguenza, ma, raramente o mai, è il mezzo della ricchezza; e sebbene l’avidità impedisca all’uomo di essere assolutamente povero, per lo più lo rende timoroso per essere ricco.
Ma esiste un’altra grande distinzione, che non è giustificata da alcuna ragione veramente naturale o religiosa, ed è la distinzione degli uomini in “re” e “sudditi”.
Maschio e femmina sono distinzioni della Natura; buono e cattivo distinzioni del Cielo; ma varrebbe la pena di indagare come abbia potuto venire al mondo una razza di uomini a tal punto superiori a tutti gli altri e stabilire se siano portatori di felicità o di sciagure per l’Umanità.
Un Uomo che vuole lavorare e non trova lavoro è, forse, lo spettacolo più triste che la ineguaglianza della Fortuna possa offrire sulla Terra.
La vera Libertà individuale non può esistere senza sicurezza economica e indipendenza.
Il Popolo affamato e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le dittature.
A tutti i disoccupati, gli operai cassintegrati, ai precari, ai pensionati con la minima, ai piccoli imprenditori…
DISPERATI MAI!
Buon Primo Maggio a tutti gli Italiani.

Daniela Zini


 
“Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso il sacrificio.” [http://www.wsj.com/articles/SB10001424052702304458604577490980297922276, https://www.youtube.com/watch?v=eG9e8PZErlM]
Chi non ricorda questa frase – pronunciata dal ministro del lavoro, Elsa Fornero, durante una intervista ai giornalisti del Wall Street Journal, Christopher Emsden e Alessandra Galloni, il 26 giugno 2012 – che il dicastero del welfare fu costretto a rettificare, con una nota[1], per arginare le polemiche che rischiavano di travolgere lo stesso ministro, proprio nel giorno dell’approvazione della riforma che porta il suo nome?
Nelle discussioni, in Assemblea Costituente, che portarono alla redazione dell’espressione:
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.” [articolo 1, comma 1, Costituzione],
fu affrontata, principalmente, la questione se adottare la formula:
“L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori.” ,
proposta da Palmiro Togliatti, o la formula :
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”, proposta da Amintore Fanfani. In sostanza, la questione verteva sulla scelta tra le possibili formulazioni di un concetto di lavoro, pacificamente, considerato in senso amplissimo, per la divergenza di opinioni tra i Padri Costituenti sul grado di chiarezza e di efficacia delle stesse.
Ma quali erano le motivazioni delle diverse posizioni assunte da Palmiro Togliatti e da Amintore Fanfani?
Togliatti, nell’illustrare la sua proposta, addusse ragioni di “coerenza con gli articoli approvati in tema di lavoro” e si rese disponibile ad ampliare la formula, da lui proposta, in “lavoratori del braccio e della mente”. Diversamente, Amintore Fanfani, nell’illustrare la sua proposta, escluse che il concetto di lavoro potesse limitarsi, non solo alla sfera materiale, ma anche alla idea di fatica, identificandolo, invece, con il diritto-dovere di ogni Uomo “di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali”, e “di contribuire al bene della comunità nazionale”, e affermò che la dizione “di lavoratori” potesse apparire classista. Con la formula “la Repubblica è fondata sul lavoro”, sosteneva Amintore Fanfani, “si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere il massimo contributo alla prosperità comune. L’espressione “fondata sul lavoro” segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione”. E, poi, aggiungeva che la dizione proposta da Palmiro Togliatti, “per precedenti storici, per formulazioni teoriche”, avrebbe potuto apparire classista.
Secondo la giurisprudenza, il principio lavoristico è un principio supremo, dove i  principi supremi sono i principi “che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”.
Secondo la dottrina, l’espressione “fondata sul lavoro” significa, letteralmente, “fondata sull’impegno” e, sistematicamente, “fondata, da una parte, sul pieno sviluppo della persona umana e sull’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese e, dall’altra, sul progresso materiale o spirituale della società”; sicché, il concetto di lavoro sintetizza i principi di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale e si incentra sul  principio supremo della libertà-dignità.
LOTTAVANO CON FUOCO
PER OTTO ORE DI LAVORO


Scontro a fuoco tra polizia e partecipanti al comizio tenuto, a Chicago, il 4 maggio 1886, da August Vincent Theodore Spies.


di
Daniela Zini

 
Al Congresso Generale degli Operai, tenutosi a Baltimora, negli Stati Uniti d’America, il 16 agosto 1866, venne fatta la seguente dichiarazione:
“La prima e maggiore necessità del nostro tempo, per poter liberare la manodopera di questo Paese dalla schiavitù del capitale, è quella di promulgare una legge che stabilisca doversi comporre di otto ore la giornata di lavoro in tutti gli Stati Uniti d’America. E noi siamo risoluti a adoperare ogni nostra forza a che sia presto raggiunto questo glorioso risultato.”
Pochi giorni dopo e, precisamente ai primi di settembre, al Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori di Ginevra, su proposta del Consiglio Generale di Londra, veniva adottata questa deliberazione:
“Noi dichiariamo che la limitazione della giornata di lavoro è condizione preliminare, senza la quale tutti gli sforzi per ottenere l’emancipazione dell’operaio non possono che fallire. Noi proponiamo, quindi, otto ore come limite legale della giornata di lavoro.”
In tal modo, il Congresso Generale degli Operai e quello dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori enunciavano un pensiero sì rivoluzionario, ma, già, in via di studio presso alcuni economisti totalmente al di fuori delle organizzazioni operaie. Secondo costoro sarebbe stato impossibile addivenire a una qualsiasi riforma della società, con speranza di buona riuscita, se prima non si fosse resa più breve la giornata di lavoro e se l’abbreviazione da stabilirsi non si fosse resa obbligatoria.
In effetti, la esigenza di regolamentare l’orario lavorativo e di contenerlo in un numero ragionevole di ore era, certamente, la conseguenza diretta di disumani turni di lavoro, che potevano protrarsi, in base alle richieste padronali, senza una normativa precisa; ma certamente era, anche, un sintomo dei tempi che stavano cambiando, la percezione anche da parte del padronato più illuminato e preveggente della necessità di dare spazio ai consumi.
E quali potevano essere i consumatori se non le masse lavoratrici, cui occorreva concedere tempo libero per i propri bisogni?
Uno dei precursori fu Ira Steward [1831-1883], un meccanico di Boston, neppure un economista, il quale espresse, in più occasioni, la propria convinzione, secondo cui aumentando il tempo libero degli operai, sarebbero aumentate anche le esigenze e, quindi, i consumi. Pertanto, la produzione e lo stesso livello dei salari.
Naturalmente, pochi erano coloro che da parte del “capitale”, a quel tempo, precorrevano i tempi, mentre sempre più massiccia si faceva la pressione dei lavoratori per la conquista di uno spazio e di un vivere più dignitoso e civile.
L’agitazione per le otto ore iniziò, a seguito delle dichiarazioni del 1866 e si estese, inaspettatamente, in tutta l’America con manifestazioni incessanti.
La giornata lavorativa di otto ore divenne una vera e propria bandiera per tutte le associazioni operaie.
Nel 1885, si radunò, a Hamilton, il Congresso dei Cavalieri del Lavoro – termine con il quale, a differenza di oggi, si definivano gli appartenenti  a una società operaia e non i “capitani d’industria” – e si stabilì di continuare a incentivare le agitazioni. I capitalisti, si disse, limitando a otto ore il lavoro nelle loro officine, avrebbero dovuto assumere altri operai e il numero dei disoccupati sarebbe, in tal modo, diminuito.
Dopo alcuni mesi, i rappresentanti delle società cooperative, costituite da ben oltre 220mila operai, proclamarono dinanzi “a tutta l’umanità e alla civiltà” la giornata di lavoro di otto ore. La stessa proclamazione fu fatta da tante altre associazioni di lavoratori, che ebbero il sostegno di una buona parte della stampa, e qualche industriale iniziò a aderire alla richiesta.
La Manifattura dei Tabacchi dell’Illinois, senza alcuna riduzione di salario, ridusse a otto le ore di lavoro, tanto che, forse, per evidenziare il proprio gesto benemerito, si chiamò da quel momento Compagnia dei Tabacchi delle otto ore.
I più, ovviamente, non intendevano affatto aderire a quelle richieste e continuavano, al contrario della Manifattura dei Tabacchi, a ignorare le proteste e le pressioni.
Fu, così, che, in un clima di notevole tensione, le società operaie americane, agli inizi del 1886, stabilirono di porsi in sciopero il Primo Maggio di quello stesso anno, sciopero che sarebbe dovuto durare otto giorni.
A questa decisione seguirono tumulti e repressioni da parte delle forze governative e si giunse, così, all’alba del Primo Maggio.
Lo sciopero, proclamato a oltranza dalla Federation Trade and Labor Unions, per rivendicare la giornata lavorativa corta, partì, in piena regola, in tutto il territorio degli Stati Uniti.
A Chicago, ben 300mila operai sospesero il lavoro.
Solo in alcune aziende l’attività non venne interrotta, come alla segheria McCormick Harvester. Per i primi tre giorni non si verificarono incidenti di rilievo; poi, il 3 maggio, il primo grave lutto. Mentre una pioggia fitta e gelida cadeva sulla città, dove migliaia di persone venivano radunate per partecipare ai vari comizi soprattutto dai sindacalisti anarchici, le forze dell’ordine erano in stato di allarme. All’improvviso, dinanzi alla segheria McCormick Harvester, un gruppo di scioperanti si scontrò, violentemente, con i “crumiri”.
6 operai rimasero morti sul selciato.
Il giorno successivo, il sindaco della città, Carter Henry Harrison Senior [1825-1893] [http://www.chicagohistory.org/hadc/transcript/volumel/000-050/L026-052.htm], controllò, personalmente, il servizio d’ordine durante il grande comizio di protesta, organizzato da alcuni sindacalisti anarchici.
Uno degli oratori, August Vincent Theodore Spies [1855-1887], direttore anche di un giornale “estremista”, l’Arbeiter Zeitung, aveva fatto diffondere un volantino, che incitava gli operai a vendicare i compagni caduti, la “circolare della vendetta”.
Il comizio si svolse, tuttavia, senza incidenti, cosicché, perfino, la polizia iniziò a ritirarsi. Mentre la piazza si svuotava e gli operai si avviavano alle loro case, sopraggiunse un reparto di 180 agenti di polizia, comandato dal capitano William Ward [http://www.chicagohistory.org/hadc/transcript/volumei/401-450/I427-444.htm], che, perentoriamente, ordinava all’ultimo oratore, che stava terminando il discorso, di interrompersi.
Samuel Fielden [1847-1922], tentò di opporsi all’imposizione immotivata; ma, mentre parlava lo scoppio di una bomba, tra i ranghi degli agenti, gli coprì la voce.
Un poliziotto cadde ucciso, Mathias J. Degan.
Seguì, immediatamente, una violenta reazione delle forze dell’ordine, che aprì il fuoco sulla folla. Scontri e sparatorie si conclusero con il tragico bilancio di 11 morti, tra cui 7 agenti colpiti da fuoco amico, e dozzine di feriti.
Non si riuscì, mai, a chiarire come, al termine di una manifestazione, svoltasi pacificamente e senza problemi, fosse sopraggiunto da parte delle forze di polizia l’ordine di sciogliere il comizio, né a chi attribuire la responsabilità dell’attentato e dello scontro sanguinoso. Il fatto richiedeva, tuttavia, che si trovassero e si punissero, esemplarmente, i responsabili, poiché la città da quel momento divenne preda del panico e di un isterico terrore.
Tutti i sospetti vennero arrestati e vennero rinviati a giudizio otto anarchici: i tre oratori del comizio, August Vincent Theodore Spies, Samuel Fielden e Albert Richard Parsons [1848-1887]; Adolph Fischer [1858-1887], Michael Schwab [1853-1898], George Libman Engel [1913-1999], Louis Lingg [1864-1887] e Oscar William Neebe [185-1916].
Sebbene nessuna prova precisa potesse essere presentata a carico degli imputati, il processo, svoltosi dal 19 giugno al 20 agosto 1887 e presieduto dal giudice Joseph Gary, si concluse con la condanna di 7 imputati all’impiccagione e di 1, Oscar William Neebe, a 15 anni di lavori forzati.
Era evidente la volontà di arrivare, in qualsiasi modo, a un verdetto di colpevolezza per colpire il movimento operaio, gli anarchici.
La mobilitazione in loro favore fu ampia.
Scesero in campo sindacati, partiti e organizzazioni di sinistra, giornalisti, scrittori – tra i quali il decano dei realisti americani, William Dean Howells [1837-1922], che, in seguito, ispirandosi ai fatti di Haymarket, scrisse A hazard of new fortunes – e manifestazioni si tennero in Francia, in Olanda, in Russia, in Italia e in Spagna. In Germania, Otto von Bismarck [1815-1898] vietò ogni riunione pubblica, nel timore di sollevazioni operaie.


 



 


Cimitero di Waldheim, Chicago nel maggio 1986 durante le cerimonie commemorative del centesimo anniversario della Rivolta di Haymarket.

Ma a ben poco valse tutto ciò: solo Fielden e Schwab ebbero la pena commutata nell’ergastolo.
L’11 novembre Spies, Parsons, Engel e Fischer salivano sul patibolo, mentre Lingg veniva trovato morto in cella.
Le ultime parole di Spies:
“Verrà il giorno in cui il nostro silenzio diverrà più potente delle voci che oggi strangolate.”,
furono incise alla base del monumento, innalzato, nel giugno del 1893, nel German Waldheim Cemetery di Forest Park, un sobborgo di Chicago, in ricordo di coloro che sono passati alla Storia del movimento operaio americano e internazionale come i Martiri di Chicago. La statua, opera dello scultore Albert Weinert, rappresenta la Giustizia con la spada nell’atto di mettere una corona di alloro sul capo di un lavoratore caduto.
Le donne ebbero un ruolo importante nella mobilitazione, a Chicago. Durante il processo, la loro presenza aumentò nei sindacati e nell’Internazionale.
La più nota, Lucía Eldine González [1853-1942] moglie di Albert Richard Parsons, conosciuta come Lucy Parsons, riuscì a far conoscere al mondo i fatti del processo, costituì comitati, pubblicò il testo dei loro discorsi, creò un archivio. Pose la domanda:
“Vale la pena di salvare la nostra civiltà?” 
 

Lucy Parsons

Uno degli avvocati incaricati della difesa, così, descrive i Parsons:
“Sedevano per ore l’uno di fronte all’altra divisi dalla grata di ferro della prigione in amorevole conversazione, calmi e controllati, mentre passavano i mesi tra il verdetto e l’esecuzione. La scena mi causava una emozione infinita.”
 

Quaranta anni dopo, finivano sulla sedia elettrica gli anarchici italiani Ferdinando Nicola Sacco [1891-1927] e Bartolomeo Vanzetti [1888-1927][2]. In un articolo, pubblicato sul New York Herald Tribune, William Dean Howells [1837-1920], uno dei più noti esponenti della cultura americana, scrisse con indignazione e dolore:
“La libera Repubblica ha ucciso cinque uomini per le loro convinzioni.”
Howells non poté non sottolineare che questa uccisione aveva recato “un danno grandissimo al prestigio della Nazione”.
Il 26 giugno 1893, il governatore dell’Illinois, John Peter Altgeld [1847-1902], dopo una accurata inchiesta sui fatti di Haymarket e sul processo che li seguì, firmò il provvedimento di grazia per Fielden, Schwab e Neebe, dichiarando che, insieme ai loro compagni Spies, Parsons, Engel, Fischer e Lingg, fossero del tutto innocenti, condannati da un giudice parziale, su prove prefabbricate e inventate, con testimonianze estorte dalla polizia con il terrore e sotto la minaccia della tortura.
La decisione di Altgeld segnò la fine della sua carriera politica.
Il comandante di polizia, che aveva ordinato di disperdere la folla, fu, in seguito, condannato per corruzione, ma per eventi slegati alla Rivolta di Haymarket.
Questi tragici avvenimenti suscitarono una ondata di sgomento in tutto il Paese e nel mondo intero, soprattutto, tra le associazioni operaie e la data del Primo Maggio entrò, così, a far parte della Storia delle lotte dei lavoratori come “momento magico” delle battaglie sociali. Tutto quel sangue anziché spegnere le agitazioni per le “otto ore”, le rese più vigorose che mai e, poco tempo dopo, il Congresso degli Stati Uniti dovette approvare un disegno di legge, che sanciva la giornata di otto ore per tutti gli operai al servizio del Governo.
Era il primo passo verso la conclusione!
Nel 1888, l’American Federation of Labor, programmava una grande manifestazione internazionale per il 1890 e, allo scopo di commemorare, degnamente, il sacrificio dei lavoratori di Chicago, veniva indicata la data del Primo Maggio.
L’anno dopo, il 1889, ricorreva il centenario della Rivoluzione Francese e, mentre la Francia celebrava, con grande pompa, la storica data con la Esposizione Universale, che si teneva, a Parigi, dal 6 maggio al 31 ottobre; si riuniva il Congresso della Seconda Internazionale, che, ribadendo quanto deciso dall’American Federation, prendeva all’unanimità questa deliberazione:
“È da organizzarsi per un’epoca determinata una grande manifestazione internazionale, in modo che, contemporaneamente, in tutti i Paesi e in tutte le città, in un giorno determinato, gli operai dirigano alle autorità politiche la domanda di stabilire la giornata di lavoro di otto ore e di eseguire le altre decisioni del Congresso Internazionale di Parigi. In considerazione del fatto che una tale manifestazione è stata già decisa dalla Lega Operaia Americana al Congresso di Saint-Louis per il Primo Maggio 1890, è adottata questa epoca come giorno della grande manifestazione internazionale.”
Al Congresso presero parte 385 delegati, che rappresentavano ben 20 Nazioni. Di quei 385 delegati, 81 erano tedeschi, 20 inglesi, 11 austriaci, 14 belgi, 11 italiani, 2 spagnoli, 3 danesi, 3 ungheresi 5 polacchi, 4 rumeni, 6 russi, 2 svedesi, 3 norvegesi, 1 finlandese, 1 bulgaro, 1 boemo, 1 alsaziano, 210 francesi, 5 americani, 1 argentino.
Il Primo Maggio divenne, così, per i lavoratori di tutto il mondo giorno di commemorazione, ma anche di protesta, di riposo, di celebrazione e di festa.
Anche in Italia, il Partito Operaio Italiano, il Primo Maggio 1890, celebrò la data con manifestazioni in tutto il Paese.
Il tema dominante continuava a essere la rivendicazione della “giornata corta”, come aveva annunciato, alcuni giorni prima, il quotidiano Fascio Operaio:
“Giovedì Primo Maggio 1890 manifestazione per le otto ore.”
Seguivano ampie e dettagliate motivazioni della celebrazione cui, all’ultimo momento, era stata aggiunta l’avvertenza:
“… governo liberale d’Italia vieta rigorosamente ogni manifestazione e dimostrazione pubblica per le vie per il Primo Maggio.”
Le disposizioni dell’allora Governo Crispi furono, infatti, severissime: i soldati erano consegnati nei quartieri, pattuglie di militari e di guardie percorrevano le vie della città, pressoché deserte per il clima di tensione e di paura, che si era instaurato, nel timore di sommosse e repressioni. In verità, non vi furono tumulti anche perché le misure governative avevano, di fatto, impedito che si svolgessero vere e proprie celebrazioni e manifestazioni.
Solo dopo il 1891, questa festa iniziò a essere, regolarmente, celebrata, entrando a far parte delle ricorrenze tradizionali.
E Edmondo De Amicis [1846-1908] intitolò Primo Maggio [http://www.liberliber.it/mediateca/libri/d/de_amicis/primo_maggio/pdf/primo__p.pdf] un suo romanzo.
Al termine della Prima Guerra Mondiale, la lunga lotta per le otto ore lavorative, trovò, tuttavia, la sua definitiva conclusione. L’articolo 427 del Trattato di Versailles del 1919 invitava, infatti, tutte le Nazioni a adottare la giornata lavorativa di otto ore.

Article 427
The High Contracting Parties, recognising that the well-being, physical, moral and intellectual, of industrial wage-earners is of supreme international importance, have framed, in order to further this great end, the permanent machinery provided for in Section l and associated with that of the League of Nations.
They recognise that differences of climate, habits, and customs, of economic opportunity and industrial tradition, make strict uniformity in the conditions of labour difficult of immediate attainment. But, holding as they do, that labour should not be regarded merely as an article of commerce, they think that there are methods and principles for regulating labour conditions which all industrial communities should endeavour to apply, so far as their special circumstances will permit.
Among these methods and principles, the following seem to the High Contracting Parties to be of special and urgent importance:
1.               The guiding principle above enunciated that labour should not be regarded merely as a commodity or article of commerce.
2.               The right of association for all lawful purposes by the employed as well as by the employers.
3.               The payment to the employed of a wage adequate to maintain a reasonable standard of life as this is understood in their time and country.
4.               The adoption of an eight hours day or a forty-eight hours week as the standard to be aimed at where it has not already been attained.
5.               The adoption of a weekly rest of at least twenty-four hours, which should include Sunday wherever practicable.
6.               The abolition of child labour and the imposition of such limitations on the labour of young persons as shall permit the continuation of their education and assure their proper physical development.
7.               The principle that men and women should receive equal remuneration for work of equal value.
8.               The standard set by law in each country with respect to the conditions of labour should have due regard to the equitable economic treatment of all workers lawfully resident therein.
9.               Each State should make provision for a system of inspection in which women should take part, in order to ensure the enforcement of the laws and regulations for the protection of the employed.
Without claiming that these methods and principles are either complete or final, the High Contracting Parties are of opinion that they are well fitted to guide the policy of the League of Nations; and that, if adopted by the industrial communities who are members of the League, and safeguarded in practice by an adequate system of such inspection, they will confer lasting benefits upon the wage- earners of the world.

Les Hautes Parties Contractantes, reconnaissant que le bien-être physique, moral et intellectuel des travailleurs salariés est d’une importance essentielle au point de vue international, ont établi pour parvenir à ce but élevé, l’organisme permanent prévu à la Section I et associé à celui de la Société des Nations.
Elles reconnaissent que les différences de climat, de moeurs et d’usages, d’opportunité économique et de tradition industrielle rendent difficile à atteindre, d’une manière immédiate, l’uniformité absolue dans les conditions de travail. Mais, persuadées qu’elles sont que le travail ne doit pas être considéré simplement comme un article de commerce, elles pensent qu’il y a des methods et des principes pour la réglementation des conditions de travail que toutes les communautés industrielles devraient s’efforcer d’appliquer, autant que les circonstances spéciales dans lesquelles elles pourraient se trouver le permettraient.
Parmi ces méthodes et principes, les suivants paraissent aux Hautes Parties Contractantes être d’une importance particulière et urgente:
1.                Le principe dirigeant ci-dessus énoncé que le travail ne doit pas être considéré simplement comme une marchandise ou un article de commerce.
2.                Le droit d’association en vue de tous objets non contraires aux lois, aussi bien pour les salariés que pour leurs employeurs.
3.                Le paiement aux travailleurs d’un salaire leur assurant un niveau de vie convenable tel qu’on le comprend dans leur temps et dans leur pays.
4.                L’adoption de la journée de huit heures ou de la semaine de quarante-huit heures comme but à atteindre partout où il n’a pas été obtenu.
5.                L’adoption d’un repos hebdomadaire de vingt-quatre heures au minimum, qui devrait comprendre le dimanche toutes les fois que ce sera possible.
6.                La suppression du travail des enfants et l’obligation d’apporter au travail des jeunes gens des deux sexes les limitations nécessaires pour leur permettre de continuer leur éducation et d’assurer leur développement physique.
7.                Le principe du salaire égal, sans distinction de sexe, pour un travail de valeur égale.
8.                Les règles édictées dans chaque pays au sujet des conditions de travail devront assurer un traitement économique équitable à tous les travailleurs résidant légalement dans le pays.
9.                Chaque Etat devra organiser un service d’inspection qui comprendra des femmes, afin d’assurer l’application des lois et règlements pour la protection des travailleurs.
Sans proclamer que ces principes et méthodes sont ou complets ou définitifs, les Hautes Parties Contractantes sont d’avis qu’ils sont propres à guider la politique de la Société des Nations; et que, s’ils sont adoptés par les communautés industrielles qui sont membres de la Société des Nations et s’ils sont maintenus intacts dans la pratique par un corps approprié d’inspecteurs, ils répandront des bienfaits permanents sur les salariés du monde.

“Il lavoro non deve essere considerato semplicemente una merce o un articolo di commercio.”,
suonava, così, la prima delle “clausole sociali”, enunciate dal Trattato di Versailles, nel contesto di altre enunciazioni, che componevano l’insieme delle tutele, rispondenti alle rivendicazioni sociali e sindacali dell’epoca.
Vi è, tuttavia, chi rinviene radici diverse, più lontane e meno note, dell’espressione “il lavoro non è una merce”.
In un suo saggio, Paul O’ Higgins rivendica per l’Irlanda il merito di aver elaborato il primo dei principi sui quali si fonda l’Organizzazione Internazionale del lavoro [OIL]. Secondo O’Higgins, infatti, sarebbe stato l’economista irlandese, John Kells Ingram [1823-1907], nel discorso tenuto, a Dublino, nel 1880, al Trade Unions Congress [TUC], a formulare, per la prima volta, la proposizione secondo la quale “il lavoro non è una merce”. 
“Considerare il lavoro come una merce”,
affermava Ingram,
“significa rimuovere tutto di un colpo, il fondamento etico sul quale dovrebbe poggiare il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, rendendo la cosiddetta legge del mercato l’unico regolatore.”
“Il salario del lavoratore”,
spiegava,
“deve essere considerato come lo strumento indispensabile per il suo mantenimento in uno stato di salute fisica, di sicurezza materiale e di tranquillità morale, tale che gli consenta di continuare a prestare il suo servizio alla società e di preparare una nuova generazione allo stesso servizio.”
Affermando che il lavoro non è una merce, Ingram voleva dire che il lavoro non può essere considerato una entità indipendente dalla persona del lavoratore, che il rapporto di lavoro deve poggiare, anche, su un fondamento etico e non può essere, pertanto, regolato solo dal mercato, che il salario del lavoratore non può essere determinato, esclusivamente, dal suo valore di scambio, perché deve garantirgli il mantenimento in condizioni di salute e sicurezza fisiche e mentali.
Temuto, prima, dai benpensanti, il Primo Maggio si trasformò, in pochi anni, da giornata di luttuosi ricordi e di protesta in giorno di festa e di riposo. E, dal 1955, il Primo Maggio è divenuto, in Italia, perfino, una festa cattolica, festa del lavoro cristiano, dedicata a San Giuseppe lavoratore, che, falegname di Nazareth, provvide con il suo lavoro alle necessità di Maria e di Gesù e iniziò il Figlio di Dio al lavoro tra gli uomini. [https://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2013/documents/papa-francesco_20130501_udienza-generale.html].

Daniela Zini
Copyright © 29 aprile 2015 ADZ


[1] “Il diritto al lavoro non è mai stato messo in discussione come non potrebbe essere mai visto quanto affermato dalla nostra Costituzione.”,
si legge nella nota del ministero.
“Nell’intervista odierna al quotidiano statunitense”,
specificavano da via Veneto,
“il ministro ha fatto riferimento alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro, come sempre sottolineato in ogni circostanza.”

[2] Con la loro esecuzione, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti si aggiunsero a una lunga lista di combattenti della classe operaia, vittime del “democratico” capitalismo americano: i Martiri di Haymarket; Joe Hill, attivista degli Industrial Workers of the World [IWW]; Tom Mooney e Warren Billings.