“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 19 aprile 2015

SOCIETA' SEGRETE III. I SAMURAI 2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE


“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

de la part d’un pauvre ronin, moi








 […]
Vous avez vécu des moments très difficiles, commandant et je comprends que votre état d’esprit est changé. N’oubliez jamais qu’à la MOC, nous sommes tous solidaires. C’est pour cette raison que je suis ici avec vous, au risque de passer à la trappe. C’est pour cette même raison que vous avez déserté. Vous voulez retrouver votre chef au péril de votre vie et de votre carrière. J’ai décidé de vous aider au mieux de mes possibilités. Si on découvre jamais que nous avons allègrement transgressé les règlements – et on le saura certainement – ça sentira mauvais pour nous deux! Je ne sais plus qui a dit que la vie est une marmite de merde de laquelle chaque jour, il nous faut ingurgiter une cuillerée. Je pense que sur ce coup-ci, on aura droit à une pleine louche. Vous êtes un vrai samouraï, commandant. Je ne suis qu’un pauvre ronin, mais nous sommes faits du même bois. Vive la MOC. Vive Sa Majesté l’Empereur!
[…]
Max-Maxence
OPERATION BERBERA
Une aventure des officiers de la Michiko Ogura Corporation 
 
 A moi
Daniela Zini

A moi, qui vis loin de chez moi,
Quelle que soit la raison,
Quelle que soit la saison,
Qui aimerais rentrer à la maison.
Je parle d’une enfance.
Je parle d’une chance.
Fugue sur fugue,
Coups sur coups,
Voilà mon parcours!


“Une carte du monde qui n’inclurait pas 
l’Utopie n’est pas digne d’un regard.
Oscar Wilde

Les utopies apparaissent comme bien plus réalisables qu’on ne le croyait autrefois. Et nous nous trouvons actuellement devant une question bien autrement angoissante: comment éviter leur réalisation définitive?
L’homme n’est homme que dans le mouvement qui le porte vers lui-même. Utopie rappelle aux hommes que le lieu parfait n’existe pas dans l’histoire, qu’il est ailleurs, irréductible à toutes les cités humaines, mais inconcevable en dehors d’elles, comme irréductible à tout autre est le lieu d’intériorité où les hommes s’affranchissent de leurs certitudes, s’indignent de leurs défaillances, renoncent au mirage du meilleur des mondes pour concevoir le projet d’un monde meilleur.

La tête et le genou ne me font mal que lorsque j’essaie de marcher.
Allongée, je n’éprouve aucune douleur.
Je reste donc au lit et je rêve les yeux ouverts.
Mon enfance se détache de plus en plus clairement dans ma mémoire, comme si les années s’accumulaient sur toutes les autres époques de ma vie, en n’épargnant que le commencement.
Tout est net au lointain.
J’avais l’initiative des évasions, les après-midi d’été quand tout le monde reposait dans la maison, les volets clos, enfouis dans la profonde fraîcheur des chambres. On m’obligeait à me coucher ou, au moins, à passer deux heures allongée, les jours de canicule. Moi, je faisais semblant de dormir et quand tout bruit avait cessé, je sortais par la fenêtre, en invitant Adèle à me suivre. Pieds nus, pour ne pas nous faire entendre, nous traversions en grimaçant de douleur la cour pavée dont les pierres chauffaient à blanc sous le soleil. Nous entrions dans le verger, par une porte en bois, qu’on ouvrait avec mille précautions car elle grinçait à vous casser les oreilles et pénétrions dans le royaume interdit. Le verger bruissait d’insectes et d’effluves, on le voyait mûrir presque et s’épandre au soleil comme un pain à la chaleur du four.
La première tentation était le figuier, tout au fond du verger où en grimpant sur les branches lisses nous faisions fuir les lézards. Nous choisissions toujours les figues larmoyantes, déjà piquées par la langue des lézards, et dont le jus formait en coulant une larme claire au bout inférieur du fruit. La douceur chaude me remplissait la bouche et toute ma vie se concentrait dans cette sensation de bonheur, de paix, de satisfaction suprême que j’allais retrouver plus tard dans l’Amour.
Nous abandonnions vite le figuier, car ses feuilles rares laissaient passer le soleil qui nous mordait la nuque. Nous passions donc, les paumes chargées de figues, sous les voûtes fraîches de la vigne, nous prenions les grappes mûres en les détachant d’un coup sec et précis, là où la tige formait une enflure, comme un nœud fragile, nous nous asseyions dans l’herbe pour croquer à l’aise, entre les dents, les grains savoureux.
Deux grains de raisins et une figue.
C’était la règle.
Puis deux figues et quatre grains, et ainsi de suite.
C’était un festin en proportion géométrique.
Nous n’en pouvions plus.
Le ventre pesait sur mon corps comme un poids qui ne m’appartenait pas.
Les cigales, ivres de chaleur, faisaient vibrer l’air élastique.
Nous parlions garçons, poésie, j’éblouissais mon Amie de mes connaissances.
Je trouvais des rimes à tout et j’inventais des histoires.
Elle admirait mes poésies et savait que j’aurais été l’une de celles qui, tôt ou tard, auraient choisi le chemin de la liberté. Elle ne me l’a jamais dit, mais je n’avais pas de peine à le lire dans son cœur.
Elle n’a pas changé.
La vie éternelle ne laisse pas de traces sur les visages! 
Ces deux heures paraissaient sans fin, tant elles coulaient lentement, sous le temps de l’enfance.
Nous sautions la palissade, au fond du verger et nous nous trouvions sur une place, peu fréquentée, déserte à cette heure, où poussait l’herbe parmi les pierres du pavé.
C. dormait dans le grande silence, bercée par le chant des cigales.
Nous étions les seuls êtres vivants au milieu d’un village qui nous appartenait.
L’enfance nous pesait comme une honte. Le temps qui nous séparait encore de l’âge des adultes nous semblait immense et insupportable.
J’avais envie de pleurer, de rage et de désir. 
Pythagore disait que la vie est divisée en quatre périodes:
“L’enfance, jusqu’à vingt ans; l’adolescence, de vingt à quarante ans; la jeunesse, de quarante à soixante; et la vieillesse, de soixante à quatre-vingts.
J’ai perdu ma jeunesse à vingt ans, au moment où, selon lui, elle ne fait que commencer.
Le soleil est encore haut dans le ciel.
Et moi, je sens la même ferveur, la même audace qu’un jeune général avant sa première bataille.

D

 


Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 

 
 



SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini



III. I SAMURAI
di
Daniela Zini
 HANA WA SAKURA GI
HITO WA BUSHI[2]



Fino all’XI secolo, erano chiamati samurai i soldati di guardia al palazzo imperiale. Questo nome fu, poi, esteso, anche, a coloro che combattevano per mestiere. Nel Medioevo, divenendo vassalli dei daimyo, nobili signori feudali, i samurai formarono una vera e propria casta. I Tokugawa, che avevano creato una gerarchia di quattro caste: guerrieri-funzionari, contadini, artigiani e mercanti, fecero dei samurai, guerrieri-funzionari, una nuova e chiusa aristocrazia, culturalmente abbastanza elevata e tenuta rigorosamente in disparte dalle altre classi. Soggetto a severe regole, in cui erano stati fusi confucianesimo e buddismo, il samurai doveva conoscere e osservare il non mai scritto codice morale, filosofico e religioso, il bushido[3], che mirava a migliorare l’individuo attraverso la onestà, la giustizia, la gentilezza, la insensibilità al dolore fisico e, soprattutto, al culto della fedeltà e della lealtà assolute verso il proprio nobile signore.
Debito morale che lo impegnava, pena l’onore, a vendicarne la morte a costo della propria vita.
I samurai vivevano con le famiglie nelle terre circostanti il castello del loro nobile signore. Portavano quale segno distintivo gli emblemi familiari e per simboli sacri due spade, una lunga, satana, e una corta, wakizashi, che non dovevano, mai, lasciare. Quando, nel 1869, i feudi furono aboliti e i daimyo nominati governatori dei loro domini, al nuovo governo imperiale [Meiji] non fu facile liberarsi dei samurai, che formavano il 6% della popolazione e presiedevano sia il potere militare sia gran parte della vita politica e culturale. Abolita la loro classe di aristocratici guerrieri privati della spada, molti samurai si incorporarono nelle caste nobiliari, alcuni rimasero nei posti direttivi del nuovo governo, altri divennero uomini di affari o insegnanti. I più giovani affollarono i quadri del nuovo esercito, della marina da guerra e della polizia. La maggioranza si riversò, tuttavia, nella massa dei lavoratori e, nel giro di una generazione, cadde ogni distinzione tra samurai e cittadino comune. Ma gli irriducibili, i non rassegnati non mancarono. Unitisi in gruppi ribelli, provocarono, spesso, rivolte e disordini nei domini dei nuovi capi. La loro più grave sfida al governo avvenne, nel 1877, e fu l’ultima. I coscritti del servizio militare, istituito cinque anni prima, li sconfissero duramente, facendo crollare, per sempre, il vecchio mondo dei samurai.    



Statua di Takamori Saigo, l’ultimo samurai.


2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
 https://www.youtube.com/watch?v=GtnSjhUe9mE

Per avere vendicato il loro daimyo, Asano Takumi no Kami Naganori, i 47 ronin ebbero l’onore, dopo essersi tolti la vita, di venire sepolti tutti intorno alla sua tomba.


Sapere uccidere e sapere morire era il credo dei samurai. Per questa casta, la spada simboleggiava “l’anima dei samurai” e il fiore di ciliegio la disponibilità al sacrificio della vita. Il loro tramonto iniziò, nel XVI secolo, quando l’arma bianca fu eclissata da nuove tecniche di guerra. Sono stati i kamikaze gli ultimi eredi dei samurai.


 Invictus
William Ernest Henley

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.

In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.

Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.[4]




“La memoria è come un coltello: ti potrebbe ferire.”
Murasaki Shikibu


Nell’anno 1597, tutto il Giappone onorava la memoria del grande Toyotomi Hideyoshi [1536-1598], che aveva sottomesso i più potenti dominatori delle regioni orientali e settentrionali del Paese, chiudendo un secolo di guerre civili. Disponendo di un gran numero di soldati, Toyotomi Hideyoshi si era lasciato, tuttavia, trascinare da un pericoloso complesso: conquistare il mondo, iniziando dalla Cina. La Corea non gli concesse di attraversare il suo confine e fu una guerra lunga e sfortunata. Ora che Toyotomi Hideyoshi era morto, nessuno voleva più saperne di quella guerra e i soldati se ne tornavano felici alle loro case, mentre sorgeva un nuovo astro del potere: Tokugawa Ieyasu [1543-1616], principale vassallo del defunto conquistatore. Dopo averne distrutto, anche con l’inganno, le numerose coalizioni familiari, Tokugawa Ieyasu si preoccupò, soprattutto, di sottrarre i propri discendenti alla stessa sorte, creando una stabilità politica, che gli sopravvisse, pressoché immutata, per due secoli e mezzo. Applicando severe leggi e rigorosi controlli interni, isolando il Paese dall’esterno, il lungo dominio dei Tokugawa diede ordine, benessere e pace assoluta alle popolazioni, ma lunghi periodi di difficoltà economiche alla famiglia imperiale e all’aristocrazia.



Particolarmente, nel XV secolo, quando i feudatari si rifiutarono di pagare i secolari tributi, i nobili si videro costretti, per vivere, a svolgere qualche arte o mestiere e si racconta che un imperatore, di certo, anticonformista, non disdegnasse di sfruttare la propria calligrafia, cedendo poesie e frasi spiritose, in cambio di utili e necessari doni. Corte imperiale e nobiltà si salvarono, tuttavia, dallo scomparire, definitivamente, per il grande rispetto del popolo giapponese verso l’ereditarietà del potere. In questi due secoli e mezzo di lunga pace, mai conosciuta da altri Paesi del mondo, il Giappone fu turbato solo dal grande incendio di Edo, nel 1657, e dall’episodio dei 47 ronin, samurai senza daimyo


  



L’episodio avvenne, tra il 1701 e il 1703, quando il Giappone era governato da uno shogun della famiglia dei Tokugawa. Agli shogun, molti secoli prima, il mikado, imperatore discendente della Dea Sole, aveva ceduto ogni potere, poiché la sua origine divina non gli consentiva di ingerirsi nel governo materiale del Paese, ma soltanto di vivere isolato nella sua raffinata corte di Kyoto.
Militarmente ed economicamente più potenti – dominavano la parte più ricca del Paese –, gli shogun risiedevano a Edo, oggi Tokyo, circondati da una corte, spesso, più raffinata di quella imperiale. Una antica usanza li obbligava, tuttavia, a inviare a Kyoto, ai primi di ogni nuovo anno, un araldo con la missione di rinnovare all’imperatore i propri omaggi e la propria sottomissione. Il mikado ricambiava, mandando, a Edo, alcuni delegati, che venivano accolti, con grandi onori, da due funzionari delle più nobili famiglie.
 


Nell’anno 1701, lo shogun Tokugawa Tsunayoshi [1646-1709][5] volle che tale compito fosse affidato a due nobili di provincia: Asano Takumi no Kami Naganori [1675-1701], giovane daimyo del castello di Ako, e Kamei Oki no Kami Korechica [1667-1731],  daimyo del castello di Tsuwano.

 
Non conoscendo bene la complicata etichetta di corte, i due chiesero di essere dispensati dall’incarico. Ma, lo shogun li tranquillizzò. Il gran ciambellano avrebbe saputo istruirli.
 


Asano e Kamei cadono, così, nelle grinfie di Kira Kozuke no Suke Yoshinaka [1641-1702][6], uno di quegli individui che la storia e il teatro giapponesi rappresentano umile e sollecito con i superiori, ma pronto a scaricare le proprie frustrazioni sugli inferiori.
Potente e superbo, Kira si mostra, subito, arrogante con i due daimyo provinciali, sfoggiando, a ogni occasione, il proprio disprezzo per la loro ignoranza delle regole di corte.
Asano e Kamei dominano ogni reazione, vergognandosi, perfino, tra loro delle umiliazioni. Vorrebbero punire Kira; ma sanno che sguainare la spada nel palazzo dello shogun significherebbe essere condannati a morte.
Il consigliere di Kamei evita il disastro per il suo nobile signore e il suo clan, offrendo a Kira lingotti d’oro e sete preziose. Il sistema funziona e Kamei viene trattato con rispetto.
Anche Asano decide, allora, di fare un regalo, ma sceglie un dono più artistico che prezioso.
E sbaglia.
Viene trattato, con maggiore disprezzo.
Non riuscendo a sopportare, più a lungo, le vessazioni di Kira, un giorno, Asano sfodera il wakizashi e lo punta contro Kira, ferendolo alla fronte.
Subito circondato dalle guardie, Asano ascolta la sentenza che lo condanna alla morte onorevole per mezzo del harakiri.
Risponde di non ignorare che ogni forma di violenza sia vietata nel castello di Edo; ma di essere stato costretto a difendere il proprio onore.
A uno dei suoi samurai, che gli fa visita prima di togliersi la vita, affida il suo tanka, una poesia dell’addio:

Kze sasofu hana yori mo
Naho ware ha mata
Haru no nagori wo
Ika ni yatosen.[7]

 

Dopo la morte di Asano i beni vengono confiscati.
La sua famiglia cade in rovina.
E i suoi samurai divengono ronin.
I trecento samurai di Asano, in particolare, il loro capo, Oishi[8] Kuranosuke Yoshio [1659-1703], non intendono lasciare non vendicato il loro nobile signore – anche se la vendetta, in questi casi, è vietata – e prestano giuramento segreto di uccidere Kira.






 Statua di Oishi Kuranosuke Yoshio.




Scelti gli uomini più adatti al suo piano, Oishi decide di prendere tempo per deviare ogni sospetto. Ciascuno vada, dunque, per la sua strada, ma rimanga vincolato al giuramento e si tenga pronto ad accorrere, in qualsiasi momento, all’appello per compiere la vendetta. Così, si diperdono e divengono ronin, samurai senza più diritti né daimyo per l’intera vita. Si fanno artigiani, giardinieri, falegnami, nell’attesa di venire chiamati al castello di Kira, dove, eseguendo lavori, possono studiare la disposizione delle stanze, dei corridoi e, perfino, delle entrate e delle uscite segrete.
Sapendo di essere sorvegliato, Oishi va ripetendo che la vendetta non lo interessa e che non intende neppure sentire parlare di armi.
E, invece, tiene nascosta la spada con la quale Asano si è fatto harakiri.
Con la stessa, il gran ciambellano dovrà morire!
 


Trascorrono mesi…
Trasferitosi a Kyoto, Oishi, che è divenuto un facoltoso commerciante, dando danaro a prestito, mostra di volersi godere le sue ricchezze frequentando, ogni giorno, case da tè e ubriacandosi più di ogni altro avventore. Stanca di tali eccessi, la moglie, lo accusa di condurre tale vita solo per il proprio piacere e non per sviare i sospetti di Kira. Alla presenza del vicinato, Oishi caccia fuori di casa la moglie, con la quale è spostato da venti anni, e i due figli più giovani. Al figlio maggiore, Chikara, Oishi lascia la scelta di restare e combattere o partire.
Chikara decide di restare e combattere con il padre.
Di questo gesto crudele, che gli è necessario per avvalorare, pubblicamente, il suo totale abbrutimento, il vecchio samurai soffre molto.


Gli informatori di Kira, che vivono a Kyoto, non mancano di riferire l’accaduto e Kira si convince, così, di non avere più nulla da temere dagli uomini di Asano, che debbono essere dei cattivi samurai, se non hanno avuto il coraggio di vendicare il loro daimyo.
Dopo due anni, il gran ciambellano è, dunque, ben lieto di poter ridurre, finalmente, la vigilanza al castello e di riprendere normali rapporti con ospiti e visitatori.



Sempre ubriaco di sake, Oishi è, ormai, un rottame umano, ma, pur conducendo una vita dissoluta, non ha trascurato di convogliare armi in casa di un anziano e fidato samurai.
Archi, frecce, spade, maglie di ferro sono pronti.
Deve, solo, adunare i 46 samurai.
Tutti rispondono all’appello. Lasciate le loro occupazioni, i samurai raggiungono, segretamente, Edo, dove rinnovano il loro giuramento. Pianificano di tagliare la testa a Kira e di deporla come offerta sulla tomba del loro nobile signore. Oishi raccomanda di fare bene attenzione e di risparmiare le donne, i bambini e gli innocenti. Il codice del bushido non richiede di avere pietà per i non-combattenti, ma non lo vieta neppure.





 
E, nel loro ruolo di lavoranti e di mercanti, accedono alla casa di Kira, prendono familiarità con i luoghi e con le persone al suo interno. Uno dei samurai di Asano, Kinemon Kanehide Okano[9], si spinge anche oltre, sposando la figlia dell’architetto che ha progettato l’edificio, per averne i piani.
Tutto viene riferito a Oishi.
 


Il mattino del giovedì 14 dicembre 1702, una bufera di neve e un vento gelido infuriano su Edo. Le strade sono deserte e i ronin camminano a fatica, celando sotto il mantello nero spade, balestre e scale di corda.
Secondo il piano di attacco prestabilito, si divideranno in due gruppi: l’uno, capeggiato da Oishi, attaccherà il castello dalla porta principale; l’altro, guidato da suo figlio, Oishi Chikaram, lo attaccherà dalla porta posteriore.
Il segnale di attacco verrà dato da Oishi con un tamburo.



Sotto le mura del castello, i due gruppi si separano e quattro samurai gettano una scala e saltano nel cortile, ma, subito, accorrono le guardie.
E si accende la battaglia.
Una azione, nel corso della quale i ronin, pesantemente armati e perfettamente organizzati, hanno, facilmente, ragione di ogni resistenza: sedici uomini di Kira sono uccisi e ventidue feriti, tra i quali il nipote di Kira, senza praticamente subire perdite.
Di Kira non vi è traccia alcuna.
Cercano ovunque nella casa, ma non trovano che donne in lacrime e bambini.
Iniziano a disperare.
Oishi esamina il letto di Kira. 
È ancora caldo.
Kira non deve essere, dunque, lontano.
Nella sua camera, un grande quadro insospettisce il samurai.
Il quadro rivela, infatti, un passaggio segreto, che dà accesso a un cortile, circondato da varie stanze. In una, un vecchio in pigiama corre a nascondersi dietro un cumulo di ceste.
Preso e interrogato il vecchio non risponde.
Si rifiuta di dire chi sia, ma i ronin sono sicuri che sia Kira.
Lo identificano dalla cicatrice sul volto.
Quando l’uomo cerca di fuggire, i congiurati lo immobilizzano, presentandosi come i samurai del nobile signore di Ako.
Oishi porge la spada di Asano a Kira, invitandolo a darsi la stessa morte; ma l’altro terrorizzato, non la tocca neppure, lasciando intendere che non ne ha il coraggio.
Oishi ordina, allora, ai suoi uomini di metterlo in ginocchio e la testa di Kira rotola sul pavimento.
 


Uno dei ronin, l’ashigaru[10] Tersaka Kichiemon viene incaricato di recarsi, quanto più rapidamente possibile, nel feudo di Ako per dare la notizia che la vendetta è stata compiuta.
Il nobile signore di Ako può, finalmente, ricevere sulla sua tomba l’onore dell’incenso e delle cerimonie funebri.
Capeggiati da Oishi, i ronin sfilano, in silenzio, per le strade buie di Edo. 

 


Al Tempio di Sengakuji, i 46 ronin lavano la testa di Kira in un pozzo, prima di deporla sulla tomba di Asano, e informano lo spirito del loro nobile signore che il grave torto, ricevuto due anni prima, è stato vendicato. Lo pregano, anche, di accettare l’incenso e il sacrificio delle loro vite.

“Signore siamo venuti qui, oggi, per rendervi omaggio. Non avremmo osato presentarci di fronte a voi prima di aver portato a termine la vendetta da voi iniziata. Ogni giorno di forzata attesa ci è parso lungo come tre autunni. Ora, Signore, abbiamo scortato Kira fin qui, davanti alla vostra tomba e vi riportiamo anche questa spada che tanto valore ebbe per voi, lo scorso anno, e che ci avete affidata. Vi preghiamo di impugnarla, per colpire, una seconda volta, la testa del vostro nemico, liberandovi così, per sempre, dal vostro odio.”

Offrono, poi, preghiere al tempio e fanno dono all’abate del tempio di tutto il danaro che è restato loro, perché li sotterri e preghi per loro. 
Si deve, allora, decidere, non senza imbarazzo delle autorità e dei dotti, se encomiare i 47 ronin per il loro coraggio e per la loro dedizione o punirli per avere ordito, segretamente, una vendetta, secondo l’etica dei samurai, ma contro la legge shogunale. Numerose mozioni a sostegno della loro causa arrivano allo shogun Tokugawa Tsunayoshi, seguendo vie più o meno ufficiali. Prevale la legge civile sul codice militaresco. I ronin sono condannati a morte; ma lo shogun decide, infine, di concedere loro una morte onorevole con il harakiri, anziché giustiziarli come volgari criminali. Divengono eroi nazionali e la serenità, con la quale accettano di morire, accresce, enormemente, la loro popolarità[11].
I 47 ronin si inginocchiano e compiono il rito più onorevole e coraggioso che un giapponese possa compiere: aprirsi l’addome con la spada.

 


 


Il quarantasettesimo ronin, tornato dalla sua missione, verrà perdonato dallo shogun per la sua giovane età.
Vivrà fino a settantotto anni e sarà sepolto con i suoi compagni d’arme. 
 


Il sacrificio dei ronin, oltre a ristabilire l’onore del feudo di Ako, ebbe anche non trascurabili effetti pratici. Molti dei samurai allo sbando trovarono un nuovo impiego presso altri feudatari, dal momento che l’onta, che era ricaduta sul nome degli Asano e di quanti li avevano serviti, era stata lavata.
Trascorso un ragionevole lasso di tempo lo shogun stabilì, infine, di riassegnare il feudo, ridotto a un decimo di ciò che era all’origine,  ad Asano Daigaku Nagahiro, fratello minore ed erede di Asano Takumi no Kami Naganori.
La tragedia dei 47 ronin è uno dei temi più popolari nelle arti giapponesi[12] non solo perché ognuno di loro si comportò nobilmente; ma anche perché tutti coloro che li aiutarono diedero prova delle virtù elevate che rendono fiera l’Umanità.
Immediatamente dopo l’evento, vi furono sentimenti contrastanti tra letterati e artisti. Molti concordavano che, secondo le ultime volontà del loro nobile signore, i 47 ronin avessero avuto ragione di agire; ma erano dubbiosi che un tale desiderio di vendetta fosse giustificato.
Con il passare del tempo, tuttavia, la storia divenne un simbolo, non di bushido, ma di lealtà verso il daimyo. I ronin avevano lasciato passare due anni, per attendere il momento buonoper la loro vendetta.

È l’autore dell’Hagakure, Yamamoto Tsunetomo, a porre la spinosa domanda:

Che sarebbe accaduto, se, nove mesi dopo la morte di Asano, Kira fosse deceduto di malattia?
Domanda la cui risposta logica è: i 47 ronin avrebbero perso la loro unica possibilità di vendicare il loro nobile signore. 
Anche se tutti avessero giurato che il loro comportamento dissoluto fosse solo un diversivo e che con un pò più di tempo sarebbero stati pronti per la vendetta, chi li avrebbe creduti?
Ci si sarebbe ricordati di loro, per sempre, come dei vigliacchi che avevano portato un’onta perenne sul nome del clan Asano.
La cosa corretta da fare per gli uomini di Asano, scrive Yamamoto Tsunetomo, secondo il bushido, sarebbe stata attaccare Kira e i suoi uomini, immediatamente dopo la morte di Asano.
I ronin avrebbero, forse, dovuto subire una disfatta, poiché Kira era pronto per un attacco in quel momento.
Ma era importante!
Oishi, secondo la visione del bushido, era troppo ossessionato dalla vittoria.
Il suo studiato piano fu concepito con il solo fine di non fallire, ciò che non è, esattamente, il buon comportamento di un samurai.
La cosa più importante, per i samurai di Asano, non era la morte di Kira; ma mostrare coraggio e determinazione ineccepibili.
E, così, guadagnare un onore eterno per il loro nobile signore morto.
Anche se avessero fallito e non avessero potuto uccidere Kira, anche se fossero tutti morti, ciò non avrebbe avuto importanza, perché la vittoria o la disfatta non hanno importanza, secondo il bushido.


 


Le tombe dei 47 ronin, nel Tempio di Sengakuji.

Attendendo due anni interi, avevano elevato le possibilità di riuscita; ma avevano rischiato di disonorare il nome del loro clan, il peggiore peccato che possa commettere un samurai.
È la ragione per cui Yamamoto Tsunetomo e altri, spiegano che il racconto dei 47 ronin è una bella storia di vendetta, ma non è, in alcun caso, una storia di bushido. 

Non vi è unanimità nell’elenco dei 47 ronin. Questa targa commemorativa  si trova nella stazione di Sengakuji e riporta l’elenco completo:
Le tombe dei 47 ronin:
Oishi Kuranosuke Yoshikatsu
Yoshida Chuzaemon Kanesuke
Hara Soemon Mototoki
Kataoka Gengoemon Takafusa
Mase Kyudayu Masaaki
Onodera Jyunai Hidekazu
Hazama Kihei Mitsunobu
Isogai Jyurozemon Masahisa
Horibei Yahyoe Akizane
Chikamatsu Kanroku Yukishige
Shiota Matanojyo Takanori
Hayami Tozaemom Mitsutaka
Akabane Genzo Shigekata
Okuda Magodaiu Shigemori
Yada Goroemon Suketaka
Oishi Sezaemon Nonukiyo
Oishi Shikara Yoshikane
Horibe Yasubei Taketsune
Nakamura Kansuke Masatoki
Suganoya Hannojyo Masatoshi
Fuwa Kazuemon Masatane
Kimura Okaemon Sadayuki
Ohiba Saburobyoe Mitsutada
Okano Kinuemon Kanehide
Kaiga Yazaemon Tomonobu
Otaka Gengo Tadao
Okajima Yasouemon Tsuneki
Oshida Sawauemon Kanesada
Takebayashi Tadahichi Takashige
Kurahashi Densuke Takeyuki
Hazam Shinrokuro Mitsukaze
Muramatsu Kihei Hidenao
Sugino Toseiji Tsugufusa
Katsuta Shizaemon Takeaki
Maebara Isueki Munefusa
Onodera Koemon Hidetomi
Hazama Jujiro Mitsuoki
Okuda Sadaemon Yukitaka
Yatoemon Shiki Norikane
Muramatsu Sandaifu Takanao
Mase Magokuro Masatatsu
Kayano Wasuke Tsunenari
Yokokawa Kanbei Munetoshi
Mimura Jirozaemon Kanetsune
Kanzaki Yogoro
Terasaka Kichiemon


Daniela Zini
Copyright © 17 aprile 2015 ADZ
 

  
The Warrior’s Prayer
Stuart Wilde

I am what I am.
In having faith in the beauty within me I develop trust.
In softness I have strength.
In silence I walk with the gods.
In peace I understand myself and the world.
In conflict I walk away.
In detachment I am free.
In respecting all living things I respect myself.
In dedication I honour the courage within me.
In eternity I have compassion for the nature of all things.
In love I unconditionally accept the evolution of others.
In freedom I have power.
In my individuality I express the God-Force within me.
In service I give of what I have become.
I am what I am:
Eternal, immortal, universal, and infinite.
And so be it.
[13]


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] TRA I FIORI IL CILIEGIO
TRA GLI UOMINI IL GUERRIERO

[3] Bushido è un termine giapponese composto da bushi [guerriero] e do [via], che significa Via del Guerriero. Il bushido si fonda su sette concetti fondamentali, ai quali il samurai deve, scrupolosamente, attenersi:

, Gi: Onestà e Giustizia
Sii scrupolosamente onesto nei rapporti con gli altri, credi nella giustizia che proviene non dalle altre persone ma da te stesso. Il vero samurai non ha incertezze sulla questione della onestà e della giustizia. Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

, Yu: Eroico Coraggio
Elevati al di sopra delle masse che hanno paura di agire, nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere. Un samurai deve possedere un eroico coraggio, ciò è assolutamente rischioso e pericoloso, ciò significa vivere in modo completo, pieno, meraviglioso. L’eroico coraggio non è cieco ma intelligente e forte.

, Jin: Compassione
L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere di aiuto ai propri simili e se la opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una. La compassione di un samurai va dimostrata soprattutto nei riguardi delle donne e dei fanciulli.

, Rei: Gentile Cortesia
I samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini. Il miglior combattimento è quello evitato.

, Makoto: Completa Sincerità
Quando un samurai esprime la intenzione di compiere una azione, questa è, praticamente, già, compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine la intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di "dare la parola" né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.

名誉, Meiyo: Onore
Vi è un solo giudice dell’onore del samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.

忠義, Chugi: Dovere e Lealtà
Per il samurai compiere una azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.



[4] Invincibile
William Ernest Henley

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Buia come un pozzo che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualunque dio esista
Per l’indomabile anima mia.

Nella feroce stretta delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo d’ira e di lacrime
Si profila il solo Orrore delle ombre,
E ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza paura.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
[5] Tokugawa Tsunayoshi, figlio di Tokugawa Iemitsu e fratello minore di Tokugawa Ietsuna, fu il quinto shogun dello shogunato Tokugawa.
[6] Kira Kozuke no Suke Yoshinaka [1641-1702] aveva l’incarico di cerimoniere, koke, presso la corte di Edo. Va notato, ha la sua importanza, che i titoli suke di Oishi e Kira sono, gerarchicamente, inferiori a quello kami di Asano. Entrambi appartengono alla categoria kokushi, creata nell’VIII secolo per indicare i delegati del governo centrale, che amministravano le province, kami, e attraverso subalterni, suke, riscuotevano tasse, dirigevano monopoli, amministravano la giustizia.


[7] Passa il vento, cadono i fiori,
Più che la loro scomparsa,
Quella della primavera mi sta a cuore.
Come spiegarmi?

Plus que les fleurs de cerisier,
Invitant un vent à les souffler,
Je me demande ce qu’il faut faire,
Avec le reste du printemps.

More than the cherry blossoms,
Inviting a wind to blow them away,
I am wondering what to do,
With the remaining springtime.

[8] Oishi Kuranosuke Yoshio [1659-1703], o Yoshitaka, era il primo sovrintendente, ittogaro, del feudo di Ako, che amministrava, direttamente, in occasione delle frequenti assenze di Asano. Erano alle sue dipendenze circa duecentocinquanta samurai di rango elevato e i suoi compiti non si limitavano al comando militare, essendo Ako un feudo di elevata estensione, con una rendita notevole legata a numerose attività commerciali, ottenute in concessione dal governo.

[9] Quando, dopo l’azione, i 47 ronin si riunirono per consumare l’ultima cena, Oishi dedicò a Kinemon Kanehide Okano questi versi:

Con quale grande gioia
Questi sentimenti si riuniscono
Per spargersi tra voi
Ora nessuna nuvola oscura la luna
E il mondo fluttuante riluce.

E, Kinemon Kanehide Okano Okano gli replicò:

Niente è così fragrante
Neppure le prugne che fioriranno
Nella neve di domani.

[10] L’ashigaru è un samurai di basso rango, destinato a combattere nelle fila della fanteria.
[11] La moglie di Onodera Junai Hidetomo volle raggiungere lo sposo nella morte, compiendo jigai, il suicidio rituale riservato alle donne samurai. Le donne utilizzavano il kwaiken, un corto pugnale, per tagliarsi la gola. Le gambe venivano legate per evitare di assumere posizioni scomposte nell’agonia.

[12] La vicenda dei 47 ronin è stata, magistralmente, raccontata da Kuniyoshi Utagawa, uno dei grandi maestri dell’ukiyo-e, le stampe del mondo fluttuante. Kuniyoshi, infatti, creò una raccolta raffigurante tutti i protagonisti della vicenda e le loro storie.
[13] La preghiera del guerriero
Stuart Wilde

Sono quel che sono.
Avendo fede nella bellezza dentro di me, sviluppo fiducia.
Nella dolcezza ho forza.
In silenzio cammino con gli dei.
In pace comprendo me stesso e il mondo.
Nel conflitto mi allontano.
Nel distacco sono libero.
Nel rispettare ogni creatura vivente, rispetto me stesso.
In dedizione onoro il coraggio dentro di me.
In eternità ho pietà per la natura di tutte le cose.
In amore accetto incondizionatamente l’evoluzione degli altri.
In libertà ho potere.
Nella mia individualità esprimo la Forza Divina che è dentro di me.
In servizio do quel che sono diventato.
Sono quel che sono:
Eterno, immortale, universale e infinito.
E così sia.

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