“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 30 maggio 2019

Koh Bakin vs Gaspare Mutolo Maxiprocesso a "Cosa nostra"11/7/1986 Palermo

lunedì 27 maggio 2019

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 500 ANNI FA MORIVA LEONARDO 4.IL CODICE ATLANTICO di Daniela Zini


500 anni fa moriva
 LEONARDO
di Messser Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519]

  
à mon Mystérieux Monseigneur!

Je T’offre cette Rose pour qu’à ma place Elle ose venir Te dévoiler la tendresse d’une pensée.
Trop se connaître tue l’Amour, me disent certains, le Mystère Lui est indispensable comme le soleil au blé. Mais le Mystère n’a nul besoin d’être cultivé, l’entretenir, c’est reconnaître sa fragilité.
Il faut l’attaquer, s’efforcer de le dissoudre.
Plus nous irons loin dans le monde de la connaissance, plus nous nous apercevrons que le Mystère reste.
Je Te regarde dormir et le monde où Tu es, le sourire au coin de Tes lèvres, le battement imperceptible de Tes cils, Ton corps nu et abandonné, sont Mystères.
Je nage à Tes cotés dans l’eau tiède et transparente, j’attends que Tu apparaisses dans l’encadrement de mon ordinateur.
Tu me dis bonjour et je sais quels ont été Tes rêves, Tes premières pensées à la lumière du sommeil et cependant Tu es Mystère.
Nous parlons: Ta voix, Ta pensée, les mots dont Tu Te sers pour l’exprimer me sont les plus familiers du monde.
Chacun de nous peut terminer la phrase commencée par l’Autre.
Et Tu es, et nous sommes Mystère.
Le sourire de la Joconde en contient moins que le plus quelconque de Tes gestes.
Il arrive, et ce sont des instants privilégiés qui font croire à la perfection du monde, que toute distance est abolie. Je me suis surprise, alors, à souhaiter mourir afin que cette perfection demeure à tout jamais.
Mais il semble que l’on ne se suicide que face à l’échec et que le bonheur nous porte à vivre. Je ne sais, mais je comprends que d’avoir touché à la perfection nous fasse souhaiter ne plus jamais retomber dans le cycle des combats. Nous avons été Dieu, nous ne voulons plus redevenir Homme.
L’Amour: une source, une raison de source, le monde devient fertile, c’est l’émerveillement, le sentiment du miracle et, en même temps, du déjà connu, un retour au Paradis Perdu, la réconciliation du corps et de l’idée, la découverte de notre force et de notre fragilité, l’attachement à la Vie et pourtant l’indifférence à la Mort, une certitude à jamais révélée et cependant mobile, fluide et qu’il faut reconquérir chaque jour.
Tu aurais été mon plus beau lien avec la Vie.
La douceur de l’air me fait rêver à ce qui fut et à ce qui serait si Tu étais là.
Je sais que cette rêverie n’est qu’une inaptitude à vivre le Présent.
Je me laisse entraîner par ce courant sans regarder trop loin ou trop profondément.
J’attends le moment où je retrouverai la force.
Il viendra.
Je sais que la Vie me passionne encore.
Je veux me sauver, non me délivrer de Toi.
Tu as eu cette extrême bonté de dire que j’étais belle.
Je ne T’ai trompé en rien.
Tu crois peut-être que je ne T’aime pas parce que je m’éloigne.
Tu reconnaîtras plus tard la vérité de ceci.
Si j’avais moins fait de cas de Toi, je serais restée.
Ton Amour eût été bientôt mort d’ennui, au bout de quelque temps, Tu m’aurais parfaitement oubliée. J’ai au moins cette satisfaction de rêver que Tu Te souviendras de moi plutôt que d’une Autre.
Ton désir inapaisé ouvrira encore ses ailes pour voler à moi; je serai toujours pour Toi quelque chose de désirable où Ta fantaisie aimera à revenir, et j’espère que Tu songeras quelquefois à cette nuit unique que tu as passée avec moi.
Je ne suis ni capricieuse, ni folle.
Ce que je fais est le résultat d’une conviction profonde.
Ce n’est point pour T’enflammer davantage que je m’éloigne.
Tu seras toujours pour moi l’Homme qui m’a ouvert un monde de sensations nouvelles.
Ce sont là de ces Souvenirs qu’une femme n’oublie pas facilement.
Quoique absente, je penserai souvent à Toi, plus souvent que si Tu était avec moi.
Ne pas laisser Tes rêves s’éloigner de Toi.
  

Noi tutti siamo esiliati
entro lo cornici di uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da grande,
Gli altri sono insetti.
Leonardo



Ernesto Solari, artista e studioso esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che ne sarebbe venuto in possesso. 




PUBLIO ELIO TRAIANO ADRIANO
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
1950 anni fa nasceva Adriano l’Imperatore della Pax Romana
di Daniela Zini

AKHENATON
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Amenofi IV l’Apostata
di Daniela Zini

JULIAN PAUL ASSANGE
Se WikiLeaks?...
di Daniela Zini

MIKHAIL VASILYEVIC BEKETOV
Veni, Vidi, Vi[n]ci
I. Giornalista, cronaca di una morte annunciata
di Daniela Zini

ZINE EL-ABIDINE BEN ALI
Ben Ali in fuga dalla Craxi Avenue
di Daniela Zini

PAOLO BORSELLINO
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini

ANGELO BRUNETTI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
114 anni fa nascava Ciceruacchio
di Daniela Zini

ANTONINO CAPONNETTO
Memento Memoriae di Antonino Caponnetto
di Daniela Zini

ANTON PAVLOVIC CECHOV
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
Sakhalin: l’Inferno dei reclusi a vita
di Daniela Zini

BLAISE CENDRARS
Blaise Cendrars il soldato vagabondo che inventò la Poesia Moderna
di Daniela Zini

CONFUCIO 
Confucio e l’antica cultura
di Daniela Zini

DONATIEN-ALPHONSE-FRANCOIS DE SADE
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Il Divino Marchese
di Daniela Zini

DARIO I IL GRANDE
La gloria di Re Dario tramonta a Maratona
di Daniela Zini

CECCO D’ASCOLI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Cecco d’Ascoli astrologo senza paura
di Daniela Zini

DWIGHT DAVID EISENHOWER
50 anni fa il monito di Eisenhower
di Daniela Zini

GIOVANNI FALCONE
Omaggio a Giovanni Falcone
di Daniela Zini

Memento Memoriae
Giovanni Falcone ce l’ha insegnato, la Mafia è un reato!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?
di Daniela Zini

MOHANDAS KARAMCHARD GANDHI
La non-violenza sconfiggerà la violenza
di Daniela Zini

La non-violenza sconfiggerà la violenza?
di Daniela Zini

GESU’
Gesù e le donne
di Daniela Zini
di Daniela Zini

… e abitò tra noi!
di Daniela Zini

FLAVIO CLAUDIO GIULIANO
Giuliano il restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini

JOHN MAYNARD KEYNES
Keynes, profeta del New Deal
di Daniela Zini

MARTIN LUTHER KING
I have a dream…
di Daniela Zini

THOMAS EDWARD LAWRENCE
125 anni fa nasceva El Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini

LEONARDO
1. Perché Leonardo?
di Daniela Zini

2. Monna Lisa
di Daniela Zini

3. Leonardo e le donne
di Daniela Zini

MALCOLM
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Malcolm X
di Daniela Zini

NELSON ROLIHLAHLA MANDELA
Nelson Mandela una candela nel vento
di Daniela Zini

BRADLEY EDWARD MANNING
Eroi o traditori?
I. Il processo di Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini

TOMAS GARRIGUE MASARYK
Dopo 60 anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini

JAFAR PANAHI
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini

JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
Argentina I. La Tripla A: un nome che semina morte
di Daniela Zini

LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev Nicolaevic Tolstoj
di Daniela Zini

 



I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità, della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovarli suoi estremi. 
Onde con tal arte ha conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo [1538-1592]
 
 
Perché Leonardo?
Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti – possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità, non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente, la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete di conoscenza, quantunque “omo senza lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che, chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”. 
È questo “filosofar” la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale, una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha, certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi, sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque secoli dalla morte del Maestro. 

 
In quel crogiolo di menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della Cultura, la figura di Leonardo campeggia  dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale lungimiranza, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo, che brucia gli ingegni, sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù, condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è solo un vuoto sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
In un film dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani del 1967, I sovversivi, appariva il personaggio di un regista cinematografico alle prese con la biografia di Leonardo da Vinci. Al cineasta Ludovico interessava, soprattutto, l’ultimo periodo della vita del Genio, nel quale si compiaceva di rispecchiare, con effetto piuttosto grottesco, la propria crisi personale. E il film nel film mostrava, così, un Leonardo morente, in fuga dalle corti che l’avevano ospitato, animato da una smania tolstoiana di aria e di libertà.
A breve distanza da I sovversivi, un regista vero si trovava nell’imbarazzante situazione dell’immaginario Ludovico, quella di confessarsi, raccontando la vita di Leonardo: Renato Castellani – ligure, cinquantasette anni, laureato in architettura, autore di films famosi, Sotto il sole di Roma e Due soldi di speranza – stava realizzando per la RAI-TV un Leonardo in cinque puntate, dopo avere impiegato due anni a scrivere la sceneggiatura, con la consulenza di Cesare Brandi. 
Vi sono figure della Storia di cui è agevole ricostruire, sulle cronache e sui documenti, l’itinerario biografico e psicologico e  altre, che viste da vicino, si rivelano ambigue e misteriose.
Tra queste ultime è Leonardo.
La sua biografia si fonda su scarsi elementi, appare laconica e misteriosa, infarcita di leggende e di inesattezze.
Giorgio Vasari, nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori fa morire l’artista “in braccio” a Francesco I e “nell’età sua d’anni settantacinque”.
“Mentre Leonardo”,
affermava Castellani,
“morì a sessantasette anni d’età e il giorno della sua morte Francesco I si trovava a Saint-Germain.”
Nell’enumerare le difficoltà incontrate il regista riferiva:
“Di Leonardo non possediamo lettere. L’unica che ci è pervenuta quasi per intero è la famosa epistola a Ludovico il Moro ed è una lettera, diciamo così, di affari. Anche della sua opera non conosciamo molto: poco più di una decina di quadri sono sopravvissuti al loro tempo e di questi, almeno quattro, sono d’incerta attribuzione.”
E non solo.
Del famoso cavallo per il monumento a Francesco Sforza, scultura alta sette metri, non esistono più che alcuni disegni; della grande Battaglia di Anghiari è rimasta solo una una sanguigna di Pieter Paul Rubens e una piccola copia; i ricchissimi Codici furono smembrati e dispersi.
Definito “mirabile e celeste” da Giorgio Vasari, Leonardo “era tanto piacevole nella conversazione che tirava a sé gli animi delle genti”: eppure nelle memorie dei contemporanei è nominato ben poco. E Leonardo stesso parla pochissimo di sé, appena qualche frase sintomatica, come quella famosa:
“E se tu sarai solo sarai tutto tuo.”,
da cui bisogna ricostruirne il carattere con la bravura dell’archeologo, che da un residuo frammento riesce a immaginare l’opera intera.
Così fece Sigmund Freud, nel 1910, pubblicando il saggio, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, che fu accolto da proteste indignate. Parve, infatti, che il fondatore della psicoanalisi avesse valicato i limiti dell’osservazione scientifica analizzando un sogno infantile riferito dall’artista: l’incubo di un nibbio che si avventava sul suo letto e con la coda gli percuoteva la bocca. Da questa immagine notturna Freud risaliva alla malcerta condizione del sognatore come “figliuolo non legittimo” del notaio Ser Piero da Vinci, coccolato dalla madre Caterina e troppo presto strappato a lei.
Per tutta la vita, Leonardo sublimò in un ideale di bellezza androgino, che si evidenzia negli ambigui sorrisi dei suoi ritratti, la carenza dell’affetto paterno e l’eccesso di quello materno; il suo stesso eclettismo ossessivo si spiegherebbe, secondo Freud, con i dati della sessualità infantile.    
Per evitare i rischi delle biografie romanzate, Castellani aveva scelto la mediazione di un personaggio didascalico, interpretato dall’attore Giulio Bosetti, vestito, in modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta, per introdurre, commentare e integrare lo sceneggiato, creando una curiosa commistione di epoche.
Quanto all’interprete di Leonardo, la ricerca era stata lunga, aveva contemplato molti grandi nomi del cinema dallo svedese Max von Sidow al francese Laurent Terzieff.
Sempre insoddisfatto, il regista ripeteva ai suoi collaboratori:
“Leonardo era uno che piegava con le mani un ferro di cavallo e che poi, con quelle stesse mani, ha dipinto la Gioconda.”
Dopo molti provini era stato scelto l’attore francese Philippe Leroy, quaranta anni, nobile dei conti Leroy-Beaulieu, ex-parà in Indocina, ex-giocatore di rugby, interprete di cinquanta films dal giorno del 1960, in cui il regista Jacques Becker lo “intrappolò” tra i carcerati de Il buco.
Non era mancino come Leonardo, ma aveva promesso che si sarebbe esercitato, puntigliosamente, tutti i giorni, a scrivere e a disegnare con la mano sinistra.  
E, il 24 ottobre 1971, la RAI-TV mandava in onda la prima delle cinque puntate dello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani.
Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse, ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato, nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune.
Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Lo sceneggiato si apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del 1519.
Il sessantasettenne Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il re di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé.
Leonardo è nel suo letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del re in persona, preoccupato per le sue condizioni di salute.
Tenta di sollevarsi dal letto, ma il sovrano lo esorta a non sforzarsi: “Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:

“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
  
4. IL CODICE ATLANTICO


Leonardo, Autoritratto, sanguigna su carta.
Biblioteca Reale, Torino.





“Vidimus et ichnographiam Leonardi Florentini pictoris manu descriptam, pulchram sane et tam celebri artifice dignam, sed prorsus inutilem: quod eius esset qui nec numerum intestinorum nosceret. Erat enim purus pictor non medicus nec philosophus”.
Cardano, Expositio Anatomiae Mundini, 1663
 


Il Codice Atlantico – la definizione deriva dal suo grande formato – è una tra le più preziose raccolte di scritti e disegni leonardeschi. Quel bene di inestimabile valore artistico e culturale, custodito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, passò tra mille incaute mani e per la ignoranza di un blasonato commissario austriaco  rischiò, perfino, di andare perduto.



È il 23 aprile 1519, quando Leonardo, “considerando la certezza della morte e l’incertezza dell’ora di quella.”, annota Giorgio Vasari, chiama il notaio Guillaume Boreau per dettare il suo testamento.
Sono presenti il vicario dell’Eglise de Saint-Denis Esprit Fleri, il cappellano Guillaume Croyant, due religiosi italiani del Convento dei Frati Minori ad Amboise, Père François de Cortone e Père François de Milan, Cyprien Fulchin e Francesco Melzi. 
Il testamento si apre, come è d’uso, con una raccomandazione dell’anima a Dio, alla gloriosa Vergine Maria, a “Monsignor” San Michele, a tutti gli Angeli e i Santi. 
 


Eglise Saint-Denis, Amboise.

Vengono, poi, le volontà sul luogo della sepoltura e sui particolari del funerale.
Il feretro, lascia scritto Leonardo, dovrà, tra l’altro, essere accompagnato da sessanta poveri di Amboise, ciascuno recante una torcia. Penserà Francesco Melzi a ricompensarli.
Vi sono, poi, disposizioni per le messe da celebrare in suffragio: tre cantate e trenta “basse”, in tre chiese diverse.  
E, quindi, il documento passa a indicare a quali persone dovranno essere assegnati i beni di Leonardo.
 
Eglise Saint-Florentin, Amboise.

A Gian Giacomo Caprotti, detto il Salaì va una metà della vigna donatagli da Ludovico il Moro [https://www.vignadileonardo.com/it], situata sul retro della Casa degli Atellani, che si estende per un totale approssimativo di 8300 metri quadrati – come risulta, anche, da due mappe schizzate dallo stesso Leonardo –, l’altra metà al servitore Battista de’ Villanis. Anche la domestica Mathurine è ricordata. Le spetta una veste di buon panno nero foderato di pelliccia, un mantello e due ducati. Somme varie sono lasciate ai poveri di Amboise e dell’Hôpital Saint-Lazare. A Francesco Melzi andranno, anche, i danari che Leonardo deve ricevere dal tesoriere del re e tutti i suoi vestiti. Rimangono i soldi depositati a Firenze e quel piccolo podere nelle colline di Fiesole. Il cristiano Leonardo dispone che siano dati a quei fratelli che, in anni oramai lontani, avevano voluto diseredarlo.
 

Sia manifesto ad ciaschaduna persona presente et advenire, che nella corte del Re nostro signore in Amboysia avanti de noy personalmente constituito Messer Leonardo de Vince pictore del Re, al presente comorante nello locho dìcto du Cloux appresso de Amboysia, el qual considerando la certezza dela morte e l’incertezza del hora di quella, ha cognosciuto et confessato nela dicta corte nanzi de noy nela quale se somesso e somette circa ciò havere facto et ordinato per tenore dela presente il suo testamento et ordinanza de ultima volontà nel modo qual se seguita. Primeramente el racomanda l’anima sua ad nostro Signore Messer Domine Dio, alla gloriosa Virgine Maria, a Monsignore Sancto Michele, e a tutti li beati Angeli Santi e Sante del Paradiso.
Item el dicto Testatore vole essere seppelito drento la giesia de sancto Fiorentino de Amboysia et suo corpo essere portato lì per li capellani di quella.
Item che il suo corpo sia accompagnato dal dicto locho fin nela dicta giesia de sancto Fiorentino per il colegio de dicta giesia cioè dal Rectore et Priore, o vero dali Vicarii soy et Capellani della giesia di sancto Dionisio d’Amboysia, etiam li Fratri Minori del dicto locho, et avante de essere portato il suo corpo nela dicta chiesia, esso Testatore, vole siano celebrate ne la dicta chiesia di sancto Fiorentino tre grande messe con diacono et sottodiacono, et il di che se diranno dicte tre grande messe che se dicano anchora trenta messe basse de Sancto Gregorio.
Item nella dicta chiesia de Sancto Dionisio simil servitio sia celebrato como di sopra.
Item nella chiesia de dicti Fratri et religiosi minori simile servitio.
Item el prefato Testatore dona et concede ad Messer Francesco da Melzo Gentilomo da Milano, per remuneratione de’ servitù ad epso grati a lui facti per il passato, tutti et ciaschaduno li libri, che il dicto Testatore ha de presente et altri Instrumenti et Portracti circa l’arte sua et industria de Pictori.
Item epso Testatore dona et concede a sempre mai perpetuamente a Battista de Vilanis suo servitore la metà zoè medietà de uno iardino, che ha fora a le mura de Milano et l’altra metà de epso iardino ad Salay suo servitore nel qual iardino il prefato Salay ha edificata et constructa una casa, la qual sarà e resterà similmente a sempremai perpetudine al dicto Salai, soi heredi, et successori, et ciò in remuneratione di boni et grati servitii, che dicti de Vilanis et Salay dicti suoi servitori lui hano facto de qui inanzi.
Item epso Testatore dona a Maturina sua fantescha una veste de bon pan negro foderata de pelle, una socha de panno et doy ducati per una volta solamente pagati: et ciò in remuneratone similmente de boni servitii ha lui facta epsa Maturina de qui inanzi.
Item vole che ale sue exequie siano sexanta torchie le quale seranno portate per sexanta poveri ali quali seranno dati danari per portarle a discretione del dicto Melzo le quali torzi seranno divise nelle quattro chiesie sopradicte.
Item el dicto Testatore dona ad ciascheduna de dicte chiesie sopradicte diece libre cera in candele grosse che seranno messe nelle diete chiesie per servire al dì che se celebreranno dicti servitii.
Item che sia dato ali poveri del ospedale di Dio alli poveri de Sancto Lazaro de Amboysia, et per ciò fare sia dato et pagato alli Tesorieri depsa confraternita la summa et quantità de soysante dece soldi tornesi.
Item epso Testatore dona et concede al dicto Messer Francesco Melce presente et acceptante il resto della sua pensione et summa de’ danari qual a lui sono debiti del passato fino al dì della sua morte per il recevoir, ovvero Tesaurario general M. Johan Sapin, et tutte et ciaschaduna summe de danari che ha receputo dal p.° Sapin de la dicta sua pensione, e in caxo chel decede inanzi al prefato Melzo, e non altramente li quali danari sono al presente nella possessione del dicto Testatore nel dicto loco de Cloux como el dice. Et similmente el dona et concede al dicto de Melze tucti et ciaschaduni suoi vestimenti quali ha al presente ne lo dicto loco de Cloux tam per remuneratione de boni et grati servitii, a lui facti da qui inanzi, che per li suoi salarii vacationi et fatiche chel potrà avere circa la executione del presente Testamento, il tutto però ale spese del dicto Testatore.
Ordina et vole, che ia summa de quattrocento scudi del sole che ha in deposito in man del Camarlingo de Sancta Maria de Nove nela città de Fiorenza siano dati ali soy fratelli carnali residenti in Fiorenza con el profitto et emolumento che ne po essere debito fino al presente da prefati Camarlinghi al prefato Testatore per casone de dicti scudi quattrocento da poi el dì che furono per el prefato Testatore dati et consignati alli dicti Camarlinghi.
Item vole et ordina dicto Testatore che dicto Messer Francisco de Melzo sia et remana solo et in sol per il tutto executore del Testamento del prefato Testatore, et che questo dicto Testamento sortisca suo pieno et integro eteffecto, et circa ciò che è narrato et decto havere tenere guardare et observare epso Messer Leonardo de Vince Testatore constituto ha obbligato et obbliga per le presente epsi soy heredi et successori con ogni soy beni mobili et immobili presenti et advenire et ha renunciato et renuncia per le presente expressamente ad tucte et ciaschaduna le cose ad ciò contrarie. Datum ne lo dicto loco de Cloux ne le presencie de magistro Spirito Fieri Vicario nela chiesia de Sancto Dionisio de Amboysia, M. Gulielmo Croysant prete et capellani, Magistro Cipriano Fulchin, Fratre Francesco de Corton et Francesco da Milano religioso del convento de fratri minori de Amboysia, testimonii ad ciò ciamati et vocati ad tenire per il iudicio de la dicta Corte, in presentia del prefato M. Francesco de Melze acceptante et consentiente il quale ha promesso per fede et sacramento del corpo suo per lui dati corporalmente ne le mane nostre di non mai fare venire, dire, ne andare in contrario. Et sigillato a sua requesta dal sigillo regale statuito a li contracti legali d’Amboysia, et in segno de verità. Dat. A dì XXIII de Aprile MDXVIII avanti la Pasqua.
Et a dì XXIII depso mese de Aprile MDXVIII ne la presentia di M. Gulielmo Borian notorio regio ne la corte de Baliagio d’Amboysia il prefato M. Leonardo de Vince ha donato et concesso per il suo testamento et ordinanza de ultima voluntà supradicta al dicto M. Baptista de Vilanis presente et acceptante il dritto de laqua che qdam bone memorie Re Ludovico XII ultimo defuncto ha alias dato a epso de Milano per gauderlo per epso De Vilanis a sempre mai in tal modo et orma che el dicto Signore ne ha facto dono in presentia di M. Francesco da Melzo Gentilhomo de Milano et io.
Et a dì prefato nel dicto mese de Aprile ne lo dicto anno MDXVIII epso M. Leonardo de Vinci per il suo testamento et ordinanza de ultima volunta sopradecta ha donato al prefato M. Baptista de Vilanis presente et acceptante tutti et ciaschaduni mobili et utensili de caxa soy de presente ne lo dicto loco du Cloux. In caxo però che el dicto de Vilanis surviva al prefato M. Leonardo de Vince, in presentia del prefato M. M. Francesco da Melzo et io Notario etc. Borean.
 


Leonardo, Disegno.

È, forse di quegli ultimi giorni un disegno allegorico che Leonardo traccia su un foglio. Vi è rappresentata una barca che solca le onde in tumulto di un oceano, irto di scogli. L’albero maestro è sostituito da una pianta frondosa, la vela è gonfiata dall’impeto dei venti. E al timone, per dirigere l’imbarcazione, è seduto un orso. Sulla vicina sponda, verso la quale la barca sta veleggiando, appare una Fenice sopra una sfera e dal piumaggio del mitico uccello si sprigionano raggi di luce.
È la raffigurazione della certezza di Leonardo di raggiungere, al fine di una vita, che non gli ha risparmiato le tempeste, un secondo più luminoso destino.

 Jean-Auguste-Dominique Ingres [1780-1867], Francois I reçoit les derniers soupirs de Leonard de Vinci.  Musée des Beaux-Arts de la Ville de Paris, Petit Palais, Parigi.

È il 2 maggio 1519 quando Leonardo esala il suo ultimo respiro, all’età di 67 anni, dopo avere ricevuto gli ultimi sacramenti della Chiesa.
E, finalmente, conosce la pienezza della luce.
Un celebre quadro di Jean-Auguste-Dominique Ingres, basato sul racconto di Giorgio Vasari, che, a sua volta, accoglie voci leggendarie, mostra Leonardo morente tra le braccia di Francesco I di Francia.
Giorgio Vasari attribuisce a Leonardo, nelle ultime ore di vita, mentre si sforza per levarsi un’ultima volta e ricevere la comunione, parole di rimprovero a se stesso per avere offeso Dio e gli uomini, non avendo fatto quanto doveva nella propria arte:

“Egli per reverenza rizzatosi a sedere sul letto, contando il Mal suo e gli accidenti di quello, mostrava tuttavia quanto avea offeso Dio e gli uomini del mondo, non avendo operato nell’Arte come si conveniva.”

Ma Francesco I di Francia era al capezzale di Leonardo, come scrive Vasari, o a Saint-Germain-en-Laye, dove la corte festeggiava la nascita del secondo figlio, il futuro re Enrico II?
La verità è, sempre, dubbia.
È assai più pensabile che a sostenere Leonardo, nei suoi estremi momenti, fosse il fedelissimo Francesco Melzi e, tuttavia, apprendendo la notizia, riferisce il poeta Giovanni Paolo Lomazzo, Francesco I pianse di tristezza e pronunciò con semplici parole la più bella delle orazioni funebri: 

“Per ciascuno di noi, la morte di quest’uomo è un lutto perché è impossibile che la vita possa ridarcene uno simile.”

Il primo giorno di giugno di quell’anno, Francesco Melzi, scrivendo a Giuliano di ser Piero da Vinci, chiama Leonardo “mio ottimo padre” e protesta che per la sua “morte sarebbe impossibile ch’io potesse esprimere il dolore che ho preso”.
È la lettera con la quale Francesco Melzi informa i Vinci delle ultime volontà del loro congiunto e delle sostanze che Leonardo lascia loro. Firmandosi, Melzi si dice “tamquam fratri vestro”.

Ser Giuliano e fratelli suoi honorandi.
Credo siate certificati della morte di Maestro Lionardo fratello vostro, e mio quanto optimo padre, per la cui morte sarebbe impossibile che io potesse esprimere il dolore che io ho preso; e in mentre che queste mie membra si sosterranno insieme, io possederò una perpetua infelicità, e meritamente perché sviscerato et ardentissimo amore mi portava giornalmente. È dolto ad ognuno la perdita di tal uomo, quale non è più in podestà della natura. Adesso Iddio onnipotente gli conceda eterna quiete. Esso passò dalla presente vita alli 2 di Maggio con tutti li Ordini della Santa Madre Chiesa, e ben disposto. E perchè esso aveva lettera del Cristianissimo Re, che potesse testare, e lasciare il suo a chi li paresse; e sento quod Eredes supplicante sint regnicolae: senza la qual lettera non potea testare che valesse, che ogni cosa sarebbe stato perso, essendo così quà costume, cioè di quanto s’appartiene di quà, detto Maestro Lionardo fece testamento il quale vi avrei mandato se avessi avuto fidata persona. Io aspetto un mio zio quale vienmi a vedere trasferendo se stesso di poi costì a Milano. Io glielo darò, ed esso farà buono ricapito non trovando altro in questo mezzo. Di quanto si contiene circa alle parti vostre in esso testamento [altro non v’ è se non] che detto Maestro Lionardo ha in Santa Maria nuova nelle mani del Camarlingo segnato, e numerate le carte, 400 scudi di sole, li quali sono a 5 per 100 e alli 16 d’ottobre prossimo, saranno 6 anni passati, e similmente un Podere a Fiesole, quali vuole sia distribuito infra voi. Altro non contiene circa alle parti vostre, nec plura, se non che vi offero tutto quello [che] vaglio o posso, prontissimo e partissimo alle voglie vostre, e di continuo raccomandandomi. Dato in Ambriosa die primo Junij 1519.
Datemene risposta per i Gondi.

Nei registri del capitolo reale di Saint-Florentin, la chiesa dove Leonardo ha voluto essere sepolto, si legge che, il 12 agosto 1519, “fut inhumé dans le cloître de cette église, Mo Lionard de Vincy, noble millanois, premier peintre et ingénieur et architecte du Roy, meschanischien d’estat et anchien directeur de peinture du Duc de Milan”.
Non sappiamo quale epigrafe sia stata posta sulla tomba, né se qualcuno si sia ricordato delle parole dette, molti anni prima, dallo stesso Leonardo:

“Sì come una giornata bene spesa fa lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.”

Non sappiamo.
Perché il destino che, molte volte, si era accanito a scompigliare i progetti e le opere di Leonardo non ha voluto che neppure rimanesse traccia della tomba di uno dei più grandi Geni che abbiano nobilitato l’Umanità.
Quaranta anni dopo, l’Eglise de Saint-Florentin è al centro delle lotte di religione che sconvolgono la Francia. Gli ugonotti, nel 1560, sono padroni del campo e distruggono ogni cosa appartenuta ai cattolici, anche all’interno del tempio. Tuttavia, non è certo se le ossa di Leonardo siano state disperse in quell’anno o più tardi.
Nel Settecento, si pensa che la sepoltura sia stata trasferita a Fontainebleau, vicino a Parigi ed è là che Carlo Goldoni cerca di rintracciare la tomba.
Invano!
Nel 1808, il prefetto napoleonico ordina di demolire l’Eglise de Saint-Florentin, perché pericolante.
Molte lastre tombali vengono distrutte e il piombo delle bare è requisito e fuso per farne proiettili.
Pochi giorni dopo, un giardiniere provvede a riseppellire, tutte insieme, le ossa rimaste allo scoperto.
È un poeta, Arsène Houssaye, che, nel 1863, dopo due mesi di ricerca, crede di avere identificato lo scheletro di Leonardo, attraverso fragili indizi, come il frammento di una iscrizione e una moneta di Francesco I.
Houssaye fa sistemare questi resti in un nuovo loculo, nella Chapelle Saint-Hubert, ad Amboise, e detta queste parole da incidere sulla pietra:

“Qui sotto riposano ossa raccolte negli scavi nell’antica Ccappella Reale d’Amboise: tra esse si suppone si trovi la spoglia mortale di Leonardo da Vinci, nato nel 1452, morto nel 1519.”

Null’altro.
 Romorantin
 
 Château d’Amboise
 
Château d’Amboise
   Chapelle Saint-Hubert, Château d’Amboise.

E questa dispersione delle spoglie, ostile, si direbbe, a ogni tentativo di ricomposizione, ci appare pressoché carica di un messaggio: Leonardo non appartiene alle morte memorie, è perennemente vivo.   


Jean Clouet, Ritratto di Francesco I di Francia.

 
Tomba di Leonardo, Chapelle Saint-Hubert, Château d’Amboise.
  

 
Tomba di Leonardo, Chapelle Saint-Hubert, Château d’Amboise.

 
    Tomba di Leonardo, Chapelle Saint-Hubert, Château d’Amboise.
 
Tomba di Leonardo, Chapelle Saint-Hubert, Château d’Amboise.





Château de Clos-Lucé.



 
“Il primo è un libro grande, cioè lungo oncie tredici da legname et largo oncie nuve e mezza, coperto di corame rosso stampato con duoi fregi d’oro con quattro arme d’aquile, e leoni, e quattro fiorami nelli cantoni tanto da una parte quanto dall’altra esteriormente, con lettere d’oro dambo le parti che dicono: Disegni di Machine et delle Arti Secrete, e altre cose di Leonardo da Vinci raccolti da Pompeo Leoni, nella schiena vi sono sette fiorami d’oro, con quattordeci fregi d’oro, il qual libro è di fogli trecento novantatrè di carta reale per rispetto dello sfogliato, ma vi ne sono altri fogli sei di più dello sfogliato sì che sono fogli in tutto Num. 399 ne’ quali vi sono riposte diverse carte di disegni al num. di mille settecento cinquanta.”

Questa secentesca descrizione di quello che conosciamo con il nome di Codice Atlantico, proprio per il suo formato  “grande”, ossia di atlante, è tratta dall’atto di donazione, fatto stilare, il 22 gennaio 1637, da parte del conte milanese Galeazzo Arconati Visconti – all’epoca proprietario dell’opera leonardesca – a favore della Biblioteca Ambrosiana, presso la quale il prezioso manoscritto è, tuttora, conservato.

Biblioteca Ambrosiana, Milano.

Il Codice Atlantico, una delle ventotto raccolte sparse per il mondo, contenente scritti e disegni di Leonardo, fu, infatti, donato, unitamente ad altri dodici volumi di “carte leonardesche”, alla biblioteca milanese dal conte Arconati Visconti – nipote per parte materna del cardinale Federico Borromeo – che lo aveva acquistato dagli eredi di Pompeo Leoni, insieme ad altri undici codici leonardeschi, per 300 scudi e aveva rifiutato di venderlo, per 1000 doppie d’oro, al re Giacomo d’Inghilterra.

Biblioteca Ambrosiana, Milano.

Perché questo dono regale del conte Arconati Visconti, peraltro, geloso conservatore di opere d’arte, setacciate per l’Europa intera e, tuttora, conservate nella splendida Villa di Castellazzo di Bollate, la “piccola Versailles lombarda”?

Era consuetudine del tempo elargire doni munifici a istituzioni ecclesiastiche importanti e tale doveva essere per la città di Milano, già, a quel tempo, la Biblioteca Ambrosiana, che, fondata dal cardinale Federico Borromeo, il 7 settembre 1607, e inaugurata l’8 dicembre 1609, fu tra le prime a consentire l’accesso a chiunque fosse in grado di leggere e di scrivere.

Ma, forse, esiste una spiegazione più legata alle umane e personali vicende del conte Arconati Visconti, l’esistenza di un figlio naturale, studioso di Leonardo, frate dell’Ordine dei Frati Predicatori, nella Basilica di Sant’Eustorgio a Milano: frate Luigi Maria Arconati. 

Biblioteca Ambrosiana, Milano.

Desiderio di affidare a una eminente istituzione un tesoro come il Codice Atlantico – immortalando, così, la propria fama di illustre “scopritore” e collezionista di meraviglie della cultura e dell’arte – e sentimenti e vicende personali, probabilmente, sono all’origine di quel gesto, che ha assicurato, fino ai giorni nostri, la conservazione, in Italia, della più corposa e celebre raccolta di fogli del grande inventore e artista rinascimentale.
Conservazione giunta, fino ai tempi nostri, non senza traversie e difficoltà.

Anonimo, conte Galeazzo Arconati Visconti.


El Greco, Ritratto di scultore [1576-1578], ritenuto un possibile ritratto di Pompeo Leoni.
 

Villa Arconati

Villa Arconati

Villa Arconati


Villa Arconati

Villa Arconati
   Villa Arconati
Villa Arconati
 
Villa Arconati


Villa Arconati
 
Villa Arconati


Villa Arconati
Villa Arconati


Villa Arconati
 
Villa Arconati


Villa Arconati

Villa Arconati

Villa Arconati

Villa Arconati


Villa Arconati
 
Villa Arconati
  Villa Arconati

Villa Arconati


Villa Arconati

Villa Arconati

Villa Arconati


Villa Arconati
Villa Arconati

Come scrive il prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Monsignor Stefano Bonsignori, nel 1970, il Codice Atlantico fu, sul momento, custodito, con venerazione e diligenza:

“Ha questo titolo al di fuori con caratteri d’oro. Disegni di Machine et delle arti, secreti, et altre cose di Leonardo da Vinci raccolte da Pompeo Leoni. È questo un codice, che diligentemente conservasi in Cassa dipinta con, vari ornati a color di oro fatta a guisa di urna sopra un Tavolo e il tutto di noce, con affisso al muro un monumento inciso in marmo ad eterna memoria di Galeazzo Arconati donatore di questo volume nell’anno 1637.
[...] Il volume contiene vari abbozzi, e pensieri di Leonardo in ogni genere di belle arti, e scienze Matematiche, come d’Idraulica, Idrostatica, Architettura civile, e militare, con disegni di bombe, catapulte etc., di corso di acqua, d’instrumenti meccanici, di conche, di pittura, scultura, incisione, geometria etc. È in foglio atlantico legato in pelle, e sta nella Galleria delle pitture.”

Solo un avvenimento storico che scosse l’Europa intera poté turbare la sua quiete.
“La diffusione del Trattato della pittura, stampato e manoscritto, la gara tra i collezionisti per impadronirsi dei manoscritti vinciani”, la notizia della riunione di un cospicuo numero di manoscritti presso la Biblioteca Ambrosiana, le descrizioni che se ne fecero, le citazioni di brani importanti nel campo delle anticipazioni scientifiche, la riproduzione di alcuni disegni, suscitarono grande interesse in molti intellettuali, tanto che da più parti giunsero suggerimenti e proposte di pubblicazione delle opere.
Ma mentre a Milano e altrove si coltivavano questi intendimenti, in Francia, scoppiava la Rivoluzione.
Qualche anno dopo, Napoleone, entrato vittorioso in città, ordinò, in ossequio alle disposizioni dettate dal Direttorio, di trasferire tutta la collezione vinciana esistente nella Biblioteca Ambrosiana a Parigi.
Un verbale redatto il 24 maggio 1796 dall’agent des arts Tinet e dal commissaire des guerres de la place Peignon, riferisce semplicemente della requisizione del carton des ouvrages de Leonard de Vinci, ma un successivo atto del 7 nevoso anno VI, firmato dal pro-prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Gaetano Bugati, ricorda che furono sottratti, oltre al Codice Atlantico, “altri 12 volumi di Leonardo, tra grandi e piccoli”, dei quali uno è in-folio, coperto di pelle, che tratta della luce delle ombre, gli altri contengono varie figure geometriche e diversi pensieri dell’autore”. Dopo molteplici peripezie – si pensò, perfino, che fossero andati dispersi – i volumi giunsero a Parigi, il 25 novembre 1796, e furono collocati tutti, tranne il Codice Atlantico, che trovò sede alla Bibliothèque Nationale, all’Institut de France. Tra i primi studiosi che approfittarono di questa situazione per studiare i manoscritti leonardeschi, fu l’abate Giovanni Battista Venturi, allora a Parigi in missione diplomatica, da alcuni sospettato, ma erroneamente, di essere stato l’ispiratore della confisca francese dei cimeli vinciani.
Nel 1815, con la caduta di Napoleone e il Trattato di Vienna, i commissari dei vari Governi furono inviati in Francia per il recupero delle opere d’arte trafugate dallo stesso Napoleone. 
Il barone Franz Xaver von Ottenfels-Gschwind, incaricato dall’Austria di recuperare gli oggetti d’arte saccheggiati in Lombardia – essendo questa tornata sotto il dominio austriaco – non ottennero tutti i codici vinciani sottratti alla Biblioteca Ambrosiana, benché ne avesse una nota esatta.
Alla Bibliothèque Nationale il barone von Ottenfels-Gschwind trovò solo il Codice Atlantico, che avrebbe rifiutato, ritenendolo uno scritto cinese a causa della scrittura rovesciata di Leonardo, e non cercò di rintracciare e riavere gli altri manoscritti.
Solo grazie all’intervento di Antonio Canova e di Pietro Benvenuti, il volume poté tornare a Milano.
Rovistando, infatti, tra i tesori accatastati nella Bibliothèque Nationale, Antonio Canova “che operava scrupolosamente in quella delicata missione insieme con l’esperto del Granduca di Toscana, il pittore Pietro Benvenuti”, si imbatté, proprio, nel Codice Atlantico e riconobbe, immediatamente, l’inconfondibile scrittura “a specchio” di Leonardo, i suoi immortali disegni, gli straordinari studi sul volo, conservati in quei fogli. 

“Lo dobbiamo al celebre Canova ed al professore Benvenuti mandato l’uno dal pontefice e l’altro dal granduca di Toscana per ricevere le cose che loro appartenevano. Passeggiavano essi insieme dove si stava separando gli oggetti da consegnarsi a diversi commissari, quando, vedendo questo grosso volume fra quelli che dovevano rimanere, venne loro la curiosità di darvi un’occhiata, e trovativi alcuni disegni e la scrittura da destra a sinistra, che il Commissario mandato dall’Austria a ricevere le cose del Regno Lombardo-Veneto, credeva chinese, conobberlo appartenente a Leonardo, e presolo colle proprie mani lo posero fra le cose che dovevano per la ragione dell’armi tornare dove per la ragione dell’armi ne erano state tolte.”
Girolamo Luigi Calvi, Notizie sulla vita e sulle opere dei principali architetti scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza.

Fu, così, che il Codice Atlantico tornò tra le mura da cui era stato sottratto.
Ma vediamo come i disegni e gli scritti scientifici di Leonardo vennero a comporre questa silloge.
Nel 1519, alla morte di Leonardo, la raccolta dei suoi manoscritti è ereditata dal discepolo prediletto Francesco Melzi, che, nel 1523, torna a Milano portando con sé le carte di Leonardo.
Questo lo sappiamo grazie alla documentazione dell’epoca che riporta:

“Fu creato de Leonardo da Vinci et herede, et ha molti de suoi secreti, et tutte le sue opinioni, et dipinge molto ben per quanto intendo, et nel suo ragionare mostra d’haver iuditio et è gentilissimo giovane.
[...] Credo ch’egli habbia quelli libricini de Leonardo de la Notomia, et de molte altre belle cose.”
Da una lettera da Milano ad Alfonso d’Este, duca di Ferrara, 6 marzo 1523.

Schizzi, disegni, scritti, annotazioni, ogni più piccolo foglio del venerato Maestro furono, gelosamente, conservati da Francesco Melzi, ma, alla sua morte, i manoscritti conservati a Vaprio d’Adda, nella Villa dei Melzi, furono affidati al figlio primogenito Orazio, che li relegò nelle polverose soffitte della villa, in blocco, e divennero, inevitabilmente, preda di mercanti d’arte in cerca di lucrosi affari.
Le vicende di questi manoscritti assumono, da questo momento in avanti, i contorni dell’avventura romanzesca.
 Il primo ad approfittarne fu un precettore che frequentava la casa, l’abate Lelio Gavardi d’Asola, che sottrasse i tredici volumi dalla villa di Vaprio d’Adda con l’intenzione di venderli al granduca di Toscana, Francesco de’ Medici, appassionato collezionista d’arte.
Ma l’affare non andò a buon fine.
Nel vorticoso giro in cui i manoscritti di Leonardo furono coinvolti, giunsero, anche, ad Aldo Manuzio il giovane, uno dei più importanti e famosi stampatori del Cinquecento, arrivarono nelle mani del dotto prete barnabita Giovanni Ambrogio Mazenta, e, infine, tornarono alla famiglia Melzi.
Ma, ancora una volta, Orazio Melzi si dimostrò disinteressato al carteggio lasciato da Leonardo e non solo lo lasciò a Mazenta che avrebbe voluto restituirlo, ma aprì la soffitta della villa a chiunque fosse stato interessato ai fogli leonardeschi, che, ancora, vi erano conservati.
Nelle sue Memorie – redatte verso il 1635 – lo stesso Mazenta scrive:

“Restorno perciò li detti libri nelle mie mani e puoi de’ miei fratelli, quali facendone troppo pomposa mostra, e ridicendo a chi li vedevano il modo e la facilità dell’acquisto, molti andorno dal medesimo dottor Melzi, e ne buscorno disegni, plastice, anatomie, con altre preziose reliquie del studio di Leonardo. Fra questi pescatori vi fu Pompeo Leoni Arettino, figlio del Cavaliere Leone già scuolar del Buonarroti, e famigliare del re di Spagna Filippo II per avervi fatti tutti li bronzi dell’Escoriale. Promise Pompeo al dottor Melzi officji, msggistrati e cattedre nel Senato di Milano se, ricuperando li XIII libri glieli avesse dati per donarli al re Filippo molto curioso di simili singolarità…”



 
Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di Francesco Melzi.
 
 
Francesco Melzi, Presunto Autoritratto.
Villa Melzi a Vaprio d’Adda
Leonardo non ebbe una casa sua né una fissa dimora pur avendo passato molti anni a Milano, a Firenze e a Roma.
Il primo periodo milanese dura diciotto anni e ,dopo una prima residenza probabilmente presso i fratelli Giovanni Ambrogio e Cristoforo de Predis, insieme ai quali ebbe la committenza della Vergine delle Rocce, sappiamo che aveva l’atelier presso la Corte Vecchia, ubicata nei pressi di Palazzo Reale, ove probabilmente abitava.
Nel 1498, Ludovico il Moro gli fa dono di una vigna, nel quartiere suburbano di Porta Vercellina.
Questa è la sua prima proprietà, cui, più tardi, si aggiungerà quella dell’eredità dello zio Francesco, molto contestata dai fratellastri, consistente in alcuni poderi a Vinci.
Tuttavia, nella vigna non abiterà mai e, alla sua morte, la lascerà in parte al fedele cameriere Battista de’ Villanis e in parte all’allievo Salaì, al quale l’aveva affittata e aveva consentito di costruirvi una casa.
Tra le dimore abitate da Leonardo, oltre al Castello di Clos-Lucé, ove morirà il 2 maggio 1519, vi è la Villa Melzi a Vaprio d’Adda, per la quale progettò una importante trasformazione studiata negli anni 1960 da Carlo Pedretti.

I suoi primi biografi, l’Anonimo Gaddiano, Giorgio Vasari e, perfino, Giovanni Paolo Lomazzo, intimo della famiglia Melzi, non citano un soggiorno di Leonardo a Vaprio.
Ma è opinione comune di tutti gli storici che Leonardo abbia visitato la casa e sia stato ospite della famiglia Melzi in più occasioni, sia durante il primo periodo milanese [1482- 1499] sia, soprattutto, durante il secondo [1507 – 1513].
L’amicizia con il conte Gerolamo Melzi, padre di Francesco, risale all’epoca sforzesca, ma è durante il dominio francese che avviene a Vaprio la conoscenza con il giovanissimo Francesco, suo allievo prima e amico poi.
Era stata la canalizzazione dell’Adda per portare l’acqua da Lecco a Milano, superando con un canale navigabile le rapide a monte di Trezzo, che aveva spinto Leonardo sulle rive del fiume facendo della Villa Melzi un suo punto di riferimento.
Da qui partiva per le sue esplorazioni lungo il fiume e sempre da qui raffigurò il Fiume Adda in una serie di disegni conservati a Windsor. Tra questi il foglio 12400 che rappresenta il traghetto tra le due rive, che univa Vaprio a Canonica. 
 
 La pianta della camera della Torre Vauero.
Nel foglio 12400, uno dei disegni di Leonardo da Vinci, è rappresentato il traghetto tra le rive che univa Vaprio e Canonica.
Sulla riva bergamasca è ben rappresentato uno scoglio piatto coperto di erba, un paio di metri sopra il normale livello dell’Adda, che è rimasto uguale e ancora là, con le stesse rientranze e lo stesso profilo. Anche la presa d’acqua della Roggia Vailata che, per un tratto, costeggia l’Adda, si vede molto bene nel disegno.


Sono del 1513, prima della partenza per Roma, una serie di disegni, ora conservati in parte alla Biblioteca Ambrosiana e in parte a Windsor, che fanno pensare a modificazioni e ampliamenti della Villa di Vaprio.
Nel foglio 153 del Codice Atlantico troviamo uno schizzo d’insieme, un pco affrettato ma chiaro, in cui la facciata, che ricorda quella attuale, ma senza il secondo piano aggiunto più tardi, si sviluppa in due prolungamenti laterali.
Il corpo centrale termina in due torrioni angolari che sono descritti in dettaglio nel foglio 395: con tetto piramidale sormontato da un lanternino. Due corpi minori ad arconi si staccano, ai due lati del corpo principale, e si concludono con due piccoli padiglioni.

Nella foto si scorge lo stesso panorama disegnato da Leonardo. Quando, il librarian di Windsor venne a Vaprio, in occasione della esposizione di alcuni disegni della Royal Library, tenutasi al Castello Sforzesco nel 1982, affacciandosi alla terrazza, visto l’Adda e il suo scoglio, restò incantato e, non aspettandosi uno spettacolo che, fedelmente, riproducesse il disegno a lui ben noto, a bassa voce pronunciò una serie di esclamazioni piene di ammirazione:
“Incredibile, marvellous, fantastic…”,
di cui è facile comprendere il motivo. 


Una immagine tratta dalla rivista L’arte di Carlo Pedretti. Le modifiche alla struttura della Villa nei secoli successivi sono state importanti, ma la posizione delle finestre della parte centrale è rimasta quella dello schizzo di Leonardo. Anche il sistema di scalinate, che, dalla terrazza lungo il fiume, scendono collegando le spalliere verso il Naviglio della Martesana, che, ancora, qui scorre parallelo all’Adda, ricorda altri disegni leonardeschi [Codice Atlantico foglio 61]. Il progetto è un tutto unico, seppure disegnato su diversi fogli, a dimostrazione dell’interesse prestato a questa idea anche in momenti diversi, che fa riferimento alla stessa abitazione con uno stile che verrà ripreso in Francia solo verso la fine del Rinascimento. La mancata realizzazione è, forse, dovuta alla partenza per Roma nel settembre di quell’anno insieme a Francesco Melzi e a Salaì.
La realizzazione della progettata trasformazione ci avrebbe dato l’unica opera architettonica realizzata da Leonardo, definito “architetto et ingegnero” nel lasciapassare datogli da Cesare Borgia nell’agosto del 1502.
La sponda milanese del fiume si sarebbe arricchita di una splendida architettura che Pedretti ricostruisce in un suo disegno pubblicato nel 1963 [si veda l’immagine qui sopra].
Se Leonardo non fosse stato invitato, a Roma, da Giuliano de’ Medici, prima, e, ad Amboise, da Francesco I, poi, è probabile che sarebbe rimasto a Vaprio negli ultimi anni della sua vita, circondato dall’affetto di Francesco e della sua famiglia.
Qui dopo la sua morte per un certo tempo saranno custoditi i suoi manoscritti come ricorda Giorgio Vasari, che dopo avere visitato Francesco Melzi, nel 1566, scrive:
“Ha care e tiene quali reliquie tal carte.”

Iniziò, così, una penosa dispersione di disegni, modelli, plastici leonardeschi, che poi, attraverso vie tortuose ritroveremo in mezza Europa.
Basti pensare ai preziosi fogli che giunsero fino al Castello di Windsor in Inghilterra!
È a questo punto che compare un importante artista della Milano spagnola, Pompeo Leoni, figlio di quel Leone Leoni che fu scultore di Filippo II e che, a Milano, ha lasciato la celebre Casa degli Omenoni, dalle otto grandi cariatidi che ne decorano la facciata, nei pressi di piazza Belgioioso.
Leoni riuscì a fatica a recuperare, in parte da Mazenta, in parte da Orazio Melzi, dieci volumi di fogli, che costituiscono il nucleo di quello che sarebbe stato, poi, il Codice Atlantico.
Leoni, infatti, riunì quei disegni e quegli “studi di macchine”, che, noi, oggi, possiamo ammirare alla Biblioteca Ambrosiana, nel libro di cuoio rosso con la scritta in oro, così come citato nell’atto di donazione del 1637.   
Il Codice Atlantico, infine, ereditato, nel 1608, da Polidoro Calchi, marito della figlia di Pompeo Leoni, Vittoria, fu da questi venduto, nel 1622, al conte Galeazzo Arconati. Non è nota la data esatta della cessione, ma esiste una ricevuta del 28 agosto 1622, rilasciata da Francesco Maria Calchi, figlio di Polidoro, che indica una somma di 445 ducatoni dovuta da Arconati.
Nella sua regale residenza di Castellazzo di Bollate, il conte Arconati Visconti aveva radunato oggetti di inestimabile valore artistico e culturale: da busti e statue dell’antica Roma – tra cui una preziosissima di Pompeo Magno, presumibilmente quella sotto la quale fu ucciso Cesare – agli stessi altorilievi della Tomba di Gaston de Foix del Bambaja e ad altri tesori.
Nell’atto di donazione alla Biblioteca Ambrosiana il conte Arconati pose, tuttavia, la condizione che il Codice Atlantico sarebbe rimasto nella sua dimora di Castellazzo tra i suoi amati libri, fino alla sua morte.
Per lasciarne perpetuo ricordo i responsabili della Biblioteca Ambrosiana decisero di dedicare a questo evento capitale per la cultura milanese una lapide che, ancora oggi, si legge sullo scalone di ingresso alla Pinacoteca Ambrosiana
 

  LEONARDI VINCII
MANV ET INGENIO CELEBERRIMI
LVCVBRATIONVM VOLVMINA XII
HABES O CIVIS
GALEAZ ARCONATVS
INTER OPTIMATES TVOS
BONARVM ARTIVM CVLTOR OPTIMVS
REPVDIATIS REGIO ANIMO
QVOS ANGLIÆ REX PRO VNO OFFEREBAT
AVREIS TER MILLE HISPANICIS
NE TIBI TANTI VIRI DEESSET ORNAMENTVM
BIBLIOTECHÆ AMBROSIANÆ CONSECRAVIT
NE TANTI LARGITORIS DEESSET MEMORIA
QVEM SANGVIS QVEM MORES
MAGNO FEDERICO FVNDATORI
ADSTRINGVNT
BIBLIOTECHÆ CONSERVATORES
POSVERE
ANNO MDCXXXVII[1]

 












































































Nel 1962, il celebre volume di “corame rosso” fu giudicato bisognevole di un restauro.
Per mettere in salvo dalla inevitabile usura del tempo quegli insostituibili originali, bisognava, foglio per foglio, pulirli, arieggiarli, sistemarli, in modo ancora più appropriato.
Pompeo Leoni, orafo e scultore di buona fama, infatti, aveva incollato sopra i robusti fogli sul suo “album” le carte di Leonardo tenendo conto di tre criteri: la conservazione della visibilità degli scritti sul “verso” delle carte, la necessità di distribuire il peso in modo equo sui vari fogli e l’esigenza di occupare, razionalmente, lo spazio disponibile. Sui fogli di supporto, la cui superficie era di millimetri 450x650, Leoni aprì delle finestre incollando le carte sui lati.
Sovente, le carte vinciane furono tagliate per meglio distribuirle.
È questo il non mai abbastanza deprecato “scempio” che, con le migliori intenzioni, fu compiuto da Leoni, nel corso della sua “composizione”. Il numero delle carte che, dall’atto di donazione, risulta di 1750, oggi è di 1286 pezzi.
Nel 1962, quindi, il vetusto cimelio fu portato nel laboratorio specializzato dell’Abbazia di Grottaferrata.
Là, per dieci anni, sotto la direzione di padre Kurelo Giosafat e la supervisione del professor Francesco Barberi del Ministero della Pubblica Istruzione, si effettuarono i lavori di restauro.
Ogni più piccola carta di Leonardo fu staccata dal vecchio Codice di Pompeo Leoni, lavata e, nel caso, rinforzata, quindi, innestata su un foglio di supporto, con lo stesso ordine tenuto nel vecchio volume, ma su un numero maggiore di fogli.
Sono, infatti, oggi, contro i 401 fogli del vecchio Codice Atlantico, ben 1119, distribuiti in dodici volumi rilegati in pelle. Una buona parte di questi fogli, 996, diversamente dall’album di Leoni, contiene una sola carta vinciana. Altri 96 portano due carte, 13 ne portano tre, 9 quattro, 2 solo cinque e, infine, un solo foglio sostiene tredici piccolissimi frammenti.
In questa nuova “confezione” possiamo vedere esposti alla Biblioteca Ambrosiana, oggi, i fogli in cui, soprattutto, con la sua sanguigna, Leonardo tracciò mirabili disegni e studi.
Progetti di straordinaria intuizione scientifica sul volo umano:

“Tanta forza si fa colla cosa in contro l’aria, quanto l’aria contro la cosa […]
Sicché per queste dimostrative e assegnate ragioni potrai conoscere l’uomo colle sue congeniate e grand’alie, facendo forza contro alla resistente aria, vincendo, poterla soggiogare e levarsi sopra di lei.”



Palazzo Vecchio, a Firenze, celebra i 500 anni dalla morte di Leonardo con due eventi: nella Sala dei Gigli, fino al 24 giugno, presenta la Mostra Leonardo da Vinci e Firenze e, contemporaneamente, nel Salone dei Cinquecento è visitabile, fiono al 12 gennaio 2020, Sulle tracce della Battaglia di Anghiari, un vero e proprio itinerario, che intende ripercorrere i momenti salienti della Battaglia di Anghiari, a partire dalle testimonianze e documenti presenti a Palazzo Vecchio.      

Ricerche su “macchine” di ogni tipo, dal carro automotore, alle pompe a catena e coclee – forse, ispirategli dai manoscritti di Archimede che, nel 1502, salvò, quando, al seguito di Cesare Borgia, dovette assistere al saccheggio della Biblioteca di Urbino – ai congegni bellici come la mitragliatrice e i mortai da proiettili esplosivi, ai disegni di architettura, sia pubblica sia civile, dal tratto e dalla moderna concezione, quasi avveniristica. Alcune soluzioni urbanistiche possono ricordare, a esempio, Le Corbusier.
E i pensieri, le intuizioni, le osservazioni, i calcoli, le sintesi di ricerche matematiche e scientifiche, cui Leonardo non riuscì, mai, a dare una organicità, preso come fu a scandagliare i segreti della Natura, scienziato e ricercatore sublime, mai appagato nella sua ansietà di sapere, di carpire i segreti dell’Universo, non contento di studiare, come artista, altrettanto sublime, parallelamente aveva celebrato.
Del resto, scriveva per sé, nella sua scrittura cifrata.
La sua produzione nel suo complesso è, ancora oggi, un enigma – non solo a livello filologico – poiché dal gran numero di quaderni, di cui scrive, dopo la sua visita nel 1517, al Castello di Cloux-Loucé, il segretario del cardinale d’Aragona “infinità di volumi e tucti in lingua volgare…”, resta purtroppo una traccia a volte scarsa e confusa.

 Daniela Zini
Copyright © 27 maggio 2019 ADZ



[1] Hai, o cittadino,
dodici volumi di ragionamenti
di mano e di ingegno del celeberrimo
Leonardo da Vinci.
Galeazzo Arconati,
membro della tua aristocrazia,
eccellente cultore delle belle arti,
rifiutando con animo regale
tremila monete d’oro di Spagna
offerte dal re d’Inghilterra per uno solo di essi,
per non privarti del tesoro di tale uomo
lo consacrò alla Biblioteca Ambrosiana.
Per non estinguere la memoria di tale mecenate,
che il sangue e i costumi
legano
al grande fondatore Federico,
i conservatori della Biblioteca
posero
nell’anno 1637