“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 7 aprile 2019

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI LEONARDO 1. PERCHE' LEONARDO? di Daniela Zini



500 anni fa moriva
LEONARDO

di Messser Piero da Vinci
[Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519]


a mio Padre e a mio Nonno

La Passione per il Disegno e per la Pittura è una Passione che mi porto dentro sino da piccola, nata guardando mio Padre e mio Nonno disegnare e dipingere. All’inizio erano loro a fare dei disegni per me, ma, poi, a poco a poco, ho iniziato a farne io per loro.



Noi tutti siamo esiliati
entro lo cornici di uno strano quadro.
Chi sa questo, viva da grande,
Gli altri sono insetti.
Leonardo


Ernesto Solari, artista e studioso esperto di Leonardo, attribuisce al Maestro questa terracotta, raffigurante un Gesù fanciullo, che avrebbe avuto come modello Salaì e di cui avrebbe fatto, in più occasioni, una precisa descrizione il pittore Giovanni Paolo Lomazzo, che ne sarebbe venuto in possesso. 



PUBLIO ELIO TRAIANO ADRIANO
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
1950 anni fa nasceva Adriano l’Imperatore della Pax Romana
di Daniela Zini

AKHENATON
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Amenofi IV l’Apostata
di Daniela Zini

JULIAN PAUL ASSANGE
Se WikiLeaks?...
di Daniela Zini

MIKHAIL VASILYEVIC BEKETOV
Veni, Vidi, Vi[n]ci
I. Giornalista, cronaca di una morte annunciata
di Daniela Zini

ZINE EL-ABIDINE BEN ALI
Ben Ali in fuga dalla Craxi Avenue
di Daniela Zini

PAOLO BORSELLINO
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?

ANGELO BRUNETTI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
114 anni fa nascava Ciceruacchio
di Daniela Zini

ANTONINO CAPONNETTO
Memento Memoriae di Antonino Caponnetto
di Daniela Zini

ANTON PAVLOVIC CECHOV
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLE STRADE CHE VIDERO GENGIS KHAN E MARCO POLO
Sakhalin: l’Inferno dei reclusi a vita
di Daniela Zini

BLAISE CENDRARS
Blaise Cendrars il soldato vagabondo che inventò la Poesia Moderna
di Daniela Zini

CONFUCIO 
Confucio e l’antica cultura
di Daniela Zini

DONATIEN-ALPHONSE-FRANCOIS DE SADE
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Il Divino Marchese
di Daniela Zini

DARIO I IL GRANDE
La gloria di Re Dario tramonta a Maratona
di Daniela Zini

CECCO D’ASCOLI
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Cecco d’Ascoli astrologo senza paura
di Daniela Zini

DWIGHT DAVID EISENHOWER
50 anni fa il monito di Eisenhower
di Daniela Zini

GIOVANNI FALCONE
Omaggio a Giovanni Falcone
di Daniela Zini

MEMENTO MEMORIAE
Giovanni Falcone ce l’ha insegnato, la Mafia è un reato!
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato?

MOHANDAS KARAMCHARD GANDHI
La non-violenza sconfiggerà la violenza
di Daniela Zini

La non-violenza sconfiggerà la violenza?

GESU’ DI NAZARET
Gesù e le donne
di Daniela Zini

Gesù e i fanciulli
di Daniela Zini

FLAVIO CLAUDIO GIULIANO
Giuliano il restauratore del Paganesimo
di Daniela Zini

JOHN MAYNARD KEYNES
Keynes, profeta del New Deal
di Daniela Zini

MARTIN LUTHER KING
I have a dream…
di Daniela Zini

THOMAS EDWARD LAWRENCE
125 anni fa nasceva El Aurens Lawrence d’Arabia
di Daniela Zini

MALCOLM
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
Malcolm X
di Daniela Zini

NELSON ROLIHLAHLA MANDELA
Nelson Mandela una candela nel vento
di Daniela Zini

BRADLEY EDWARD MANNING
Eroi o traditori?
I. Il processo di Bradley Manning minaccia il giornalismo di inchiesta
di Daniela Zini

TOMAS GARRIGUE MASARYK
Dopo 60 anni ancora un enigma la fine di Masaryk
di Daniela Zini

JAFAR PANAHI
Omaggio a Panahi
di Daniela Zini

JORGE RAFAEL VIDELA REDONDO
UNA VIAGGIATRICE EUROPEA ALL’ALBA DI UN NUOVO MILLENNIO SULLA ROTTA DI CRISTOFORO COLOMBO
Argentina I. La Tripla A: un nome che semina morte
di Daniela Zini

LEV NICOLAEVIC TOLSTOJ
UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI
105 anni fa moriva Lev Nicolaevic Tolstoj
 

Autoritratto di Leonardo

 “I moti del Vinci sono della nobiltà dell’animo, della facilità, della chiarezza d’imaginare, della natura di sapere, pensare et fare, del maturo consiglio, congiunto con la beltà delle faccie, della giustitia, della ragione, del giuditio, del separamento delle cose ingiuste dalle rette, dell’altezza della luce, della bassezza delle tenebre, dell’ignoranza, della gloria profonda della verità, et della carità regina di tutte le virtù. Così Leonardo parea che d’ogni hora tremasse, quando si ponea a dipingere, e però non diede mai fine ad alcuna cosa cominciata, considerando quanto fosse la grandezza dell’arte, talché egli scorgeva errori in quelle cose, che agli altri pareano miracoli. Leonardo nel dar il lume mostra che habbi temuto sempre di non darlo troppo chiaro, per riservarlo a miglior loco et ha cercato di far molto intenso lo scuro, per ritrovarli suoi estremi.
Onde con tal arte ha conseguito nelle faccie e corpi, che ha fatti veramente mirabili, tutto quello che può far la natura. Et in questa parte è stato superiore a tutti, tal che in una parola possiam dire che ‘l lume di Leonardo sia divino.”
Giovanni Paolo Lomazzo [1538-1592]



1.             Perché Leonardo?

Perché, oggi, Leonardo è tra noi con una vitalità che poche figure della Storia, dell’Arte, della Scienza – anche di epoche ben più recenti – possono vantare.
Di Leonardo, certamente uno dei più inquieti Geni dell’Umanità, non si può considerare un aspetto se non intimamente connesso con gli altri.
Possiamo parlare delle Opere d’Arte sulle quali, esclusivamente, la sua fama si è sostenuta, per circa tre secoli, o considerare la sua artigiana genialità che mossa da una sfrenata curiosità, da una sconfinata sete di conoscenza, quantunque “omo senza lettere”, lo portò alle più geniali anticipazioni e intuizioni di scoperte e Verità. Possiamo valutare, ancora, la fermezza d’animo dell’individuo che, chiaramente controcorrente, per amore di vera Scienza si spinse avanti nelle sue intenzioni, attitudini, pensieri e azioni, senza troppo preoccuparsi del discredito tra i suoi contemporanei che, quando non lo accusavano di profanazione e, perfino, di negromanzia, ne lamentavano che poco si dedicasse all’Arte in cui appariva eccelso e che, invece, troppo amasse “i capricci del filosofar delle cose naturali”. 
È questo “filosofar” la chiave per penetrare, anche, gli altri molteplici aspetti di un geniale eclettismo?
Se per filosofia si intende una concezione organica del reale, una ricerca sistematica della Verità, la coscienza speculativa di Leonardo ha, certamente, raggiunto l’ambita Verità non tanto con il potere riflessivo della mente, quanto con l’oggettivo proiettarsi della mente nella Natura, con il ritrovare nella esperienza le ragioni della Scienza e la via per attuare il dominio dell’Uomo su questa Natura. Temi universali, senza confini di Spazio o di Tempo. E da qui viene l’attualità di un messaggio che è rivolto al Futuro dell’Uomo; da qui viene la profondità di una interpretazione che offre cerchi, sempre, più ampi di ispirazione e di stimolo alle persone, anche dopo cinque secoli dalla morte del Maestro. 
 

In quel crogiolo di menti eccelse che il Rinascimento è stato per il mondo dell’Arte e della Cultura, la figura di Leonardo campeggia  dall’alto del suo incommensurabile bagaglio del sapere. È lui il Genio Universale, nell’accezione sublime del termine, il poliedrico cervello cui nulla sfugge, tutto compreso del mosaico di conoscenze che persegue, con una profondità metodica, solo apparentemente scomposta.
Nella sua eccezionale apertura mentale, Leonardo si rivela un portentoso innovatore, l’Uomo che “riprende tutto da capo”, per penetrare il mistero dell’Universo Umano nei suoi più reconditi aspetti, anticipando a tal punto i tempi da non essere compreso a pieno dai suoi contemporanei.
Non vi è materia che non abbia sviscerato, elaborando nuove e originali teorie che non sono state alla base del moderno progresso scientifico.
I suoi progetti architettonici si sono rivelati di una sorprendente attualità, perfino, in questo secolo che brucia gli ingegni sull’altare del continuo rinnovamento.
Un Genio della sua levatura è, davvero, una plurisecolare rarità dalle origini misteriose, che si manifesta al genere umano con una frequenza tristemente rarefatta.
Una simile virtù, condensata in somma misura, non segue, purtroppo, le leggi cromosomiche della successione ereditaria.
Il dopo Leonardo si configura come una coltre nebbiosa, dietro la quale vi è soltanto un vuoto sconfortante, un buio quantificabile in anni luce di eclissi intellettuale.
Il 24 ottobre 1971, la RAI mandava in onda la prima delle cinque puntate dello sceneggiato La vita di Leonardo da Vinci per la regia di Renato Castellani.
Era un’opera ambiziosa, che aveva richiesto circa sei mesi di lavorazione e l’impiego di oltre un centinaio di attori e cinquecento comparse ed era stata girata nelle diverse città italiane, che il Sommo Leonardo aveva toccato nel corso della sua vita, Roma, Firenze, Milano e Venezia, solo per citarne alcune.
Un’opera che si discostava molto dalle produzioni televisive girate fino ad allora.
Castellani, conscio delle molte zone d’ombra della vita di Leonardo, aveva scelto di avvalersi dell’attore Giulio Bosetti quale voce narrante per interagire con il reale, creando una curiosa commistione di epoche, con i figuranti in abiti rinascimentali e Giulio Bosetti, disinvoltamente tra loro, vestito, in modo inappuntabile, in completo grigio e cravatta.
Lo sceneggiato si apriva con le ultime ore di vita di Leonardo.
È il 2 maggio del 1519.
Il sessantasettenne Leonardo è, dall’autunno del 1516, ospite del suo più grande estimatore, il Re di Francia Francesco I, nel Castello di Clos Lucé.
Leonardo è nel suo letto, indebolito da una probabile trombosi cerebrale, che gli ha tolto, parzialmente, l’uso della mano destra e sta per ricevere la visita del Re in persona, preoccupato per le sue condizioni di salute.
Tenta di sollevarsi dal letto, ma il Sovrano lo esorta a non sforzarsi: “Come state, mon ami?”
chiede Francesco I a Leonardo.
“Pensavo a quante cose non fatte, studiate, incominciate…”
“Quante cose che avete fatto, invece…”
risponde il Re.
Era un Uomo affascinante, racconta Giulio Bosetti, citando Giorgio Vasari:

“Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani molte volte naturalmente, e sopra naturali, talvolta, strabocchevolmente accozzarsi in un corpo solo bellezza, grazia e virtù, in una maniera, che dovunque si volge quel tale, ciascuna sua azzione è tanto divina, che lasciandosi dietro tutti gl’altri uomini, manifestamente si fa conoscere per cosa [come ella è] largita da Dio e non acquistata per arte umana. Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’animo volse nelle cose difficili, con facilità le rendeva assolute. La forza in lui fu molta e congiunta con la destrezza, l’animo e ‘l valore, sempre regio e magnanimo.”
 
  
Il David di Andrea di Michele di Francesco di Cione detto il Verrocchio [1435-1488] è una scultura bronzea, databile al 1472-1475 e conservata nel Museo del Bargello, a Firenze. Questo giovane, dolce e spavaldo David, che è scolpito qualche decennio dopo quello di Donatello e ricalcherebbe le sembianze di Leonardo adolescente, è uno degli esempi più significativi della Scultura Rinascimentale, che ribalta i canoni precedenti per tornare agli ideali classici dell’Arte. Il Verrocchio lo esegue per i Medici, ma, nel 1476, viene acquistato dalla Signoria di Firenze.
Immersa tra gli olivi secolari del Monte Albano, in un paesaggio pressoché immutato nel tempo, la Casa Natale di Anchiano è il luogo simbolo del legame di Leonardo con la sua città. In questa semplice dimora di campagna, a pochi chilometri dal borgo di Vinci, Leonardo nacque il 15 aprile 1452. L’antico complesso, di cui è attestata l’esistenza già nel 1427, è stato donato al Comune di Vinci dal Conte Giovanni Rasini di Castelcampo per essere trasformato in Museo, nel 1952.





La storia dei brevi amori di Caterina e di Messer Piero era una storia come tante altre, ma è per noi come illuminata di azzurro, del bell’azzurro del cielo toscano, del grigio argenteo degli ulivi, del verde delle vigne e degli arbusti che crescono sui fianchi del Monte Albano.
Se qualche fattucchiera avesse predetto a Caterina che il figlio da lei partorito avrebbe parlato, un giorno, da pari a pari, con i Principi e i Re, indubitabilmente, non se lo sarebbe lasciato strappare così facilmente dalla famiglia di Messer Piero.
Caterina viveva a Vinci, un borgo sito a qualche chilometro da Firenze; era una bella e robusta contadina, ma la povertà le toglieva qualsiasi speranza di sposare il suo seduttore, quel Messer Piero che, pur esercitando, da due anni, la professione di notaio, aveva soltanto ventitré anni quando si incapricciò di lei.
Per mettere fine a questa relazione, la famiglia del giovane lo sposò a una fanciulla della ricca borghesia: Albiera di Giovanni d’Amadori.

 
 





Le nozze furono celebrate, nel 1452, pochi mesi dopo la nascita di Leonardo, frutto degli illegittimi amori di Messer Piero con Caterina. Quando costei si sposò, a sua volta, con un contadino, Messer Piero prese il bambino presso di sé. Non sarà che dalla sua quarta moglie, Lucrezia, che avrà due figli legittimi: ma, nel frattempo, allevato da una estranea, il bambino non conobbe le gioie dell’amore materno e la sua educazione fu molto trascurata. Tuttavia era di spirito curioso e di animo ardente e appassionato e riversava la sua sete inappagata di tenerezza, nel corso di frequenti passeggiate intorno a Vinci, su tutta la natura, gli animali, gli alberi, i campi, le rive dell’Arno, le rocce del Monte Albano e i torrenti che ne sgorgano. Più tardi, quando la fortuna gli sorriderà, Leonardo gradirà possedere dei cavalli e molte specie di animali e, amandoli, li tratterà sempre con molta dolcezza.
 

A Firenze, a Milano e a Roma, si fermerà, sovente, davanti alle botteghe dei venditori di uccelli e acquisterà gli uccellini solo per trarli fuori lui stesso dalle gabbie e rendere loro la libertà.
La Natura era stata prodiga con questo giovane di tutti i doni che poteva elargirgli.
Era bellissimo, amabile, di una forza fisica e una grazia senza pari.
La sua intelligenza era così vasta e penetrante che poteva risolvere, senza sforzo, qualsiasi difficoltà si presentasse al suo spirito.
Aveva la parola pronta e convincente, eccelleva in tutte le arti, era matematico, geometra, ingegnere, naturalista, fisico, filosofo, musicista, architetto, scultore, pittore e, perfino, scrittore, e tutto ciò che erompeva dalle sue mani e dalla sua mente suscitava ammirazione.
Solo il suo animo incostante dissipava, a volte, questi doni.
Iniziava molte più cose di quante non ne avrebbe condotte a buon fine, ma ciò che è restato delle sue creazioni, tanto sovente disperse, è stato, dopo la sua morte, raccolto come reliquia senza pari…
 

Pur occupandosi delle cose più diverse, Leonardo da Vinci aveva iniziato, molto presto, a dipingere e a disegnare.
Un giorno, un contadino delle terre di Messer Piero, andò a trovare il notaio e gli affidò uno scudo di legno tagliato nel tronco di un fico, pregandolo di farlo decorare.
Messer Piero diede lo scudo al figlio, esortandolo a dipingervi sopra qualcosa.
Dopo averlo fatto sgrossare e piallare, Leonardo lo ricoprì di gesso.
Cosa poteva mai dipingere?
 
  
Un’idea bizzarra gli germoglia.
Di questa arma difensiva farà il terrore per chi assalirà chi la possiede; lo scudo li pietrificherà come la testa di Medusa sullo scudo di Minerva.
L’idea lo diverte.
Sul tavolo della sala dove lavora raccoglie lucertole, serpenti, pipistrelli, un cane morto, un’istrice, una tartaruga e, mettendo insieme diverse membra di quei corpi, crea un mostro, una specie di drago che esce da una roccia, la bocca spalancata, gli occhi scintillanti e le froge che lanciano fiamme.
 

L’opera è compiuta, quando Messer Piero entra nella stanza del giovane. Non si rende conto che ciò che vede è solo un dipinto, impallidisce, arretra di un passo, ma quando sente suo figlio proferire tranquillamente:
“Padre mio, la mia opera produce su di voi l’effetto che io mi attendevo da essa?”,
non nasconde il suo stupore.
Messer Piero è un uomo accorto negli affari e, dopo avere elogiato l’opera del figlio, ne intuisce una fonte di guadagno. Ha, appena, visto da un bottegaio di Firenze uno scudo ornato con un cuore trafitto da una freccia; lo acquista per pochi soldi e lo consegna al contadino che se ne dichiara soddisfattissimo.
Quello dipinto da Leonardo lo vende, invece, per 100 ducati, a certi mercanti che, a loro volta, lo cederanno al Duca di Milano per una somma tre volte superiore.
 



Poco tempo dopo il suo secondo matrimonio, Messer Piero si trasferisce a Firenze e porta i disegni di suo figlio all’amico Andrea di Michele di Francesco di Cione, che ha preso il nome di Verrocchio. Orafo, come il suo omonimo Maestro, e, inoltre, scultore e pittore, Andrea gode di una grande fama in tutta la terra di Toscana. I disegni gli piacciono e offre a Leonardo di andare a vivere presso di lui insieme agli altri allievi che, secondo la consuetudine, nutre, veste e istruisce.
Leonardo ha, appena, sedici anni quando entra dal Verrocchio. È alto, slanciato, i suoi riccioli biondi cadono sulle sue larghe spalle, è un adolescente così bello che lo prendono, spesso, quale modello per dipingere gli Arcangeli.

Andrea di Michele di Francesco di Cione detto Il Verrocchio [1435-1488], Il Battesimo di Cristo , databile tra il 1475 e il 1478.
Galleria degli Uffizi, Firenze


Nella bottega del Verrocchio, questo “Arcangelo” si lega di grande amicizia con il Perugino, più vecchio di lui di sei anni, e con Lorenzo di Credi, di sette anni più giovane.
Oltre a studiare la geometria e la prospettiva, apprende a modellare la creta, scolpire il marmo, cesellare i metalli, fondere il bronzo.
È mancino, ma si serve indifferentemente di tutte e due le mani.
Leonardo diviene, presto, così abile che il Verrocchio gli affida qualche particolare dei suoi quadri.
È così che esegue uno degli Angeli che appaiono nel dipinto Il Battesimo di Cristo.


L’Angelo dipinto da Leonardo [a sinistra] nel dipinto del Verrocchio: Il Battesimo di Cristo.
 




Seppure ancora giovanissimo, narra Giorgio Vasari, Leonardo rese questa figura con tale perfezione che Andrea, disperato nel vedere che un ragazzo ne sapesse più di lui, non volle più toccare il pennello.
Ma questo non è esatto.
Leonardo beneficerà ancora degli insegnamenti del Verrocchio fino al 1476[1].


Monumento Onorario a Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci e Paolo dal Pozzo Toscanelli, eretto nel XIX secolo, nella Basilica di Santa Croce, a Firenze.

Desideroso di comprendere tutto, interroga i sapienti che vengono a trovare il Maestro o che incontra in città, pone loro infinite domande e li mette, di frequente, in imbarazzo, esponendo dubbi e sollevando difficoltà.


Leonardo si era avvicinato, tra il 1474 e il 1479, al mondo della scienza; con l’anziano geografo e astronomo Paolo dal Pozzo Toscanelli aveva approfondito gli studi di anatomia, assisteva alla dissezione dei cadaveri a lume di candela, nelle camere mortuarie degli ospedali, studiava la fisica [il moto delle acque, il volo degli uccelli] e la meccanica e verificava le sue teorie tramite esperimenti diretti. Questo tipo di ricerca era, severamente, punita dalle leggi del tempo, e Leonardo, scoperto a compiere ricerche su un cadavere, andò in carcere. Solo grazie all’intervento immediato del Duca Ludovico il Moro, venne liberato.
Nel Codice di Madrid, rivolgendosi a un immaginario interlocutore, Leonardo scrive:
“Bada tu da che maravigliose strutture ed invenzioni egli corpo è composito che niuno cervello d’ingeniere o sublime meccanico potrebbe immaginare. E anco tu se l’indaghi e lo leggi ad ogni istante te dovrai stupefacere pe’ quanti magnefici aggetti movimentano esso corpo e producono flusso di sangue pe’ tutti li canali, anco li più minuti. Come allocchito te starai dinanzi al moto delle costole che sollevano i polmoni che, simile a uno pussente soffiatore, inspirano l’aria e la ripompano de fuora. Io te dimando come si puote distruggere, uccidendola, una sì fatta macchina, una sì stupefacente creazione della natura. Non truovi tu sia cotesta distruzione orribile e crudele? Ma se poi tu consideri che dentro esso corpo non alloggia solo movimento, vita e potenza che lo aziona, ma si ritruova lo spirito, la ragione che n’è l’anima stessa d’uno suo intelletto pruodigioso, allora se ne intendi il miracolo tu ne rimarrai per intero sgomento all’idea che si possa toglier vita e render morta una sì fatta creatura !”

Durante le ore di svago, Leonardo si dedica allo studio della fisica e della storia naturale, e, in pari tempo, a quello della meccanica. Inventa in questo periodo ogni sorta di macchine: laminatoi, filatoi, torni e, perfino, un orologio ad acqua e uno ad aria compressa, grazie ai quali può misurare la durata dei suoi esperimenti.
Seguendo l’illustre Paolo dal Pozzo Toscanelli [1397-1482], si appassiona, anche, all’astronomia.
Ma la gioventù accampa i propri diritti e, in assenza del Maestro, suona il liuto ai compagni di bottega, canta in coro con loro, ama gli scherzi e le burle e si diverte a fare davanti agli amici dei piccoli esperimenti di fisica. Si pavoneggia, anche, della eccezionale forza, giacché può, con un semplice movimento delle sue belle mani, spezzare una sbarra di ferro o torcere un ferro di cavallo.  
Poco tempo dopo il suo ingresso nella bottega di Andrea, aveva assistito a un grande torneo, offerto da Lorenzo il Magnifico agli abitanti di Firenze, in occasione della firma della pace con la Repubblica di Venezia.
Uso alla vita semplice del suo villaggio, Leonardo fu sconvolto dallo splendore di quella festa e, da allora, non fece che sognare l’indipendenza, la vita fastosa e la gloria.
A quattro anni di distanza, oramai ventenne, sorride della ingenuità di un tempo, ma non rinnega le emozioni della sua infanzia. Il periodo di apprendista è terminato e si iscrive al Libro Rosso de’ debitori e creditori della Compagnia de’ Pittori di Firenze; ma Messer Piero, suo padre, non è disposto a venirgli in aiuto e Leonardo deve continuare ad abitare presso Il Verrocchio, oramai come aiutante.
È così a corto di danari che non può neppure pagare la quota di membro della corporazione dei pittori né comperare le candele che si accendono per consuetudine davanti all’immagine di San Luca il giorno della Festa del Santo.
Trascorrono due anni e la Signoria di Firenze gli commissiona una pala di altare per la Cappella di San Bernardo.
Nell’immaginazione dell’artista questa pittura prende corpo e Leonardo pensa, già, alla gloria che gliene verrà, quando grandi disordini mettono in subbuglio tutta la Toscana. 
Una domenica di aprile del 1478, scoppia la Congiura dei Pazzi. Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo il Magnifico, viene assassinato nel Duomo di Firenze durante la messa solenne. Inseguito dagli assassini fino nella Sacrestia, Lorenzo si salva solo grazie alla presenza di spirito e al coraggio che gli sono propri.
Ma la Congiura dei Pazzi ha fatto differire la commissione del quadro che Leonardo doveva dipingere.
er risarcirlo, in qualche modo, gli danno alcune commesse, tra le quali una piccola Annunciazione che deve servire da predella per una grande pala di altare.
La composizione risulta ispirata e squisita.
Il corpo reclino, il viso pudicamente abbassato, la Vergine è inginocchiata davanti a un leggio, le mani incrociate sul petto. In ginocchio lui stesso, le ali frementi, l’Arcangelo Gabriele alza per benedirla due dita della mano destra e il gesto simbolico completa il movimento delle labbra che pronunciano le parole meravigliose:
“Ave Maria!”
Intanto era scoppiata la guerra tra Roma, Napoli e Firenze.
Leonardo, appassionato di balistica, inventa affusti che rendono più maneggevoli i pesanti cannoni. Disegna delle bombarde e, perfino, un cannone leggero, a molte canne, una sorta di mitragliatrice, fissato su un affusto a ruote dentate, che assicurano la stabilità al congegno e la precisione del tiro. 
Firmata la pace, Leonardo mette da parte questi progetti di nuove armi che, peraltro, la Signoria aveva, sempre, rifiutato di prendere in esame e ritorna ai pennelli.
A dispetto della fama, la sua vita è difficile.
Mentre altri Maestri fiorentini, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Cosimo Rosselli, sono sovraccarichi di ordinazioni, lui, il più grande di tutti, non ha lavoro e soffre di essere lasciato in disparte.
Cade in un amaro sconforto che gli impedisce di portare a termine anche i pochi quadri che gli sono stati ordinati.
Solo lo studio della Scienza e la Musica riescono a consolarlo.
Costruisce una lira d’argento a forma di testa di cavallo i cui denti tengono ferme le corde. Lorenzo de’ Medici ammira lo strumento e lo acquista per offrirlo a Ludovico il Moro, Signore di Milano…
Nella speranza di trovare a Milano più comprensione per la sua arte di quella che ha trovato a Firenze, Leonardo si incarica di consegnare, personalmente, questa lira al Moro.
Ludovico il Moro è in pieni preparativi di guerra.
Leonardo cambia, prontamente, gli abiti da pittore con quelli dello scienziato e redige a favore del Principe la famosa lettera che poi arricchisce di disegni meravigliosi:

Avendo, Signor mio Illustrissimo, visto et considerato oramai ad sufficienzia le prove di tutti quelli che si reputono maestri et compositori de instrumenti bellici, et che le invenzione e operazione di dicti instrumenti non sono niente alieni dal comune uso, mi exforzerò, non derogando a nessuno altro, farmi intender da V. Excellentia, aprendo a quella li secreti mei, et appresso offerendoli ad omni suo piacimento in tempi opportuni, operare cum effecto circa tutte quelle cose che sub brevità in parte saranno qui di sotto notate:
Ho modi de ponti leggerissimi et forti, et atti ad portare facilissimamente, et cum quelli seguire, et alcuna volta fuggire li inimici, et altri securi et inoffensibili da foco et battaglia, facili et commodi da levare et ponere. Et modi de arder et disfare quelli de l’inimico.
So in la obsidione de una terra toglier via l’acqua de’ fossi, et fare infiniti ponti, gatti et scale et altri instrumenti pertinenti ad dicta expedizione.
Item, se per altezza de argine, o per fortezza di loco et di sito, non si potesse in la obsidione de una terra usare l’officio de le bombarde, ho modi di ruinare omni rocca o altra fortezza, se già non fusse fondata in su el saxo.
Ho ancora modi de bombarde commodissime et facile ad portare, et cum quelle buttare minuti [saxi a similitudine] di tempesta; et cum el fumo di quella dando grande spavento all’inimico, cum grave suo danno et confusione.
Et quando accadesse essere in mare, ho modi de molti instrumenti actissimi da offender et defender, et navili che faranno resistenzia al trarre de omni g[r]ossissima bombarda et polver & fumi.
Item, ho modi, per cave et vie secrete et distorte, facte senza alcuno strepito, per venire [ad uno certo] et disegnato [loco], ancora che bisognasse passare sotto fossi o alcuno fiume.
Item, farò carri coperti, securi et inoffensibili, e quali intrando intra li inimica cum sue artiglierie, non è sì gran de multitudine di gente d’arme che non rompessino. Et dietro a questi poteranno seg[ui]re fanterie assai, illesi e senza alcuno impedimento.
Item, occurrendo di bisogno, farò bombarde, mortari et passavolanti di bellissime et utile forme, fora del comune uso.
Dove mancassi la operazione de le bombarde, componerò briccole, mangani, trabucchi et altri instrumenti di mirabile efficacia, et fora del usato; et insomma, secondo la varietà de’ casi, componerò varie et infinite cose da offender et di[fendere].
In tempo di pace credo satisfare benissimo ad paragone de omni altro in architectura, in composizione di edificii et pubblici et privati, et in conducer acqua da uno loco ad uno altro. Item, conducerò in sculptura di marmore, di bronzo et di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare ad paragone de onni altro, et sia chi vole. Ancora si poterà dare opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale et eterno onore de la felice memoria del Signor vostro patre et de la inclita casa Sforzesca. Et se alcuna de le sopra dicte cose a alcuno paressino impossibile e infactibile, me offero paratissimo ad farne experimento in el parco vostro, o in qual loco piacerà a Vostr’Excellenzia, ad la quale humilmente quanto più posso me recomando.

I suoi disegni rappresentano ponti leggeri, facilmente trasportabili, scale per scalare i muri di una piazzaforte, trincee trasportabili, un gioco di travi orizzontali, destinate a respingere le scale degli assalitori, gallerie sotterranee di mine che giungono oltre le mura di una città assediata.
Si osservano, anche, bombarde, spolette ruotanti, bombe riempite di zolfo, dalle quali si spandono vapori soffocanti, carri armati di falci o coperti di una corazza, che li rende simili a tartarughe e dalle quali sbucano le bocche dei cannoni.
Il Moro legge questi memoriali, esamina i disegni, ma scuote la testa.
Diffida delle novità.
Leonardo non lo interessa come artista e neppure come scienziato. 
Una felice combinazione fa conoscere a Leonardo il pittore di corte: Ambrogio de Predis.
Questo Ambrogio ha circa l’età del grande fiorentino e, tuttavia, si mostra deferente e lo prega di annoverarlo tra i suoi discepoli.
Questo Ambrogio, ammiratore del genio di Leonardo, è un uomo ambizioso e accorto; si dà da fare così bene che, nel mese di aprile del 1483, ottiene dalla Confraternita della Concezione l’ordinazione di un trittico d’altare.
Sarà, naturalmente, il Maestro Leonardo che dipingerà a olio il quadro centrale. Su uno sfondo montagnoso, dovrà disporre la Vergine e il Bambino attorniati da Angeli e Profeti.
Ambrogio de Predis si accontenterà di dipingere Angeli e Cantori  nei due pannelli laterali.
 

Dopo avere lungamente meditato ed eseguito, secondo il suo solito, infiniti disegni di floridi bambini e di graziosi visi di donna e di adolescente, Leonardo raggruppa in un paesaggio roccioso la Vergine, il Bambino, San Giovanni e un Angelo di sorprendente bellezza.
Per fare meglio risaltare i visi e le figure in primo piano, tiene il paesaggio su tinte molto scure, soffuse di ombra, cosa che gli permette, come si è detto, di ottenere quel risalto dei contorni, quegli effetti armoniosi di chiaroscuro, dei quali è l’inventore e, nello stesso tempo, di dare più rilievo e più spicco alle figure.
Ma non ha rispettato, letteralmente, le clausole imposte dal contratto e la Confraternita della Concezione è così meschina da offrirgli 25 ducati invece dei 100 che gli sono dovuti.
Il grande artista rifiuta.
Esige i suoi 100 ducati o la restituzione del quadro.
Chiamato arbitro di questo litigio, Ludovico il Moro se ne lava le mani.
Solo dopo molti anni, con l’appoggio del Re di Francia, Leonardo otterrà la restituzione del quadro.
I posteri possono, così, ammirare La Vergine delle Rocce.
 
Nel 1483, Leonardo inizia a dipingere a Milano, su committenza della Confraternita dell’Immacolata Concezione e con la collaborazione dei fratelli Giovanni Ambrogio e Cristoforo de Predis, una pala d’altare da collocare nella Cappella della Confraternita nella Chiesa di San Francesco Grande, oggi nota come La Vergine delle Rocce. Il dettagliatissimo contratto prevedeva un trittico. Nella pala centrale la Madonna con un ricco abito di “broccato doro azurlo tramarino” e “con lo suo fiollo”, Dio Padre in alto, anche lui con la “vesta de sopra brocato doro”, un gruppo di angeli alla “fogia grecha” e due profeti. Nelle due parti laterali i confratelli chiedevano quattro Angeli, “uno quadro che canteno et l’altro che soneno”. Le tavole laterali, affidate a de Predis, dovevano mostrare angeli in gloria, il tutto per un compenso di 800 lire imperiali da pagarsi a rate fino al febbraio 1485.
Di quest’opera, la prima eseguita dall’artista nella città lombarda, esistono due versioni, la prima, conservata al Louvre, l’altra, alla National Gallery di Londra. È sicuramente uno dei più ammirati capolavori di Leonardo, ma anche uno dei più complessi e controversi, poiché alcuni elementi dell’opera, ricca di rimandi biblici, teologici e simbolici, rimangono, tuttora, poco chiari ed enigmatici.









Parlando della giovane Cecilia Gallerani, amata da Ludovico il Moro, Giovanni Ambrogio de Predis aveva detto:
“È bella come un fiore.”
Per fare piacere al Principe, Leonardo farà di questa Dama un ritratto così fedele e seducente che il poeta Bernardo Bellincioni [1452-1492] asserirà che la natura stessa ne era gelosa.
  
 
Leonardo, La Dama con l’ermellino [1488-1490]
Museo Nazionale, Cracovia


“Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.”
Leonardo da Vinci
 

Ma, nonostante il successo che tale capolavoro ha riscosso, Leonardo attenderà, ancora a lungo, di essere chiamato, ufficialmente, alla Corte di Ludovico il Moro.
Per quanto figlio di una contadina e di un piccolo borghese, ha gusti aristocratici e sete di lusso.
Nessuno è più generoso di lui e i suoi allievi lo sanno bene, perché non sa rifiutare loro nulla.
Leonardo ama la biancheria fine, i begli abiti, tiene in alta considerazione l’aspetto, l’igiene e la cura del corpo.


Improvvisamente, la peste piomba su Milano.
Leonardo invia al Moro alcuni progetti urbanistici.
Perché non costruire, propone, invece che città sovrappopolate, sporche e malsane, delle cittadine dalle strade larghe dove gli abitanti non debbano vivere ammassati come capre in un gregge?
Come al solito, il Moro fa orecchi da mercante; accorda, tuttavia, finalmente, al grande artista ciò che infinite volte gli è stato domandato: Leonardo farà la grande statua equestre di Francesco Sforza, morto nel 1466.
 


Dopo tre anni di prove, di ricerche, di meditazioni votate alle invenzioni, Leonardo porta a termine la statua del colossale cavallo che deve tenere in sella l’antico Duca di Milano.
Questo cavallo, realizzato in gesso, è esposto nel cortile del Castello, nel 1493, in occasione delle nozze dell’Imperatore Massimiliano e di Bianca Maria Sforza. Ma il bronzo destinato alla fusione della statua deve essere ceduto al Duca di Ferrara per farne dei cannoni, quando Ludovico il Moro si allea per combattere contro Carlo VIII, Re di Francia, Roma, Venezia, il Re di Spagna e l’Imperatore Massimiliano.
Il cavallo resterà dov’è.
A lungo andare le intemperie lo rovinano.
I balestrieri di Luigi XII lo useranno come bersaglio e completeranno la sua distruzione. 

Uno dei tanti vigorosi disegni per la Statua di Francesco Sforza.

Leonardo si vede così privato della gioia di contemplare la realizzazione in bronzo di quell’opera e, poiché i forzieri del Moro sono vuoti, non riceve neppure più danaro, e ha sei bocche da nutrire, ora che agli apprendisti e agli aiutanti si è aggiunto anche il piccolo Giacomo, un ragazzo di dieci anni, al quale Leonardo è molto affezionato, vaghissimo di grazia et di bellezza, avendo begli capegli, ricci et inanellati”, ma anche “ladro, bugiardo, testardo e ingordo, mangia per due e fa guai per quattro” .
Nel 1497, Leonardo annota amareggiato:
Salaj ruba li soldi.”

“Presi in Milano quello Salaì di cui parlato avemo, che molto bellissimo e vago era e pieno di gracia, avendo begli capelli et inanellati, con gli occhi e bocca molti [sic] proporcionati, al quale mostrai diverse cose che ad altri insegnar non le volsi [volli], sì come a mio amato pincerna.”
 



“Una volta aver provato l’ebbrezza del volo, quando sarai di nuovo coi piedi per terra, continuerai a guardare il cielo.”
Leonardo
 

Leonardo, Il Cenacolo.

Spinto dalla necessità, Leonardo abbandona la Corte del Moro.
Si riconcilieranno in seguito e il Duca gli darà la commissione di un grande dipinto: una cena per il refettorio dove i Domenicani di Santa Maria delle Grazie prendono i pasti in comunità.
Secondo le sue abitudini, Leonardo fa molti schizzi e prende numerose annotazioni per le teste degli apostoli. Principi della Chiesa e grandi Signori entrano, spesso, nel refettorio, mentre il Maestro lavora circondato dagli allievi. Oramai non restano che da dipingere due teste perché l’affresco sia completo: quella di Gesù e quella di Giuda.
Ma il tempo passa e Gesù e Giuda restano sempre senza testa.
Quando il Moro gli rimprovera quel ritardo, Leonardo risponde:
“Per il Cristo non ho potuto ancora trovare un viso degno di lui, per il Giuda cerco invano viso di delinquente che corrisponde a tanta bassezza.”
E, poiché immagina che il Priore di Santa Maria delle Grazie si sia lagnato con il Duca della sua lentezza, aggiunge:
“Se non lo troverò sarò costretto a prendere per modello il Priore stesso tanto è indiscreto e importuno.”
Il Duca scoppia a ridere e dà ragione all’artista.


Al povero Priore, tutto confuso, non rimane che occuparsi di più del proprio giardino e lasciare Leonardo finire in pace la sua opera.
Nell’aprile del 1498, Luigi d’Orléans sale sul trono di Francia e prende il nome di Luigi XII. Erede dei diritti di Carlo VIII su Napoli, il nuovo Re, nipote di una Visconti, accampa anche delle pretese sul Ducato di Milano, usurpato dagli Sforza[2].
Un condottiero italiano, passato al servizio della Francia, il Maresciallo Trivulzio, occupa, quasi senza colpo ferire, il Ducato di Milano.
Fatto prigioniero, Il Moro è mandato in Francia e rinchiuso nel Castello di Loches.

“La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. Adunque queste due poesie, o vuoi dire due pitture, hanno scambiati i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto.”
Leonardo






“Nessun effetto è in natura sanza ragione, intendi la ragione e non ti bisogna sperienza.”
Leonardo da Vinci



Leonardo non ha più niente da fare a Milano.
Si reca, dapprima a Mantova, dove esegue il ritratto di Isabella d’Este, poi parte per Venezia, dove lo troviamo, nel marzo del 1500.
Su richiesta delle autorità veneziane che temono una incursione dei turchi, dirige i lavori per apprestare una difesa.
Due mesi più tardi, si reca a Firenze.
Dopo sedici anni di assenza, torna alla propria terra natale, con pochissimo danaro, ma celebre.
Fino dal suo arrivo, i Frati dell’Annunziata pregano Leonardo di dipingere un quadro per l’altare maggiore della loro chiesa.
Questo quadro rappresenterà la Vergine, Sant’Anna e il Bambino, che giocano con un agnello.


Leonardo si accontenterà, dapprima di eseguire un cartone, un meraviglioso cartone, dove il viso della Vergine, il più rifinito di tutti, è adorabile.
Quanto al quadro, che appartiene, oggi, al Museo del Louvre, non verrà eseguito che molti anni più tardi. Il viso della Vergine e quello del Bambino saranno stemperati e come fusi nel radioso sorriso di Sant’Anna.


  
Leonardo, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino [Cartone di Londra].
 


Leonardo, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino






“È vero che l’uomo è il re degli animali, perché la sua brutalità supera la loro. Viviamo grazie alla morte di altri. Già in giovane età ho rinnegato l’abitudine di cibarmi di carne, e ritengo che verrà un tempo nel quale gli uomini conosceranno l’anima degli animali e in cui l’uccisione di un animale sarà considerata con lo stesso biasimo con cui consideriamo oggi quella di un uomo.”
Leonardo

Da molto tempo, Leonardo studia il volo degli uccelli e sogna di inventare una macchina che possa sollevarsi come loro e reggersi in aria con ali artificiali. Dopo avere pensato di fissare le ali alle spalle dell’aviatore, immagina un aviatore, in piedi su una piattaforma, che azioni con due pedali una specie di motore collegato alle ali da corde che scorrono su carrucole. Se la macchina non dovesse funzionare, otri pieni d’aria e legati al corpo dell’uomo volante, dovrebbero servirgli da paracadute.
Nel Codice sul volo degli uccelli, Leonardo descrive, illustrandoli con disegni, le sue ricerche e i suoi progetti. E sulla prima pagina di questo trattato scrive, non senza orgoglio:
“Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno cecero [grande cigno] e empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture a gloria eterna al nido dove nacque.”
“Il Grande Cigno” è una montagna situata a Nord di Fiesole e dal sommo di questa altura si propone di provare la sua macchina volante.
Tali ricerche sono, bruscamente, interrotte, quando Leonardo si dedica alla direzione dei lavori che la Signoria di Firenze gli affida per tentare di collegare, attraverso un canale, la città di Firenze con quella di Pisa.
Riprenderà in mano i pennelli, quando Piero Soderini, Gonfaloniere di Giustizia, deciderà, d’accordo con i principali cittadini, di fargli dipingere “una bella opera”[3].
Questo meraviglioso capolavoro pittorico è scomparso e noi non ne avremmo che la descrizione che ce ne ha lasciato Giorgio Vasari, se un giovane pittore del Nord, un certo Peter Paul Rubens, allora ignoto, non avesse copiato, un giorno, per proprio piacere, il gruppo centrale della lotta intorno alla bandiera.  


Peter Paul Rubens, Copia della Battaglia di Anghiari, 1603.

Le disillusioni, le ingiustizie che gli sono state fatte, la distruzione di molte delle sue opere, e non le minori, la coscienza che il suo genio è stato, per troppo tempo, misconosciuto e, troppo spesso, male impiegato, la povertà che lo opprime, hanno scavato due pieghe profonde ai lati del suo naso, abbassato gli angoli della bocca, spento la fiamma dello sguardo e fatto di lui un uomo taciturno e sdegnoso.
Preferisce affidare le proprie impressioni alla carta piuttosto che agli uomini.
Nascono da qui le caricature dei personaggi che non ama, con le quali riempie pagine intere dei suoi quaderni.
Sono quei visi ignobili, mostruosi a proposito dei quali scrive:
“Alcune persone non sono che passaggi di cibo.”    



Solo la giovinezza, la grazia e la bellezza possono fargli dimenticare la misantropia. Sa meglio degli altri che un bel viso è il più bello di tutti gli spettacoli e quando gli capita di dipingerne uno, lo staglia, sempre, su uno sfondo di paesaggio azzurrognolo, per riuscire a dargli una vita più intensa…

 
 
È ciò che fece quando accettò di dipingere per il ricco e vecchio Francesco del Giocondo, il ritratto della sua giovane sposa, Monna Lisa, che il mondo conosce come La Gioconda.





Monna Lisa era veramente molto bella. Per evitare quell’aspetto prostrato, del quale parla Vasari, quell’atteggiamento annoiato, pressoché inevitabile nei ritratti, per conservare nella sua modella un’aria di dolce grazia, Leonardo le tenne sempre vicino, mentre dipingeva, cantori, musici e buffoni. 
 

Fu innamorato di questa Dama al punto da impiegare quattro anni prima di finire il quadro?  
Pensava a lei quando scrisse, un giorno, nei suoi appunti questo interrogativo senza risposta:
“Dimmi, dimmi se il tuo viso è la pagina dell’amore?”



Molti lo hanno sostenuto.
La cosa sembra probabile, quasi evidente, se si pensa alle lunghe ore che il Poeta e la bella Dama hanno trascorso, per tanti anni, l’uno di fronte all’altra, in una atmosfera incantata.
Questa misteriosa atmosfera ha resistito a onta delle screpolature dei secoli e dell’ingiallimento delle vernici.
Pervade, in modo ammirevole, il viso eburneo della Gioconda e le sue mani bellissime, così morbide e vive.
Questo capolavoro fu acquistato da Francesco I per 400 scudi d’oro.

Leonardo, La Gioconda.
Museo del Louvre, Parigi 


“A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello essere di bastevole transito; ma bona memoria, di che la natura ci ha dotati, ci fa che ogni cosa lungamente passata ci pare esser presente.”
Leonardo

“Il giudizio nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle debite e propie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno antiche, insieme coll’antichità della nostra gioventù, e così fa l’occhio infra le cose distanti, che per essere alluminate dal sole, paiano vicine all’occhio, e molte cose vicine paiano distanti.”
Leonardo

 
Leonardo, San Giovanni Battista.

Chiamato a Milano, Leonardo incontra Francesco Melzi.
Melzi è un giovane nobile, bello, dolce, buono e di carattere gaio. È un grande ammiratore dell’opera di Leonardo e Leonardo accetta di prenderlo come allievo. Non avrà da pentirsene, perché Melzi sarà per lui un collaboratore prezioso e il più devoto degli amici.


Verso la fine del 1507, muore Francesco da Vinci, e Leonardo viene a conoscenza che questo zio, che gli ha, sempre, dimostrato un affetto sincero, lo ha nominato erede di tutti i suoi beni.
Ma il testamento è impugnato dalla famiglia.
Munito di una lettera del Re di Francia, Luigi XII, per il Gonfaloniere di Firenze, Leonardo torna nella città natale, per difendere i propri diritti.
Attendendo la sentenza del processo, raccoglie gli appunti presi e le osservazioni fatte da lui stesso sui più diversi argomenti. Con l’idea di pubblicarli un giorno, si mette a classificarli, ma questo lavoro lo stanca presto e gli sembra tanto più noioso in quanto  ora è preso da una improvvisa passione per l’anatomia e per le costruzioni idrauliche. Seziona cadaveri nella speranza di rivelare ai vivi l’origine e la causa della vita stessa e, poiché i cadaveri si decompongono in fretta, passa, lunghe ore, chino su loro e smette di scorticare, di sezionare, segare ossa, mettere a nudo nervi, muscoli e vasi sanguigni solo quando l’aria nella quale vive è divenuta irrespirabile.
Vinta la causa, Leonardo torna a Milano.
Insieme a un appannaggio, dal Re di Francia riceve la commissione di un monumento a gloria del Maresciallo Trivulzio, monumento per il quale fa dei bei disegni di cavalli, ma che non sarà mai eseguito. Nel frattempo si occupa di lavori di idraulica, si propone di regolare il corso dell’Adda, bonificare le zone paludose e prosciugarle con l’aiuto di una pompa di sua invenzione.
Ancora una volta, lo scienziato mette da parte l’artista.
Dopo avere studiato la natura dell’acqua e le canalizzazioni, Leonardo si interessa all’acustica, si appassiona all’astronomia, si serve di lenti di varia grandezza per osservare la Luna e dichiara che tra il Sole e la Terra non vi sono che tenebre, ecco perché “l’aria sembra azzurra”.
La pace della quale gode Leonardo è, brutalmente, interrotta, nel dicembre del 1511, dagli Svizzeri che invadono la Lombardia.
I Francesi abbandonano l’Italia.
Accompagnato dai suoi allievi, Giovanni Francesco Melzi, Salaì, Lorenzo e il Fanfoia, Leonardo lascia Milano e parte per Roma.
Giulio II è morto da poco, il nuovo Papa, Leone X è un Medici e mette a disposizione di Leonardo una principesca dimora, costruita su un colle: Il Belvedere.
Giuliano dei Medici, fratello di Leone X, si dichiara amico e protettore di Leonardo. Su sua richiesta costruisce specchi ustori, inventa laminatoi e una macchina per filettare il passo delle viti, poi, si occupa di chimica.
Attendendo una commissione dal Papa che non viene, Leonardo si dedica alla botanica nei giardini del Vaticano. Distilla il succo di alcune piante per farne delle vernici. Sono le distrazioni di un Uomo perpetuamente agitato, ma non bastano, certo, a fargli dimenticare l’indifferenza di Leone X. Leonardo soffre di non vedersi affidare lavori degni di lui, mentre Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio sono oberati di commissioni.
Ma lo scienziato riprende il sopravvento e si dedica, di nuovo, allo studio della meccanica.
“È il paradiso delle scienze matematiche,”,
dice,
“perché, grazie alla matematica si possono raccogliere i frutti di questa scienza.”


Tiziano, Ritratto di Re Francesco I [1539].

Osserva attentamente tutto quello che gli passa sotto gli occhi, il volo di una mosca, i giri di una trottola o i movimenti delle labbra umane e da questi studi nascono le leggi fisiche ed estetiche che ci ha tramandato nei suoi trattati.    
Nel corso dell’estate del 1515, Leone X apprende che i Francesi hanno valicato, di nuovo, le Alpi.
Alla loro testa cavalca il Re Francesco I.
Dopo la presa di Milano e la disfatta degli Svizzeri a Marignano, Leone X, preoccupato, firma con il giovane Re un concordato che mette fine alle controversie tra la Francia e la Santa Sede.
Assiste Leonardo alle trattative?
La Storia non lo dice; possiamo, tuttavia, affermare che, alla Corte di Francesco I, molti Signori conoscono il grande artista e ammirano le sue opere. Così non desta, certo, meraviglia apprendere che, nel 1516, Leonardo lascia Roma e l’Italia con alcuni dei suoi allievi e segue Francesco I in Francia.
La Francia è un Paese meraviglioso, Francesco I è un Re fiabesco.
Leonardo si lascia conquistare da questo giovane Principe affascinante che gli dimostra amicizia.
Francesco I viaggia molto e Leonardo lo accompagna, talvolta, a cavallo.
Leonardo è alloggiato al Castello di Clos Lucé, non lontano da Amboise, sede della Corte.
Dal nuovo mecenate Leonardo riceve una pensione di 700 scudi.

Il Castello di Clos Lucé, noto, soprattutto, per essere stato l’ultima dimora di Leonardo da Vinci, che vi soggiornò dal’autunno del 1516 alla morte sopraggiunta il 2 maggio 1519, si trova nel cuore della città di Amboise, a 500 metri dal Castello Reale. In mattoni rosati e pietra bianca, il maniero fu costruito su fondamenta gallo-romane da Hugues d’Amboise, sotto il regno di Luigi XI, nella seconda metà del XV secolo, ed è collegato alla residenza del Castello di Amboise da un passaggio sotterraneo che consentiva al Re di rendere visita a Leonardo in qualunque momento con la massima discrezione. Da numerose generazioni [1802] appartiene alla famiglia Saint-Bris, che, negli anni 1960, ha deciso di ridargli l’aspetto che aveva all’epoca del soggiorno di Leonardo.




























Quando il Re non è in viaggio, Leonardo riceve, di frequente, la sua visita e quella dei molti personaggi che sostano ammirati davanti ai sorrisi che li accolgono. Sono i più belli del mondo, i più attraenti, i più seducenti; da una parte il sorriso squisito e tanto umano della Gioconda, più lontano risplende quello soave, penetrante, misterioso di Sant’Anna, altrove, ancora più divino, quello affascinante di San Giovanni Battista.
Di ritorno dalle terre di Berry, Leonardo propone al Re di studiare un sistema di canalizzazione della Loira e dello Cher, un sistema di canali navigabili che permettano di unire comodamente la Turenna al territorio di Lione.
Disegna progetti, rimoderna il Castello di Amboise, per renderlo più comodo e più confortevole.
Il suo agile spirito è sempre pronto a realizzare tutto ciò che ci si attende da lui.
Divenuto pittore di Corte, in Francia, disegna costumi per i balli mascherati e i tornei, crea decorazioni fiabesche e automi.
Durante una delle feste organizzate dall’illustre fiorentino, in occasione della nascita del Delfino, si vede avanzare un gigantesco leone, che si arresta davanti a Francesco I. Il suo petto si apre e lascia cadere una pioggia di gigli che si spargono ai piedi del Re.   


Leonardo, Il Leone Meccanico.


  Leonardo, La Macchina del Tempo.

Ma quando le risa e i suoni delle feste tacciono, Leonardo sente pesare su di sé l’età e la solitudine, si sente solo in mezzo alla folla.
La solerte amicizia di Melzi veglia su di lui, quando sopraggiunge l’infermità che fiaccherà il suo corpo, una volta così robusto, paralizzandone la mano destra.


Il 23 aprile 1519, Leonardo chiama il notaio reale e detta il suo testamento.
Pochi giorni dopo i suoi occhi si spengono.
Alla notizia della morte di Leonardo, Francesco I che si trova a Saint-Germain-en-Laye, non nasconde la propria commozione e ordina che la spoglia del grande artista venga inumata nella Cappella Reale d’Amboise, tra i Principi della Casa di Francia. 

“Alla mia età, ho incontrato tanta gente, ho sofferto e gioito, ma soprattutto ho imparato ad amare l’Amore, e a rifiutare l’odio. L’Amore dona a noi stessi l’eterna gioventù, e ogni domani è importante per incontrare nuova gente e vivere nuove storie importanti.”
Leonardo

All’inizio dell’Ottocento, poiché la Cappella d’Amboise era pericolante, le steli funerarie furono vendute, le tombe aperte e le casse di piombo fuse.
Tra tante osse, mani pietose cercarono i resti di Leonardo. Scelsero quelli di un Uomo di alta statura e il cranio più voluminoso e li seppellirono nella Cappella di San Biagio.   
Seguendo la sorte dei quadri del Genio, anche i manoscritti andarono dispersi, molti sono, perfino, scomparsi.  

Jean Auguste Dominique Ingres,  La morte di Leonardo Da Vinci tra le braccia di Francesco I [1818]. 
 
François-Guillaume Ménageot,  La morte di Leonardo.

Nelle sue Memorie, Benvenuto Cellini racconta di avere acquistato, un giorno, da un povero gentiluomo, per 15 scudi d’oro, un trattato di Leonardo da Vinci sulla pittura, la scultura e l’architettura.
“In questo libro”,
scrive,
“sfolgorava il meraviglioso Genio dell’Uomo più grande che, secondo me, il genere umano abbia prodotto.”  



Tra quante parole furono scritte a tessere le lodi di Leonardo e a piangerne la morte, non ve ne sono che superino, in eloquente semplicità, in affettuosa ammirazione, quelle che furono ispirate a Giorgio Vasari:

“E dolse la sua perdita, fuor di modo a tutti quelli che l’avevano conosciuto, perché mai non fu persona che tanto facesse onore alla pittura. Egli con lo splendore dell’Arte sua, che bellissima era, rasserenava ogni animo mesto e con le parole volgeva a sì e al no ogni indurata intenzione. Egli con le forze sue riteneva ogni violenta furia e con la destra torceva un ferro d’una campanella di muraglia ed un ferro di cavallo, come se fosse piombo. Con la liberalità sua raccoglieva e pasceva ogni amico povero e ricco, purché fosse d’ingegno e virtù. Ornava ed onorava con ogni azione qualsivoglia disonorata e spogliata stanza: per il che ebbe veramente Fiorenza grandissimo dono nel nascere di Leonardo e perdita più che infinita nella sua morte.”


Daniela Zini
Copyright © 7 aprile 2019 ADZ

  


[1] Nel 1476, Leonardo subì un processo per sodomia, causa nella quale venne coinvolto insieme ad altri suoi compagni, che come lui frequentavano la bottega del Verrocchio, a Firenze.
Dopo un breve periodo in carcere, Leonardo e gli altri imputati, accusati di aver molestato un apprendista orafo, il diciassettenne Jacopo Satarelli, apprendista orafo, vennero assolti.

[2] Il 15 luglio 1499, l’avanguardia di un’armata francese, composta da 10mila cavalieri, 17mila fanti e 130 cannoni invase il territorio di Milano. Al suo comando supremo vi era Gian Giacomo Trivulzio, figlio proprio di questa città, il quale, essendo un nemico degli Sforza, da lungo tempo era al servizio dei Francesi. Seminando ovunque terrore, e senza incontrare alcuna seria resistenza, i francesi avanzarono rapidamente, cosicché il Duca Ludovico non vide nessun’altra via di salvezza, se non fuggire, il 2 settembre, con pochi fedeli a Innsbruck presso l’imperatore Massimiliano. Solo sei anni prima, quest’ultimo aveva infeudato il Moro con il Ducato di Milano e sposato, in seconde nozze, sua nipote Bianca Maria. Massimiliano, sempre affamato di danaro, era stato, peraltro, addolcito con una dote enorme di 400mila ducati. Appena due settimane più tardi, anche Milano si consegnò a Trivulzio, nonostante le sue guarnigioni fossero ben fornite di uomini, armi e mezzi di sussistenza. Incitato dagli annunci di vittoria, l’artefice della campagna, il Re Luigi XII, accorse e, il 18 ottobre, entrò solennemente a Milano, luogo che considerava suo possesso legittimo, in quanto eredità di sua nonna Valentina Visconti. Al seguito del Re francese si trovava, allora, il fior fiore non solo della nobiltà francese, ma anche di quella italiana: il Cardinale Giuliano della Rovere [che divenne, quattro anni più tardi, Papa Giulio II], Cesare Borgia, figlio del Papa regnante, così come alcuni dei confinanti più o meno diretti del Moro: il Duca di Ferrara [che era anche suo suocero], il Duca di Savoia, il Marchese di Mantova e naturalmente il suo nemico giurato Trivulzio, al quale il Re Luigi avrebbe dato come feudo Vigevano, la residenza preferita del Moro.
I Francesi si resero rapidamente così impopolari a Milano, che, già, nel gennaio del 1500, una sollevazione li cacciò di nuovo dalla città, permettendo a Ludovico Sforza di farvi ritorno. Il contrattacco dei Francesi non si fece però attendere, e l’8 aprile, presso Mortara, si svolse lo scontro decisivo, in cui gli svizzeri al soldo degli Sforza si rifiutarono di combattere contro i loro fratelli nell’esercito francese; si fecero corrompere e si schierarono con la parte avversa, consegnando al Re francese il Moro come prigioniero, un tradimento, che Ludovico  Ariosto stigmatizzò:
e mostra uno che vende il Castel che ‘l signor suo gli avea dato;
mostra il perfido Svizzero che prende
colui ch’a sua difesa l’ha assoldato:
le quai due cose, senza abbassar lancia,
han dato la vittoria al re di Francia.
Il Re di Francia non garantì al Moro né una singola udienza, né un processo, ma lo fece, semplicemente, scomparire dietro gli spessi muri di diverse prigioni: da ultimo nella torre grande del Castello di Loches nei pressi della Loira. Là morì Ludovico il Moro, completamente dimenticato da tutti, al punto che noi non sappiamo neppure se la data esatta della sua morte sia il 1508 o il 1510.
Il cronista veneziano Girolamo Priuli commentò il caso del Moro:
“Questa caxa sforzesca in pochisimo tempo hera molto ruinata, che prima hera in grandisima felicitade et la più famosa caxa de la Ytalia et la piui regnante.”
L’invasione del 1499 è stata, com’è noto, preceduta da quella del 1494, che nella memoria storica, da Francesco Guicciardini e Niccolò Machiavelli, ha, sempre, giocato un ruolo molto più grande. Se si prescinde dai nomi dei protagonisti e di alcune località, vi erano, peraltro, vistose somiglianze tra le due invasioni. Anche nel 1494 vi era un Re francese, Carlo VIII, l’ultimo della linea diretta di discendenza dei Valois, il quale, con un esercito quasi altrettanto forte di 30mila uomini, entrò in Italia per conquistarsi un Regno. Lo scopo non era, allora, Milano, bensì Napoli, su cui Carlo sollevava delle pretese ereditarie in quanto erede della seconda Casa Angiò, che, nel 1480, si era estinta con il “buon Re” René. Se, nel 1499, sul lato italiano furono i Veneziani a desiderare e sollecitare attivamente, prima di tutti gli altri, l’invasione francese, nel 1494, ad assumere questo ruolo non fu altri che Ludovico Sforza – la principale vittima della successiva aggressione francese. L’una e l’altra campagna militare si rassomigliavano anche per il fatto che gli assaliti non fecero grande resistenza, ma, come Alfonso II di Napoli, nel 1495, e il Duca di Milano, quattro anni più tardi, semplicemente abdicarono e fuggirono.
Ciò dipese, in ultima istanza, dal fatto che in entrambi i casi i Sovrani minacciati non potevano fare affidamento sull’aiuto, e, soprattutto, su nessun aiuto disinteressato, da parte delle altre potenze italiane.

[3] Nel 1504, a Leonardo viene commissionato un grande affresco per onorare il Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, a Firenze. Il soggetto è La Battaglia di Anghiari, che, nel 1440, aveva segnato la vittoria dei Fiorentini contro le forze dei Visconti. Contemporaneamente, viene chiesto a Michelangelo di illustrare nella medesima sala La Battaglia di Cascina per la vittoria ottenuta su Pisa, nel 1364. 
I due artisti erano grandi rivali, ma non vi fu la sfida prevista.
Dopo diversi studi preparatori, Leonardo applicò una tecnica sperimentale, ma dipinse solo la cosiddetta Disputa per lo Stendardo. Probabilmente rifacendosi all’Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, utilizzò una tecnica a olio simile alla pittura a encausto, che, pur avendo superato la prova su un piccolo dipinto, si rivelò fallace sulla grande parete.
Nel 1563, il capolavoro incompiuto di Leonardo fu nascosto dagli affreschi di Giorgio Vasari nell’ambito delle modifiche strutturali e iconografiche di Palazzo Vecchio commissionate dal Duca Cosimo I de’ Medici.
Michelangelo fece un disegno a grandezza naturale, ma nel 1505, chiamato a Roma da Giulio II, lasciò il lavoro.


Nessun commento:

Posta un commento