“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 23 novembre 2014

SOCIETA' SEGRETE I. LA CAMORRA. 2. L'ANNORATA SOCIETA' di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

“Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che chiede d’essere ascoltata.”
Oriana Fallaci
Je ne suis pas de ceux qui disent que leurs actions ne leur ressemblent pas. Il faut bien qu’elles les fassent, puisqu’elles sont ma seule mesure, et le moyen de me dessiner dans la mémoire des hommes ou même dans la mienne.
Marguerite Yourcenar, Mémoires d’Hadrien 

à  Toi, ma chère Licia 
 Je  Te souhaite d’aller très loin et de faire aboutir tous Tes projets!
Qu’ils soient Algériens, Iraniens, Egyptiens, Turcs, Nigérians, Chinois, de plus en plus nombreux sont les écrivains confrontés au cruel dilemme que Tahar Djaout eut à peine le temps d’exprimer quelques jours avant son assassinat en pleine rue :
“Si tu parles tu meurs. Si tu te tais tu meurs. Alors parle et meurs...
Je tiens à Te parler un instant, Ma chère Amie, bien que je sois à peine en mesure d’écrire quelque chose d’utile.
Plus nous sommes silencieux, patients et disponibles, et plus ce qui est nouveau pénètrera profondément et sûrement en nous, mieux nous le ferons nôtre; il sera d’autant plus notre Destin propre, et, plus tard, lorsqu’il se produira, nous nous sentirons profondément intimes et proches.
Et c’est nécessaire.
Il est nécessaire — et c’est vers cela que peu à peu doit tendre notre évolution — que nous ne nous heurtions à aucune expérience étrangère, mais que nous ne rencontrions que ce qui, depuis longtemps, nous appartient.
Il a déjà fallu repenser tant de conceptions du mouvement qu’on saura peu à peu admettre que ce que nous appelons Destin provient des Hommes et ne vient pas de l’extérieur.
De même qu’on s’est longtemps abusé à propos du mouvement du Soleil, on continue encore à se tromper sur le mouvement de ce qui est à venir.
L’Avenir est fixe, mais c’est nous qui nous nous déplaçons dans l’Espace infini.
Tout ce qui, un jour, deviendra peut-être possible pour beaucoup, le solitaire peut déjà le préparer et l’élaborer de ses propres mains qui se trompent moins.
Me voici à… que j’aime.
C’est prodigieux, la chance d’être ici: je peux vivre en solitaire, presque en ermite, tout en étant au cœur de l’Univers.
Ici, j’ai fait mon nid.
Sur la table de ma chambre dont les fenêtres s’ouvrent sur les grands arbres d’une villa, il y a le dossier de mon testament littéraire. Parfois j’y glisse un petit papier…
Entre le vraitestament et ce livre il n’y aura pas grande différence.
Dans un testament on indique comment il faut partager ce qu’on laisse. Dans mon testament il y a aussi ce que la Vie m’a provoqué à penser, ce que j’ai eu envie de dire à certains moments.
En vieillissant, peu à peu, on prend conscience d’un devoir.
D’abord on résiste, parce que cela semble présomptueux… et puis revient avec insistance, au-dedans de soi, une voix qui dit:
Avant de nous quitter, dis-nous ce que tu sais.
Si aujourd’hui je ne me soumettais pas à cet appel, j’aurais le sentiment d’enterrer le talent d’une existence. Non pas les mérites de ma personne, bien sûr, mais ce que les circonstances de la Vie dans laquelle j’ai été trimballé m’ont fait comprendre, souvent après bien des résistances. 
Toutes les difficultés, les doutes et les renoncements expérimentés par un écrivain ne s’expliquent pas, comme on le croit trop souvent depuis Stéphane Mallarmé, en termes de stérilité ou d’angoisse devant la page blanche.
Ce sont là métaphores de Poète à ne pas prendre au sens littéral: elles ne rendent pas compte de la réalité infiniment plus complexe du processus de création littéraire.
Dans la plupart des cas, si l’écrivain ne parvient pas à faire aboutir son projet – j’entends le grand écrivain –, ce n’est pas qu’il ne peut pas écrire, mais qu’il ne veut le faire qu’à certaines conditions qu’il s’est imposées.
Il ne se dessèche pas d’impuissance, mais étouffe d’un trop-plein d’exigences.
Cette émotion-ci est commune aux historiens, aux archéologues et aux personnes cultivées qui ont perdu la Passion au contact de l’érudition.
Il s’agit d’une émotion à la fois plus exceptionnelle et plus personnelle, identique à celle que Johann Wolfgang von Goethe ressentit en arrivant en Italie après avoir écrit Die Leiden des jungen Werthers [Les souffrances du jeune Werther]: celle  d’y rencontrer sa propre origine et d’y saisir le sens de son Destin.
Ce n’était donc pas le passé qui se rapprochait et qui, en se rapprochant, se mettait à ressembler au voyageur mais, à l’inverse, lui-même qui remontait le cours du temps et accédait à sa propre patrie; son présent se chargeait de signes, et ceux-ci prenaient tout leur sens au contact du passé. 
Si Vous demandez à deux jeunes gens pourquoi ils s’aiment, ils ne vont pas faire une liste des défauts ou des qualités, établir la moyenne, dire:
Il [elle] arrive à 51%, c’est pour cela que je l’aime…
Chacun s’écriera:
Je l’aime parce que je l’aime, et foutez-moi la paix !
Je l’aime comme il [elle] est.
La Politique est un acte d’Amour.
Il nous faut des contagieux.
Aucune valeur humaine ne peut grandir et se transmettre sans contagion. La contagion est une manière d’être, qui va de soi, comme celle des parents qui accompagnent l’enfant dans son éveil à la Vie. Le contagieux, c’est celui qui sait voir les horreurs du monde, et ses merveilles, qui ne peut pas supporter les horreurs et qui cherche les solutions pour qu’il y en ait moins. Celui-là peut être entendu parce qu’il a agi.
L’homme politique, techniquement compétent, peut bien intervenir pour l’accès à tous, la lutte contre la misère, l’action concertée contre le chômage, mais si, tout en parlant, il ne pense qu’à sa partie de golf du lendemain, il ne sera pas entendu.
Pour convaincre, les arguments sont nécessaires.
Mais les actes le sont davantage.
Qu’ils osent, les contagieux!
Qu’ils n’hésitent pas à utiliser les médias!
Leur action galvanisera l’opinion.
Et parce ce qu’on les aura écoutés, on leur redonnera la parole!
Ce sont eux qui somment d’agir les responsables et l’opinion publique, en les rendant plus clairvoyants et en leur imposant simultanément deux types d’action: l’action d’urgence – le secours immédiat:
Tu as faim, voilà à manger.
– et la planification, qui n’est plus aujourd’hui à l’échelle du Pays, mais à celle du monde.
S’il est vrai que l’on veut étendre la Liberté absolue à tous les domaines, ce qui pourrait donner l’illusion que les Libertés continuent leur expansion sur tous les fronts, il est tout aussi vrai que l’auto-censure, sous la forme de la political correctness, par exemple, fait paraître nos libres parleurs bien timides par rapport à Aristophane et à tous les citoyens grecs de la même époque.
Un passage du Mariage de Figaro de Beaumarchais, écrit il y a plus de deux siècles, nous donne une idée, par le biais de l’humour, de la réalité de cette nouvelle censure qui se présente sous le couvert de la Liberté:
On me dit que, pendant ma retraite économique, il s’est établi dans Madrid un système de liberté sur la vente des productions, qui s’étend même à celles de la presse; et que, pourvu que je ne parle en mes écrits ni de l’autorité, ni du culte, ni de la politique, ni de la morale, ni des gens en place, ni des corps en crédit, ni de l’opéra, ni des autres spectacles, ni de personne qui tienne à quelque chose, je puis tout imprimer librement, sous l’inspection de deux ou trois censeurs.
À la rectitude politique, s’ajoute, dans la plupart des médias, surtout parmi ceux dont la réussite financière dépend de quelques annonceurs, une auto-censure de survie qui devient vite une seconde nature.
Il va de soi qu’il faut s’abstenir de donner une opinion éclairée sur le junk food dans une station de radio locale qui diffuse des annonces de telle chaîne alimentaire très connue.
En s’accumulant, ces manquements véniels au devoir de Vérité créent un climat tel que toute une région peut être au courant des injustices commises par un chef d’entreprise du lieu, alors même que les médias ont craint d’aborder le sujet.
Preuve que l’on peut dans un même Pays à la fois pousser trop loin la Liberté, [quand elle est une occasion de profit ou de plaisir] et se montrer incapable de l’assumer, [là où elle est un devoir].
Ne tenons jamais la Liberté d’Expression pour acquise.
C’est le silence avilissant qu’il faut plutôt tenir pour acquis.
Comme nous le rappelle Fernand Dumont: 
Les censeurs existent toujours, même s’ils ont changé de costume et si leur autorité se réclame d’autres justifications. Toutes les Sociétés, quels que soient leur forme et leur visage, mettent en scène des vérités et des idéaux et rejettent dans les coulisses ce qu’il est gênant d’éclairer. Toutes les sociétés pratiquent la censure; ce n’est pas parce que le temps de M. Duplessis est révolu que nous en voilà délivrés. Les clichés se sont renouvelés, mais il ne fait pas bon, pas plus aujourd’hui qu’autrefois, de s’attaquer à certains lieux communs. Il est des questions dont il n’est pas convenable de parler; il est des opinions qu’il est dangereux de contester. Là où il y a des privilèges, là aussi travaille la censure. Le blocage des institutions, le silence pudique sur les nouvelles formes de pauvreté et d’injustice s’expliquent sans doute par l’insuffisance des moyens mis en oeuvre, mais aussi par la dissimulation des intérêts. On n’atteint pas la lucidité sans effraction.
Il y a dans l’histoire de l’Homme un moment qui me bouleverse.
C’est celui où les humains ont aligné leurs morts pour les enterrer.
On n’a jamais vu les bêtes aligner les dépouilles des bêtes.
Les animaux se cachent pour mourir…
A partir du moment où les restes des défunts ne sont plus laissés là, mais soigneusement rangés, un nouvel age commence: celui de l’Humanité. 



“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
 
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela  Zini


Echo
Daniela Zini

Quand dans le charme ardent
De ta pâle beauté
Je cherchais comme d’autres
Ton rire et ton regard,
A qui souriais-tu,
Dis, statue terrifiante ?
Qui donc voyais-tu
Ne regardant personne ?


“Je me tais, mais le geste gracieux de ma main parle assez, 
et quoique paraissant taciturne, j’indique un silente éloquent.”




Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!



I. LA CAMORRA

“La Camorra potrebbe esser definita l’estorsione organizzata: essa è una società segreta popolare, cui è fine il male. È utile studiarla da vicino, non solo per osservare i costumi ancora poco conosciuti e offrire qualche singolarità di più alla curiosità del pubblico, ma soprattutto per mostrar i veri ostacoli che l’Italia incontra a Napoli. I pubblicisti stranieri, quelli in specie, che a profitto di certe teorie e forse di certe ambizioni hanno avversato l’unità italiana, attribuiscono questi ostacoli a non so quale opposizione sentimentale e politica. Scrivono tutti i giorni che l’Italia occupa il Napoletano senza possederlo, imponendosi alle popolazioni che la respingono e bramano esser da lei avulse. Di qui concludono che bisogna conservare al Papa il suo poter temporale.”
Marc-Charles-François Monnier


SOCIETA’ SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria
Parte Prima
di Daniela Zini

 2. L’ANNORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
“L’Italia ha da trionfare, perché l’Italia è la libertà, l’umanità, la civiltà. Che tutti que’ principii, disconosciuti e condannati dalle dinastie decadute, escano ora dall’ombra e dal silenzio, ove si tentava seppellirli; che il popolo fatto libero si ritempri nel sentimento della sua dignità e della sua potenza; che la violenza e l’iniquità dell’alto non autorizzino la violenza e l’iniquità del basso; che la paura, questo vergognoso istinto di degradazione e di schiavitù, sia sradicata affatto dalla coscienza popolare che si rialza: ecco il sistema di repressione che senza fallo riuscirà; e la palla sarà estratta dalla ferita, e la camorra non esisterà più, se non come memoria in quest’opuscolo caduto nell’oblio.”
Marc-Charles-François Monnier

 “Si dà nome di camorrista ad un uomo di importanza che vende per una botte di vino un favore; all’ufficiale superiore il quale si fa pagare la protezione che accorda a coloro che desiderano le spallette; all’alto funzionario che minaccia di destituzione gli impiegati scrupolosi cui fanno difetto la pieghevolezza dell’animo e le compiacenterie; al cavaliere d’industria che, abile nella scherma, vorrebbe esser rispettato come un cavaliere del Toson d’oro; al vescovo reazionario, che sotto pena di sospensione a divinis proibisce al modesto curato di riconoscere il Regno d’Italia; infine a tutti i grandi di questa terra che usano violenza ai deboli, col diritto del più forte. Ma io stimo che per imbattersi in tali camorristi non sia mestieri recarsi a Napoli.”
Marc-Charles-François Monnier



 re Ferdinando II

Quanto era difficile divenire camorrista sotto i Borbone!
Molti erano i giovani che aspiravano a raggiungere questo gradino dell’Annorata Società: si iniziava la scalata con la qualifica di “guaglione”, quindi, si diveniva “picciotto”, poi, “sgarro” e, infine, “camorrista” vero e proprio. Si dice che il capo della Camorra, a suo tempo, fosse lo stesso Ferdinando II. 

Nel 1503, avventurieri di ogni risma e razza calano su Napoli al seguito delle soldataglie del gran capitano Gonzalo Fernández de Córdoba, che conquista la bella città partenopea, in nome di Ferdinando il Cattolico.
Napoli, che sotto Alfonso d’Aragona aveva conosciuto un periodo di splendore e di industriosità – tanto che da alcuni veniva considerata la prima città di Europa – vede bloccati il suo sviluppo e la sua ascesa a causa della presenza di questa massa di avventurieri dediti alla violenza e alla rapina.
Vi era a Napoli un numeroso sottoproletariato – inurbatosi nei due secoli precedenti – che ostacolava con la sua presenza il diffondersi di un ordinato sviluppo economico e sociale e i nuovi venuti, feccia dei bassifondi iberici, vi trovano il terreno favorevole per organizzare gli oscuri canali della malavita, dando vita alla criminalità sistematica e organizzata.
Nasce, così, la camorra, un vocabolo che, in spagnolo, significa rissa e che, secondo alcuni linguisti, trarrebbe origine dalla parola gamur, un tipico giubbetto indossato dai briganti castigliani.
Questa consorteria di delinquenti avrà lunga vita, tanto che, ancora oggi, non può dirsi estinta: basti pensare alla figura del boss mafioso e camorrista che dalla galera o dal confino manovra egualmente le fila dei subalterni.
Tutti conoscono, a grandi linee, come al tempo dei Borbone la camorra afflisse la generosa Terra del Lavoro con la sua opera di sfruttamento dei deboli.
I camorristi esercitano un vero e proprio racket: a esempio, provenendo dalla campagna, il coltivatore di ortaggi e frutta veniva bloccato alla barriera delle gabelle dal camorrista di fazione il quale, nonostante la presenza dei gendarmi, esigeva una tangente pari a un decimo del valore dei prodotti. L’Annorata Società tassava i barcaioli secondo il numero dei passeggeri portati a terra dalle navi e dai velieri giunti in rada; percepiva un decimo dai vetturini sul nolo delle carrozze; dai ruffiani che offrivano la loro “mercanzia” e, insomma, lucrava una percentuale su qualunque attività economica, inclusa la vendita dei manufatti di pelle – famosi soprattutto guanti e scarpe – già a quell’epoca apprezzati e richiesti agli artigiani napoletani da tutta l’Europa.
Perfino chi giocava d’azzardo nelle osterie e nei ridotti doveva versare un decimo della vincita al camorrista “di servizio” nel locale”! 
L’Annorata Società poteva operare, apertamente, alla luce del sole, poiché i suoi membri godevano – come già in precedenza sotto gli spagnoli – dell’impunità più assoluta, che veniva loro garantita dai più che compiacenti funzionari statali.
Vi furono epoche di particolare corruzione politica e sociale, quando, in occasione della nomina di un nuovo adepto alla camorra, si giungeva perfino ad avvertire il prefetto, al quale si versavano contemporaneamente ben cento ducati, perché proteggesse il “novizio”. In quanto al delegato di polizia del quartiere, riceveva, a sua volta, una gratifica consistente, di solito, in quattro carlini.
Dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia, “fare il camorrista” divenne, però, una professione irta di difficoltà: infatti, la camorra venne combattuta in tutti i centri della pubblica amministrazione e vi furono prefetti – come a esempio, Silvio Spaventa – che non esitarono a intraprendere una lotta a morte contro questa associazione per delinquere.

Silvio Spaventa

Al tempo dei Borbone, la camorra era stata temuta e rispettata anche perché vantava complicità e aveva infiltrato suoi esponenti nelle alte sfere politiche e governative.
Nel 1848, lo stesso Carlo Poerio, patriota e martire dell’Indipendenza, fu obbligato a entrare nelle sue fila, mentre ricopriva la carica di ministro sotto Ferdinando II, penultimo Re del Regno delle Due Sicilie.
Per non risalire, poi, all’epoca del famoso cardinale Fabrizio Dionigi Ruffo dei duchi di Bagnara e Baranello, quando, nel 1799, lo stato maggiore delle bande armate e dei complotti reazionari era composto, pressochè totalmente, da affiliati a questa consorteria delinquenziale.
Lo stesso Ferdinando II si servì, largamente, dell’Annorata Società per operazioni di polizia politica preventiva e repressiva. Anzi, si sussurrava in moltti ambienti che il vero capo della camorra fosse proprio lui: avrebbe retto le fila dell’organizzazione, delegandone il diretto controllo ai membri del governo. Se questa voce rispondesse o meno a verità non è, storicamente, accertato: è, tuttavia, indubbio che il Re dovesse, almeno, essere al corrente di tale infamante insinuazione, tanto è vero che si permetteva in merito scherzose quanto pesanti allusioni.
Si racconta, a esempio, che, un giorno, mentre dava udienza a illustri ospiti, ridendo, li avesse ammoniti:
“Signori, attenzione!
Badate alle vostre tasche: avete vicino dei ministri!”
Moltissimi giovani, dunque, aspiravano a diventare guaglioni e’ malavita, il primo grado dell’onorata professione di camorrista. Ma non a tutti era permesso raggiungere la desiderata qualifica, perché la selezione era severa.
Agli aspiranti era essenziale, soprattutto, dimostrare di possedere le necessarie doti di core e curaggio, qualità ritenute indispensabili dai capi della camorra, che rivendicavano – almeno a parole – il ruolo di sostenere i deboli contro i prepotenti sopraffattori.
Se per un motivo qualsiasi l’ambita carriera veniva interrotta, gli ex-guaglioni e’ malavita potevano ripiegare sulla meno impegnativa professione di ladro e, proprio in vista di tale eventualità, taluni genitori previdenti non mancavano di praticare ai loro rampolli il trattamento detto “delle tenaglie”: si trattava di sottoporre a trazione l’indice della mano destra del bambino nei primi anni di età, in modo da ottenere l’allungamento del dito fino a che questo divenisse pari al medio. Questa lieve deformazione della mano veniva considerata garanzia di una lucrosa carriera per il caro pargoletto che avrebbe, sempre, potuto guadagnarsi la vita – in caso di espulsione dalle fila camorriste –, sfilando con maggiore facilità dalle altrui tasche borse, orologi, portafogli e altri valori.
Una delle più famose figure di camorrista della prima metà del XIX secolo fu Ciccio Cappuccio ricordato da Alexandre Dumas padre, in una sua raccolta di memorie sul brigantaggio, edita a Napoli nel 1863. A quel tempo, il romanziere francese risiedeva nella incantevole città, quale giornalista e direttore dei Musei, carica che Giuseppe Garibaldi gli aveva offerto, subito dopo la spedizione di Sicilia, cui Dumas aveva partecipato, seguendo l’epopea dei Mille.   
Ciccio Cappuccio, chiamato anche o’ signurino, probabilmente per la pacchiana eleganza del suo abbigliamento, era un individuo ttalmente privo di senso morale; uccideva o premiava – talvolta con munifiche elargizioni – lasciandosi guidare dal solo istinto. Compì, rapidamente, la sua scalata sociale, passando per i tradizionali quattro gradi dell’Annorata Società: guaglione, picciotto, poi, sgarro e, infine, camorrista vero e proprio.
La carica gli fu facilitata dal possedere indubbie doti di coraggio e di astuzia nonché dalla capacità di assassinare a sangue freddo, caratteristica quest’ultima ereditata dal padre che era stato, infatti, il capo camorrista di Porta Capuana, uno dei dodici quartieri o circoscrizioni, nei quali, per tradizione, erano, logisticamente, ripartite le forze della camorra.
Alla sua prima azione di sfregio, ancora quasi adolescente – una rasoiata al viso del povero artigiano presso il quale aveva trovato lavoro – fu condannato a sette anni da scontare a Ponza, l’isola che sotto i Borboni era una colonia penale.
A Ponza, Ciccio si trovò nel migliore ambiente per prosperare in quanto ebbe come conpagno di sventura – come si definivano tra loro i detenuti – oltre a numerosi altri camorristi, lo stesso generale in capo dell’Annorata Società che, molto spesso, era ospite di questa terribile galera.
Ciccio, colse a volo l’occasione e sfidò a un duello rusticano il generale proprio per dimostrargli di essere degno di raggiungere i più alti gradi della carriera di camorrista. Ammirato per la forza, l’abilità e l’audacia dello sfidante, il massimo esponente dell’Annorata Società lo promosse guaglione sul campo.   
Poiché anche la maggior parte dei secondini apparteneva alla consorteria, Ciccio avrebbe potuto, facilmente, evadere, se solo lo avesse voluto. Ma preferì consolidare in carcere la propria posizione, poiché sull’isola, un ambiente ristretto, gli sarebbe stato più facile farsi conoscere per ciò che valeva, guadagnandosi, in minore tempo, il rispetto di tutti i più feroci delinquenti dell’epoca.
Una volta che un calabrese, detenuto di seconda categoria, vale a dire, nella scala sociale della malavita, un semplice brigante [!], si permise di offrirgli da offrirgli da fumare, offeso per la troppa confidenza, lo prese a schiaffi. Ne scaturì una feroce rissa: il calabrese gli si avventò contro, aiutato da un gruppo di camorristi, che, invidiosi della rapida ascesa di Ciccio, pensavano di aver colto il momento giusto per liberarsi di quel pericoloso concorrente. Ma ‘o signurino non si perse d’animo e, addossatosi al muro per proteggersi le spalle, armato solo di un bastone, mise ben presto fuori combattimento, uno a uno gli aggressori.
Quando, scontata la pena, venne liberato, la sua fama di duro si era, già, vastamente, diffusa in tutto il napoletano e, da allora in poi, esercitò un potere spietato nel reame oscuro e onnipotente della camorra.
Il suo criterio morale lo induceva a ritenere che la gente si dividesse in due categorie: quelli che comandavano, servendosi della forza e del terrore, e quelli che dovevano subire angherie e soprusi.
Ai primi spettavano tangenti, rispetto e ricchezza, ai secondi aprire la borsa o rimetterci la pelle!  
Ciccio si era fatto costruire una carrozza interamente foderata di raso, trapunta di bottoni d’oro, trainata da tre cavalli, bardati con costosi finimenti. Ma, raramente, se ne serviva, perché preferiva vivere tra il popolo e mescolarsi alla folla. Quando passeggiava per via Toledo[2] la gente lo riconosceva subito; si scostava al suo passaggio e gli faceva ala in segno di ossequio. Molte volte applaudendolo.
“Era onorato perché molto amato.”,
come ebbe a dire un cronista dell’epoca. La sua generosità era proverbiale, soprattutto quando poteva elargire, usando danaro altrui. Nessuno, infatti, poteva affermare di avere mai ricevuto un rifiuto, quando gli si era rivolto per un favore, per un prestito o un aiuto qualsiasi.
Un tipico modello di lettera di cui si serviva per le sue estorsioni, che se fosse esistita la fotocopiatrice avrebbe potuto tirare in centinaia di copie – tutte avrebbero, infatti, trovato un docile destinatario – era redatta in questi termini:
“Egregio signore, l’“Annorata Società” vi consentirà di continuare a mantenere la vostra puttana se accetterete di mantenere agli studi il figlio x y che versa in pessime condizioni finanziarie.”
Proprio per azioni di questo genere tutti gli volevano bene e lo ammiravano, tanto che, un giorno, quando venne “pizzicato” dalla questura e inviato a domocilio coatto all’isola di Favignana, si potè assistere a uno spettacolo stupefacente. Allorchè il vaporetto, sul quale era stato imbarcato per il trasferimento, si staccò dal molo, centinaia di barche presero a seguirlo, mentre da esse si levavano voci di incoraggiamento, di benedizione e di commosso addio da parte di tutta una plebe piangente.
Questo stesso uomo, generoso e sentimentale, era, tuttavia, un criminale sanguinario.
Tornato dal domicilio coatto, andò a trovare il capo della polizia, come spesso gli accadeva di fare.
Non portava, infatti, nessun rancore verso l’alto funzionario che lo aveva spedito a Favignana.
A tale proposito, Ciccio spiegava agli amici:
“Lui ha fatto il suo mestiere di sbirro e io faccio il mio!”
Quel giorno, mentre discorreva con il questore, gli raccontò che proprio un momento prima era scampato alla morte.
Il titolare di uno studio legale in prossimità della questura – spiegò – a causa di precedenti dissapori, gli aveva sparato un colpo di pistola, sbagliando mira. Il suo eminente interlocutore commentò scherzando:
“E gliel’avete fatta passare liscia?
Mi meravigliate!
Non avrei mai supposto che vi sareste comportato così da debbenuomo!”
Ciccio parve turbato.
Dopo pochi minuti salutò e uscì, per tornare di là a cinque minuti.
Nel frattempo, aveva rintracciato l’aggressore e lo aveva eliminato, fracassandogli il cranio con il calcio della pistola.
Riferì al questore:
“Eccellenza, ho tenuto conto del vostro giusto parere e l’avvocatuccio è morto.”  
Giudicato per direttissima, venne condannato a soli tre anni di reclusione, perché il tribunale volle tenere conto della grave provocazione di cui era stato oggetto.
Eppure, malgrado queste efferatezze, Ciccio si diceva devoto alla Vergine e, come tutti i suoi accoliti, chiedeva, sempre, tributi che, effettivamente, spendeva per l’olio delle lampade perpetue da mantenere accese in chiesa!  
In amore, poi, era delicato, generoso e sensibile, tanto che le donne facevano pazzie per lui.
Come citava una canzone della malavita:
“Teneva, ogne purtone, a’nnamurata”;
ma quando, infine, conobbe una tale Carmela Schiavetta, mise la testa a partito. Si trattava di una psicopatica, ex-prostituta, una donna da coltello, he incuteva timore anche ai più incalliti delinquenti; ma non a Ciccio, che se ne innamorò perdutamente e giunse, perfino, a rapirla per averla solo per sé.
Divenuto vecchio, si ritirò a vita privata e aprì un negozio, dove vendeva carrube e avena ai cavallanti, in piazza San Ferdinando. Seduto davanti alla sua bottega, passava, la maggior parte del tempo, riverito e ossequiato dai passanti con grandi scappellate e inchini.
Qualunque sia stato il fenomeno sociale che ha reso possibile lo sviluppo di tale contorta personalità, ignoranza o miseria, condizioni ambientali o ereditarietà, certo è che Ciccio Cappuccio seppe farsi amare dal popolo tanto che, alla sua morte, generò, particolarmente nei “bassi”, un profondo cordoglio.
La sua figura e il suo ricordo rimasero vivi nel cuore dei suoi concittadini tanto che, molto presto, entrarono a far parte del folklore napoletano.
Un canto della malavita, infatti, parla ancora di lui.

Da ‘o Mercatiello a ‘o Bbùvero,
Da Porto a lu Pennino
È corza ‘a voce subbeto:
“È mmuorto ‘o Signurino!”
Ciccio Cappuccio, ‘o princepo
D’ ‘e guappe ammartenate,
Ha nchiuse ll’uocchie d’ ‘aquela,
E sule nce ha lassate!

Scugnizze, cape–puopole,
Picciotte e contaiuole,
Chiagnite a ttante ‘e lacreme!
‘Ite perdute ‘o Sole!
Currite, belli femmene,
Sciugliteve ‘e capille,
Purtateve all’asequie
‘E figlie piccirille!

Chi ve po’ cchiù difendere?
Senz’isso che ffacite?
A chi jate a ricorrere
Si quacche tuorto avite?
Isso, sul’issso, ea àbbele
A fa scuntà sti storte…
Mo’ che po’ cchiù resistere?
Ciccio Cappuccio è mmuorte!
Russo, nquartato, giovane,
Pareva justo urlando
Quann’ ‘o verive scennere
Mmiezo San Ferdinando!
V’allicurdate ‘o sciopero?
Pare successo ajere!
Sull’isso dette ll’ordene,
E ascetteno ‘e cucchiere!

E quanno dint’ ‘e carcere
P’ ‘o fatto d’ ‘e turniste
Isso avette che ddìcere
Cu ‘e guappe calavrise!
–Tirate mano!  Armateve!
Tenite core mpietto?
E n’abbattette dudece,
Cu ‘e tavole d’ ‘o lieto!

Currite! Mo’ s’ ‘o portano!
Menatele ‘e cunfiette!
Sceppateve! Stracciateve
‘E core ‘a dinto ‘e piette!
Uommene nun n nasceno,
Comm’a Cappuccio, ancora!
Ll’aute sò buone a schiovere,
Isso vucava fora!

Va! Jateve a fa muonece,
Guappe quante nne site!
Cu Ciccio è muorto ‘o ggenio
D’ ‘e palatine ardite!
Picciuotte e cape-puopolo,
Scugnizze e cuntaiuole,
Chiagnite a tanto ‘e lacreme,
Ite perduto ‘o Sole!


Daniela Zini
Copyright © 23 novembre 2014 ADZ



[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] La strada è citata anche da Stendhal:
Parto. non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo.”