“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 19 maggio 2015

SOCIETA' SEGRETE I. LA CAMORRA 3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA di Daniela Zini



MEMENTO MEMORIAE
 
 “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, 
chi parla e chi camminaa testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone



Vi sono Volti e Voci che mi ispirano, mi sfidano, mi pungolano e mi spronano a elevarmi per avanzare nella vita e contribuire a far avanzare le cose.
Sono un sano contagio, una magnifica emulazione, talvolta, una intimidazione… tanto sono nobili.
Sono dei preziosi “carburanti”, quando la speranza negli Uomini o nelle circostanze potrebbe indurmi ad alzare le braccia.  
Alcuni di questi Volti e di queste Voci hanno versato il proprio sangue per aprirci la via alla Libertà, alla Democrazia e alla Giustizia.
A loro dico: Grazie!
In nome del loro sacrificio, noi dovremmo avere la ricerca della Libertà, della Democrazia e della Giustizia dell’Uomo esigente.
Io ammiro questi Spiriti brillanti e impegnati che, con il loro esempio, partecipano a strutturare il mio modo di pensare il Mondo. Possano questi Spiriti essere dei venti sotto le vele delle nostre lotte per accedere alla Libertà, alla Democrazia e alla Giustizia nel nostro Paese.
Chi si appresterà a prendere il testimone?
La nostra generazione può scegliere di scuotere il giogo, che la mantiene nella serena rassegnazione o nella ammirazione passiva, per decidere di divenire protagonista della propria Storia.
Vi sono tante terre di Libertà, di Democrazia e di Giustizia da conquistare o da riprendere.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Noi abbiamo una responsabilità di fronte alle generazioni che ci hanno preceduto e di fronte alle generazioni che ci seguiranno.
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, noi non Vi dimenticheremo!

Roma, 23 maggio 2015

Daniela  Zini

“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
 

a Te,
per ringraziarTi di avere incrociato la mia vita… e di averla, così, cambiata, proprio un anno fa…

D



Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!



SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini


I. LA CAMORRA
 
di
Daniela Zini

Le condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo della Camorra vanno ricercate nella profonda trasformazione vissuta dalla città di Napoli agli inizi del XVI secolo. In questa epoca, non esiste, di fatto, una divisione netta tra la Napoli della nobiltà e della borghesia e la Napoli della plebe. È una delle conseguenze delle espansioni urbanistiche e delle restrizioni edilizie: vivere tutti insieme, ammassati gli uni sugli altri, accalcandosi, mescolandosi.
Nobili, avvocati, speziali, bottegai, artigiani, lazzari[2] si pestano i piedi e si urtano con i gomiti. Ciò che comporta anche una reciprocità di favori che si traduce, sovente, su piani politici e istituzionali.
Marc Monnier racconta di un episodio accaduto a suo nonno, che, vissuto, a Napoli, tra il 1835 e il 1905, subì il furto di oggetti particolarmente cari. Dopo essersi rivolto alla polizia, ma senza successo, decise, su consiglio di un proprio domestico, di rivolgersi al capozona del quartiere. Il camorrista seppe, in breve tempo, risolvergli il problema.
Per la sua capacità nel gestire una giustizia sociale – poiché, a Napoli, come altrove, il potere del popolo si manifesta con esplosioni di violenza improvvise – la Camorra, viene utilizzata dai Borbone fino al 1848. Con la Camorra, infatti, questa violenza viene canalizzata verso altre attività.
L’esercizio della violenza è ben controllato.
Il camorrista deve, molto raramente, fare ricorso alla violenza: la sua sola presenza e la sua parola sono sufficienti per far rispettare l’ordine. La violenza è uno strumento di potere, al tempo stesso, simbolico e reale e, almeno in questo periodo, più simbolico che reale. Le attività illegali dei membri della organizzazione si limitano a reati normalmente perpetrati senza un particolare ricorso alla violenza. E, tuttavia, gli atti di violenza, se necessari, vengono molto ritualizzati. 
Il vasto consenso popolare rende, immediatamente, percettibile il “vuoto” colmato dalla Camorra. La Camorra è il solo mezzo di relazione e rappresentanza politica del popolo, fino al 1912[3], in quanto la  riforma elettorale, varata, dopo lunghe discussioni parlamentari, con le leggi del 22 gennaio e del 7 maggio 1882, concedeva il diritto di voto ai cittadini italiani di sesso maschile, che avessero compiuto il ventunesimo anno di età, sapessero leggere e scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare, o in alternativa, pagassero annualmente una imposta diretta di almeno 19,80 lire.
Indebolita dal processo Cuocolo, nel 1911[4], la Camorra rinasce dalle sue ceneri, dopo il secondo conflitto mondiale, e inizia la sua mutazione per divenire ciò che è oggi.
Il soggiorno forzato, a Napoli, di Charles “Lucky” Luciano[5], a seguito della sua espulsione dal territorio americano, nel 1946, contribuisce a rianimare il fenomeno criminale locale. La Camorra si allea, allora, con i clans marsigliesi per il contrabbando delle sigarette. Ma non ha più, tuttavia, la sua struttura verticale, che la caratterizzava, nei secoli precedenti. È costituita da diversi clans più o meno legati tra loro. 
Dalla fine degli anni 1970, la Camorra da semplice gruppo delinquenziale, sia pure efferato e profondamente radicato nel territorio, riesce a penetrare in molti settori dell’economia legale e dell’amministrazione pubblica. La sua struttura più definita, benché non omogenea, nata dallo sviluppo di relazioni con il sistema politico locale e dal legame funzionale con le distorsioni e le illegalità che lo caratterizzano, è meno legata alla base sociale popolare e sviluppa una attività importante e diversificata nel settore economico legale. Legata all’ambiente finanziario campano, coltiva relazioni sempre più intense con la mafia siciliana e americana, prendendo una dimensione internazionale crescente. 
La capacità di partecipazione a settori tradizionalmente estranei risponde alla complessiva crescita culturale e sociale di ambienti che hanno finito per adattare alla propria visione e alle proprie pratiche istituti ed economie nati come espressione della modernizzazione. In molti quartieri di Napoli, come in molti paesi della provincia e del Casertano, la stretta vicinanza di individui appartenenti a famiglie di camorristi e di individui non di tradizioni delinquenziali, di fatto, crea, da sempre, amicizie, familiarità, parentele, che finiscono per amalgamare comportamenti sani e insani. E la crescita nell’istruzione come nella partecipazione alla vita civile finisce per coinvolgere in un generale processo di raffinamento la stessa Camorra.
Non per caso si trovano esponenti della politica e dell’amministrazione, della finanza e dell’imprenditoria coinvolti direttamente o indirettamente in operazioni illegali.
Il frazionamento dei poteri a livello nazionale non può che rappresentare un fattore di sollecitazione alla formazione di società criminali, che tendono a uscire da condizioni di marginalità e di dipendenza per entrare nel gioco poltitico, a gestire una o più delle numerose briciole di potere e di clientela, gettate sul mercato da una gestione incosciente delle istituzioni pubbliche.
Infatti, dopo la parentesi dei primi anni 1960, durante i quali la nozione di interesse collettivo era raccomandata e promossa dalla esistenza di una opposizione di sinistra, sembra che questi valori si siano trincerati nelle istanze sociali e che il fine dei partiti italiani divenga la gestione del governo, in quanto luogo privilegiato di appropriazione del potere e delle risorse. I partiti politici tendono, così, a trasformarsi loro stessi in gruppi di interesse come gli altri, rispondendo, sovente, alle domande dei gruppi di pressione più forti e pensando la politica come l’occasione di concludere affari, con la sola differenza che sono specializzati nella gestione dell’apparato istituzionale.
Il legame tra partiti politici e amministrazione pubblica è, del resto, diretto. È sufficiente percorrere le polemiche sui meccanismi di nonima alle funzioni dirigenziali nella pubblica amministrazione per rendersene conto: dagli istituti di credito pubblici alle amministrazioni dei servizi locali di sanità, il mondo politico italiano è condizionato dalla legge della lottizzazione, che ha finito per considerarla il solo metodo possibile per le nomine nel settore pubblico. 
Napoli, dove il clientelismo ha ipotecato lo sviluppo dei partiti politici, rappresenta uno dei terreni più favorevoli per lo svolgimento del processo che ho, appena, descritto.
Con i flussi finanziari e le modifiche dell’apparato istituzionale locale degli anni 1980, la cultura e gli interessi della Camorra convergono verso quelli del potere politico.
Nella struttura economica particolare di Napoli, queste due lobbies rappresentano i principali fattori di mobilità sociale. La scarsità delle risorse economiche, concentrate nel settore pubblico, sono, di fatto, il solo mezzo di arricchimento al di fuori delle attività criminali. Il rapporto che si instaura tra camorristi e politici, è, dunque, una alternanza di conflitti e di accordi per l’egemonia nella gestione delle risorse.
L’attività della Camorra investe, infatti, tutto il campo della economia amministrativa. Innanzitutto, questa concerne, se non il monopolio, almeno il controllo di una parte consistente delle forniture alle istituzioni pubbliche. Gli scandali relativi ai sovraprofitti, ottenuti nel settore alimentare dalla vendita di derrate deteriorate alle carceri, agli ospedali e alle case di riposo, di cui alcune, clamorose, risalgono all’estate del 1989, non ne costituiscono che un esempio.
Se vi è stata una partecipazione tradizionale della Camorra alla attività di ridistribuzione delle sovvenzioni per il Mezzogiorno, concesse a partire dagli anni 1950, con gli aiuti per il terremoto, la Camorra interviene, per la prima volta, massivamente, nella gestione delle risorse destinate alla assistenza pubblica. Ciò le permette di dirottare i sussidi – indennità di malattia, pensioni di invalidità, impieghi nel settore assistenziale – verso la sua base e i suoi affiliati, in particolare gli ex-detenuti.
Se questa attività non rappresenta una fonte di accumulo, ma piuttosto di ridistribuzione delle risorse, permette, tuttavia, alla Camorra di consolidare la sua legittimità sociale.
Isaia Sales mette in evidenza la maniera in cui le stesse regole materiali, che presiedono alla distribuzione dei flussi assistenziali, si prestino a un controllo camorrista. L’assistenza come forma di complemento del reddito familiare e come distribuzione di ricchezza al di là del possesso delle condizioni richieste, così come la mancanza di controllo, costituiscono condizioni che facilitano l’entrata della Camorra in questo campo.
Il ravvicinamento tra l’ambiente politico-amministrativo e la Camorra, definito da Gaetano Assante, il momento più alto della embricazione tra poteri criminali e poteri istituzionali, produce vere osmosi di persone e di strutture. Da una parte, le nuove élites politiche – emergenti sempre meno dalla borghesia delle libere professioni e sempre più dalla nuova borghesia dei piccoli imprenditori, dei commercianti e dei professionisti della politica – sono, sovente, rappresentate da individui senza scrupoli che adottano metodi camorristi. Dall’altra, la necessità per la Camorra di appropriarsi delle opportunità generate dal flusso di danaro pubblico – oltre a quella di garantirsi dei margini di opportunità per le sue attività illegali – passa necessariamente per la ricerca di alleanze all’interno dei centri di decisione. Del resto, se, all’inizio la alternanza alleanze/conflitti di interesse riguarda la gestione irregolare o illegale delle risorse pubbliche, in seguito, con l’entrata della Camorra nei circuiti economici legali, si instaurano rapporti di collaborazione in attività legali.
Nel 1989, inchieste sulle amministrazioni comunali di diverse piccole città della provincia napoletana hanno permesso di svelare legami esistenti tra alcuni eletti e rappresentanti della Camorra.
Molti casi individuali e specifici fanno pensare a una realtà composita, frutto di una cultura che permette la confluenza di ambienti alti con ambienti bassi, di relazioni che, con difficoltà fanno intravedere le differenze tra legale e illegale e che permettono con facilità passaggi dall’area sana all’area criminale. In sostanza, è difficile credere alla coesistenza separata di due mondi come quello della Camorra e quello del resto della società.
 

3. SI UCCIDE UN MINISTRO
CAMORRA SOTTO ACCUSA
 Pietro Rosano
[Napoli, 25 dicembre 1846 - Napoli, 9 novembre 1903]

“Il passato non è morto e non è neanche ancora passato.”
William Faulkner


Quello che Giovanni Giolitti [1842-1928] ha definito, nelle sue memorie, “uno degli episodi, più tristi che ricordi la vita politica italiana” raggiunse il suo tragico epilogo un giorno di autunno del 1903.
Il 3 novembre di quell’anno, entrava in carica, tra i malumori degli esclusi e le aspre critiche delle opposizioni, il secondo governo Giolitti. Formato pressoché interamente con ministri di prima nomina e caratterizzato, dopo un vano tentativo di associarvi socialisti e radicali, da un brusco spostamento a destra rispetto al precedente gabinetto Zanardelli, il secondo governo Giolitti era un classico esempio di quel modo di fare politica, inaugurato da Agostino Depretis [1813-1887], che è passato alla storia sotto il nome di “trasformismo”.
L’8 novembre, all’uscita dal consiglio dei ministri, qualcuno notò un lungo colloquio tra il presidente e uno dei suoi “uomini nuovi”, il deputato napoletano Pietro Rosano che, sottosegretario all’interno nel primo governo Giolitti, aveva, appena, ricevuto la nomina a ministro delle finanze.
Subito dopo, Rosano era partito per Napoli, dove abitava con la sua famiglia. Aveva trascorso, quella sera, secondo un memorialista, con le figlie, mostrandosi più affettuoso del solito. Verso le dieci si era ritirato nelle proprie stanze, dando disposizioni al proprio cameriere di chiamarlo alle quattro e trenta.
La mattina del 9 novembre, prima dell’alba, il cameriere era entrato nella stanza di Rosano e aveva trovato il letto intatto. Aveva provato, allora, a chiamarlo, ma Rosano non aveva risposto. Passato nello studio, il cameriere aveva trovato il ministro, seduto al suo tavolo di lavoro, avvolto in una coperta da viaggio, a capo chino. Credendo che dormisse, si era avvicinato per svegliarlo. Ma Rosano non dormiva. Era morto. In una mano stringeva una rivoltella. Con l’altra sembrava avere tenuto la canna dell’arma puntata contro il cuore. E il colpo era andato a segno.
Alcune lettere, sparse sul tavolo, dimostravano che il ministro, anziché coricarsi, avesse passato, la notte, meditando e scrivendo.
Una era indirizzata alla moglie:
“Sono un uomo onesto e muoio da onest’uomo. Ma da trenta giorni si è rovesciato su di me una tale violenza di accuse che non so resistere. Perdono ai miei figli che mi hanno recato grandi dolori, perdono ai miei nemici che mi hanno fatto tanto male. L’avvenire renderà giustizia. Perdona anche tu.”
Un’altra aveva come destinatario il presidente del consiglio:
“Caro Giolitti, ho avuto, devi convenire, un coraggio superiore finora, ma ora non resisto più. Cedo e sono innocente: ho ignorato le lettere, non conosco il telegramma, è falso il fatto della grazia. Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine come di affetto per te.”
La terza lettera conteneva le dimissioni del ministro dalla carica assunta appena sei giorni prima.
Il suicidio di Rosano, al quale vennero tributate imponenti onoranze funebri, con la partecipazione alle esequie dei ministri Tommaso Tittoni [1855-1931] e Francesco Tedesco [1853-1921], in rappresentanza del governo, e l’omaggio alla salma del filosofo Benedetto Croce [1866- 1952], accese una feroce polemica tra i suoi avversari e i suoi sostenitori. Il tragico gesto del neo-ministro delle finanze, affermavano i primi, provava la fondatezza delle accuse di chi aveva denunciato i suoi legami con la camorra napoletana e la mafia siciliana. Ma il vero responsabile di quella morte era per loro Giovanni Giolitti che, tradendo la fiducia del re, aveva voluto, al suo fianco, come ministro, un uomo indegno di tale carica. Per questo, scriveva l’Avanti!, illustrando il concetto con alcune vignette, pubblicate in prima pagina, il nuovo presidente del consiglio si era “macchiato di sangue” e doveva dimettersi.
Uniti all’Avanti! nella richiesta di dimissioni, come prima lo erano stati negli attacchi a Rosano, troviamo giornali che con il socialismo non hanno nulla da spartire. Vi è il Corriere della Sera, che aveva deplorato la “resurrezione politica” di Rosano. E vi è Il Giornale d’Italia[6], che si era compiaciuto per la “sollevazione del senso del morale del Paese”, cui aveva attribuito il moto di giusta indignazione per la nomina di un uomo corrotto.
Su questi si scagliava La Tribuna[7], ispirata come sempre da Giovanni Giolitti.
“Non avete mai potuto provare nulla contro il Rosano.”,
aveva rimbeccato.
E svelava ai suoi lettori quello che, per il giornale, fosse il vero retroscena politico di tutto l’affaire: l’allineamento dei radicali e dei socialisti riformiti con i “teppisti della politica”, vale a dire con gli estremisti di ogni colore.
Quanto all’esagitato Edoardo Scarfoglio [1860-1917], rimasto quasi solo a difendere l’onore dei napoletani dalle accuse dei “settentrionali”, non esitò a trattare, con la solita violenza verbale, tutti i socialisti da “assassini”, invocando l’uso delle armi contro di loro e paragonando l’accanimento da questi mostrato contro la vittima all’accorrere delle iene intorno a un cadavere: iene lombarde, liguri, piemontesi, seguite dai “macilenti e famelici sciacalli sonniniani”.
Nell’uragano di accuse e contraccuse, nel polverone che avrebbe, ben presto, ingoiato la salma di Rosano, un problema resta senza soluzione, una domanda senza risposta:
“La mattina del 9 novembre 1903, nello studio di quell’antico palazzo napoletano, era morto un onesto uomo, spinto al suicidio da una irresponsabile campagna di stampa o un avvocato senza scrupoli, schiacciato dal peso delle proprie responsabilità, un affarista legato al sottogoverno, un politico irrimediabilmente compromesso con il mondo clientelare della Mafia e della Camorra?[8]
Se la mafia o meglio la “maffia”, come si scriveva allora, era assurta agli onori della cronaca con l’assassinio del marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni – il cui presunto mandante, Raffaele Palizzolo [1845-1910][9], sarebbe stato difeso da Rosano – le rivelazioni sulla Camorra avevano iniziato a scandalizzare gli italiani, intorno alla fine del 1899, quando un settimanale napoletano, fondato, lo stesso anno, dalla locale sezione socialista, per contribuire alla diffusione del socialismo nel sud, era uscito con un numero straordinario, dedicato a quella che, eufemisticamente, si chiamava “la bella società riformata”.
Esistevano a Napoli, secondo La Propaganda[10], due forme di camorra: la bassa e la alta.
La bassa Camorra era una conseguenza della miseria morale e materiale dei partenopei, in virtù della quale l’affamato prepopotente cercava di risolvere il problema della esistenza o vivacchiando alle spalle di quelli che lavoravano, ai quali imponeva una tassa detta “diritto di camorra”, o mettendosi al servizio di qualche disonesto signorotto, per trarre il proprio sostentamento da una professione che ricordava molto da vicino quella dei “bravi” di manzoniana memoria.
Questo tipo di Camorra, secondo il settimanale socialista, era, tuttavia, il male minore. Infinitamente peggiore era l’alta Camorra, che con la corruzione e la prepotenza, inquinava gli organi politici e amministrativi:
“Una specie di associazione a malfare, non precisamente e burocraticamente organizzata, ma tenuta insieme da aderenze personali, servizi inconfessabili, complicità vergognose di corrotti e corruttori, di minaccianti e di intimiditi, e che è composta di deputati, senatori, consiglieri provinciali e comunali, grandi appaltatori, ricchi tenitori di bische e di bordelli, alte cocottes e potenti ruffiane”.
Come esercitava il suo potere, l’alta Camorra?
In un modo molto semplice!
Impadronitasi della rappresentanza parlamentare, infiltratasi nelle amministrazioni locali, rendeva servigi ai preferiti, traendo da ciò sostentamento per sé e nuovi vincoli per mantenersi al potere. Accadeva così che, a Napoli, grazie ai buoni uffici della Camorra, si vendessero gli appalti e i posti in municipio, le licenze scolastiche e le onorificenze.
La Camorra imperava nelle questure, dove si spartivano i proventi delle sale da gioco e delle case di malaffare; nei tribunali, dove magistrati senza scrupoli restituivano una fittizia verginità a fedine penali lunghe un braccio; nei giornali, attraverso la concessione e la distribuzione della pubblicità.
E come si realizzava, in pratica, l’alleanza tra Camorra e potere politico?
Rispondeva La Propaganda:
“La cosa è molto chiara, qui a Napoli. Il commerciante, l’industriale ha bisogno di non pagare o pagar piccola tassa di ricchezza mobile; l’esercente desidera tutte le possibili agevolazioni dalle autorità politiche; il proprietario domanda una concessione di suolo, un permesso di locazione di una casa di fresco costruita; l’appaltatore ha bisogno della concessione; il figlio di famiglia di essere dichiarato inabile al servizio militare; il pregiudicato di essere liberato dall’ammonizione; il colpevole di lesione o di furto di non essere molestato dalla pubblica sicurezza; la tenitrice di postribolo di non essere troppo severamente sorvegliata; l’impiegato che vuole un aumento o una promozione, il magistrato, il funzionario di pubblica sicurezza che domanda un trasloco, tutta questa brava gente non ha che a rivolgersi al deputato e il deputato parte per Roma. Dopo pochi giorni il favore viene concesso e la maglia di interessi tra l’elettore e l’eletto diviene in questo modo più fitta. Così si mantiene il collegio.”
Il settimanale socialista, dopo questa esposizione generale, concentrava i suoi attacchi su tre deputati, dei quali trovava molto scadente la situazione morale: Aniello Alberto Casale [http://storia.camera.it/deputato/aniello-alberto-casale-183905/atti#nav][11], il generale Achille Afan de Rivera [1842-1904], che era stato ministro con Luigi Gerolamo Pelloux [1839-1924], e Gennaro Aliberti [1858-1927][12] [http://storia.camera.it/deputato/gennaro-aliberti-18580108].
Una durissima campagna di stampa si scatenò contro il primo, ex-giocatore in Borsa e, all’epoca, personaggio influentissimo nell’amministrazione comunale e provinciale.
“È il vero re di Napoli, questo Casale.”,
scrivono i giornalisti del periodico socialista.
Per mesi il giornale napoletano pubblicò, in prima pagina, lunghi articoli intitolati semplicemente Camorra, nei quali documentava o pretendeva di documentare, le malefatte di Casale e dei suoi uomini di fiducia. Al deputato, preso come bersaglio, La Propaganda rivolgeva quattro precise domande:
“1] Qual è la vostra professione, arte o mestiere?
2] Quali sono le vostre rendite?
3] In mancanza dell’una e delle altre, come vivete?
4] Donde cavate le risorse per vivere?”
Casale, che fino a quel momento aveva ignorato gli attacchi, rispose con una querela per diffamazione.
Fu una decisione di cui avrebbe dovuto pentirsi!
In tribunale, nell’estate del 1900, Casale sostenne di non aver, mai, trafficato in impieghi e concessioni, di non essersi, mai, ingerito nella pubblica amministrazione, per trarne illeciti profitti, e di essere, sempre, vissuto, con la famiglia, della rendita di certi immobili ereditati dal padre.
Sfortunatamente per lui, alcuni dei testimoni citati dalla difesa, abilmente controinterrogati in udienza, portarono, con le loro reticenze e le loro mezze ammissioni, molta acqua al mulino dell’accusa.
Quando Casale si accorse di non poter dimostrare da dove traesse i proventi per una vita notoriamente dispendiosa, il deputato si ritirò dal dibattimento.
La sua mossa fu da tutti considerata una ammissione di colpevolezza.
All’udienza successiva il procuratore del re Raffaele de Notaristefani [1861-1933] pronunciò la sua requisitoria non già contro gli imputati, ma contro il querelante.
Il 31 ottobre 1900, il clamoroso risultato: i primi venivano assolti per aver provato la fondatezza delle loro accuse e il secondo, condannato alle spese processuali e politicamente rovinato, doveva dimettersi dalle cariche di consigliere provinciale e di deputato al parlamento.
L’amministrazione comunale, ormai travolta dallo scandalo, si vide obbligata a dimettersi con lui. 
Tali furono le ripercussioni della vicenda sulla opinione pubblica da costringere, pochi giorni dopo la sentenza, il presidente del consiglio in carica, Giuseppe Saracco [1821-1907] [http://notes9.senato.it/web/senregno.nsf/e56bbbe8d7e9c734c125703d002f2a0c/8980c44aa3a966ca4125646f00605bd3?OpenDocument], a firmare, l’8 novembre, il decreto di istituzione della commissione di inchiesta con il fine di indagare sulla cosiddetta “camorra amministrativa”, coordinata dal senatore Luigi Saredo, presidente del consiglio di Stato.
Il primo ottobre del 1901, dopo avere, in un anno circa di lavoro, interrogato 1300 testimoni e riempito 11 volumi di documenti, la commissione Saredo presentò le sue conclusioni.
Era vero che, al municipio di Napoli, erano stati commessi un gran numero di abusi e di irregolarità amministrative.
Era vero che la profonda corruzione, riscontrata dai commissari, durante la loro inchiesta, dipendeva dal fitto intreccio, venutosi a creare tra potere politico e Camorra.
Il rapporto Saredo mise in luce frodi manifeste e scandalose assurdità. A esempio, alcuni impiegati venivano assunti all’età di tredici anni e facevano una splendida carriera, senza mai farsi vedere sul posto di lavoro; diversamente, altri funzionari non ottenevano alcuna promozione, benché onesti e competenti. Di più, mentre numerosi diplomati erano, scientemente, adibiti a funzioni subalterne, il principale amministratore della città non aveva diploma alcuno. Ma – fatto ancora più grave – la inchiesta scoprì brogli macroscopici, in occasione delle elezioni, in cui schiere di volontari venivano mobilitati per far votare i morti e gli assenti; quei volontari dipendevano dalla Camorra.
“In corrispondenza alla bassa camorra originale si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più scaltri e audaci borghesi. Costoro, profittando dell’ignavia della loro classe riuscirono a trarre alimento nei commerci e negli appalti, nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli, nella stampa.
[...] Collo sviluppo della camorra, la nuova organizzazione elettorale a base di clientele, di servizi resi e ricambiati in corrispettivo del voto ottenuto, sotto forma di protezione, di assistenza, di consiglio, di raccomandazione, rese possibile anche lo sviluppo della classe dei faccendieri e intermediari. Dall’industriale ricco, che voglia aprirsi la strada nel campo politico o amministrativo, al piccolo commerciante, che debba richiedere una riduzione d’imposta; dall’uomo d’affari che aspiri a una concessione, all’operaio che cerchi un posto in una officina...; tutti trovano dinnanzi una interposta persona e quasi tutti se ne servono.”
Nelle carte dell’inchiesta finì anche la scrittrice e giornalista Matilde Serao [1856-1927], moglie di Scarfoglio:
“Ahimé, anche della signora Matilde Serao, illustre scrittrice e redattrice de Il Mattino nonché moglie dello Scarfoglio, la regia commissione d’inchiesta ha dovuto occuparsi. La signora Serao aveva promesso la promozione a capo drappello della guardia Foti dietro compenso di lire duecento. Incassata anticipatamente la cifra, la Serao rilasciava al Foti una cambiale per la medesima somma da utilizzarsi soltanto qualora la promozione non fosse avvenuta. Gli avanzamenti nel corpo delle guardie furono deliberati, ma il Foti sfortunatamente per lui e per la signora Serao non ne beneficiò. La cambiale di Matilde Serao, consegnata alla commissione dalla stessa guardia Foti è agli atti della Commissione.”      
Gli accertamenti della commissione Saredo provocano la presentazione di varie interpellanze al governo.
Il 9 dicembre 1901, si aprì alla camera il dibattito sulla inchiesta. Il più violento tra gli intervenuti fu il deputato socialista Enrico Ferri [1856-1929], fondatore, con Cesare Lombroso [1835-1909], della scuola positivista di diritto penale.
Il 14 dicembre, Ferri ebbe un’uscita particolarmente infelice.
“Nell’Italia Settentrionale”,
tuonò,
“ci sono dei delitti, ci sono delle malversazioni, ci sono dei fraudolenti, ma sono malattie isolate; nell’Italia Meridionale, invece, la malattia ha forma infettiva, epidemica. Nell’Italia Settentrionale sono casi di eccezione i centri di criminalità, nell’Italia Meridionale sono casi di eccezione, tanto più mirabili per questo, i centri di onestà.”
Offesi da questo discorso, che interpretarono come un chiaro sintomo dell’antipatia o semplicemente della incomprensione dei socialisti per il Mezzogiorno, i deputati meridionali chiesero che Ferri presentasse le sue scuse.
Ferri rifiutò e allora il presidente della camera, Tommaso Villa [1832-1915] gli inflisse la censura.
Mentre abbandonava l’aula, Ferri spezzò con un libro una vetrata e gridò istrionescamente:
“La camorra continua in Parlamento!”
La sua clamorosa invettiva venne accolta da uno scroscio di risa.
Qualunque fosse il giudizio su di essa – per il solito Scarfoglio era solo un volgare libello diffamatorio, mentre all’onorevole Giacomo De Martino [1868-1957] parve “un monumento di sapienza e di coraggio civile” – l’inchiesta Saredo ebbe il merito, insieme alle agitazioni contadine nelle campagne e alle conseguenti repressioni, culminate negli eccidi di di Candela [8 settembre 1902] [http://storia.camera.it/regno/lavori/leg21/sed312.pdf][13] e di Giarratana [3 ottobre 1902][14], di richiamare l’attenzione del Paese sulla grande miseria del Sud e sulle colpe dei governi che l’avevano sistematicamente ignorata.
Il 13 dicembre 1901, il presidente del consiglio Giuseppe Zanardelli [1826-1903] pronunciò alla camera un discorso che può considerarsi, ha scritto Arturo Labriola, “come il riconoscimento ufficiale dell’esistenza della questione meridionale”. Zanardelli ammise che la responsabilità del basso livello morale e materiale delle regioni del Mezzogiorno ricadesse, in gran parte, sui governi succedutisi dopo l’unità d’Italia.
“Deve riconoscere”,
precisò,
“che alcuni ministri abusano delle influenze amministrative per consolidare la loro posizione politica.”
È durante il dibattito sulla inchiesta Saredo che nacque in Zanardelli l’idea di un viaggio in Basilicata. Per la prima volta, nel settembre del 1902, un presidente del consiglio si recò, personalmente, a visitare una delle regioni meridionali più povere e neglette, allo scopo di studiare, da vicino, le condizioni e proporre speciali misure, atte a risolvere la crisi.
Zanardelli si fece accompagnare nella visita da un gruppo di influenti deputati meridionali, tra i quali si distinse l’onorevole Pietro Rosano. Fu questo a far dire, maliziosamente, a Gaetano Salvemini [1873-1957] che il presidente del consiglio non fosse “calato” nel Sud per affrontarne e risolverne i problemi, ma solo per assicurarsi l’appoggio dei suoi uomini politici.
Tra questi uomini politici l’onorevole Rosano, ex-garibaldino, ferito a Bezzecca, grande amico di Giovanni Giolitti e penalista tra i più noti del Paese, era senz’altro uno dei più rappresentativi.
Enrico Ferri si era imbattuto in Rosano, quando si era recato, a Napoli, per difendere uno strano tipo di ex-anarchico, russo di origine ma naturalizzato italiano, da una querela per ingiurie e percosse. In tale circostanza Rosano si era adoperato per ottenere la remissione della querela e l’imputato, che si chiamava Giovanni Bergamasco [http://www.forgottenbooks.com/readbook_text/Storia_DI_Dieci_Anni_1899-1909_1300033240/225] e viveva in una comoda villa di Camaldoli, aveva spiegato il suo interessameno, narrando a Ferri un curioso episodio.
Denunciato come anarchico pericoloso e incarcerato, al tempo delle repressioni crispine, nel 1898, Bergamasco era stato proposto per il domicilio coatto. Dal carcere, su consiglio di un detenuto, il quale sosteneva che Rosano, attraverso le sue conoscenze, gli aveva fatto avere non si sa bene quale “grazia”, l’ex-anarchico, che era un uomo facoltoso e viveva con un certo lusso, circondandosi di cani di razza, si era rivolto all’illustre penalista per ottenere l’assistenza professionale. Rosano aveva, allora, compilato una memoria difensiva su carta da bollo, in cui spiegava come il suo cliente, anarchico in gioventù, avesse abbracciato il socialismo dopo il servizio militare e, ora, non fosse altro che un socialista legalitario, un riformista, deciso a condurre una vita appartata e a occuparsi solo della famiglia e dei propri beni. Presentato come un pacifico idealista e un umanitario benestante, Giovanni Bergamasco era stato prosciolto e rimesso in libertà. Per i suoi servigi, Rosano gli aveva fatto inviare dal suo studio una parcella di 4mila lire.
L’occasione era buona e i socialisti non se la lasciarono sfuggire.
Sia l’Avanti! sia La Propaganda si affrettarono a scrivere che Rosano era stato pagato non come avvocato, ma come deputato, perché esercitasse la propria indiscussa influenza politica.
In un primo tempo, tuttavia, nessuno raccolse l’insinuazione, che cadde nel vuoto.
La denuncia dei socialisti venne considerata un mero artificio polemico e “la bomba fece cilecca”. Solo dopo la nomina di Ferri alla direzione dell’Avanti! e la decisione di contrastare in tutti i modi il ritorno di Giovanni Giolitti al potere, l’episodio narrato da Bergamasco parve offrire nuove possibilità di sfruttamento politico. Ferri, che, con la direzione del giornale, ereditava da Leonida Bissolati [1857-1920] anche il problema di colmarne il disavanzo e che riteneva di potervi riuscire, aprendone le colonne ad argomenti di carattere scandalistico, rispolverò le vecchie accuse contro Rosano per colpire, attraverso lui, il ben più temibile Giolitti.
Come non era accaduto in precedenza, questa volta le accuse dell’Avanti! furono fatte proprie dai giornali radicali, tra i quali, in primo luogo, Il Secolo[15] di Carlo Romussi [1847-1913] e da tutta la stampa dell’ordine, Corriere della Sera e Giornale d’Italia in prima fila. Venne, così, a formarsi, come ha scritto Gaetano Natale [1884-1961], un’“inverosimile alleanza” di moralisti, un “ibrido accordo” tra gruppi politici che si proponevano gli obiettivi più svariati: i socialisti estremisti quello di sconfessare i riformisti e Giolitti che li favoriva; i riformisti e i radicali quello di non farsi scavalcare a sinistra; gli illiberali quello di compiere antiche vendette senza passare per reazionari.
A Romussi, che, in una lettera del 6 novembre, accusava il presidente del consiglio di essere andato a rilevare Rosano “sul banco della difesa di Palizzolo”, Giolitti rispondeva, con molta calma, che, anche in quel caso, come nell’altro di Bergamasco, l’amico non aveva fatto altro che esercitare la sua professione di avvocato.
“Se gli avvocati che hanno tariffa alta fossero immorali”,
concludeva,
“a quanti degli avvocati principi potreste stringere la mano?”
Ma lo scandalo era troppo grosso e Pietro Rosano non resse alla prova.
Accusato apertamente da Bergamasco di avergli spedito in carcere due lettere e un telegramma, con i quali si impegnava a guadagnargli i favori delle autorità, messo con le spalle al muro da una coalizione furente” di socialisti di ogni tendenza, conservatori e radicali, industriali, banchieri e professionisti, profondamente amareggiato dai dispiaceri che continuavano a dargli i figli maschi e afflitto da una “natura ipersensibile”, che, già, due volte, lo aveva indotto a tentare il suicidio, Rosano si tolse la vita.
Restava la questione:
“Con lui, era, veramente, morto un camorrista?” 
Secondo Arturo Labriola, Pietro Rosano fu un “degno galantuomo”, vittima più della propria fragilità di spirito che della spietatezza degli avversari politici. Tuttavia, sia Giovanni Giolitti sia i socialisti ebbero la loro parte di colpe. I secondi per averlo inchiodato, senza prove, all’accusa di essere tra i capi della “bella società riformata”, al solo scopo di nuocere al primo. E quest’ultimo, dal canto suo, per aver fatto le sue scelte politiche con quella spregiudicatezza e mancanza di rispetto per l’opinione pubblica, che gli era consueta e ch, ormai, ha preso il giusto nome di “ARROGANZA DEL POTERE”.
Se si può rimproverare ai socialisti di avere “istigato” Pietro Rosano al suicidio, bisogna aggiungere che anche Giovanni Giolitti fu responsabile della sua morte nella misura in cui lo volle, assolutamente, nel governo, anche se ragioni di opportunità avrebbero dovuto indurlo a mutare i suoi propositi.
Pietro Rosano era stato il difensore di Casale e di Palizzolo, due sinonimi, in quegli anni, di Camorra e di Mafia. Se si potevano ignorare gli attacchi dell’Avanti!, perché palesemente ispirati da non troppo recondite motivazioni politiche, si sarebbe dovuto tenere conto almeno di ciò che scriveva La Stampa:
“Padronissimo l’avvocato Rosano di indossare la toga alla difesa di chiunque: sacro è questo diritto  e noi rispettiamo quelli che lo esercitano. Ma facciamo un torto all’uomo politico, al futuro ministro di sedere al banco della difesa nel processo di Firenze, poiché Palizzolo non è il delinquente volgare, bensì il capo temuto e amato della mafia palermitana: difendere Palizzolo non è liberare un uomo, è rinfrancare la mafia. E quello che è lecito all’avvocato non può essere lecito all’uomo politico.”
Di questa distinzione Giolitti non volle o non seppe tenere conto. Come dopo di lui, nella Storia d’Italia, avrebbero fatto altri primi ministri fino ai nostri giorni.       

      Daniela Zini
Copyright © 19 maggio 2015 ADZ
 

Nell’articolo di prossima uscita:
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] Con il termine lazzari si indicavano i giovani dei ceti popolari di Napoli. Costituivano una società nella società del tempo e rispondevano a un loro codice di gruppo, che prevedeva anche l’elezione di un capo, ufficialmente riconosciuto e accolto alla corte reale. I capi si differenziavano dai gregari per una particolare foggia di abbigliamento e per il taglio di capelli: berretto bianco, giacca corta e capelli rasati fino sopra gli orecchi. 
[3] Solo nel 1912 una nuova legge elettorale, promulgata da Giovanni Giolitti, avrebbe concesso agli analfabeti il diritto di voto, purché avessero compiuto trenta anni o prestato il servizio militare.

[4] Il 12 marzo 1911, inizia il processo Cuocolo.

[5] Charles “Lucky” Luciano, nato Salvatore Lucania [1897-1962] e indiscusso capo della malavita italo-americana, nel 1946, venne “spedito” dal governatore di New York Thomas Edmund Denwey, in Italia, come persona “indesiderabile” e, da quel giorno, visse, a Napoli, in modo apparentemente ineccepibile. Eppure voci ricorrenti lo accusavano di essere l’ispiratore del traffico internazionale della droga. La Guardia di Finanza lo sottopose a pedinamenti e interrogatori, ma invano.
Il 26 gennaio 1962, “Lucky” Luciano moriva di infarto, a 64 anni, portando il proprio segreto nella tomba, all’aeroporto di Capodichino, dove si era dato appuntamento con un produttore cinematografico, interessato a girare un film sulla sua vita.

[6] Il Giornale d’Italia è stato un quotidiano italiano con sede a Roma, fondato nel 1901 e chiuso nel 1976. Nato da un progetto di Sidney Sonnino e Antonio Salandra, esponenti del partito liberale monarchico, il giornale fu chiuso, definitivamente, con il numero del 24 luglio 1976. Celebre, anche se funesto, il titolo dell’articolo di fondo: “Silenzio, si chiude”.

[7] La Tribuna è stato un quotidiano italiano, fondato a Roma, nel 1883, da Alfredo Baccarini e Giuseppe Zanardelli. Nel 1893, il giornale rimase coinvolto in un caso di corruzione. Il parlamento doveva emanare una nuova legge bancaria e i tre maggiori istituti bancari nazionali pagarono giornalisti e parlamentari affinché la normativa fosse loro favorevole. Lo scandalo fu di proporzioni tali che portò alla caduta del governo Giolitti.
[8] Agli inizi degli anni 1880, il giornalista e deputato Rocco De Zerbi fornì un esempio di come le élites borghesi non si vergognassero di avere rapporti con i clans criminali. Nel 1880, allorché la dogana di Napoli volle licenziare un certo Pasquale Cafiero, uno dei più celebri contrabbandieri dell’epoca nonché boss camorrista, diversi nomi importanti della città, tra i quali il deputato De Zerbi, intervennero in sua difesa. Il camorrista produsse lettere di raccomandazione, firmate dai principali banchieri e industriali di Napoli, oltre che da uomini politici di tutti i partiti, compreso quello socialista e, in particolare, Saverio Friscia, internazionalista di fama. Eppure non era possibile equivocare sulla personalità di Cafiero: sempre vestito come un gentleman, viveva nel lusso senza avere, mai, lavorato, imponendo il pizzo a tutti i commercianti della Gran Dogana. Si può immaginare quale rete di relazione e di clientelismo avesse saputo tessere un simile criminale, per mobilitare tanti e tali appoggi.
Il suo caso non era, certo, un caso isolato! 

[9] Nell’agosto 1898 il generale Luigi Gerolamo Pelloux nominò un nuovo questore di Palermo, con il mandato di combattere la mafia. 
Nel 1900, il questore Ermanno Sangiorgi descrisse nei termini seguenti i sostenitori politici di Palizzolo:
“Sono amici del Palizzolo tutti i mafiosi, i pregiudicati, coloro che costituiscono permanente pericolo per la sicurezza pubblica siccome gente dedita ai delitti di ogni genere contro le persone e le proprietà. Costoro non risparmieranno minacce, violenze e intimidazioni per costringere gli elettori onesti a votare per loro candidato.”

[10] La Propaganda, organo ufficiale dei socialisti napoletani, è pubblicato dal primo maggio del 1899 e, con alterne fasi, fino all’indomani del primo conflitto mondiale.
[11] Su Aniello Alberto Casale piombava il grido:
“Abbasso il capo della Camorra di Napoli!”,
ogni volta che si alzava alla camera per parlare. 

[12] Gennaro Aliberti era l’organizzatore occulto del lotto clandestino a Napoli: le sue attività illegali e le frequentazioni con esponenti del crimine organizzato erano note anche a uomini del governo.
Eduardo Giacchetti, direttore del giornale 1799, che denunciava sul suo foglio i politici corrotti, era stato querelato da Aliberti, per diffamazione. La difesa di Giacchetti era stata proposta al giovane avvocato Enrico De Nicola, futuro primo presidente della Repubblica, il quale aveva rifiutato sdegnosamente e pubblicamente la richiesta.

Napoli, 29 gennaio del 1902
Spettabile Redazione della Propaganda
Il Vostro giornale ha fedelmente riportato ciò che, per confusione nei ricordi o nella narrazione, gli era stato riferito relativamente ad un invito da me ricevuto per assumere la difesa del direttore di un foglio ebdomadario contro il quale sono state sporte varie querele per diffamazione. 
Ciò nei rapporti della Propaganda.
Per quanto riguarda la mia persona posso affermare con precisione irrecusabile che parecchi giorni or sono un mio carissimo amico mi annunziò di aver ricevuto una visita di quel signore, il quale gli aveva manifestato l’idea di rivolgersi a me o ad un valoroso collega, di cui fece anche il nome, per il patrocinio delle sue ragioni.  All’amico che mi dava simile preavviso con l’aggiunta di aver consigliato il mio fra i due nomi indicati, risposi meravigliandomi altamente che potesse venire a casa mia il direttore di quel foglio per invitarmi ad assumere la sua difesa.
Infatti, egli è stato querelato per una campagna, che io – giudice sereno perché lontano dalle lotte partigiane della mia città – reputo perfino inverosimile nella sua enormità, iniziata o contro amici carissimi come Pietro Pansini, Carlo Altobelli, Roberto Marvasi, Alfredo Sandulli, Arturo Labriola, cui mi avvincono non soltanto sentimenti di stima sincera, ma nodi indissolubili di affetto fraterno – o contro altri come il Lucci, il Leone ecc., che non conosco ma che, giovane anche io, altamente ammiro per lo spirito pugnace e l’ideale che li agita. E tale risposta avrei dato al direttore di quel giornale se fosse venuto a casa mia, come aveva preannunziato.
Esposto così l’incidente nei più esatti particolari, dichiaro chiusa, per conto mio, ogni ulteriore polemica, porgendo a voi, onorevole redazione, i sensi della mia osservanza.
Avv. Enrico De Nicola



[13] L’eccidio di Candela si inserisce in quella serie di repressioni sanguinose che colpiscono il Mezzogiorno, tra il 1902 e il 1906.
“Ieri, otto di settembre, in Candela, la lega socialista dei contadini cercò opporsi alla gita alle masserie di quei contadini, che si erano accordati con i loro padroni. Al gridare tumultuoso accorsero due carabinieri, che furono abbattuti, disarmati, feriti. Il brigatiere, ritenuto morto dai tumultuanti, levatosi sui ginocchi cominciò a sparare con la rivoltella; accorsero quaranta soldati presidiarii, che accolti e colpiti dai sassi, fecero fuoco: dei rivoltosi sette caddero uccisi, molti i feriti. Si gridava morte ai proprietarii, che l’avrebbero passata male se fossero mancati i soldati. Questo è stato uno dei tanti episodi sanguinosi prodotti dall’insanie del socialismo.”
Autore di questa rapidissima cronaca è Lorenzo Agnelli.

[14] “A Giarratana era stato proclamato lo sciopero. Ma non tutti i lavoratori erano d’accordo, molti erano i dissidenti. Per evitare che commettessero violenze, essendo gli animi molto eccitati, intervennero i Carabinieri, e siccome volavano sassi, e si minacciavano serie colluttazioni, i Carabinieri, che erano armati di sole rivoltelle, spararono in aria. Quello fu il segnale dell’eccidio. I carabinieri furono circondati dalla folla, che, come invasa da follia di distruzione, li investì a colpi di sassi e di mazze. I militi, piegando sotto l’urto veemente, tentarono di difendersi. Ma, sopraffatti dal numero, esplosero altri colpi di rivoltella. Poi si videro i pennacchi rossi dei militi come sommersi dalle ondate della folla, sulla quale agitavansi furiosamente i bastoni. La mischia si fece spaventevole, tra urli di ferocia e di terrore, i Carabinieri furono stretti da ogni parte. Il carabiniere Antonino Giancastro fu dalla folla isolato dai compagni, tentò di difendersi colla rivoltella, ma dovette cercare scampo in una casa vicina. La folla, inferocita, lo inseguì nel rifugio, ebbra di furore e di sangue. Vedendo un grande agitarsi presso la casa ove erasi rifugiato i Carabinieri vi accorsero. Ma troppo tardi: egli era stato già finito dai suoi assalitori.”
Corriere illustrato della Domenica, 26 ottobre 1902



[15] Il Secolo è stato un importante quotidiano milanese, nato dalla volontà dell’editore Edoardo Sonzogno. La base finanziaria fu fornita dal banchiere Luigi Israele Pisa, in qualità di contitolare dell’istituto di credito Zaccaria Pisa e amico personale di Edoardo Sonzogno. Di orientamento democratico, fu il giornale più venduto in Italia a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Cessò le pubblicazioni nel 1927.