MEMENTO MEMORIAE
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa,
chi parla e chi camminaa testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
Vi sono Volti e Voci che mi ispirano,
mi sfidano, mi pungolano e mi spronano a elevarmi per avanzare nella vita e
contribuire a far avanzare le cose.
Sono un sano contagio, una magnifica
emulazione, talvolta, una intimidazione… tanto sono nobili.
Sono dei preziosi “carburanti”, quando
la speranza negli Uomini o nelle circostanze potrebbe indurmi ad alzare le
braccia.
Alcuni di questi Volti e di queste Voci
hanno versato il proprio sangue per aprirci la via alla Libertà, alla
Democrazia e alla Giustizia.
A loro dico: Grazie!
In nome del loro sacrificio, noi
dovremmo avere la ricerca della Libertà, della Democrazia e della Giustizia
dell’Uomo esigente.
Io ammiro questi Spiriti brillanti e
impegnati che, con il loro esempio, partecipano a strutturare il mio modo di
pensare il Mondo. Possano questi Spiriti essere dei venti sotto le vele delle
nostre lotte per accedere alla Libertà, alla Democrazia e alla Giustizia nel
nostro Paese.
Chi si appresterà a prendere il
testimone?
La nostra generazione può scegliere di
scuotere il giogo, che la mantiene nella serena rassegnazione o nella
ammirazione passiva, per decidere di divenire protagonista della propria
Storia.
Vi sono tante terre di Libertà, di
Democrazia e di Giustizia da conquistare o da riprendere.
A
chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Noi abbiamo una responsabilità di
fronte alle generazioni che ci hanno preceduto e di fronte alle generazioni che
ci seguiranno.
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo,
Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, noi non Vi dimenticheremo!
Roma, 23 maggio 2015
Daniela Zini
“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
a Te,
per ringraziarTi di avere incrociato la mia
vita… e di averla, così, cambiata, proprio un anno fa…
D
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
SOCIETA’
SEGRETE
I.
LA CAMORRA
1.
LA CAMORRA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
I.
LA CAMORRA
2. L’ANNORATA
SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II.
LA MAFIA
1.
LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II.
LA MAFIA
2.
LA ONORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO
DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini
I. LA CAMORRA
di
Daniela
Zini
Le
condizioni che hanno permesso la nascita e lo sviluppo della Camorra vanno
ricercate nella profonda trasformazione vissuta dalla città di Napoli agli
inizi del XVI secolo. In questa epoca, non esiste, di fatto, una divisione
netta tra la Napoli della nobiltà e della borghesia e la Napoli della plebe. È
una delle conseguenze delle espansioni urbanistiche e delle restrizioni
edilizie: vivere tutti insieme, ammassati gli uni sugli altri, accalcandosi,
mescolandosi.
Nobili,
avvocati, speziali, bottegai, artigiani, lazzari
si pestano i piedi e si urtano con i gomiti. Ciò che comporta anche una
reciprocità di favori che si traduce, sovente, su piani politici e
istituzionali.
Marc
Monnier racconta di un episodio accaduto a suo nonno, che, vissuto, a Napoli,
tra il 1835 e il 1905, subì il furto di oggetti particolarmente cari. Dopo
essersi rivolto alla polizia, ma senza successo, decise, su consiglio di un
proprio domestico, di rivolgersi al capozona del quartiere. Il camorrista
seppe, in breve tempo, risolvergli il problema.
Per la
sua capacità nel gestire una giustizia sociale – poiché, a Napoli, come
altrove, il potere del popolo si manifesta con esplosioni di violenza
improvvise – la Camorra, viene utilizzata dai Borbone fino al 1848. Con la
Camorra, infatti, questa violenza viene canalizzata verso altre attività.
L’esercizio
della violenza è ben controllato.
Il
camorrista deve, molto raramente, fare ricorso alla violenza: la sua sola
presenza e la sua parola sono sufficienti per far rispettare l’ordine. La
violenza è uno strumento di potere, al tempo stesso, simbolico e reale e,
almeno in questo periodo, più simbolico che reale. Le attività illegali dei
membri della organizzazione si limitano a reati normalmente perpetrati senza un
particolare ricorso alla violenza. E, tuttavia, gli atti di violenza, se
necessari, vengono molto ritualizzati.
Il
vasto consenso popolare rende, immediatamente, percettibile il “vuoto” colmato
dalla Camorra. La Camorra è il solo mezzo di relazione e rappresentanza
politica del popolo, fino al 1912,
in quanto la riforma elettorale, varata,
dopo lunghe discussioni parlamentari, con le leggi del 22 gennaio e del 7
maggio 1882, concedeva il diritto di voto ai cittadini italiani di sesso
maschile, che avessero compiuto il ventunesimo anno di età, sapessero leggere e
scrivere, avessero superato l’esame di seconda elementare, o in alternativa,
pagassero annualmente una imposta diretta di almeno 19,80 lire.
Indebolita dal processo Cuocolo, nel 1911,
la
Camorra rinasce dalle sue ceneri, dopo il secondo conflitto mondiale, e inizia
la sua mutazione per divenire ciò che è oggi.
Il soggiorno forzato, a Napoli, di Charles “Lucky”
Luciano,
a seguito della sua espulsione dal territorio americano, nel 1946, contribuisce
a rianimare il fenomeno criminale locale. La Camorra si allea, allora, con i clans marsigliesi per il contrabbando
delle sigarette. Ma non ha più, tuttavia, la sua struttura verticale, che la
caratterizzava, nei secoli precedenti. È costituita da diversi clans più o meno legati tra loro.
Dalla fine degli anni 1970, la Camorra da semplice
gruppo delinquenziale, sia pure efferato e profondamente radicato nel
territorio, riesce a penetrare in molti settori dell’economia legale e
dell’amministrazione pubblica. La sua struttura più definita, benché non
omogenea, nata dallo sviluppo di relazioni con il sistema politico locale e dal
legame funzionale con le distorsioni e le illegalità che lo caratterizzano, è
meno legata alla base sociale popolare e sviluppa una attività importante e
diversificata nel settore economico legale. Legata all’ambiente finanziario
campano, coltiva relazioni sempre più intense con la mafia siciliana e
americana, prendendo una dimensione internazionale crescente.
La
capacità di partecipazione a settori tradizionalmente estranei risponde alla
complessiva crescita culturale e sociale di ambienti che hanno finito per
adattare alla propria visione e alle proprie pratiche istituti ed economie nati
come espressione della modernizzazione. In molti quartieri di Napoli, come in
molti paesi della provincia e del Casertano, la stretta vicinanza di individui appartenenti
a famiglie di camorristi e di individui non di tradizioni delinquenziali, di
fatto, crea, da sempre, amicizie, familiarità, parentele, che finiscono per amalgamare
comportamenti sani e insani. E la crescita nell’istruzione come nella
partecipazione alla vita civile finisce per coinvolgere in un generale processo
di raffinamento la stessa Camorra.
Non per
caso si trovano esponenti della politica e dell’amministrazione, della finanza
e dell’imprenditoria coinvolti direttamente o indirettamente in operazioni
illegali.
Il
frazionamento dei poteri a livello nazionale non può che rappresentare un
fattore di sollecitazione alla formazione di società criminali, che tendono a
uscire da condizioni di marginalità e di dipendenza per entrare nel gioco
poltitico, a gestire una o più delle numerose briciole di potere e di
clientela, gettate sul mercato da una gestione incosciente delle istituzioni
pubbliche.
Infatti,
dopo la parentesi dei primi anni 1960, durante i quali la nozione di interesse
collettivo era raccomandata e promossa dalla esistenza di una opposizione di
sinistra, sembra che questi valori si siano trincerati nelle istanze sociali e
che il fine dei partiti italiani divenga la gestione del governo, in quanto
luogo privilegiato di appropriazione del potere e delle risorse. I partiti
politici tendono, così, a trasformarsi loro stessi in gruppi di interesse come
gli altri, rispondendo, sovente, alle domande dei gruppi di pressione più forti
e pensando la politica come l’occasione di concludere affari, con la sola
differenza che sono specializzati nella gestione dell’apparato istituzionale.
Il
legame tra partiti politici e amministrazione pubblica è, del resto, diretto. È
sufficiente percorrere le polemiche sui meccanismi di nonima alle funzioni
dirigenziali nella pubblica amministrazione per rendersene conto: dagli
istituti di credito pubblici alle amministrazioni dei servizi locali di sanità,
il mondo politico italiano è condizionato dalla legge della lottizzazione, che
ha finito per considerarla il solo metodo possibile per le nomine nel settore
pubblico.
Napoli,
dove il clientelismo ha ipotecato lo sviluppo dei partiti politici, rappresenta
uno dei terreni più favorevoli per lo svolgimento del processo che ho, appena,
descritto.
Con i
flussi finanziari e le modifiche dell’apparato istituzionale locale degli anni
1980, la cultura e gli interessi della Camorra convergono verso quelli del
potere politico.
Nella
struttura economica particolare di Napoli, queste due lobbies rappresentano i principali fattori di mobilità sociale. La scarsità
delle risorse economiche, concentrate nel settore pubblico, sono, di fatto, il
solo mezzo di arricchimento al di fuori delle attività criminali. Il rapporto
che si instaura tra camorristi e politici, è, dunque, una alternanza di
conflitti e di accordi per l’egemonia nella gestione delle risorse.
L’attività
della Camorra investe, infatti, tutto il campo della economia amministrativa.
Innanzitutto, questa concerne, se non il monopolio, almeno il controllo di una
parte consistente delle forniture alle istituzioni pubbliche. Gli scandali
relativi ai sovraprofitti, ottenuti nel settore alimentare dalla vendita di
derrate deteriorate alle carceri, agli ospedali e alle case di riposo, di cui
alcune, clamorose, risalgono all’estate del 1989, non ne costituiscono che un
esempio.
Se vi è
stata una partecipazione tradizionale della Camorra alla attività di
ridistribuzione delle sovvenzioni per il Mezzogiorno, concesse a partire dagli
anni 1950, con gli aiuti per il terremoto, la Camorra interviene, per la prima
volta, massivamente, nella gestione delle risorse destinate alla assistenza
pubblica. Ciò le permette di dirottare i sussidi – indennità di malattia,
pensioni di invalidità, impieghi nel settore assistenziale – verso la sua base
e i suoi affiliati, in particolare gli ex-detenuti.
Se
questa attività non rappresenta una fonte di accumulo, ma piuttosto di
ridistribuzione delle risorse, permette, tuttavia, alla Camorra di consolidare
la sua legittimità sociale.
Isaia
Sales mette in evidenza la maniera in cui le stesse regole materiali, che
presiedono alla distribuzione dei flussi assistenziali, si prestino a un
controllo camorrista. L’assistenza come forma di complemento del reddito
familiare e come distribuzione di ricchezza al di là del possesso delle
condizioni richieste, così come la mancanza di controllo, costituiscono
condizioni che facilitano l’entrata della Camorra in questo campo.
Il
ravvicinamento tra l’ambiente politico-amministrativo e la Camorra, definito da
Gaetano Assante, il momento più alto della embricazione tra poteri criminali e
poteri istituzionali, produce vere osmosi di persone e di strutture. Da una
parte, le nuove élites politiche – emergenti
sempre meno dalla borghesia delle libere professioni e sempre più dalla nuova
borghesia dei piccoli imprenditori, dei commercianti e dei professionisti della
politica – sono, sovente, rappresentate da individui senza scrupoli che adottano
metodi camorristi. Dall’altra, la necessità per la Camorra di appropriarsi
delle opportunità generate dal flusso di danaro pubblico – oltre a quella di
garantirsi dei margini di opportunità per le sue attività illegali – passa
necessariamente per la ricerca di alleanze all’interno dei centri di decisione.
Del resto, se, all’inizio la alternanza alleanze/conflitti di interesse
riguarda la gestione irregolare o illegale delle risorse pubbliche, in seguito,
con l’entrata della Camorra nei circuiti economici legali, si instaurano rapporti
di collaborazione in attività legali.
Nel
1989, inchieste sulle amministrazioni comunali di diverse piccole città della
provincia napoletana hanno permesso di svelare legami esistenti tra alcuni
eletti e rappresentanti della Camorra.
Molti
casi individuali e specifici fanno pensare a una realtà composita, frutto di
una cultura che permette la confluenza di ambienti alti con ambienti bassi, di
relazioni che, con difficoltà fanno intravedere le differenze tra legale e
illegale e che permettono con facilità passaggi dall’area sana all’area
criminale. In sostanza, è difficile credere alla coesistenza separata di due
mondi come quello della Camorra e quello del resto della società.
3. SI UCCIDE UN MINISTRO
CAMORRA SOTTO ACCUSA
Pietro
Rosano
[Napoli,
25 dicembre 1846 - Napoli, 9 novembre 1903]
“Il passato
non è morto e non è neanche ancora passato.”
William
Faulkner
Quello che Giovanni Giolitti [1842-1928]
ha definito, nelle sue memorie, “uno
degli episodi, più tristi che ricordi la vita politica italiana”
raggiunse il suo tragico epilogo un giorno di autunno del 1903.
Il 3 novembre di quell’anno, entrava in
carica, tra i malumori degli esclusi e le aspre critiche delle opposizioni, il
secondo governo Giolitti. Formato pressoché interamente con ministri di prima
nomina e caratterizzato, dopo un vano tentativo di associarvi socialisti e
radicali, da un brusco spostamento a destra rispetto al precedente gabinetto
Zanardelli, il secondo governo Giolitti era un classico esempio di quel modo di
fare politica, inaugurato da Agostino Depretis [1813-1887], che è passato alla storia sotto il nome
di “trasformismo”.
L’8 novembre, all’uscita dal consiglio dei
ministri, qualcuno notò un lungo colloquio tra il presidente e uno dei suoi “uomini
nuovi”, il deputato napoletano Pietro Rosano che, sottosegretario all’interno
nel primo governo Giolitti, aveva, appena, ricevuto la nomina a ministro delle
finanze.
Subito dopo, Rosano era partito per Napoli,
dove abitava con la sua famiglia. Aveva trascorso, quella sera, secondo un
memorialista, con le figlie, mostrandosi più affettuoso del solito. Verso le
dieci si era ritirato nelle proprie stanze, dando disposizioni al proprio cameriere
di chiamarlo alle quattro e trenta.
La mattina del 9 novembre, prima dell’alba,
il cameriere era entrato nella stanza di Rosano e aveva trovato il letto
intatto. Aveva provato, allora, a chiamarlo, ma Rosano non aveva risposto.
Passato nello studio, il cameriere aveva trovato il ministro, seduto al suo
tavolo di lavoro, avvolto in una coperta da viaggio, a capo chino. Credendo che
dormisse, si era avvicinato per svegliarlo. Ma Rosano non dormiva. Era morto.
In una mano stringeva una rivoltella. Con l’altra sembrava avere tenuto la
canna dell’arma puntata contro il cuore. E il colpo era andato a segno.
Alcune lettere, sparse sul tavolo, dimostravano
che il ministro, anziché coricarsi, avesse passato, la notte, meditando e
scrivendo.
Una era indirizzata alla moglie:
“Sono un uomo onesto e muoio da onest’uomo.
Ma da trenta giorni si è rovesciato su di me una tale violenza di accuse che
non so resistere. Perdono ai miei figli che mi hanno recato grandi dolori,
perdono ai miei nemici che mi hanno fatto tanto male. L’avvenire renderà
giustizia. Perdona anche tu.”
Un’altra aveva come destinatario il
presidente del consiglio:
“Caro Giolitti, ho avuto, devi convenire,
un coraggio superiore finora, ma ora non resisto più. Cedo e sono innocente: ho
ignorato le lettere, non conosco il telegramma, è falso il fatto della grazia.
Cedo e muoio, col tuo nome nel cuore, riboccante di gratitudine come di affetto
per te.”
La terza lettera conteneva le dimissioni
del ministro dalla carica assunta appena sei giorni prima.
Il suicidio di Rosano, al quale vennero
tributate imponenti onoranze funebri, con la partecipazione alle esequie dei
ministri Tommaso Tittoni [1855-1931] e Francesco Tedesco [1853-1921], in
rappresentanza del governo, e l’omaggio alla salma del filosofo Benedetto Croce
[1866- 1952], accese una feroce polemica tra i suoi avversari e i suoi
sostenitori. Il tragico gesto del neo-ministro delle finanze, affermavano i
primi, provava la fondatezza delle accuse di chi aveva denunciato i suoi legami
con la camorra napoletana e la mafia siciliana. Ma il vero responsabile di
quella morte era per loro Giovanni Giolitti che, tradendo la fiducia del re, aveva
voluto, al suo fianco, come ministro, un uomo indegno di tale carica. Per
questo, scriveva l’Avanti!, illustrando
il concetto con alcune vignette, pubblicate in prima pagina, il nuovo
presidente del consiglio si era “macchiato di sangue” e doveva
dimettersi.
Uniti all’Avanti! nella richiesta di dimissioni, come prima lo erano stati
negli attacchi a Rosano, troviamo giornali che con il socialismo non hanno
nulla da spartire. Vi è il Corriere della
Sera, che aveva deplorato la “resurrezione politica” di Rosano. E
vi è Il Giornale d’Italia,
che si era compiaciuto per la “sollevazione del senso del morale del Paese”,
cui aveva attribuito il moto di giusta indignazione per la nomina di un uomo
corrotto.
Su questi si scagliava La Tribuna, ispirata come
sempre da Giovanni Giolitti.
“Non avete mai potuto provare nulla contro
il Rosano.”,
aveva rimbeccato.
E svelava ai suoi lettori quello che, per
il giornale, fosse il vero retroscena politico di tutto l’affaire: l’allineamento dei radicali e dei socialisti riformiti con
i “teppisti
della politica”, vale a dire con gli estremisti di ogni colore.
Quanto all’esagitato Edoardo Scarfoglio [1860-1917], rimasto quasi solo a difendere l’onore
dei napoletani dalle accuse dei “settentrionali”, non esitò a
trattare, con la solita violenza verbale, tutti i socialisti da “assassini”,
invocando l’uso delle armi contro di loro e paragonando l’accanimento da questi
mostrato contro la vittima all’accorrere delle iene intorno a un cadavere: iene
lombarde, liguri, piemontesi, seguite dai “macilenti e famelici sciacalli sonniniani”.
Nell’uragano di accuse e contraccuse, nel
polverone che avrebbe, ben presto, ingoiato la salma di Rosano, un problema
resta senza soluzione, una domanda senza risposta:
“La mattina del 9 novembre 1903, nello
studio di quell’antico palazzo napoletano, era morto un onesto uomo, spinto al
suicidio da una irresponsabile campagna di stampa o un avvocato senza scrupoli,
schiacciato dal peso delle proprie responsabilità, un affarista legato al
sottogoverno, un politico irrimediabilmente compromesso con il mondo
clientelare della Mafia e della Camorra?”
Se la mafia o meglio la “maffia”,
come si scriveva allora, era assurta agli onori della cronaca con l’assassinio
del marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni – il cui presunto mandante, Raffaele
Palizzolo [1845-1910],
sarebbe stato difeso da Rosano – le rivelazioni sulla Camorra avevano iniziato
a scandalizzare gli italiani, intorno alla fine del 1899, quando un settimanale
napoletano, fondato, lo stesso anno, dalla locale sezione socialista, per
contribuire alla diffusione del socialismo nel sud, era uscito con un numero
straordinario, dedicato a quella che, eufemisticamente, si chiamava “la
bella società riformata”.
Esistevano a Napoli, secondo La Propaganda,
due forme di camorra: la bassa e la alta.
La bassa Camorra era una conseguenza della
miseria morale e materiale dei partenopei, in virtù della quale l’affamato prepopotente
cercava di risolvere il problema della esistenza o vivacchiando alle spalle di
quelli che lavoravano, ai quali imponeva una tassa detta “diritto di camorra”, o
mettendosi al servizio di qualche disonesto signorotto, per trarre il proprio
sostentamento da una professione che ricordava molto da vicino quella dei “bravi”
di manzoniana memoria.
Questo tipo di Camorra, secondo il
settimanale socialista, era, tuttavia, il male minore. Infinitamente peggiore
era l’alta Camorra, che con la corruzione e la prepotenza, inquinava gli organi
politici e amministrativi:
“Una specie di associazione a malfare, non
precisamente e burocraticamente organizzata, ma tenuta insieme da aderenze
personali, servizi inconfessabili, complicità vergognose di corrotti e
corruttori, di minaccianti e di intimiditi, e che è composta di deputati,
senatori, consiglieri provinciali e comunali, grandi appaltatori, ricchi
tenitori di bische e di bordelli, alte cocottes e potenti ruffiane”.
Come esercitava il suo potere, l’alta Camorra?
In un modo molto semplice!
Impadronitasi della rappresentanza
parlamentare, infiltratasi nelle amministrazioni locali, rendeva servigi ai
preferiti, traendo da ciò sostentamento per sé e nuovi vincoli per mantenersi
al potere. Accadeva così che, a Napoli, grazie ai buoni uffici della Camorra,
si vendessero gli appalti e i posti in municipio, le licenze scolastiche e le
onorificenze.
La Camorra imperava nelle questure, dove si
spartivano i proventi delle sale da gioco e delle case di malaffare; nei
tribunali, dove magistrati senza scrupoli restituivano una fittizia verginità a
fedine penali lunghe un braccio; nei giornali, attraverso la concessione e la
distribuzione della pubblicità.
E come si realizzava, in pratica, l’alleanza
tra Camorra e potere politico?
Rispondeva La Propaganda:
“La cosa è molto chiara, qui a Napoli. Il
commerciante, l’industriale ha bisogno di non pagare o pagar piccola tassa di
ricchezza mobile; l’esercente desidera tutte le possibili agevolazioni dalle
autorità politiche; il proprietario domanda una concessione di suolo, un
permesso di locazione di una casa di fresco costruita; l’appaltatore ha bisogno
della concessione; il figlio di famiglia di essere dichiarato inabile al
servizio militare; il pregiudicato di essere liberato dall’ammonizione; il
colpevole di lesione o di furto di non essere molestato dalla pubblica
sicurezza; la tenitrice di postribolo di non essere troppo severamente
sorvegliata; l’impiegato che vuole un aumento o una promozione, il magistrato,
il funzionario di pubblica sicurezza che domanda un trasloco, tutta questa
brava gente non ha che a rivolgersi al deputato e il deputato parte per Roma.
Dopo pochi giorni il favore viene concesso e la maglia di interessi tra l’elettore
e l’eletto diviene in questo modo più fitta. Così si mantiene il collegio.”
Una durissima campagna di stampa si scatenò
contro il primo, ex-giocatore in Borsa e, all’epoca, personaggio influentissimo
nell’amministrazione comunale e provinciale.
“È il vero re di Napoli, questo Casale.”,
scrivono i giornalisti del periodico
socialista.
Per mesi il giornale napoletano pubblicò,
in prima pagina, lunghi articoli intitolati semplicemente Camorra, nei quali documentava o pretendeva di documentare, le
malefatte di Casale e dei suoi uomini di fiducia. Al deputato, preso come
bersaglio, La Propaganda rivolgeva
quattro precise domande:
“1] Qual è la vostra professione, arte o
mestiere?
2] Quali sono le vostre rendite?
3] In mancanza dell’una e delle altre, come
vivete?
4] Donde cavate le risorse per vivere?”
Casale, che fino a quel momento aveva
ignorato gli attacchi, rispose con una querela per diffamazione.
Fu una decisione di cui avrebbe dovuto
pentirsi!
In tribunale, nell’estate del 1900, Casale
sostenne di non aver, mai, trafficato in impieghi e concessioni, di non essersi,
mai, ingerito nella pubblica amministrazione, per trarne illeciti profitti, e
di essere, sempre, vissuto, con la famiglia, della rendita di certi immobili
ereditati dal padre.
Sfortunatamente per lui, alcuni dei
testimoni citati dalla difesa, abilmente controinterrogati in udienza, portarono,
con le loro reticenze e le loro mezze ammissioni, molta acqua al mulino dell’accusa.
Quando Casale si accorse di non poter
dimostrare da dove traesse i proventi per una vita notoriamente dispendiosa, il
deputato si ritirò dal dibattimento.
La sua mossa fu da tutti considerata una
ammissione di colpevolezza.
All’udienza successiva il procuratore del
re Raffaele de Notaristefani [1861-1933] pronunciò la sua requisitoria non già
contro gli imputati, ma contro il querelante.
Il 31 ottobre 1900, il clamoroso risultato:
i primi venivano assolti per aver provato la fondatezza delle loro accuse e il
secondo, condannato alle spese processuali e politicamente rovinato, doveva dimettersi
dalle cariche di consigliere provinciale e di deputato al parlamento.
L’amministrazione comunale, ormai travolta
dallo scandalo, si vide obbligata a dimettersi con lui.
Il primo ottobre del 1901, dopo avere, in
un anno circa di lavoro, interrogato 1300 testimoni e riempito 11 volumi di
documenti, la commissione Saredo presentò le sue conclusioni.
Era vero che, al municipio di Napoli, erano
stati commessi un gran numero di abusi e di irregolarità amministrative.
Era vero che la profonda corruzione,
riscontrata dai commissari, durante la loro inchiesta, dipendeva dal fitto
intreccio, venutosi a creare tra potere politico e Camorra.
Il rapporto Saredo mise in luce frodi
manifeste e scandalose assurdità. A esempio, alcuni impiegati venivano assunti
all’età di tredici anni e facevano una splendida carriera, senza mai farsi
vedere sul posto di lavoro; diversamente, altri funzionari non ottenevano
alcuna promozione, benché onesti e competenti. Di più, mentre numerosi
diplomati erano, scientemente, adibiti a funzioni subalterne, il principale
amministratore della città non aveva diploma alcuno. Ma – fatto ancora più
grave – la inchiesta scoprì brogli macroscopici, in occasione delle elezioni,
in cui schiere di volontari venivano mobilitati per far votare i morti e gli
assenti; quei volontari dipendevano dalla Camorra.
“In
corrispondenza alla bassa camorra originale si vide sorgere un’alta camorra,
costituita dai più scaltri e audaci borghesi. Costoro, profittando dell’ignavia
della loro classe riuscirono a trarre alimento nei commerci e negli appalti,
nelle adunanze politiche e nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli, nella
stampa.
[...]
Collo sviluppo della camorra, la nuova organizzazione elettorale a base di
clientele, di servizi resi e ricambiati in corrispettivo del voto ottenuto,
sotto forma di protezione, di assistenza, di consiglio, di raccomandazione,
rese possibile anche lo sviluppo della classe dei faccendieri e intermediari.
Dall’industriale ricco, che voglia aprirsi la strada nel campo politico o
amministrativo, al piccolo commerciante, che debba richiedere una riduzione d’imposta;
dall’uomo d’affari che aspiri a una concessione, all’operaio che cerchi un
posto in una officina...; tutti trovano dinnanzi una interposta persona e quasi
tutti se ne servono.”
Nelle carte dell’inchiesta finì anche la
scrittrice e giornalista Matilde Serao [1856-1927], moglie di Scarfoglio:
“Ahimé, anche della signora Matilde Serao,
illustre scrittrice e redattrice de Il Mattino nonché moglie dello Scarfoglio,
la regia commissione d’inchiesta ha dovuto occuparsi. La signora Serao aveva
promesso la promozione a capo drappello della guardia Foti dietro compenso di
lire duecento. Incassata anticipatamente la cifra, la Serao rilasciava al Foti una
cambiale per la medesima somma da utilizzarsi soltanto qualora la promozione
non fosse avvenuta. Gli avanzamenti nel corpo delle guardie furono deliberati,
ma il Foti sfortunatamente per lui e per la signora Serao non ne beneficiò. La
cambiale di Matilde Serao, consegnata alla commissione dalla stessa guardia
Foti è agli atti della Commissione.”
Gli accertamenti della commissione Saredo
provocano la presentazione di varie interpellanze al governo.
Il 9 dicembre 1901, si aprì alla camera il
dibattito sulla inchiesta. Il più violento tra gli intervenuti fu il deputato
socialista Enrico Ferri [1856-1929], fondatore, con Cesare Lombroso
[1835-1909], della scuola positivista di diritto penale.
Il 14 dicembre, Ferri ebbe un’uscita
particolarmente infelice.
“Nell’Italia Settentrionale”,
tuonò,
“ci sono dei delitti, ci sono delle
malversazioni, ci sono dei fraudolenti, ma sono malattie isolate; nell’Italia
Meridionale, invece, la malattia ha forma infettiva, epidemica. Nell’Italia
Settentrionale sono casi di eccezione i centri di criminalità, nell’Italia
Meridionale sono casi di eccezione, tanto più mirabili per questo, i centri di
onestà.”
Offesi da questo discorso, che interpretarono
come un chiaro sintomo dell’antipatia o semplicemente della incomprensione dei
socialisti per il Mezzogiorno, i deputati meridionali chiesero che Ferri
presentasse le sue scuse.
Ferri rifiutò e allora il presidente della camera,
Tommaso Villa [1832-1915] gli inflisse la censura.
Mentre abbandonava l’aula, Ferri spezzò con
un libro una vetrata e gridò istrionescamente:
“La camorra continua in Parlamento!”
La sua clamorosa invettiva venne accolta da
uno scroscio di risa.
Qualunque fosse il giudizio su di essa –
per il solito Scarfoglio era solo un volgare libello diffamatorio, mentre all’onorevole
Giacomo De Martino [1868-1957] parve “un monumento di sapienza e di coraggio
civile” – l’inchiesta Saredo ebbe il merito, insieme alle agitazioni
contadine nelle campagne e alle conseguenti repressioni, culminate negli eccidi
di di Candela [8 settembre 1902] [http://storia.camera.it/regno/lavori/leg21/sed312.pdf]
e di Giarratana [3 ottobre 1902],
di richiamare l’attenzione del Paese sulla grande miseria del Sud e sulle colpe
dei governi che l’avevano sistematicamente ignorata.
Il 13 dicembre 1901, il presidente del consiglio
Giuseppe Zanardelli [1826-1903] pronunciò alla camera un discorso che può
considerarsi, ha scritto Arturo Labriola,
“come
il riconoscimento ufficiale dell’esistenza della questione meridionale”.
Zanardelli ammise che la responsabilità del basso livello morale e materiale
delle regioni del Mezzogiorno ricadesse, in gran parte, sui governi succedutisi
dopo l’unità d’Italia.
“Deve riconoscere”,
precisò,
“che alcuni ministri abusano delle
influenze amministrative per consolidare la loro posizione politica.”
È durante il dibattito sulla inchiesta
Saredo che nacque in Zanardelli l’idea di un viaggio in Basilicata. Per la prima
volta, nel settembre del 1902, un presidente del consiglio si recò,
personalmente, a visitare una delle regioni meridionali più povere e neglette,
allo scopo di studiare, da vicino, le condizioni e proporre speciali misure,
atte a risolvere la crisi.
Zanardelli si fece accompagnare nella
visita da un gruppo di influenti deputati meridionali, tra i quali si distinse
l’onorevole Pietro Rosano. Fu questo a far dire, maliziosamente, a Gaetano Salvemini
[1873-1957]
che il presidente del consiglio non fosse “calato”
nel Sud per affrontarne e risolverne i problemi, ma solo per assicurarsi l’appoggio
dei suoi uomini politici.
Tra questi uomini politici l’onorevole
Rosano, ex-garibaldino, ferito a Bezzecca, grande amico di Giovanni Giolitti e
penalista tra i più noti del Paese, era senz’altro uno dei più rappresentativi.
Enrico Ferri si era imbattuto in Rosano,
quando si era recato, a Napoli, per difendere uno strano tipo di ex-anarchico,
russo di origine ma naturalizzato italiano, da una querela per ingiurie e
percosse. In tale circostanza Rosano si era adoperato per ottenere la
remissione della querela e l’imputato, che si chiamava Giovanni Bergamasco [http://www.forgottenbooks.com/readbook_text/Storia_DI_Dieci_Anni_1899-1909_1300033240/225]
e viveva in una comoda villa di Camaldoli, aveva spiegato il suo interessameno,
narrando a Ferri un curioso episodio.
Denunciato come anarchico pericoloso e incarcerato,
al tempo delle repressioni crispine, nel 1898, Bergamasco era stato proposto
per il domicilio coatto. Dal carcere, su consiglio di un detenuto, il quale
sosteneva che Rosano, attraverso le sue conoscenze, gli aveva fatto avere non
si sa bene quale “grazia”, l’ex-anarchico, che era un uomo facoltoso e viveva
con un certo lusso, circondandosi di cani di razza, si era rivolto all’illustre
penalista per ottenere l’assistenza professionale. Rosano aveva, allora,
compilato una memoria difensiva su carta da bollo, in cui spiegava come il suo
cliente, anarchico in gioventù, avesse abbracciato il socialismo dopo il
servizio militare e, ora, non fosse altro che un socialista legalitario, un
riformista, deciso a condurre una vita appartata e a occuparsi solo della
famiglia e dei propri beni. Presentato come un pacifico idealista e un
umanitario benestante, Giovanni Bergamasco era stato prosciolto e rimesso in
libertà. Per i suoi servigi, Rosano gli aveva fatto inviare dal suo studio una
parcella di 4mila lire.
L’occasione era buona e i socialisti non se
la lasciarono sfuggire.
Sia l’Avanti!
sia La Propaganda si affrettarono
a scrivere che Rosano era stato pagato non come avvocato, ma come deputato,
perché esercitasse la propria indiscussa influenza politica.
In un primo tempo, tuttavia, nessuno raccolse
l’insinuazione, che cadde nel vuoto.
La denuncia dei socialisti venne
considerata un mero artificio polemico e “la bomba fece cilecca”. Solo dopo
la nomina di Ferri alla direzione dell’Avanti!
e la decisione di contrastare in tutti i modi il ritorno di Giovanni Giolitti
al potere, l’episodio narrato da Bergamasco parve offrire nuove possibilità di
sfruttamento politico. Ferri, che, con la direzione del giornale, ereditava da Leonida
Bissolati [1857-1920] anche il problema di colmarne il disavanzo e che riteneva
di potervi riuscire, aprendone le colonne ad argomenti di carattere
scandalistico, rispolverò le vecchie accuse contro Rosano per colpire,
attraverso lui, il ben più temibile Giolitti.
Come non era accaduto in precedenza, questa
volta le accuse dell’Avanti! furono
fatte proprie dai giornali radicali, tra i quali, in primo luogo, Il Secolo
di Carlo Romussi [1847-1913] e da tutta la stampa dell’ordine, Corriere della Sera e Giornale d’Italia in prima fila. Venne,
così, a formarsi, come ha scritto Gaetano Natale [1884-1961], un’“inverosimile alleanza” di
moralisti, un “ibrido accordo” tra gruppi politici che si proponevano gli
obiettivi più svariati: i socialisti estremisti quello di sconfessare i
riformisti e Giolitti che li favoriva; i riformisti e i radicali quello di non
farsi scavalcare a sinistra; gli illiberali quello di compiere antiche vendette
senza passare per reazionari.
A Romussi, che, in una lettera del 6
novembre, accusava il presidente del consiglio di essere andato a rilevare
Rosano “sul banco della difesa di Palizzolo”, Giolitti rispondeva, con
molta calma, che, anche in quel caso, come nell’altro di Bergamasco, l’amico
non aveva fatto altro che esercitare la sua professione di avvocato.
“Se gli avvocati che hanno tariffa alta
fossero immorali”,
concludeva,
“a quanti degli avvocati principi potreste
stringere la mano?”
Ma lo scandalo era troppo grosso e Pietro Rosano
non resse alla prova.
Accusato apertamente da Bergamasco di
avergli spedito in carcere due lettere e un telegramma, con i quali si impegnava
a guadagnargli i favori delle autorità, messo con le spalle al muro da una “coalizione furente” di socialisti di
ogni tendenza, conservatori e radicali, industriali, banchieri e
professionisti, profondamente amareggiato dai dispiaceri che continuavano a
dargli i figli maschi e afflitto da una “natura ipersensibile”, che, già,
due volte, lo aveva indotto a tentare il suicidio, Rosano si tolse la vita.
Restava la questione:
“Con lui, era, veramente, morto un
camorrista?”
Secondo Arturo Labriola, Pietro Rosano fu
un “degno
galantuomo”, vittima più della propria fragilità di spirito che della
spietatezza degli avversari politici. Tuttavia, sia Giovanni Giolitti sia i
socialisti ebbero la loro parte di colpe. I secondi per averlo inchiodato,
senza prove, all’accusa di essere tra i capi della “bella società riformata”,
al solo scopo di nuocere al primo. E quest’ultimo, dal canto suo, per aver
fatto le sue scelte politiche con quella spregiudicatezza e mancanza di
rispetto per l’opinione pubblica, che gli era consueta e ch, ormai, ha preso il
giusto nome di “ARROGANZA DEL POTERE”.
Se si può rimproverare ai socialisti di
avere “istigato” Pietro Rosano al suicidio, bisogna aggiungere che
anche Giovanni Giolitti fu responsabile della sua morte nella misura in cui lo
volle, assolutamente, nel governo, anche se ragioni di opportunità avrebbero
dovuto indurlo a mutare i suoi propositi.
Pietro Rosano era stato il difensore di
Casale e di Palizzolo, due sinonimi, in quegli anni, di Camorra e di Mafia. Se
si potevano ignorare gli attacchi dell’Avanti!, perché palesemente ispirati da non
troppo recondite motivazioni politiche, si sarebbe dovuto tenere conto almeno
di ciò che scriveva La Stampa:
“Padronissimo l’avvocato Rosano di
indossare la toga alla difesa di chiunque: sacro è questo diritto e noi rispettiamo quelli che lo esercitano.
Ma facciamo un torto all’uomo politico, al futuro ministro di sedere al banco
della difesa nel processo di Firenze, poiché Palizzolo non è il delinquente
volgare, bensì il capo temuto e amato della mafia palermitana: difendere
Palizzolo non è liberare un uomo, è rinfrancare la mafia. E quello che è lecito
all’avvocato non può essere lecito all’uomo politico.”
Di questa distinzione Giolitti non volle o
non seppe tenere conto. Come dopo di lui, nella Storia d’Italia, avrebbero
fatto altri primi ministri fino ai nostri giorni.
Daniela Zini
Copyright
© 19 maggio 2015 ADZ
Nell’articolo
di prossima uscita:
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman,
ladies and gentlemen:
I appreciate very
much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy
responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of
how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your
profession.
You may remember
that in 1851 the New York Herald Tribune under
the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an
obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that
foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his
financial appeals were refused, Marx looked around for other means of
livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune
and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world
the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this
capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have selected as
the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest
that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But
those are not my sentiments tonight.
It is true,
however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently
that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague
it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible
for the press, for the press had already made it clear that it was not
responsible for this Administration.
Nevertheless, my
purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one
party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are
these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press
should allow to any President and his family.
If in the last few
months your White House reporters and photographers have been attending church
services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand,
I realize that your staff and wire service photographers may be complaining
that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that
they once did.
It is true that my
predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in
action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is
a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk
about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of
recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the
dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years.
Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living
with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly
challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to
the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The very word
“secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people
inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to
secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and
unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are
cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat
of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there
is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not
survive with it. And there is very grave danger that an announced need for
increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I do ask every
publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own
standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war,
the government and the press have customarily joined in an effort based largely
on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time
of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged
rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national
security.
Today no war has
been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be
declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who
make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our
friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is
awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat
conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our
security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I
can only say that the danger has never been more clear and its presence has
never been more imminent.
It requires a
change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the
government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every
newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless
conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of
influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections,
on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of
armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material
resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that
combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political
operations.
Its preparations
are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its
dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is
printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a
war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every
democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the
question remains whether those restraints need to be more strictly observed if
we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of
the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through
our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through
theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations
to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper
reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the
nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use,
have all been pinpointed in the press and other news media to a degree
sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the
publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were
followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers
which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for
you alone to answer. No public official should answer it for you. No
governmental plan should impose its restraints against your will. But I would
be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities
that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities,
if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful
consideration.
On many earlier
occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these
are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have no intention
of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I
am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security
classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and
would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the
newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own
responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger,
and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now
asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that
you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I
hope that every group in America
- unions and businessmen and public officials at every level - will ask the
same question of their endeavors, and subject their actions to the same
exacting tests.
And should the
press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps there will
be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a
free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any
discussion of this subject, and any action that results, are both painful and
without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent
in history.
II
It is the
unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No President should
fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes
understanding; and from that understanding comes support or opposition. And
both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could
not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration
intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error
does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept
full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we
miss them.
Without debate,
without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic
can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any
citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by
the First Amendment - the only business in America specifically protected by
the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the
trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” -
but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This means greater
coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and
foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved
understanding of the news as well as improved transmission. And it means,
finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you
with the fullest possible information outside the narrowest limits of national
security - and we intend to do it.
III
It was early in the
Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions
already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press.
Now the links between the nations first forged by the compass have made us all
citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and
threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution
of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible
consequences of failure.
And so it is to the
printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience,
the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident
that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
Con il termine lazzari si
indicavano i giovani dei ceti popolari di Napoli. Costituivano una società
nella società del tempo e rispondevano a un loro codice di gruppo, che
prevedeva anche l’elezione di un capo, ufficialmente riconosciuto e accolto
alla corte reale. I capi si differenziavano dai gregari per una particolare
foggia di abbigliamento e per il taglio di capelli: berretto bianco, giacca
corta e capelli rasati fino sopra gli orecchi.
Il 12 marzo 1911, inizia il processo Cuocolo.
Nell’agosto 1898 il generale Luigi Gerolamo
Pelloux nominò un nuovo questore di Palermo, con il mandato di combattere la
mafia.
Nel
1900, il questore Ermanno Sangiorgi descrisse nei termini seguenti i
sostenitori politici di Palizzolo:
“Sono amici del Palizzolo tutti i
mafiosi, i pregiudicati, coloro che costituiscono permanente pericolo per la
sicurezza pubblica siccome gente dedita ai delitti di ogni genere contro le
persone e le proprietà. Costoro non risparmieranno minacce, violenze e
intimidazioni per costringere gli elettori onesti a votare per loro candidato.”
Napoli, 29 gennaio del 1902
Spettabile Redazione della Propaganda
Il Vostro giornale ha fedelmente
riportato ciò che, per confusione nei ricordi o nella narrazione, gli era stato
riferito relativamente ad un invito da me ricevuto per assumere la difesa del
direttore di un foglio ebdomadario contro il quale sono state sporte varie
querele per diffamazione.
Ciò nei rapporti della Propaganda.
Per quanto riguarda la mia persona posso
affermare con precisione irrecusabile che parecchi giorni or sono un mio
carissimo amico mi annunziò di aver ricevuto una visita di quel signore, il quale
gli aveva manifestato l’idea di rivolgersi a me o ad un valoroso collega, di
cui fece anche il nome, per il patrocinio delle sue ragioni. All’amico che mi dava simile preavviso con
l’aggiunta di aver consigliato il mio fra i due nomi indicati, risposi
meravigliandomi altamente che potesse venire a casa mia il direttore di quel
foglio per invitarmi ad assumere la sua difesa.
Infatti, egli è stato querelato per una
campagna, che io – giudice sereno perché lontano dalle lotte partigiane della
mia città – reputo perfino inverosimile nella sua enormità, iniziata o contro
amici carissimi come Pietro Pansini, Carlo Altobelli, Roberto Marvasi, Alfredo
Sandulli, Arturo Labriola, cui mi avvincono non soltanto sentimenti di stima
sincera, ma nodi indissolubili di affetto fraterno – o contro altri come il
Lucci, il Leone ecc., che non conosco ma che, giovane anche io, altamente
ammiro per lo spirito pugnace e l’ideale che li agita. E tale risposta avrei
dato al direttore di quel giornale se fosse venuto a casa mia, come aveva
preannunziato.
Esposto così l’incidente nei più esatti
particolari, dichiaro chiusa, per conto mio, ogni ulteriore polemica, porgendo
a voi, onorevole redazione, i sensi della mia osservanza.
Avv. Enrico De Nicola
L’eccidio di Candela si inserisce in quella serie di repressioni sanguinose che
colpiscono il Mezzogiorno, tra il 1902 e il 1906.
“Ieri,
otto di settembre, in Candela, la lega socialista dei contadini cercò opporsi
alla gita alle masserie di quei contadini, che si erano accordati con i loro
padroni. Al gridare tumultuoso accorsero due carabinieri, che furono abbattuti,
disarmati, feriti. Il brigatiere, ritenuto morto dai tumultuanti, levatosi sui
ginocchi cominciò a sparare con la rivoltella; accorsero quaranta soldati
presidiarii, che accolti e colpiti dai sassi, fecero fuoco: dei rivoltosi sette
caddero uccisi, molti i feriti. Si gridava morte ai proprietarii, che
l’avrebbero passata male se fossero mancati i soldati. Questo è stato uno dei
tanti episodi sanguinosi prodotti dall’insanie del socialismo.”
Autore
di questa rapidissima cronaca è Lorenzo Agnelli.
“A Giarratana era stato proclamato lo
sciopero. Ma non tutti i lavoratori erano d’accordo, molti erano i dissidenti.
Per evitare che commettessero violenze, essendo gli animi molto eccitati,
intervennero i Carabinieri, e siccome volavano sassi, e si minacciavano serie
colluttazioni, i Carabinieri, che erano armati di sole rivoltelle, spararono in
aria. Quello fu il segnale dell’eccidio. I carabinieri furono circondati dalla
folla, che, come invasa da follia di distruzione, li investì a colpi di sassi e
di mazze. I militi, piegando sotto l’urto veemente, tentarono di difendersi.
Ma, sopraffatti dal numero, esplosero altri colpi di rivoltella. Poi si videro
i pennacchi rossi dei militi come sommersi dalle ondate della folla, sulla
quale agitavansi furiosamente i bastoni. La mischia si fece spaventevole, tra
urli di ferocia e di terrore, i Carabinieri furono stretti da ogni parte. Il
carabiniere Antonino Giancastro fu dalla folla isolato dai compagni, tentò di
difendersi colla rivoltella, ma dovette cercare scampo in una casa vicina. La
folla, inferocita, lo inseguì nel rifugio, ebbra di furore e di sangue. Vedendo
un grande agitarsi presso la casa ove erasi rifugiato i Carabinieri vi
accorsero. Ma troppo tardi: egli era stato già finito dai suoi assalitori.”
Corriere illustrato della Domenica, 26
ottobre 1902