“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 31 luglio 2014

NUNC UT TUNC I. L'INFLAZIONE CONDANNO' L'IMPERO ROMANO di Daniela Zini



NUNC UT TUNC
“Probitas laudatur et alget.”
Decimus Iunius Iuvenalis

à  Sept Fantômatiques Gladiateurs des Temps Modernes
En fin de compte nous mourons tous, nous ne pouvons malheureusement pas choisir notre mort. Mais nous pouvons décider comment aller à sa rencontre, afin que l’on se souvienne de nous comme des Hommes.
Je Vous souhaite d’aller très loin et de faire aboutir tous Vos projets!
D

“Rappelle-toi depuis combien de temps tu remets à plus tard et combien de fois, ayant reçu des Dieux des occasions de t’acquitte
r, tu ne les as pas mises à profit . Mais il faut enfin, dès maintenant, que tu sentes de quel monde tu fais partie, et de quel être, régisseur du monde, tu es une émanation, et qu’un temps limité te circonscrit . Si tu n’en profites pas, pour accéder à la sérénité, ce moment passera ; tu passeras aussi, et jamais plus il ne reviendra.”
Marc Aurèle, Pensées pour moi-même

Qu’ils soient Algériens, Iraniens, Egyptiens, Turcs, Nigérians, Chinois, de plus en plus nombreux sont les écrivains confrontés au cruel dilemme que Tahar Djaout eut à peine le temps d’exprimer quelques jours avant son assassinat en pleine rue:
Si tu parles tu meurs. Si tu te tais tu meurs. Alors parle et meurs...
Plus nous sommes silencieux, patients et disponibles, et plus ce qui est nouveau pénètrera profondément et sûrement en nous, mieux nous le ferons nôtre; il sera d’autant plus notre Destin propre, et, plus tard, lorsqu’il se produira, nous nous sentirons profondément intimes et proches.
Et c’est nécessaire.
Il est nécessaire — et c’est vers cela que peu à peu doit tendre notre évolution — que nous ne nous heurtions à aucune expérience étrangère, mais que nous ne rencontrions que ce qui, depuis longtemps, nous appartient. Il a déjà fallu repenser tant de conceptions du mouvement qu’on saura peu à peu admettre que ce que nous appelons Destin provient des Hommes et ne vient pas de l’extérieur. De même qu’on s’est longtemps abusé à propos du mouvement du Soleil, on continue encore à se tromper sur le mouvement de ce qui est à venir. L’Avenir est fixe, mais c’est nous qui nous nous déplaçons dans l’Espace infini. Tout ce qui, un jour, deviendra peut-être possible pour beaucoup, le solitaire peut déjà le préparer et l’élaborer de ses propres mains qui se trompent moins.
C’est prodigieux, la chance d’être ici: je peux vivre en solitaire, presque en ermite, tout en étant au cœur de l’Univers.
Ici, j’ai fait mon nid.
Sur la table de la chambre dont les fenêtres s’ouvrent sur les grands arbres d’une villa, il y a le dossier de mon testament littéraire.
Parfois j’y glisse un petit papier…
Entre le vrai” testament et ce livre il n’y aura pas grande différence. Dans un testament on indique comment il faut partager ce qu’on laisse. Dans mon testament il y a aussi ce que la Vie m’a provoqué à penser, ce que j’ai eu envie de dire à certains moments.
En vieillissant, peu à peu, on prend conscience d’un devoir.
D’abord on résiste, parce que cela semble présomptueux… et puis revient avec insistance, au-dedans de soi, une voix qui dit:
Avant de nous quitter, dis-nous ce que tu sais.
Si aujourd’hui je ne me soumettais pas à cet appel, j’aurais le sentiment d’enterrer le talent d’une existence. Non pas les mérites de ma personne, bien sûr, mais ce que les circonstances de la Vie dans laquelle j’ai été trimballé m’ont fait comprendre, souvent après bien des résistances.  Toutes les difficultés, les doutes et les renoncements expérimentés par un écrivain ne s’expliquent pas, comme on le croit trop souvent depuis Stéphane Mallarmé, en termes de stérilité ou d’angoisse devant la page blanche. Ce sont là métaphores de poète à ne pas prendre au sens littéral: elles ne rendent pas compte de la réalité infiniment plus complexe du processus de création littéraire. Dans la plupart des cas, si l’écrivain ne parvient pas à faire aboutir son projet – j’entends le grand écrivain -, ce n’est pas qu’il ne peut pas écrire, mais qu’il ne veut le faire qu’à certaines conditions qu’il s’est imposées. Il ne se dessèche pas d’impuissance, mais étouffe d’un trop-plein d’exigences. Cette émotion-ci est commune aux historiens, aux archéologues et aux personnes cultivées qui ont perdu la Passion au contact de l’érudition. Il s’agit d’une émotion à la fois plus exceptionnelle et plus personnelle, identique à celle que Johann Wolfgang von Goethe ressentit en arrivant en Italie après avoir écrit Werther: celle  d’y rencontrer sa propre origine et d’y saisir le sens de son Destin.
Ce n’était donc pas le Passé qui se rapprochait et qui, en se rapprochant, se mettait à ressembler au voyageur mais, à l’inverse, lui-même qui remontait le cours du temps et accédait à sa propre patrie; son Présent se chargeait de signes, et ceux-ci prenaient tout leur sens au contact du Passé. 
Si Vous demandez à deux jeunes gens pourquoi ils s’aiment, ils ne vont pas faire une liste des défauts ou des qualités, établir la moyenne, dire:
Il (elle) arrive à 51%, c’est pour cela que je l’aime…
Chacun s’écriera :
Je l’aime parce que je l’aime, et foutez-moi la paix !
Je l’aime comme il (elle) est.
La Politique est un acte d’Amour.
Il nous faut des contagieux.
Aucune valeur humaine ne peut grandir et se transmettre sans contagion. La contagion est une manière d’être, qui va de soi, comme celle des parents qui accompagnent l’enfant dans son éveil à la Vie. Le contagieux, c’est celui qui sait voir les horreurs du monde, et ses merveilles, qui ne peut pas supporter les horreurs et qui cherche les solutions pour qu’il y en ait moins. Celui-là peut être entendu parce qu’il a agi.
L’homme politique, techniquement compétent, peut bien intervenir pour l’accès à tous, la lutte contre la misère, l’action concertée contre le chômage, mais si, tout en parlant, il ne pense qu’à sa partie de golf du lendemain, il ne sera pas entendu.
Pour convaincre, les arguments sont nécessaires.
Mais les actes le sont davantage.
Qu’ils osent, les contagieux!
Qu’ils n’hésitent pas à utiliser les médias!
Leur action galvanisera l’opinion.
Et parce ce qu’on les aura écoutés, on leur redonnera la parole!
Ce sont eux qui somment d’agir les responsables et l’opinion publique, en les rendant plus clairvoyants et en leur imposant simultanément deux types d’action: l’action d’urgence – le secours immédiat: Tu as faim, voilà à manger. - et la planification, qui n’est plus aujourd’hui à l’échelle du pays, mais à celle du monde.
S’il est vrai que l’on veut étendre la Liberté absolue à tous les domaines, ce qui pourrait donner l’illusion que les Libertés continuent leur expansion sur tous les fronts, il est tout aussi vrai que l’auto-censure, sous la forme de la political correctness, par exemple, fait paraître nos libres parleurs bien timides par rapport à Aristophane et à tous les citoyens grecs de la même époque.
Un passage du Mariage de Figaro de Beaumarchais, écrit il y a plus de deux siècles, nous donne une idée, par le biais de l’humour, de la réalité de cette nouvelle censure qui se présente sous le couvert de la Liberté:
On me dit que, pendant ma retraite économique, il s’est établi dans Madrid un système de liberté sur la vente des productions, qui s’étend même à celles de la presse; et que, pourvu que je ne parle en mes écrits ni de l’autorité, ni du culte, ni de la politique, ni de la morale, ni des gens en place, ni des corps en crédit, ni de l’opéra, ni des autres spectacles, ni de personne qui tienne à quelque chose, je puis tout imprimer librement, sous l’inspection de deux ou trois censeurs.
À la rectitude politique, s’ajoute, dans la plupart des médias, surtout parmi ceux dont la réussite financière dépend de quelques annonceurs, une auto-censure de survie qui devient vite une seconde nature. Il va de soi qu’il faut s’abstenir de donner une opinion éclairée sur le junk food dans une station de radio locale qui diffuse des annonces de telle chaîne alimentaire très connue. En s’accumulant, ces manquements véniels au devoir de vérité créent un climat tel que toute une région peut être au courant des injustices commises par un chef d’entreprise du lieu, alors même que les médias ont craint d’aborder le sujet.
Preuve que l’on peut dans un même Pays à la fois pousser trop loin la Liberté – quand elle est une occasion de profit ou de plaisir - et se montrer incapable de l’assumer, là où elle est un devoir.
Ne tenons jamais la Liberté d’expression pour acquise.
C’est le silence avilissant qu’il faut plutôt tenir pour acquis.
Comme nous le rappelle Fernand Dumont:
Les censeurs existent toujours, même s’ils ont changé de costume et si leur autorité se réclame d’autres justifications. Toutes les Sociétés, quels que soient leur forme et leur visage, mettent en scène des vérités et des idéaux et rejettent dans les coulisses ce qu’il est gênant d’éclairer. Toutes les sociétés pratiquent la censure; ce n’est pas parce que le temps de M. Duplessis est révolu que nous en voilà délivrés. Les clichés se sont renouvelés, mais il ne fait pas bon, pas plus aujourd’hui qu’autrefois, de s’attaquer à certains lieux communs. Il est des questions dont il n’est pas convenable de parler; il est des opinions qu’il est dangereux de contester. Là où il y a des privilèges, là aussi travaille la censure. Le blocage des institutions, le silence pudique sur les nouvelles formes de pauvreté et d’injustice s’expliquent sans doute par l’insuffisance des moyens mis en oeuvre, mais aussi par la dissimulation des intérêts. On n’atteint pas la lucidité sans effraction.
Il y a dans l’histoire de l’Homme un moment qui me bouleverse. C’est celui où les humains ont aligné leurs morts pour les enterrer. On n’a jamais vu les bêtes aligner les dépouilles des bêtes.
Les animaux se cachent pour mourir…
A partir du moment où les restes des défunts ne sont plus laissés là, mais soigneusement rangés, un nouvel âge commence: celui de l’Humanité.

Daniela Zini

I.            L’INFLAZIONE CONDANNO’ L’IMPERO ROMANO
La trasformazione del governo da repubblicano a monarchico comportò la necessità di subordinare l’economia alla politica. Roma fu investita dal caos monetario, che portò alla fine di un mondo e alla nascita di una nuova era.


“Quis custodiet ipsos custodes?”
Decimus Iunius Iuvenalis

di
Daniela Zini

A Roma non vi è più posto per un lavoro onesto,
non vi è compenso alle fatiche;
meno di ieri è ciò che oggi possiedi e a nulla
si ridurrà domani;
per questo ho deciso di andarmene
là dove Dedalo depose le sue ali stanche,
finché un accenno è la canizie,
aitante la prima vecchiaia
e a Lachesi resta ancora filo da torcere:
mi reggo bene sulle gambe
e senza appoggiarmi a un bastone:
giusto il tempo per lasciare la patria.
Artorio e Catulo ci vivano,
ci rimanga chi muta il nero in bianco,
chi si diverte ad appaltare case, fiumi e porti,
cloache da pulire, cadaveri da cremare
e vite da offrire all’incanto per diritto d’asta.
Un tempo suonavano il corno,
comparse fisse delle arene di provincia,
ciarlatani famosi di città in città;
ora offrono giochi
e quando la plebaglia abbassa il pollice
decretano la morte per ottenerne il favore;
poi, di ritorno, appaltano latrine.
E perché mai non altro?
Sono loro quelli che la fortuna,
quando è in vena di scherzi,
dal fango solleva ai massimi gradi.
Ma io a Roma che posso fare?
Non so mentire. Se un libro è mediocre
non ho la faccia di lodarlo o di citarlo;
non so nulla di astrologia;
non voglio e mi ripugna
pronosticare la morte di un padre;
non ho mai studiato le viscere di rana;
passare ad una sposa
bigliettini e profferte dell’amante
lo sanno fare altri,
e di un ladro mai sarò complice:
per questo nessuno mi vuole quando esco,
come se fossi un monco,
un essere inutile privo della destra.
Chi si apprezza oggi, se non un complice,
il cui animo in fiamme brucia di segreti,
che mai potrà svelare?
Niente crede di doverti e mai ti compenserà
chi ti fa parte di un segreto onesto;
ma a Verre sarà caro
chi sia in grado di accusarlo quando e come vuole.
Tutto l’oro che la sabbia del Tago ombroso
trascina in mare non vale il sonno perduto,
i regali che prendi e con stizza devi lasciare,
la diffidenza continua di un amico potente.
La gente che piú cerco di evitare,
quella amatissima dai nostri ricchi,
faccio presto a descriverla e senza riserve.
Una Roma ingrecata non posso soffrirla,
Quiriti; ma quanto vi sia di acheo in questa feccia
bisogna chiederselo. Ormai da tempo
l’Oronte di Siria sfocia nel Tevere
e con sé rovescia idiomi, costumi,
flautisti, arpe oblique, tamburelli esotici
e le sue ragazze costrette a battere nel circo.
Sotto voi! se vi piace una puttana forestiera
con la mitra tutta a colori!
Decimo Giunio Giovenale, Satire, Libro I, III


“La sicurezza della nostra città è scossa dalla malizia e dalla bassezza di pochi, che assalgono e depredano la comunità. Per causa loro la speculazione sul cambio delle monete è penetrata nel mercato e impedisce di assicurare l’approvvigionamento di quanto è necessario alla vita.”
Così suonava la parte finale di un decreto del municipio di Milasa, in Caria, nel 209 d.C., rivelando la preoccupazione che la borsa nera dei cambi mettesse in crisi le finanze cittadine, diminuendo gli introiti dei banchieri che, per concessione comunale, detenevano il monopolio del mercato delle valute.
“Le mie proprietà saranno messe sotto ipoteca?”;
“Saranno vendute all’asta?”;
“Diventerò mendicante?”;
“Dovrò prendere la fuga?”;
“La mia fuga sarà impedita?”;
“Dovrò fare l’ambasciatore?”, gli ambasciatori avevano a proprio carico tutte le spese e nessun onorario;
“Diverrò membro del consiglio municipale?”, all’epoca se il gettito fiscale della città era insufficiente, i membri più ricchi del consiglio dovevano sopperire di tasca loro;
“Riceverò il mio danaro?”
Queste le domande più frequenti rivolte a un oracolo egizio, alla fine del III secolo d.C., e conservateci su rotoli di papiri. Pochi anni prima, sempre in Egitto, a Ossirinco, nel 260 d.C., il terribile deprezzamento della moneta aveva indotto i cambiavalute a chiudere le loro banche e a rifiutare il cambio “della moneta dei divini Imperatori”. L’amministrazione locale ricorse alla coercizione e alla intimidazione, ordinando ai banchieri, sotto pena delle più gravi sanzioni, “di riaprire i loro sportelli e accettare e cambiare tutte le monete, salvo quelle assolutamente spurie e contraffatte”. Questi documenti danno la misura tangibile della crisi, in cui precipitò l’Impero Romano, nel III secolo d.C., e dalla quale uscì, completamente, trasformato: non più libertà di lavoro e di impresa, ma costrizione e asservimento alla terra e alle professioni; non più tentativi di conservare un equilibrio economico tra i ceti sociali, ma abbandono dei più deboli al loro destino e consolidamento, sempre maggiore, dei grandi potentati economici e fondiari.
La inflazione e la incapacità di mantenere una moneta che riscuotesse fiducia furono uno degli aspetti salienti di questa crisi. I motivi per cui si imboccò la china pericolosa del sistema fiduciario furono nobili e umanitari, le cause che impedirono, poi, di controllarlo e di regolarlo furono, in parte, imprevedibili; in parte, inerenti alla struttura stessa della società e dell’economia antica e, quindi, la loro soluzione fu inconciliabile con il mantenimento di quella struttura. Il caos monetario del III secolo d.C. si può ricollegare a tutto un indirizzo dell’azione del governo imperiale e, soprattutto, agli inconvenienti provocati dalla necessità di interpretare l’economia in funzione della politica.




[first lines]
Maximus: Lean and hungry. Still nothing?
Quintus: Not a sign.
Maximus: How long has he been gone?
Quintus: Nearly two hours.
Valerius: Will they fight sir?
Maximus: We shall know soon enough.


[addressing his troops]
Maximus: Fratres!
[cavalry addresses Maximus]
Maximus: Three weeks from now, I will be harvesting my crops. Imagine where you will be, and it will be so. Hold the line! Stay with me! If you find yourself alone, riding in the green fields with the sun on your face, do not be troubled. For you are in Elysium, and you’re already dead!
[cavalry laughs]
Maximus: Brothers, what we do in life echoes in eternity.

Questa esigenza era nata con l’Impero stesso, in altri termini, con la trasformazione del governo da repubblicano-oligarchico a monarchico-popolare. Le masse proletarie, addensatesi, durante la crisi sociale del II secolo a.C., avevano alimentato gli eserciti delle guerre civili tra Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio. Da queste guerre era nato il nuovo Stato imperiale, e, con la pace portata da Augusto, iniziò a risorgere e a irrobustirsi, tra i due poli del supercapitalismo e del pauperismo, il ceto medio, che traeva i suoi guadagni dal piccolo commercio e dalla piccola proprietà e, poi, in misura sempre crescente, dalle possibilità di impiego, offerte dall’amministrazione civile e militare. Base del potere monarchico era il favore delle classi medie che vi si appoggiavano, come una immensa clientela, e che ne erano, inoltre, il sostegno e la giustificazione.

[to Quintus before the battle with Germanian troops begins]
Maximus: Strength and Honor.
[gets on his horse and addresses Quintus again]
Maximus: At my signal, unleash hell.

Marcus Aurelius: You have proved your valor, yet again Maximus. Let us hope for the last time.
Maximus: There is no one left to fight, sire.
Marcus Aurelius: There is always someone left to fight. How can I reward Rome’s greatest general?
Maximus: Let me go home.
Marcus Aurelius: Ah, home.

Per poter svolgere la politica di appoggio ai ceti medi e di progressiva promozione sociale, che a questi si richiedeva, e per sottrarsi, il più possibile, a dipendenze e limitazioni di qualsiasi genere, gli imperatori, chi più chi meno, aumentarono, progressivamente, la concentrazione dei beni economici nelle loro mani. Questo fenomeno, unitamente all’accrescimento delle funzioni che la amministrazione statale andava assumendosi, fece aumentare, considerevolmente, il numero dei dipendenti pubblici; mentre, in misura eguale, aumentavano i dipendenti, schiavi o liberi salariati, delle vastissime proprietà del demanio imperiale. 


Marcus Aurelius: Tell me again, Maximus, why are we here?
Maximus: For the glory of the Empire, sire.

Vennero, così, a delinearsi due blocchi sociali, naturalmente contrastanti: da un lato, lo Stato imperiale e le sue proprietà con la enorme massa dei dipendenti militari e amministrativi, tra i quali vanno considerati, per molte ragioni, anche quei considerevoli gruppi di popolazione civile, legati da interessi economici al demanio statale o ai contingenti dell’esercito di stanza nelle province; dall’altro, la proprietà privata, che non era soltanto rappresentata dai grandi latifondisti della cosiddetta classe senatoria, ma da tutti coloro che, economicamente, non erano legati alla attività dello Stato e ai quali, tuttavia, lo Stato, con la sua organizzazione, permetteva di vivere e di prosperare. Questa massa era rappresentata dal latifondo privato e dai suoi dipendenti, ma soprattutto dalla vastissima borghesia cittadina, a base terriera e commerciale, che popolava le città dell’Impero.   


Marcus Aurelius: There is one more duty that I ask of you before you go home.
Maximus: What would you have me do Caesar?
Marcus Aurelius: I want you to become the protector of Rome after I die. I will empower you to one end alone, to give power back to the people of Rome and end the corruption that has crippled it.
[Maximus looks amazed and sad]
Marcus Aurelius: Do you accept this great honor that I have offered you?
Maximus: With all my heart, no.
Marcus Aurelius: Maximus, that is why it must be you.

A mano a mano che lo Stato sottraeva qualcosa alla economia privata, diminuivano le entrate fiscali, giacché lo Stato non poteva tassare se stesso, e si rendeva necessaria la applicazione di un sistema di tassazione più gravoso; mentre il meccanismo della produzione accentrata, pur dando vistosi risultati apparenti, impoveriva lentamente la amministrazione per la necessità politica di mettere le merci in distribuzione, senza tenere conto dei costi reali. Tutti questi problemi creavano enormi difficoltà finanziarie, che si ripercuotevano sulla stabilità della moneta. Il sistema monetario romano era un sistema bimetallico con una moneta d’oro, chiamata aureus, e una moneta d’argento, chiamata denarius, più alcune monete divisionali [da cambio], in rame, di cui la più comune era il sestertius, 1/4 di denarius. Stabilire un rapporto con il valore attuale della moneta o un potere di acquisto è pressoché impossibile. Rifarsi al valore dei metalli è ingannevole perché, allora, l’oro aveva un potere di acquisto molto superiore a quello attuale e l’argento ancora di più. Oggi, infatti, l’argento costa 0,457 euro al grammo e l’oro 31,299 euro, quindi per avere un grammo d’oro ci vogliono circa 68 grammi di argento [1:68], al tempo di Augusto, invece, per avere un grammo di oro erano sufficienti 12 grammi di argento, il rapporto oro argento nel sistema monetario era 1:12. Al valore attuale del metallo un aureus del periodo augusteo, 8 grammi, costerebbe 250,392 euro e un denarius, 4 grammi, appena 1,828 euro, ma 250 denarii era la paga annuale di un soldato delle legioni, e poco più di mezzo denarius costava una misura di 8 litri di frumento, equivalente al consumo settimanale di due persone. Il potere di acquisto dei metalli, oro e argento, era, tuttavia, superiore a quello attuale. Otteniamo, quindi, un valore più vicino al vero se paragoniamo i 250 denarii di un legionario dell’era augustea allo stipendio odierno di un ufficiale dei ranghi bassi dell’esercito, dato che la carriera militare era privilegiata e ben pagata. Tenendo conto di questi rapporti, ai quali ci atterremo in tutta la successiva esposizione, appaiono strabilianti le cifre degli stipendi annui – a proposito di giungla retributiva! – dei funzionari dello Stato, da 10mila denarii, per i dirigenti di rango minore, a 75mila denarii e oltre per i massimi prefetti e procuratori.


Lucilla: What did my father want with you?
Maximus: To wish me well before I leave for home.
Lucilla: You’re lying, I could always tell when you were lying because you were never any good at it.
Maximus: I never acquired your comfort with it.
Lucilla: True, but then you never had to, life is more simple for a soldier. Or do you think me heartless?
Maximus: I think you have a talent for survival.


[seeing his daughter Lucilla spying in through the slit in the tent wall]
Marcus Aurelius: If only you had been born a man, what a Caesar you would have made.
Lucilla: Father.
[kisses him on his cheeks]
Marcus Aurelius: You would have been strong. I wonder, would you have been just?
Lucilla: I would have been what you taught me to be.

La grande massa della popolazione era, naturalmente, lontana da queste cifre e, probabilmente, si aggirava su livelli inferiori alla paga del militare di carriera, la cui condizione era, già, considerata invidiabile. In seguito all’aumento del costo della vita, la paga dei militari salì a 300 denarii, verso la fine del I secolo d.C., e a 350, verso la fine del II d.C. Uno scriba municipale, stenografo, prendeva, verso la fine del II secolo d.C., un po’ meno di un legionario, vale a dire 300 denari annui, mentre un lavoratore delle miniere, con un contratto a termine di sei mesi, datato 164 d.C., e conservatoci da una iscrizione della Dacia [Romania], prendeva per 130 giornate lavorative previste, 70 denarii più il mantenimento, calcolabile in 15 denarii al mese.
Per ottenere la carica di consigliere municipale era necessario possedere un patrimonio minimo di 100mila sestertii, patrimonio che, investito in operazioni bancarie, poteva rendere fino al 12%, tasso previsto da documenti dell’epoca di Marco Aurelio per prestiti a breve scadenza. Questa entità patrimoniale, che costituiva un minimo per ottenere un certo rango sociale e le cariche corrispondenti, era per lo più superata, ma costituisce un punto di riferimento per stabilire la ricchezza e il reddito medio della borghesia municipale. Molto più elevato era il patrimonio minimo richiesto a un cavaliere per entrare nell’amministrazione dello Stato o a un senatore per rivestire impieghi di governo. La maggior parte dei senatori e dei cavalieri erano infinitamente ricchi, come si può agevolmente vedere dai costi di opere pubbliche costruite a loro spese e donate alle loro città di origine, – Plinio il Giovane, a esempio, donò al municipio di Como una biblioteca del costo di milioni di euro –. Si vede agevolmente che un salariato medio o anche un militare, che, già, poteva contare, oltre allo stipendio, su frequenti donativi di considerevole entità – molte centinaia di denarii per donativo, fino ai 5mila denarii, con cui furono gratificati i pretoriani, all’inizio dell’Impero di Marco Aurelio, –, solo, in casi eccezionali, poteva tesaurizzare moneta aurea. Le gratifiche dei militari si traducevano, per lo più, in acquisto di poderi e, anche se conservate in denaro, non permettevano una grande accumulazione di capitale. Il lavoratore medio, probabilmente, non era, mai, in grado di tradurre in oro i suoi risparmi, se non in misura minima. L’oro era, invece, la moneta tipica degli alti salariati e dei grandi proprietari. Moneta d’oro e moneta d’argento acquistano una connotazione sociale e i loro rapporti interni al sistema monetario si fanno difficili e delicati.
Nemini tamen nihil satis est. Concupiui negotiari. Ne multis uos morer, quinque naues aedificaui, oneraui uinum - et tunc erat contra aurum - misi Romam. Putares me hoc iussisse: omnes naues naufragarunt. Factum, non fabula. Vno die Nepturnus trecenties sestertium deuorauit. Putatis me defecisse? Non mehercules mi haec iactura gusti fuit, tanquam nihil facti. Altera feci maiores et meliores et feliciores, ut nemo non me uirum fortem diceret. Scis, magna nauis magnam fortitudinem habet. Oneraui rursus uinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia. Hoc loco Fortunata rem piam fecit: omne enim aurum suum, omnia uestimenta uendidit et mi centum aureos in manu posuit. Hoc fuit peculii mei fermentum. Cito fit quod di uolunt. Vno cursu centies sestertium corrotundaui. Statim redemi fundos omnes, qui patroni mei fuerant. Aedifico domum, uenalicia coemo, iumenta; quicquid tangebam, crescebat tanquam fauus. Postquam coepi plus habere quam tota patria mea habet, manum de tabula: sustuli me de negotiatione et coepi libertos fenerare.[1]


Marcus Aurelius: Are you ready to do your duty for Rome?
Commodus: Yes, father.
Marcus Aurelius: You will not be emperor.
Commodus: Which wiser, older man is to take my place?
Marcus Aurelius: My powers will pass to Maximus, to hold in trust until the Senate is ready to rule once more. Rome is to be a republic again.
Commodus: Maximus?
Marcus Aurelius: Yes.
[Marcus moves his hand to touch Commodus’ face and Commodus turns away]
Marcus Aurelius: My decision disappoints you?
Commodus: You wrote to me once, listing the four chief virtues: Wisdom, justice, fortitude and temperance. As I read the list, I knew I had none of them. But I have other virtues, father. Ambition. That can be a virtue when it drives us to excel. Resourcefulness, courage, perhaps not on the battlefield, but... there are many forms of courage. Devotion, to my family, to you. But none of my virtues were on your list. Even then it was as if you didn’t want me for your son.
Marcus Aurelius: Oh, Commodus. You go too far.
Commodus: I search the faces of the gods... for ways to please you, to make you proud. One kind word, one full hug... where you pressed me to your chest and held me tight. Would have been like the sun on my heart for a thousand years. What is it in me that you hate so much?
Marcus Aurelius: Shh, Commodus.
Commodus: All I’ve ever wanted was to live up to you, Caesar. Father.
Marcus Aurelius: Commodus...
[he kneels in front of him]
Marcus Aurelius: ... your faults as a son is my failure as a father. Come...
[holds his arms out to Commodus and they embrace, Commodus begins to cry]
Commodus: Father. I would have butcher the whole world... if you would only love me!
[Commodus begins to asphyxiate Marcus whilst embracing him]

Innanzitutto, la saldezza del sistema stesso era indebolita dalla difficoltà di mantenere una relazione fissa tra oro e argento, nonostante le fluttuazioni del mercato. In secondo luogo, bisognava trovare un equilibrio tra la domanda e l’emissione di mezzi monetari. Con i mezzi di allora non era facile, se non impossibile, valutare la necessità di moneta richiesta dalla congiuntura economica. Le tendenze degli esperti romani erano contrastanti e ambedue nocive: da un lato, si pensava che immettendo sul mercato una grande quantità di moneta si potesse creare euforia economica e stimolare gli investimenti, senza tenere conto, se non a fatti avvenuti, che ciò provocava un immediato rialzo dei prezzi e uno svilimento delle quotazioni del metallo; dall’altro lato, si preferiva contrarre le emissioni, per evitare la inflazione, ma ciò rendeva il valore nominale inferiore al valore reale, provocava l’aumento del costo del danaro, la contrazione dei commerci e il fallimento a catena delle imprese. Tipico, a questo proposito, il caso verificatosi, durante il principato di Tiberio, convinto assertore della teoria restrittiva: l’aumento dei tassi di interesse e la stagnazione dei prezzi portarono sull’orlo del fallimento migliaia di medi imprenditori indebitati con il grande capitale e per evitare il peggio, l’imperatore fu costretto a mettere a disposizione delle banche pubbliche l’ingente somma di 100 milioni di sesterzi da prestare a privati, dietro garanzie fondiarie o immobiliari.

 
  

Da Augusto a Nerone [54 d.C.-68 d.C.] l’oro e l’argento aumentarono di prezzo, perché la passività della bilancia dei pagamenti impoveriva le scorte. Si manifestò, quindi, una tendenza a diminuire il peso dell’aureus e del denarius oppure a ridurne il contenuto argenteo. Nerone, trovatosi nella necessità di operare una scelta, che rispecchiasse le tendenze politiche e sociali del governo, agì in difesa delle classi medie, con una grande riforma monetaria, che dominò, per 133 anni, la storia dell’Impero; ma che lo pose in contrasto insanabile con la oligarchia senatoria, la quale, di là a quattro anni, giunse a rovesciarlo dal potere. Nel 64 d.C., modificò il rapporto tra le monete: mentre, prima di lui, un aureus di 8 grammi si acquistava con 25 denarii d’argento di 4 grammi di ottima lega, dopo la riforma, un aureus di 7,40 grammi si otteneva con 25 denarii d’argento di soli 3,25 grammi, per di più in lega al 10%. Il rapporto tra oro e argento passò, pertanto, da 1:12 a 1:10. Mettendo in circolazione dei nuovi denarii con la medesima capacità di acquisto dei precedenti, ma con peso e titoli inferiori, Nerone andava decisamente controcorrente. Sopravvalutava l’argento e obbligava a vendere sottocosto un oro che manifestava, invece, una costante tendenza al rincaro e allo sganciamento dalle parità fissate con l’argento. La possibilità di riuscita stava tutta nella capacità da parte dello Stato di garantire, per 25 monete d’argento svalutato, un aureus di peso costante. In tal modo, Nerone aiutava la piccola borghesia, detentrice del denarius, i salariati e le truppe pagate in moneta d’argento; mentre si inimicava i grandi latifondisti, detentori di oro, i quali si allarmarono e divennero nemici giurati di Nerone, proprio a causa di questa sua difesa dell’argento a danno dell’oro.


[Commodus enters the Colesseum arena to greet the Spaniard]
Commodus: Rise. Rise.
[Maximus stands up, clenching an arrow head in his right hand and in that same moment Lucius runs to join Commodus standing in front of him]
Commodus: Your fame is well deserved, Spaniard. I don’t think there’s ever been a gladiator to match you. As for this young man, he insists you are Hector reborn. Or was it Hercules? Why doesn’t the hero reveal himself and tell us all your real name? You do have a name?
Maximus: My name is Gladiator.
[turns away from Commodus]
Commodus: How dare you show your back to me! Slave, you will remove your helmet and tell me your name.
[Maximus removes his helmet and turns around to face Commodus]
Maximus: My name is Maximus Decimus Meridius. Commander of the Armies of the North, General of the Felix Legions, loyal servant to the true emperor, Marcus Aurelius. Father to a murdered son, husband to a murdered wife. And I will have my vengeance, in this life or the next.
[Commodus is clearly in shock and without words]
Quintus: Arms!

La vecchia moneta di maggior peso scomparve in gran parte dalla circolazione, tesaurizzata o ritirata dallo Stato per le transazioni sui mercati esteri, che avvenivano sulla base del peso effettivo e del contenuto metallico. A questo proposito bisogna ricordare, come ho, già, detto, che la bilancia commerciale era passiva per le fortissime spese di acquisto di generi di lusso, provenienti specialmente dall’Oriente, Persia, India e Cina, attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e le vie carovaniere della Siria e dell’Arabia. Per queste vie avveniva un drenaggio continuo di moneta pregiata – 25 milioni di denarii all’anno, nell’età di Vespasiano – flusso, cui non si era in grado di porre rimedio, nonostante la legislazione fiscale che colpiva, fortemente, i generi voluttuari.     
La riforma di Nerone significava anche l’abbandono del sistema bimetallico. L’oro e l’argento non venivano più considerati due valori indipendenti e, per mantenere il loro rapporto di cambio, il secondo veniva ancorato al primo con la garanzia dello Stato. Era l’embrione di un sistema fiduciario e l’inizio di un pericoloso sistema di risparmio per i governi in deficit. Con l’Impero di Traiano [98-117 d.C.], un militare di grande prestigio e di origine provinciale spagnola, acquistano maggiore rilevanza politica le classi medio-borghesi dell’Occidente e dell’Oriente. Il problema sociale del mantenere un equilibrio tra il grande capitale senatorio e le borghesie provinciali, si traduce in un problema economico che imponeva la conservazione dell’equilibrio neroniano tra l’emissione di aurei e l’emissione di denarii

[after winning the battle with Tigris in the arena Maximus is about to exit the arena when the Praetorian enter and encircle him as Commodus enters the arena and approaches Maximus]
Commodus: What am I going to do with you, you simply won’t...die. Are we so different, you and I? You take life when you have to, as I do.
[Maximus stares at him]
Maximus: I have only one more life to take, then it is done.
Commodus: Take it now.
[Maximus turns to walk away]
Commodus: They tell me your son...
[Maximus stops and slowly turns to face him]
Commodus: ... squealed like a girl when they nailed him to the cross. And your wife, moaned like a whore when they ravaged her again, and again, and again.
Maximus: The time for honouring yourself will soon be at an end.
[bows his head]
Maximus: Highness.

Questo equilibrio era compromesso dalla passività della bilancia commerciale con l’Oriente, sui cui mercati gran parte delle transazioni avvenivano in oro. Il rincaro del metallo induceva sfiducia nelle possibilità dello Stato di mantenere a lungo il cambio ufficiale. Gli speculatori puntavano sulla rivalutazione dell’oro. I militari e i funzionari, raccomandati, cercavano di avere lo stipendio pagato in moneta d’oro. I Germani, ci informa Tacito, rifiutavano il denarius, e, semmai, accettavano solo quello che era stato coniato antecedentemente a Nerone.


Lucilla: There are some politicians who have dedicated their lives to Rome. One man above all. If I can arrange it, will you meet him?
Maximus: Do you not understand? I may die in this cell tonight or in the arena tomorrow. I am a slave! What possible difference can I make?
Lucilla: This man wants what you want.
Maximus: Then have HIM kill Commodus!
Lucilla: I knew a man once. A noble man. A man of principle, who loved my father and my father loved him. This man served Rome well.
Maximus: That man is gone. Your brother did his work well.
Lucilla: Let me help you.
Maximus: [lowering his voice] Yes. You can help me. Forget you ever knew me. Never come here again. Guard! The lady has finished with me.
[Lucilla’s eyes slightly tear as she stands helplessly, staring at Maximus]

 
Traiano doveva cercare una soluzione che lo mettesse in grado di aumentare, considerevolmente, le riserve auree del tesoro; una soluzione che deprimesse il prezzo dell’oro a favore dell’argento, consentendo il mantenimento delle parità stabilite da Nerone e facendo dimenticare il continuo peggioramento della lega del denarius. La via di uscita fu offerta dalla spedizione contro i Daci, che rese i Romani padroni dell’odierna Romania con le sue miniere d’oro e con le enormi riserve di metallo prezioso del re Decebalo. 
[Proximo brings Lucilla to Maximus’ cell]
Proximo: Congratulations, General. You’ve got very persuasive friends.
Lucilla: My brother’s had Gracchus arrested. We daren’t wait any longer. We must leave tonight. Proximo will come at midnight and take you to the gate. Your servant, Cicero will be waiting there with horses.
Maximus: You have done all this?
Lucilla: Yes.
Maximus: You risk too much.
Lucilla: I have much to pay for.
[Maximus shakes his head]
Maximus: You have nothing to pay for. You love your son, you are strong for him.
Lucilla: I am tired of being strong. My brother hates all the world and you most of all.
Maximus: Because your father chose me.
Lucilla: No, because my father loved you...And because I loved you.
Maximus: A long time ago.
[Maximus tenderly takes her hand and kisses it]
Lucilla: Was I very different then?
[shakes his head, gently stroking her face]
Maximus: You laughed more.
Lucilla: I have felt alone all my life, except with you. I must go.
Maximus: Yes.
[they exchange a long tender kiss]

Conquistando, poi, l’Arabia Petrea, Traiano pose sotto controllo le principali vie di commercio con l’Oriente, garantendosi, se non altro, un cospicuo prelievo fiscale che compensava della fuoruscita di metallo prezioso. Così, Traiano ristabilì la fiducia, provocò un effettivo abbassamento del prezzo dell’oro – che fu, abilmente, sfruttato per ridurre, ulteriormente, il fino del denarius – ribadì l’immagine di un potere centrale sollecito del benessere dei ceti medi e difensore della loro moneta.
I maggiori impegni militari, tuttavia, resero sempre più dura la pressione fiscale, che colpiva, soprattutto, quei ceti medi che si volevano proteggere con la politica monetaria. Riprese, così, vigore una lenta, ma inesorabile ascesa dei prezzi, direttamente proporzionale alla diminuzione del contenuto argenteo del denarius. I cambi rimanevano stabili, perché si aveva, ancora, fiducia nell’autorità e nella solvibilità dello Stato, ma i prezzi delle merci, computati in argento – l’oro serviva solo per le grandi transazioni, assimilabili a trasferimenti patrimoniali – salivano, falciando il reddito delle classi basse e medie. Si ricorse ai calmieri, ottenendo solo l’effetto di far sparire le merci dal mercato e di spingere verso l’economia naturale. I tassi di interesse iniziarono a fluttuare pericolosamente, provocando il fallimento degli operatori bancari, tra i quali lo stesso papa Callisto, che gestiva una banca. I salari iniziarono a essere instabili. La paga dei legionari, che era aumentata di soli cento denari, in quasi due secoli, passò da 350 a 500 denari, tra il 198 e il 217 d.C.


[in the Gladiator cells Maximus meets with Lucilla who has arranged for him to meet with one of the senators]
Gracchus: General. I hope my coming here today is evidence enough that you can trust me.
Maximus: The Senate is with you?
Gracchus: The Senate? Yes, I can speak for them.
Maximus: You can buy my freedom and smuggle me out of Rome? Gracchus: To what end?
Maximus: Get me outside the city walls. Have fresh horses ready to take me to Ostia. My army is in camp there. By nightfall of the second day I shall return at the head of 5,000 men.
Lucilla: But the legion all have new commanders, Loyal to Commodus.
Maximus: Let my men see me alive and you shall see where their loyalties lie.
Gracchus: This is madness. No Roman army has entered the capital in a 100 years. I will not trade one dictatorship for another.
Maximus: The time for half measures and talk is over, Senator.
Gracchus: And after your glorious coup, what then? You’ll take your 5,000 warriors and leave?
Maximus: I will leave. The soldiers will stay for your protection, under the command of the Senate.
Gracchus: So, once all of Rome is yours, you’ll just give it back to the people. Tell me why?
Maximus: Because that was the last wish of a dying man.
[He turns back to Gracchus]
Maximus: I will kill Commodus, the fate of Rome, I leave to you.
Gracchus: Marcus Aurelius trusted you. His daughter trusts you. I will trust you. But we have little time. Give me two days and I will buy your freedom. And you, you stay alive. Or I will be dead. Now I must go.


Maximus: Quintus, free my men. Senator Gracchus is to be reinstated. There was a dream that was Rome, it shall be realized. These are the wishes of Marcus Aurelius.
Settimio Severo [198-211 d.C.] dovette cavalcare la tigre: cercò di seguire la linea ascensionale del tasso di inflazione con un corrispondente deprezzamento della moneta d’argento, che con lui perviene al 50% di contenuto metallico; cercò, come abbiamo visto dal decreto ricordato all’inizio, di esercitare un severo controllo sui cambi e sulla borsa nera. Ma era naturale che si trovasse, sempre, qualcuno che, sfidando i rigori delle leggi, fosse disposto a dare per un aureus non i 25 denarii ufficiali, ma molti di più. Settimio Severo cercò, anche, di seguire l’esempio di Traiano, procurandosi notevoli riserve auree, con la confisca dei maggiori patrimoni privati dei suoi oppositori politici e con fortunate imprese militari. Con la sua azione riuscì a mantenere una sufficiente fiducia nello Stato, quale garante dei cambi, ma non riuscì a frenare l’inflazione perché, sotto di lui, la spesa pubblica raggiunse proporzioni mai viste.
Il crollo avvenne sotto il regno di suo figlio, Caracalla, il quale ebbe la malaugurata idea di abbandonare il sistema neroniano e di tentare una nuova riforma monetaria, con conseguenze disastrose. Caracalla, per riportare i cambi a un livello più accettabile, decise di fare un aureus meno pesante di grammi 6,50, distruggendo quello che era stato, fino a quel momento, il cardine intoccabile su cui, nonostante tutto, continuava a reggersi il sistema fiduciario. Inoltre, tentò di ripetere il vecchio sistema del risparmio sulla moneta d’argento, ma non sul vecchio denarius, temendo di creare eccessiva sfiducia, bensì su una nuova moneta, l’antoninianus, che, ufficialmente valeva due denarii, ma che conteneva meno argento di due vecchi denarii. Anche se la correzione era minima – si passava da un rapporto 1:5,5 a 1:4,8 – l’effetto psicologico fu enorme: si distruggeva la fiducia, che la gente comune continuava a nutrire nella capacità del governo. I pessimisti avevano ragione: infatti, di là a poco, l’oro cessò di essere coniato regolarmente, e si tenne in serbo per distribuirlo ai soldati, la cui fedeltà era più che mai necessaria.


[his last lines]
Maximus: [to Lucilla] Lucius is safe.

In questo periodo divenne palese l’intrinseca debolezza del sistema economico. In un mondo di scarsa produttività, in cui era remunerato più il capitale che il lavoro, in cui lo Stato aveva un bilancio modesto, specialmente se paragonato all’entità di molte fortune private, in cui il benessere economico dei ceti medi era legato, soprattutto, alle possibilità di circolazione della moneta per i medi e i piccoli commerci, in cui la pressione fiscale non si esercitava sul patrimonio né sul reddito, ma sulla terra e sulle persone – oltre che, in misura molto bassa, sui commerci e sulle eredità – il governo centrale aveva scelto di aumentare le proprie prerogative e le proprie competenze in misura abnorme. Andando incontro a ingenti spese di propaganda e di “beneficenza”, unilateralmente distribuite, il governo aveva scelto di colpire il grande capitale, di tanto in tanto e come accadeva, per procurarsi mezzi di sussistenza, ma non impedendone la formazione né favorendo, realmente, una ridistribuzione della ricchezza. Aveva sottovalutato il costo della enorme macchina della produzione dello Stato, costo che si ripercuoteva in perdite continue anche se difficilmente rilevabili.



Il peso fiscale di questa enorme organizzazione era mal distribuito e colpiva, soprattutto, i ceti medi provinciali e municipali. Le domande che i cittadini egizi rivolgevano al loro oracolo, verso la fine del III secolo d.C., sono una chiara testimonianza del clima psicologico del tempo. Pochi anni più tardi, Lattanzio, nel De mortibus persecutorum, noterà che, essendo, ormai, divenuto maggiore il numero delle persone che ricevevano dallo Stato rispetto a quelle che davano i coloni, gli agricoltori e i lavoratori in genere, oppressi dall’enormità delle tasse erano costretti a fuggire e ad abbandonare i campi e gli oggetti del loro lavoro, provocando un enorme declino della produttività agricola e industriale.  


[Lucilla stands and turns to Senator Gracchus and the crowd in the Colosseum]
Lucilla: Is Rome worth one good man’s life? We believed it once. Make us believe it again. He was a soldier of Rome. Honor him.
Gracchus: Who will help me carry him?




[last lines; Juba buries the figurines belonging to Maximus where Maximus died]
Juba: Now we are free. I will see you again. But not yet, not yet...

Il ritorno al passato, vale a dire a una economia libera e relativamente prospera e feconda di iniziative, era impossibile perché la struttura economica antica non produceva sufficiente ricchezza: il benessere dei primi due secoli era stato un fenomeno passeggero e artificiale. Il governo doveva scegliere tra il ritorno al passato, la difesa della civiltà borghese classica, o il suo abbandono. Questa scelta economica, come vedremo, andò di pari passo con una scelta ideologica. Aureliano e dopo di lui, Diocleziano, optarono per la difesa del passato, per la difesa dei ceti medi e della borghesia, sia pure con concessioni alle necessità del momento e per la difesa della civiltà classica, paganesimo compreso. Il passaggio dall’Antichità al Medioevo è segnato dal fallimento del sistema monetario di Diocleziano e dalla riforma di Costantino, fatta a spese dei pagani – anche per Costantino la religione è un instrumentum regni e il suo volgersi al cristianesimo non fu disinteressato -. Diocleziano tentò di conciliare l’impossibile, la fondazione di un buon sistema monetario con un aureus di grammi 5,45 – con lui riprendono, regolarmente, le coniazioni auree – e un argenteus di grammi 3,41 in buona lega, coesistente con il corso forzoso di una moneta di rame argentato di valore intrinseco bassissimo. Questa moneta, la moneta dei poveri, doveva nelle intenzioni dell’imperatore essere difesa a oltranza, doveva appoggiarsi ed essere garantita dalle altre due monete buone. Questa era la moneta dei bottegai, dei calzolai, degli operai, di quelli che i romani chiamavano i “vilia ac minuta commercia” – il commercio minuto –. Il rapporto argento-rame era 1:100, Diocleziano voleva che la sua moneta divisionale fosse accettata con un rapporto 1:20. A questa moneta pretendeva si desse credito, all’interno dell’Impero, garantendo i cambi in argento e in oro e comminando pene severissime a chi cercava di speculare. I produttori e i detentori del capitale si rifiutarono di vendere o di fornire danaro a chi presentava questa moneta. Diocleziano reagì, emettendo il famoso editto sui prezzi, in gran parte conservato, e la sua difesa del passato si spinse fino al tentativo di colpire a morte le comunità cristiane, divenute ricchissime e i cui interessi si identificavano ormai con gran parte del grande capitale senatorio.



Costantino tirò le conclusioni dal fallimento di questa riforma e fu disposto a sacrificare le classi medie che Diocleziano aveva, tenacemente, cercato di difendere. Se si voleva un sistema monetario solido bisognava abbandonare il corso forzoso e ritornare al valore di mercato dei metalli, abbandonare i detentori di moneta divisionale al loro destino e accettare un mondo diviso in privilegiati latifondisti – l’embrione dei futuri signori feudali e sottoproletari, ridotti in condizioni di semi servitù, divenuti cioè, come si diceva in celtico, “vassi” dei ricchi –.
Costantino conia un solidus aureo di 4 grammi – rimasto invariato per tutto il periodo bizantino fino al 1200 – e adegua la restante moneta secondo il valore metallico reale; per fare questo si procura le riserve auree, riconoscendo il cristianesimo e saccheggiando i tesori dei templi pagani. I prezzi, calcolati in moneta aurea, si stabilizzano; calcolati in moneta divisionale salgono vertiginosamente, condannando alla miseria una vasta parte della popolazione – si moltiplicano per 20, negli anni che corrono tra il 301, epoca dell’editto di Diocleziano, e la riforma del 315 –. È un crollo spaventoso, mai il mondo romano aveva visto qualcosa di così grave.


L’inflazione e il deprezzamento della moneta d’argento del secolo precedente dipendevano dal goffo tentativo di equiparare il contenuto argenteo con l’aumento dei prezzi, era una gara di furbizia tra lo Stato e gli speculatori. I possessori di denarii, sia pure con scarso successo, erano garantiti e difesi, i creditori potevano pagare con moneta svalutata, la politica monetaria, sia pure instabile, mostrava preoccupazioni sociali, tentava di evitare il collasso. Il realismo costantiniano non ha di queste preoccupazioni e abbandona tranquillamente la difesa della convertibilità della moneta divisionale.
  


Un autore anonimo di qualche decennio posteriore a Costantino, esortando l’imperatore a porre un freno alle terribili conseguenze della riforma costantiniana, ne dà una lucida descrizione:
“Fu Costantino che con una dissennata politica monetaria, al posto del bronzo, che una volta aveva un alto valore nominale, diede l’oro come moneta per i commerci minuti. L’avidità e l’accaparamento cui assistiamo si ritiene abbia avuto origine di là. La grande masa d’oro e d’argento e di pietre preziose riposta da tempi antichissimi nei santuari [pagani] fu buttata in pasto al pubblico e accese l’istinto collettivo di possedere e di spendere […] Da questa massa d’oro furono riempite soltanto le case private dei potenti, divenute ancora più splendide per la rovina dei poveri, e le classi basse furono naturalmente oppresse con violenza. Ma la diseredata povertà […] affidò la sua vendetta al crimine e colpì di gravi sciagure l’Impero devastando i campi, turbando la quiete con scorrerie e rapine, infiammando gli odii, e procedendo, gradualmente, suscitò alla fine tiranni e usurpatori.”


Daniela Zini
Copyright © 31 luglio 2014 ADZ   

Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?


[1] Titus Petronius Niger, Satyricon, LXXVI.