BETTER WORLD
CHILDREN PROJECT
START WITH THE CHILDREN,
STAY WITH THE CHILDREN!
“The world is a dangerous
place, not because of those who do evil, but because of those who look on and
do nothing.”
Albert Einstein
a Giovanni Sarubbi,
direttore de Il Dialogo, alla redazione tutta e a me
La problematica
della messa a morte del proprio Figlio è universale. Così l’infanticidio
appartiene ai miti e alla mitologia, ai racconti biblici e alla letteratura come
lo dimostrano Saturno, Abramo e Pot-Bouille.
Facciamo sentire la
nostra voce e immaginiamo un Mondo migliore per i Bambini.
Un Sogno che si
sogna da soli è, forse, un Sogno, ma un Sogno che più persone sognano insieme è
una Realtà.
Buon Anno!
D
Sapevate
che, in Europa, 1 BAMBINO su 5 è vittima di violenza sessuale?
Sapevate
che, nel 70-85% dei casi, l’autore della violenza sessuale è qualcuno che il
BAMBINO conosce o di cui ha fiducia?
Sapevate
che, nel 90% dei casi, la violenza sessuale non è denunciata alle autorità?
Sapevate,
infine, che, il 29 novembre 2010, il Consiglio d’Europa, nel quadro del
programma “COSTRUIRE UNA EUROPA PER E CON
I BAMBINI”, ha lanciato una vasta
campagna di sensibilizzazione, per promuovere misure giuridiche, educative e di
altro tipo, destinate a combattere ogni forma di violenza sessuale compiuta su
un BAMBINO, simbolicamente, chiamata 1 su
5?
Questo
BAMBINO è depositario di un terribile segreto.
Questo
BAMBINO è smarrito.
Noi
possiamo essere colei o colui che ascolterà e aiuterà questo BAMBINO.
DONNE IN DIVENIRE
sostiene che un mondo senza violenza è una necessità imperativa per l’avvenire
della UMANITÀ. In quanto proiezione di questo avvenire, il BAMBINO ha diritto a
una protezione particolare contro ogni forma di violenza, nella sua evoluzione.
Per una società in preda alla miseria crescente e alla povertà antropologica,
il BAMBINO è sempre più considerato una fonte di reddito, ciò ha per effetto di
favorire e rafforzare la spirale della tratta dei BAMBINI a fini di
sfruttamento sessuale.
Daniela Zini
fondatrice e
portavoce di DONNE IN DIVENIRE
GESU’ E
I FANCIULLI
di
Daniela Zini
I
BAMBINI GIUDICANO I LORO GENITORI
PEDOFILIA
L’INFANZIA
NEGATA E VIOLATA
I. CHE
COSA SI INTENDE PER PEDOFILIA?
di
Daniela Zini
PEDOFILIA
L’INFANZIA
NEGATA E VIOLATA
II.
PEDOFILIA E COMPLESSO DI EDIPO
di
Daniela Zini
PEDOFILIA
L’INFANZIA
NEGATA E VIOLATA
III.
PEDOFILIA E TURISMO SESSUALE
di
Daniela Zini
PEDOFILIA
L’INFANZIA
NEGATA E VIOLATA
IV. LETTERA APERTA A UN BASTARDO
PEDOCRIMINALE
di
Daniela Zini
PEDOFILIA
L’INFANZIA
NEGATA E VIOLATA
V.
STUPRARE UN BAMBINO!
CHI
FAREBBE UNA COSA SIMILE?
di Daniela
Zini
Pour Toi
Daniela Zini
Au début j’étais amoureuse
De la splendeur de tes yeux,
De ton sourire,
De ta joie de vivre.
Maintenant j’aime aussi tes larmes
Ta peur de vivre
Et le désarroi
Dans tes yeux.
Mais contre la peur
Je t’aiderai,
Car ma joie de vivre
Est encore la splendeur des tes yeux.
Cari Ragazzi,
Voi siete gli animatori delle nostre
case, delle nostre aule, nel mondo intero…
Sì, ho pensato, subito, a Voi, perché
Voi siete sensibili e attenti al dolore e alle sofferenze di quei Ragazzi che,
in questo stesso momento, sono, in strada, gli occhi impauriti, pieni di
dolore, in cerca della loro famiglia, di un segno di vita e di un senso di
tutto ciò che accade loro.
Io mi rivolgo a Voi perché Voi siete
generosi, capaci di gesti coraggiosi.
La gatta ama i suoi piccoli. Ma non li
distingue più, una volta che sono divenuti adulti. Invece, nel corso del suo
cammino, l’uomo è, costantemente, obbligato a scegliere.
Può decidere di far mangiare, prima di
lui, la persona che ama.
Mi piace ripetere questa frase:
“L’uomo è l’immagine di Dio.”
Alcuni ci scherzano su, rispondendo:
“Beh, allora Dio non è molto bello!”
Ma io paragono l’uomo a Dio come il
sigillo che viene impresso nella cera. Non conosco il timbro, forse, non lo
vedrò mai, ma se osservo, con attenzione, me stessa in profondità, scopro l’infinito.
L’uomo è immagine di Dio in negativo, perché tutto ciò che grida in lui, tutto
ciò che tende a superare la legge naturale, che è soggetta a istinti brutali,
rappresenta una scelta.
Non esiste la generosità istintiva.
Se non esistesse nel cosmo quella
piccola nullità che è l’uomo, dotato della libertà che gli permette o di
raccogliere, da egoista, tutto ciò che trova, anche a scapito degli Altri, o di
sforzarsi di aiutare il prossimo a condurre una vita migliore; se non vi
fossero gli esseri umani, che non sono altro che polvere infinitesimale del
cosmo, l’universo nella sua totalità sarebbe assurdo.
E questo che cosa significa?
Se la libertà non fosse in grado di
sprigionarsi in qualche momento cruciale – quel momento che io chiamo attenzione
– la vita sarebbe assurda…
Io Vi domando di trasmettere questo messaggio
alle Vostre famiglie, alle persone del Vostro quartiere, alla Vostra scuola,
affinché la catena di solidarietà cresca nel mondo intero e divenga un segno di
speranza e di amore concreto.
Io sono sicura che il Vostro cuore Vi
suggerirà le parole per fare delle Vostre case, delle Vostre scuole, luoghi di
solidarietà.
Restiamo uniti con tutti i Ragazzi del
mondo e tra noi: l’unione fa la forza!
Vi ringrazio di cuore.
Crediate in tutto il mio affetto.
Daniela Zini
INFANTICIDIO
di
Daniela
Zini
La rarità dell’infanticidio nella nostra
epoca, allorché molto diffuso fino al XIX secolo, lo fa apparire, agli occhi
dei contemporanei, un crimine sconcertante e inspiegabile.
La prima reazione è di sorpresa:
“Come
una madre può uccidere il proprio figlio se non è folle?”
Ma la maggioranza delle madri infanticide
non lo è.
Come scrive Michèle Benhaim, questo atto è
talmente inaccettabile che si preferisce pensarlo folle…
Nel 1910, Sigmund Freud, nel
suo saggio Su un tipo particolare di
scelta oggettuale nell’uomo, che doveva essere il punto di partenza
per le speculazioni di Otto Rank, ci offre una pista per comprendere questa
difficoltà di elaborazione:
“La
nascita è il primo di tutti i pericoli che la vita riserva, il prototipo di
tutti i pericoli successivi che temiamo, e l’esperienza della nascita lascia
dietro di sé il suo marchio su quella espressione emotiva che chiamiamo
angoscia.”
Questo reportage
nasce dal desiderio di trovare, forse, un senso a questo atto insensato, che, dal
mito antico di Euripide ai nostri giorni, ha attraversato tutte le culture.
Nelle nostre società occidentali, che si ostinano
a bandire la morte dalla realtà quotidiana, la morte di un bambino è incocepibile.
L’assassinio di un bambino da parte della
propria madre è inimmaginabile.
Medea, archetipo del mostro, suscita
orrore.
Questo crimine così particolare, in cui la
madre “sceglie” di uccidere il proprio figlio solleva molteplici domande.
Noi ci interesseremo delle madri
infanticide per far emergere il legame di filiazione inerente a questo atto.
Solo gli infanticidi saranno presi in
considerazione in questo lavoro; le altre forme di minaccia alla vita o alla
salute del bambino ne saranno esclusi: sindrome di Münchhausen per
procura [MSP], sindrome del bambino picchiato, maltrattamenti…
È il passaggio all’atto criminale che ci
interroga.
Alla domanda:
“Come
una madre può essere indotta a uccidere il proprio bambino?”,
tenteremo di dare una risposta.
L’infanticidio sarà, innanzitutto, considerato
nelle sue dimensioni socio-culturale, storica e giuridica.
Gli esempi di infanticidio sono innumerevoli
nella mitologia e Medea è, forse, la donna infanticida più conosciuta, a volte descritta
come una donna abbandonata e prostrata, a volte descri
tta come una donna
vendicativa.
La dimensione simbolica sarà evocata grazie
al sacrificio di Isacco.
Lo spaccato storico metterà in luce il
posto preponderante dato al bambino nella nostra società occidentale, spiegando,
in parte, l’evoluzione della Giustizia, che condanna, sempre più, le madri
infanticide.
La questione della follia deve essere
affrontata ed esporremo nei dettagli, dunque, l’infanticidio patologico.
Poi, basandoci su casi clinici, ci proveremo
a far emergere le ipotesi psicopatologiche su questo passaggio all’atto
criminale, in cui il legame di filiazione tiene un posto centrale.
Questo tentativo di comprensione ci porterà
a scoprire prospettive di cura.
I. Infanticidio:
definizione
Francisco Goya [1746-1828] - Saturno che
divora suo figlio [1819-1823]
Museo
del Prado, Madrid
Etimologicamente, il termine infanticidio
significa omicidio di un bambino [infans
= colui che non parla e caedere =
uccidere] e non specifica il legame di parentela tra l’omicida e la vittima.
Rimane, tuttavia, molto usato per designare l’omicidio di un bambino da parte
di un genitore.
Gli
storici del diritto sono, ormai, concordi nel ritenere che, nel mondo greco-romano,
prevalesse l’atteggiamento di considerare i figli una proprietà dei genitori, i
quali potevano disporre anche della loro vita. Non è senza importanza che il
termine infanticidium non si ritrovi
nel latino classico e sia attestato solo a partire dal II secolo d.C.
“Non i cristiani meritano di
essere accusati di infanticidio e di pasti nefandi, ma essi, i pagani.
Altrettanto dicasi dell’incesto.”
Quinto
Settimio Fiorente Tertulliano di Cartagine,
Apologetico
In
Italia, il percorso di elaborazione di tale reato, prima di approdare al testo
definitivo del 1889, fu lungo e tortuoso.
Per il
diritto, l’infanticidio non designava l’uccisione di un bambino in genere, o
per la precisione, di colui che non sapeva parlare, ma di un neonato. Tanto
bastava a differenziare l’infanticidio dal figlicidio e dall’aborto, oltre che
dal comune omicidio.
È utile rammentare che,
con l’unità d’Italia, si era resa necessaria l’uniformazione normativa penale.
Il nostro Paese si presentava, infatti, con il dualismo normativo espresso dai
codici sardo-piemontese
e toscano,
che riassumevano ed esprimevano le diverse istanze e concezioni, che avevano
attraversato la scienza e la legislazione italiana del XIX secolo.
In una prima fase, si
estese il codice penale sardo-piemontese al Regno d’Italia, a eccezione del territorio
dell’ex-Granducato di Toscana, ove rimase in vigore il codice penale del 1853.
Nel 1868, iniziarono
i lavori, proseguiti per trenta anni e svolti da nove diverse commissioni, per
la preparazione di un codice penale unitario. La discussione dell’epoca intorno
alla stesura del testo del delitto di infanticidio fu molto accesa, soprattutto
in relazione alla mitigazione della pena rispetto all’omicidio volontario.
Nel 1889, dopo una
lunga serie di progetti preliminari [se ne contano nove] fu emanato il primo
codice penale unitario, il codice Zanardelli,
che rimase in vigore fino all’avvento del codice Rocco,
nel 1930.
E, così, al termine
di questa lunga gestazione, si delineò l’articolo 369:
“Quando
il delitto preveduto dall’articolo 364 [omicidio
volontario, ndr] sia commesso sopra la persona di un infante
non ancora inscritto nei registri dello stato civile e nei primi cinque giorni
dalla nascita, per salvare l’onore proprio, della moglie, della sorella, della
discendente o della figlia adottiva, la pena è della reclusione da tre a dodici
anni.”,
rispetto alla reclusione da diciotto a ventuno anni per l’omicidio
semplice e da ventidue a ventiquattro o finanche l’ergastolo nell’ipotesi in
cui i due soggetti fossero legati da particolari vincoli di parentela o di
sangue [articoli 364-366].
L’articolo non fa
menzione del requisito dell’illegittimità della prole, che era, invece,
considerato un elemento costitutivo del reato nella maggior parte dei codici
preunitari e in alcuni progetti di revisione del codice penale.
Il codice penale del 1889 attenuava, di fatto,
la colpa di infanticidio, considerandolo meno grave dell’omicidio, commesso “per
salvare il proprio onore” o per “evitare sovrastanti sevizie”.
L’infanticida per eccellenza era, infatti, la
madre, o meglio la madre cosiddetta illegittima.
Il codice Zanardelli rappresenta un
significativo esempio di quella tendenza della società del XIX secolo a
considerare le cause d’onore come il principale movente dell’infanticidio. In
questo senso, il trattamento sanzionatorio privilegiato veniva giustificato dal
fatto che un così grave delitto potesse essere commesso sotto l’impulso di un
“nobile” motivo, quello di tutelare il proprio onore e quello della propria
famiglia.
Con il codice Rocco, l’infanticidio per causa
d’onore, che il codice Zanardelli disciplinava come ipotesi attenuata di
omicidio, viene, espressamente, configurato come titolo speciale di reato. L’attenuante
non era solo per le madri, ma per chiunque, per motivi di onore, uccidesse un
neonato.
L’articolo 578 del codice penale del 1930
recitava:
“Chiunque cagiona la morte di un neonato
immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare
l’onore proprio o di un prossimo congiunto, è punito con la reclusione da tre a
dieci anni.
Alla stessa pena soggiacciono coloro che
concorrono nel fatto al solo scopo di favorire talune delle persone indicate
nella disposizione precedente. In ogni caso, a coloro che concorrono nel fatto
si applica la reclusione non inferiore a dieci anni.
Non si applicano le aggravanti stabilite
nell’art. 61.”
La situazione viene modificata con l’articolo 1
della legge n. 442 del 5 agosto 1981 [http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1981-08-05;442],
quando la causa d’onore viene abolita da tutti i reati che la contemplavano e si
torna a identificare nella madre la principale agente dell’infanticidio, senza
più attribuzioni di maternità illegittima, oltre alla considerazione del gesto
in “condizioni
di abbandono materiale e morale”.
Oggi,
chiaramente, si vive nel rispetto della infanzia, tuttavia, la cultura del
bambino, con molta difficoltà, riesce ad affermarsi. Giuridicamente parlando,
qualcosa viene fatto attraverso le norme per tutelare l’infanzia e, ciò nonostante,
viviamo, continuamente, episodi cruenti di violenza e di morte. Nel nostro codice
penale gli articoli 575
e 578
sono solo un piccolo passo avanti, ma significativo rispetto al passato.
Dal
1880 al 1883, in
Italia, furono registrati, in media, ogni anno, 30 casi di figlicidio. Dal 1906
al 1911, i casi di figlicidio salirono a 47, fino a giungere a 75, nel decennio
dal 1950 al 1959. Dal 1978, con l’entrata in vigore della legge sulla
interruzione volontaria di gravidanza, si riscontrò un rapidissimo calo.
L’infanticidio
si distingue dal libericidio che riguarda i bambini con almeno tre giorni di
vita, termine coniato dal latino liberi
= bambini di condizione libera
e da caedere.
Lo
psichiatra americano Phillip J. Resnick, nel suo articolo princeps del 1969, introduce nuovi termini più precisi: il
neonaticidio che corrisponde all’omicidio del neonato di meno di 24 ore, per lo
più a opera delle madri, e il figlicidio che corrisponde all’omicidio del
proprio figlio di più di 24 ore, dal latino filius
= figlio e caedere. Si distingue il
figlicidio precoce, che concerne i bambini tra le 24 ore di vita e un anno, e
il figlicidio tardivo per i bambini di più di un anno.
Il
figlicidio implica, ineluttabilmente, un legame di filiazione tra l’omicida e
la vittima.
Il
termine neonaticidio è stato ripreso tale e quale dallo psichiatra spagnolo Julian
de Ajuriaguerra, nell’edizione del 1977 del suo Trattato di psichiatria del bambino.
Delle
diversità esistono tra figlicidio e neonaticidio: il primo è un crimine dei due
genitori e non un crimine esclusivamente materno, non concerne egualmente i due
sessi e il maschio è, il più sovente, vittima [ratio tra 1,5 e 1,8, secondo gli studi]. Le turbe psichiatriche nei
genitori sono più frequenti nel figlicidio, quando le turbe mentali nella madre
non sarebbero che del 20% nel neonaticidio.
Questo reportage si atterrà al figlicidio,
perché è il legame di filiazione in questi crimini che ci interroga e, più
particolarmente, alle madri figlicide.
Nonostante
tutte le definizioni più precise summenzionate, il termine infanticidio resta
il più usato e il più inquietante.
Utilizzeremo,
pertanto, il termine infanticidio nel suo senso letterario “omicidio di un
bambino”, come termine di filiazione e non nel senso ritenuto dalla Giustizia.
Daniela Zini
Copyright © 27 dicembre 2014 ADZ
I Romani attribuivano a una potenza
occulta e soprannaturale i fatti che non potevano spiegare. È ciò che fecero
per l’incendio a Roma: se ne attribuì la causa ai sortilegi dei
cristiani. E, egualmente, dopo Nerone, per giustificare la severità esercitata
contro di loro. Si consideravano naturae
totius inimici. Si adduceva a pretesto, ad
odii defensionem, secondo Tertulliano, che i cristiani fossero la causa di
tutte le calamità pubbliche: se il Tevere straripava, se il Nilo inondava le
campagne, se la terra tremava, se la carestia o la peste devastavano una
provincia, si gridava subito: i cristiani ai leoni. Non deve, dunque, stupirci
se Tacito chiamasse la nuova religione exitiabilis
superstitio. Tertulliano affermava, altresì, che si credesse che i
cristiani praticassero il “rito dell’infanticidio”: ogni nuovo adepto doveva
condurre ai misteri cristiani un bambino da sacrificare durante la cerimonia,
le cui carni erano, in seguito, consumate.
Gli Sciti
e alcuni Popoli del Ponto e dell’India suscitavano l’indignazione dei Greci per
la loro consumazione di carne umana. Attribuire, dunque, l’antropofagia ai
cristiani respingeva la loro fede fuori del quadro di civiltà in cui il
cristianesimo si sviluppava.
Il codice penale sardo-piemontese del 1859 non era
molto indulgente. Infatti, all’articolo 571 definiva l’infanticidio:
“L’omicidio
volontario di un infante di recente nato è qualificato infanticidio.”,
riprendendo la definizione di nouveau
né del codice penale francese del 1801. E stabiliva
all’articolo 577 che “i colpevoli
dei crimini […] di infanticidio […] sono puniti colla morte”, ma con la
specificazione [articolo 579] secondo cui “la pena dell’infanticidio potrà essere
diminuita di uno o di due gradi riguardo alla madre che lo abbia commesso sulla
prole illegittima, quando concorrano circostanze attenuanti”. In altri
termini, l’infanticidio era un omicidio qualificato punito al pari del parricidio, del venefizio
e dell’assassinio. La pena poteva
essere diminuita fino a dieci anni di lavori forzati nei confronti della madre
che avesse soppresso la prole illegittima. Non vi è, dunque, una menzione
specifica della causa d’onore che, con ogni probabilità, era presunta in ogni
caso di concepimento illegittimo, senza tuttavia imporre automatismi
applicativi [si noti l’utilizzo dell’espressione “potrà
essere diminuita”], potendo darsi il caso di uccisione di infante
legittimamente concepito, non dettata dalla necessità di salvare il proprio
onore.
Il codice toscano del 1853 era, certamente,
all’avanguardia nella codificazione dell’epoca. Per quanto riguarda
l’infanticidio, l’articolo 316 ne dava definizione nei seguenti termini:
“Quella donna che nel tempo del parto o poco
dopo di esso ha dolosamente cagionato la morte della sua prole illegittimamente
concepita, è rea d’infanticidio”.
Era prevista una graduazione dettagliata che
comprendeva la forma colposa [articolo 320, con previsione di una pena ridotta,
da due mesi a un anno] oltre a quella dolosa. Rispetto a quest’ultima [si
osservi che la causa d’onore non era prevista tra i requisiti del delitto], la
graduazione della pena era in funzione del momento in cui la donna avesse preso
la decisione di uccidere il neonato, vale a dire se prima o dopo l’inizio del
travaglio di parto [articolo 317: la pena maggiore da 10 a 15 anni di “casa di
forza” se prima, altrimenti da 5
a 10 anni]. L’articolo 318 prevedeva una riduzione di
pena nel caso in cui l’infanticidio fosse “… stato commesso per evitare sovrastanti
sevizie …”, riprendendo la graduazione dell’articolo 317 in riferimento al
momento di inizio del travaglio di parto [rispettivamente, 5-10 anni e 3-7
anni]. Evidentemente, tale previsione includeva anche le conseguenze sociali di
una gravidanza illegittima. Infine, l’articolo 319 prevedeva una ulteriore
diminuzione della pena per il caso della prole nata non vitale [nel caso
dell’infanticidio doloso, reclusione da 6 mesi a 2 anni].
Il codice penale, noto come codice Rocco
dal nome del suo principale estensore, il ministro di grazia e giustizia del
governo Mussolini, Alfredo Rocco, è una delle fonti del diritto penale italiano
vigente, unitamente alla Costituzione e alle Leggi Speciali.
“Articolo
575. Omicidio. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione
non inferiore ad anni ventuno.”