“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 28 aprile 2016

EN CONTINU : la France secouée par de violentes manifestations contre la Loi Travail

EN CONTINU : la France secouée par de violentes manifestations contre la Loi Travail: Déterminés à obtenir le retrait d'un texte qu'ils jugent «inacceptable», sept syndicats de salariés et d'étudiants vont manifester ce jeudi à Paris et en régions pour la quatrième fois en deux mois. Près de 200 villes françaises sont concernées.

Chaika. An investigative documentary by the Anti-Corruption Foundation

Alexei Navalny: 'Putin is the Tsar of corruption' - BBC Newsnight

lunedì 25 aprile 2016

comunicato stampa: CONFERENZA-DIBATTITO IN MEMORIA DI ANNA POLITKOVSKAJA ODRADEK LA LIBRERIA 7 OTTOBRE 2016 ORE 17.00 a cura di Daniela Zini



COMUNICATO STAMPA
Silenzio, si uccide. Motore, azione, chk!

Anna POLITKOVSKAJA
7 ottobre 2006 - 7 ottobre 2016








“Le parole possono salvare delle vite.”
Anna POLITKOVSKAJA

Il principio della libertà di informazione, sul quale si pronuncia, il 4 dicembre 1963, lo stesso Concilio Vaticano II, con un decreto sugli strumenti di comunicazione sociale, Inter Mirifica [http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19631204_inter-mirifica_it.html], approvato con 1960 voti favorevoli e 164 contrari e promulgato da papa Paolo VI, viene sancito, il 26 agosto 1789, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino [http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm]:
Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.” [articolo 10]
La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può, dunque, parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.” [articolo 11]
Questo principio ha una consacrazione internazionale nella Conferenza interamericana sui problemi della guerra e la pace, che si svolge a Città del Messico, dal 21 febbraio all’8 marzo del 1945, e che adotta una risoluzione nota con il nome di Atto di Chapultepec, in cui si afferma che “nessuna società può essere libera senza libertà di espressione e di stampa” e che l’esercizio di questa libertà non è garantito “dalle autorità politiche, ma è un inalienabile diritto popolare”; quindi, nella Dichiarazione universale dei diritti umani [http://www.ohchr.org/en/udhr/pages/language.aspx?langid=itn], adottata, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che all’articolo 19 recita:
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
Il 12 novembre 1997, durante la Conferenza Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, riunitasi, a Parigi, dal 21 ottobre al 12 novembre 1997, viene adottata la Risoluzione 29 sulla condanna della violenza contro i giornalisti, che mira a sensibilizzare i governi e le organizzazioni internazionali e regionali a questo riguardo e tenta, dunque, di combattere la cultura della impunità. Nei due terzi dei casi, infatti, gli assassini non sono neppure identificati. In molti Paesi, l’assassinio è divenuto il mezzo più facile, più economico e più efficace per far tacere i giornalisti “scomodi”. E più gli assassini se ne tirano fuori, più si accelera la spirale della morte.
Il 23 dicembre 2006, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta la Risoluzione 1738 sugli attacchi ai giornalisti, ai professionisti dei mezzi di informazione e al personale associato nei conflitti armati [http://www.un.org/News/Press/docs/2006/sc8929.doc.htm].
Il 3 maggio 2007, al termine della Conferenza Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, promossa in occasione della Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, è adottata la Dichiarazione di Medellin per migliorare la sicurezza dei giornalisti e punire i crimini contro di loro [http://www.unesco.it/stampa/comunicati_stampa_2007/Comunicato%20Stampa%20026%202007%20Sicurezza%20giornalisti.doc]. Una necessità che chiama in causa tutti, come ricorda Reporters sans Frontières:
“I regimi più repressivi possono facilmente disporre della libertà di espressione e dei suoi sostenitori. Le organizzazioni non governative sono messe al bando o cacciate fuori proprio da quei Paesi in cui ve ne sarebbe più bisogno. Le principali istituzioni internazionali possono protestare, minacciare sanzioni, denunciare la situazione ai più alti livelli, senza ottenere alcun risultato.”
Non sono senza colpa gli Stati occidentali, che condannano la mancanza di libertà in Paesi in via di sviluppo; ma, in nome di interessi economici, non mostrano pari determinazione con Paesi critici, quali la Russia o la Cina. La dichiarazione esprime preoccupazione per gli attacchi alle voci della stampa libera e invita gli Stati a dare attuazione agli impegni precedentemente espressi, a livello internazionale, attraverso l’adozione delle Risoluzioni 29 e 1738.
Il 12 marzo 2008, Reporters sans Frontières indice la prima Giornata Mondiale per la libertà di espressione on-line, allo scopo di denunciare la censura dei governi sulla rete.
L’11 gennaio dello scorso anno, per esprimere solidarietà alle vittime dell’attacco terroristico contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo, in cui sono morte 12 persone e 11 sono rimaste ferite, [https://www.youtube.com/watch?v=7HI07y0TkBA], si era riversata nelle strade di Parigi una folla oceanica di oltre 2 milioni di manifestanti – oltre 3 milioni e mezzo in tutta la Francia –. Tra i 44 capi di Stato e di governo che marciavano, quel giorno, al fianco dei francesi vi erano leaders che non possono essere, innegabilmente, considerati dei campioni della libertà di espressione:
Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele;
Ibrahim Boubacar Keita, presidente del Mali;
Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese;
Mohammed Ismail Al-Sheikh, ambasciatore dell’Arabia Saudita in Francia;
Ahmet Davutoglu, primo ministro della Turchia;
Sameh Hassan Shoukry, ministro degli affari esteri dell’Egitto;
Ramtane Lamamra, ministro degli affari esteri dell’Algeria;
Sergej Viktorovic Lavrov, ministro degli affari esteri della Russia;
Viktor Mihaly Orban, primo ministro dell’Ungheria;
re ‘Abd Allah II ibn al-Husayn di Giordania;
Antonis Samaras, primo ministro della Grecia;
Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti;
Mehdi Jomaa, primo ministro della Tunisia;
Giorgi Kvirikashvili, primo ministro della Georgia;
Bojko Metodiev Borisov, primo ministro della Bulgaria;
Enda Kenny, primo ministro dell’Irlanda;
Miro Cerar, primo ministro della Slovenia;
David William Donald Cameron, primo ministro del Regno Unito;
Ewa Kopacz, primo ministro della Polonia;
Eric Holder, ministro della giustizia degli Stati Uniti d’America;
Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO;
Non esattamente i migliori amici dei giornalisti!
“E perché non Bashar al Assad?”,
Una figura migliore l’ha fatta il ministro degli affari esteri del Marocco, Salaheddine Mezouar, venuto a Parigi per presentare le condoglianze a François Hollande e, poi, rifiutatosi di partecipare alla marcia.
L’indomani, si leggeva nel comunicato di Reporters sans Frontières:
“Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a Parigi in omaggio a un giornale che ha, sempre, difeso la concezione più alta della libertà di espressione?”
L’ONG ricordava che l’Egitto, la Russia, la Turchia, l’Algeria e gli Emirati Arabi Uniti erano, rispettivamente, al 159°, 148°, 154°, 121° e 118° posto su 180 Paesi nella classifica mondiale sulla libertà di stampa [http://rsf.org/en/ranking/2015].
“Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hebdo senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo.”,
sintetizzava il segretario generale di Reporters sans Frontières, Christophe Deloire.
I giornalisti uccisi nel corso del 2015 sono 69, 8 in più rispetto al 2014. È quanto emerge dal rapporto annuale presentato, a New York, dal Committee to Protect Journalists[CPJ] [https://cpj.org/killed/2015/, https://cpj.org/reports/], che riporta anche la morte di 25 giornalisti in circostanze ancora da chiarire e la morte di 3 operatori di media.
Secondo l’organizzazione Reporters sans Frontières, che ha pubblicato, il 29 dicembre scorso, la sua relazione annuale, sono stati, sicuramente, uccisi, nel 2015, 67 giornalisti contro i 66 del 2014, 27 citizen journalists e 7 collaboratori di media di vario genere. In realtà, i giornalisti uccisi sono 110, ma solo per 67 è stato dimostrato che l’assassinio va messo in relazione con la loro professione:
“In 43 casi le circostanze della morte restano indeterminate, perché non ci sono state inchieste imparziali e approfondite. E per la cattiva volontà degli Stati di fare giustizia.”
Per questa ragione, Reporters sans Frontières ha chiesto la nomina, “senza perdere tempo ulteriore, di un rappresentante speciale per la protezione dei giornalisti presso il segretario generale dell’ONU”.
In testa ai Paesi più colpiti, figurano l’Iraq e la Siria, seguiti dalla Francia, lo Yemen, il Sudan del Sud, l’India, il Messico e le Filippine.
Dal 2005, sono stati uccisi, almeno, 787 giornalisti.
Le parole sono armi e possono uccidere  o meglio condannare a morte.
E lo hanno confermato, il 7 ottobre 2006, in pieno centro di Mosca.
Anna Politkovskaja è stata abbattuta, esattamente 10 anni fa, il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Il suo corpo veniva ritrovato, alle 17.10, da una vicina, nell’ascensore del suo stabile, in via Lesnaja, nel centro di Mosca. Accanto al suo cadavere, la polizia rinveniva una pistola Makarov 9 mm. – una pistola in dotazione all’Armata Rossa e al KGB – e quattro bossoli. Anna Politkovskaja era la ventunesima giornalista assassinata in Russia dall’elezione di Vladimir Putin, nel 2000.  Anna Politkovskaja si apprestava a pubblicare, sulla Novaja Gazeta, l’8 ottobre, un articolo sulla pratica della tortura in Cecenia, che implicava direttamente Ramzan Kadyrov, primo ministro ceceno, nominato dal presidente Vladimir Putin. La sua tomba è un foglio bianco crivellato da cinque colpi di pistola. Il martedì 10 ottobre, nel cimitero Troekurovskij di Mosca, migliaia di persone sfilavano davanti alla sua bara. Erano, soprattutto, gente comune. Erano state, egualmente, presenti alcune grandi figure dell’opposizione, quali Boris Nemtsov, ucciso, il 27 febbraio 2015, da ignoti sicari a pochi passi dalla piazza Rossa a Mosca [http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/03/02/chi-ha-ucciso-boris-nemtsov] e Grigori Iavlinski. Ma per rappresentare il governo, non vi erano stati che alcuni uomini sconosciuti del ministero della cultura. La fronte della giornalista era celata da una benda bianca. L’assassino, che aveva esploso contro di lei quattro colpi di pistola in rapida successione, per assicurarsi di aver abbattuto il bersaglio, aveva sparato il colpo di grazia alla nuca. Con lei, moriva, per molti, la speranza che la Russia potesse liberarsi dai fantasmi del passato e divenire una grande democrazia rispettosa dei diritti umani.
“Non è sorprendente… Noi siamo tornati là dove eravamo sotto il regime comunista, quando il potere disprezzava l’individuo e le sue libertà.”,
era insorto, dalla massa degli anonimi, Khassan Satobayev, un russo che è fuggito dalla Cecenia, nel 1995, dopo l’inizio della prima guerra.
“La maggioranza della gente continua a fare quello che dice loro il capo. Ci hanno dato, certo, la libertà. Ma non abbiamo appreso a usarla. Guardate la nostra televisione… Vi sono sesso, risate e birra. Ma non vi è informazione!”
Khassan Satobayev non conosceva personalmente Anna Politkovskaja. Ma, leggeva, regolarmente, i suoi articoli su Internet.
Quello stesso 10 ottobre, a Dresda, Vladimir Putin, che era rimasto in silenzio dopo l’assassinio, rilasciava questa dichiarazione sibillina:
“Questa persona aveva un atteggiamento critico nei confronti delle autorità, ma è giusto che voi sappiate che lei non aveva alcuna influenza sulla politica russa. Era conosciuta solo nell’ambiente dei giornalisti, nelle organizzazioni per i diritti umani e in Occidente, ma ripeto: la sua influenza sulla vita politica del nostro Paese era minima.”
La politica [in russo политика, si legge politica], Anna Politkovskaja l’aveva piombata”, perfino, nel suo stesso cognome, ed è contro quella, invadente, di Vladimir Putin, che aveva deciso di lottare.
L’attivista russo Ildar Dadin, condannato, il 7 dicembre scorso, da un tribunale di Mosca a 3 anni di reclusione per aver “ripetutamente” violato la legge sulle manifestazioni [http://it.rbth.com/politica/2013/05/01/putin_al_primo_anno_del_terzo_mandato_23867], con “picchetti solitari” o proteste non autorizzate contro la guerra in Ucraina, sulla morte di Anna Poltkovskaja ha scritto:
Assassinio dimostrativo: uccisa il giorno del compleanno di Putin. In Russia, nel mondo del business e della politica, è tradizionale, per il compleanno di una persona, offrirle in dono la morte del suo oppositore o avversario principale.
Triste reatà!
E la lista dei giornalisti russi uccisi si allunga tristemente.
Chi ha interesse a imbavagliare la stampa russa?
Il potere, gli oligarchi, la mafia, gli oppositori?
Nessuno ha la risposta, le inchieste giudiziarie non approdano, mai, a nulla in Russia. Se i sicari vengono, talvolta, arestati, i responsabili di questo genocidio non sono mai identificati.
Anna lo sapeva!
Nei suoi scritti invocava la necessità di rendere i giudici indipendenti e la polizia più efficace.
La giustizia russa non è solo ingiusta, è assassina.
La giustizia russa non è solo dipendente dal potere, è serva.
La giustizia russa non è solo marcia, è fetida.
La giustizia russa spinge i dissidenti a fuggire, come l’ex-campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, che ha ottenuto la nazionalità croata, nel 2014.
Ma, talvolta, lasciare la Russia non basta.
Il 23 novembre 2006, moriva, a Londra, l’ex-agente dei servizi segreti russi Alexandr Val’terovic Litvinenko [http://www.theguardian.com/world/live/2016/jan/21/inquiry-into-the-death-of-alexander-litvinenko-live-updates], a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, un isotopo radioattivo del polonio, in circostanze poco chiare. Prima di morire, tuttavia, in luglio Alexandr Val’terovic Litvinenko aveva accusato, pubblicamente, il presidente russo Vladimir Putin di essere il responsabile del suo avvelenamento e il mandante dell’omicidio di Anna Poltkovskaja, e pubblicato on-line su Zakayev's Chechenpress [http://alt-f4.org/img/chechen-2006-07-05.html].
Il 23 marzo 2013, viene trovato morto nella sua residenza, nei pressi di Londra, il miliardario sessantasettenne Boris Berezovski
Suicidio, assassinio?
La polizia britannica parla di un “decesso dovuto a cause non note”
La sicurezza dei giornalisti è essenziale alla difesa del diritto dei cittadini ad accedere a informazioni affidabili e del diritto dei giornalisti a darle senza pregiudizio alcuno per la propria sicurezza. Gli Stati e le Società devono creare e mantenere le condizioni necessarie perché questi diritti fondamentali siano esercitati da tutti. E, quando i crimini contro i giornalisti restano impuniti, si può dubitare dell’impegno degli Stati a difendere le libertà fondamentali e a imporre la supremazia del diritto. Di conseguenza, gli Stati devono adottare una posizione ferma per impedire gli assassiniidei giornalisti e assicurare gli autori dei crimini alla Giustizia.
Joseph Paul Goebbels, l’uomo della propaganda nazista, è stato il primo politico a comprendere il potere della informazione  e della propaganda e a utilizzarlo per la costruzione del Terzo Reich. Sosteneva:
“La propaganda è un’arte, non importa se questa racconti la verità.”
 e suggeriva:
“Ripetete una menzogna cento, mille, un milione di volte e diverrà una verità.”
Controllare la stampa, gestire l’opinione pubblica, modificare il pensiero della società attraverso i media… ecco come si costruisce una menzogna, che, dopo una brevissima gestazione, inizia a vivere di vita propria e diviene verità. Con l’avvento, nelle democrazie contemporanee, di una vita politica imperniata sui media, noi osserviamo due movimenti contraddittori: i media al servizio dei politici e viceversa. È, dunque, necessario interrogarsi sul potere dei media e la sua influenza sulla vita democratica.
La libertà di parola e di stampa sono garantite in Italia dalla Costituzione:  
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'Autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
[articolo 21]

E, tuttavia, il mondo dell’informazione italiana, da anni, al centro di profonde trasformazioni, è influenzato dalla presenza di forti potentati consolidati da intrecci politici ed economici.
La mancanza di indipendenza dei media viene alla ribalta, a livello internazionale, nella classifica sulla libertà di stampa, redatta da Freedom House. L’Italia, infatti, scivolata, nel 2003, dal 53° posto al 74°, frana rovinosamente, l’anno successivo, al 77° posto ed entra nel gruppo dei Paesi “parzialmente liberi”, unica anomalia dell’Europa Occidentale [https://freedomhouse.org/country/italy]. All’origine del declassamento, l’indiscutibile conflitto di interessi e l’altrettanto indiscutibile concentrazione di proprietà dei media, che gravano sulla Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, il quale, attraverso proprietà familiari e potere politico sui networks televisivi di Stato, controlla il 90% della informazione. Ad aggravare la situazione anche la Legge 3 maggio 2004, n.112, meglio nota come Legge Gasparri [http://www.rai.it/dl/docs/[1232099039939]LeggeGasparri.pdf], pesantemente criticata a livello internazionale come “un pericolo per l’indipendenza della televisione pubblica e una minaccia al pluralismo della informazione”, a dispetto di ogni regola antitrust.
Lo scorso 20 aprile, è apparsa la classifica di Reporters sans Frontières sulla libertà di stampa su un totale di 180 Paesi.
In questa classifica, l’Italia è crollata di quattro posizioni, scendendo dal 73° posto del 2015 al 77°, tra i Paesi della terza fascia [le fasce, in totale, sono 5], al cui interno la condizione della informazione è giudicata “problematica”, preceduta dal Lesotho, l’Armenia, il Nicaragua e la Moldova e seguita dal Benin e la Guinea Bissau [http://rsf.org/ranking].

“La vera libertà di stampa è dire alla gente
ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire.”
George Orwell


Daniela Zini
fondatrice e portavoce di DONNE in DIVENIRE

sabato 16 aprile 2016

Pier Paolo Pasolini, Io so, Corriere della Sera, 14 novembre 1974

COMUNICATO

Decisamente, riuscite a farmi sentire in colpa...
Il 15 maggio del 1871, Arthur Rimbaud inviava all'amico Paul Demeny la cosiddetta Lettre du Voyant. Questa lettera, scritta, appassionatamente, da un Rimbaud appena sedicenne, costituisce un elemento fondamentale nell'opera e nel pensiero del Poeta, e viene considerata il primo vero manifesto delle correnti simboliste e surrealiste e dei movimenti d'avanguardia letteraria che sarebbero germogliati di là a poco. La missiva è un urlo trionfante e feroce con cui Rimbaud investe il Poeta della funzione di Profeta, di Veggente che ha la missione di guidare gli uomini sulla strada dell'Avvenire.
Una missione che faceva dire, 41 anni fa, il 14 novembre 1974, a Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera:
"Io so"
Il Poeta deve la propria lucidità soprannaturale alla capacità di coltivare sistematicamente le sensazioni, alla sregolatezza di tutti i sensi, e diventa Veggente grazie alla malattia, alla droga, al delitto, coltivando in sé allucinazioni e percezioni assolute, sempre, secondo l'ottica di Rimbaud.
Ma, senza avere la presunzione di essere dei novelli Arthur Rimbaud, si può essere Veggenti senza passare per la malattia, la droga, il delitto...
Tutto questo preambolo per dire cosa?
Non vi abbandono!
L'inquietante suicidio del tenente colonnello della Guardia di Finanza, Omar Pace, che si è ucciso con la pistola di ordinanza nella sede della DIA, alla vigilia della sua testimonianza nel processo che vede alla sbarra l'ex-ministro dell'interno Claudio Scajola, ha molto, inquietato, come tutti, anche me.
Le mie più sincere condoglianze alla FAMIGLIA del quarantasettenne ufficiale.
"Con la morte",
ha scritto un Poeta tedesco,
"si spengono le fiamme dell'odio."
E si accendono le speculazioni, aggiungo io.
A presto, con la mia LETTERA APERTA A SERGIO MATTARELLA, PRIMO CITTADINO PRESIDENTE.
Non consulterò nessuna palla di vetro per azzardare percezioni, non assumerò nessuna droga per stimolare allucinazioni... mi limiterò, secondo il mio modus operandi, di ripercorrere la Storia di questa Repubblica, dal dopoguerra...
Una sorta di Via Crucis, con la visitazione di tutte le XIV Stazioni.
E questo è tutto.
Buon fine settimana!

Daniela Zini​ 


https://www.youtube.com/watch?v=9k1Kv4XKE00

martedì 12 aprile 2016

Blundo (M5S): "7 anni dal disastro de L' Aquila. Non dimentichiamo"

L'AQUILA, 6 APRILE 2016: LA FIACCOLATA A SETTE ANNI DAL TERREMOTO

L'Aquila, il ricordo delle vittime a 7 anni dal terremoto

L'Aquila: gli allievi della GdF donano 16.000 euro alla città

Anonymous - Message to Hillary Clinton

venerdì 8 aprile 2016

Fuite de gaz en mer du Nord : « Total manque de transparence et de réact...

The Real Reason Oil Is So Cheap And How Rockefeller and Rothschild Are I...

Who Controls The World's Oil?

giovedì 7 aprile 2016

ANTEPRIMA! estratto da: LETTERA APERTA A SERGIO MATTARELLA PRIMO CITTADINO PRESIDENTE di Daniela Zini



LETTERA APERTA
a
SERGIO MATTARELLA
primo cittadino presidente

di
Daniela Zini

“È la giustizia – disse infine il pittore.  - Oh, adesso la riconosco, - disse K., – qui vi è la benda sugli occhi e qui la bilancia.  Ma perché ha anche le ali ai piedi e sta correndo? –”
Franz  Kafka, Il processo 


La concezione dell’intellettuale che vive su un’isola deserta, nelle catacombe, nella sua torre d’avorio, di mattoni o di altra cosa, o ancora su un iceberg in mezzo all’oceano, che porta il suo talento, come il gobbo la sua gobba, suggerisce una serie di immagini, certamente, seducenti, ma che dissimulano una visione romantica del creatore, sterile e, mortalmente, pericolosa.
Fintanto che il mio cuore non cederà, prenderà il partito del debole.
Tale è il ruolo di una coscienza che non è impegnata da alcun interesse personale in interessi di partito.
Perché nessuno si inganni, avverto che non è un manifesto.

 
“Se non si vincerà la battaglia per una moralizzazione, le sorti della Democrazia in Italia, conosceranno un triste declino.”
Giuseppe Pella


Primo Cittadino Presidente,
la vita politica italiana è, oggi, caratterizzata da una grave e diffusa insensibilità etica. È sotto gli occhi di tutti che esiste una realtà ufficiale ottimistica apparente e una verità effettiva mortificante e preoccupante. Sembra essere tornati in pieno regime fascista; come allora, la verità ha un duplice volto.
In privato, si riconosce la decadenza del costume; ma, in pubblico, si agisce come se fossimo nell’epoca della più assoluta correttezza e del massimo disinteresse.
E se ne comprende la ragione se si considera che non si è effettuato il ricambio della classe dirigente, poiché i partiti al governo, ieri e oggi, non hanno fatto altro che inserirsi nella sopravvissuta società fascista, prendendone i difetti ed esasperandoli.
E la situazione si è aggravata.
La corruzione pubblica non è stata, nel ventennio fascista, così generalizzata e sfrontata come adesso.
Se, allora, si confuse, spesso, l’interesse dei gruppi e della classe politica detentrice del potere con quello della intera Nazione, sottomettendo la collettività ai singoli, si deve, nondimeno, riconoscere che si conseguì un più alto senso dello Stato e il rispetto delle leggi morali fu più praticato rispetto a oggi.
Non furono pochi gli sfrontati e i profittatori, ma non acquistarono, mai, il grado di impudenza e di sfida assunto in tempi recenti.

Primo Cittadino Presidente,
Nel gennaio del 1954, il presidente del consiglio Giuseppe Pella, nel piano di ricostruzione del suo governo, si propose di affidare i ministeri del tesoro e dell’agricoltura a uomini capaci di raffrenare le speculazioni che si facevano, a danno dello Stato, nelle gestioni fuori bilancio. Ma il governo Pella non fu varato e cadde prima di presentarsi al parlamento, per volere di quegli speculatori, che vedevano in pericolo i loro “carrozzoni”.
Nel febbraio del 1954, Mario Scelba, divenuto, inopinatamente, presidente del consiglio, prese impegno davanti al parlamento di iniziare una campagna di moralizzazione.
Compì una mossa, che, là per là, parve seria e che, con il tempo, si rivelò soltanto furba: tenne rapporto ai direttori generali di tutti i ministeri e diede loro le direttive per una azione ispirata a un senso di scrupolosa correttezza.
Oltre a ciò, il Consiglio dei Ministri nominò una commissione per l’esame delle gestioni fuori bilancio e del fenomeno dei controllori-controllati, affidandone la presidenza a don Luigi Sturzo e chiamandone a fare parte anche il più vivace dei moralizzatori, Ernesto Rossi, autore di Settimo: non rubare. Ma vi fu chi pensò sia a una distribuzione di compiti per rendere inconcludente ogni indagine, sia a limitare i mezzi di ricerca della verità.
Il 13 marzo 1954, il vicepresidente del consiglio, Giuseppe Saragat, in un articolo che portava il significativo titolo di La scopa, scriveva:
“È un dovere semplicissimo: si tratta di ripulire la casa della democrazia di ogni traccia di spazzatura e di impedire che gli avventurieri politici, con il pretesto di dare una mano per questa bisogna, la insozzino in modo irrimediabile.”
Sulla linea moralizzatrice del governo Scelba si pose anche il segretario della Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani, che era a capo della corrente Iniziativa democratica e aveva rovesciato la direzione dei “notabili” per rinnovare gli indirizzi del suo partito.
Nel settembre del 1954, preannunciò che “a prevenire turbamenti dell’opinione    pubblica” la Democrazia Cristiana avrebbe incoraggiato “ogni assennato ed obiettivo sforzo diretto ad eliminare, dalla vita pubblica, costumi, usanze, facionerie riprovevoli”. Un mese più tardi ribadì le sue intenzioni purificatrici e affermò:
“Se occorreranno, per consolidare il baluardo dela libertà, tagli, saranno compiuti senza esitazione, perché già è stato preso l’impegno solenne di un rinnovamento del costume e delle usanze della vita pubblica nazionale.”
L’avvento alla presidenza della Repubblica di Giovanni Gronchi, vecchio parlamentare, già esponente del sindacalismo bianco e assai sensibile alle istanze di rinnovamento, suscitò e infuse una speranza di ripresa, perché nel suo messaggio alle camere era stato fatto un esplicito richiamo all’impegno di moralizzazione.
In un discorso, tenuto ad alcuni amministratori della Toscana, il capo dello Stato sottolineò, pochi mesi dopo, la necessità del Paese di potere contare anche sugli uomini onesti. Ciò equivaleva, implicitamente, ad ammettere che il requisito del disinteresse non era osservato dalla generalità dei cittadini investiti di pubbliche funzioni.
Ancora nel gennaio del 1956, il presidente Gronchi, ricevendo i dirigenti delle associazioni dei giornalisti, sottolineava  “l’esigenza di chiarezza e di sincerità che sole possono fare della stampa una preziosa collaboratrice per la moralizzazione della vita nazionale e per la elevazione del costume politico”.
È evidente che il capo dello Stato sentiva il problema della moralizzazione come, ancora, attuale e urgente.     
Non risulta, purtroppo, che il parlamento, i governi succedutisi e la stampa abbiano soddisfatto l’alta esortazione.
Al contrario, il malcostume dilagò ancora più e il presidente della Repubblica rinunciò – almeno sembra – a insistere su un problema che non era sentito dal governo e da una classe politica sempre pronta a ricordargli i limiti costituzionali, che sarebbero propri della sua suprema funzione.
Il segretario della Democrazia Cristiana non poté mantenere fede alle sue parole, rimanendo imprigionato in un apparato che soffocava la sua stessa volontà di “capo” deciso e volitivo.
Saragat si fece trafugare la scopa e non si accorse che nella casa della democrazia la spazzatura aveva fermentato. E il suo olfatto si adusò ai cattivi odori…


segue...

domenica 3 aprile 2016

RECENSIONE AL LIBRO DI GIANNI PALAGONIA: L'AQUILA E LA PIOVRA di Daniela Zini




LA MEMORIA
È L’AVVENIRE
DEL PASSATO





recensione al libro di Gianni Palagonia:
L’AQUILA 
LA PIOVRA
di
Daniela Zini




Questo libro si rivolge a chi sa cosa significhi combattere mafiosi e terroristi, per conto di governanti indifferenti e, talvolta, complici.


“Un grazie a Gianni Palagonia e al piacere di rileggerlo!”
“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, et tertia non datur.”
In altri termini, se fate degli sbagli, vedete di non ripeterli più di due volte, non vi è una terza possibilità…
Se sbagliare è, infatti, parte della natura umana, una reiterazione dello sbaglio non si può intendere come una attenuante di responsabilità, al contrario, un mezzo per apprendere dalla esperienza.
Un avvertimento, quello di Seneca, di cui avremmo dovuto fare tesoro entrambi…
¿Quién sabe?
Scherzo, naturalmente!
Destabilizzante, sconcertante, ma di lettura piacevole!
Ecco come mi è apparso l’ultimo libro di Gianni Palagonia: L’AQUILA E LA PIOVRA [https://www.youtube.com/watch?v=NWh89Ic-i74].
Io non sapevo come convenisse presentare questo libro, perché il mio commento avrebbe potuto, fortemente, variare in funzione del cappello che avessi scelto di adottare: quello dello scrittore o quello del lettore. Dopo una matura riflessione, mi appare più appropriato abbandonare – senza dimenticarlo completamente – il cappello dello scrittore a vantaggio di quello del lettore, perché lo scrittore in me non può che essere irritato dal Fantasma letterario, che riposa su una certa conoscenza, perfino, una conoscenza certa, dei luoghi che hanno ispirato l’Autore per costruire le composte narrazioni e i compositi dialoghi. 

Roma, 3 aprile 2016

Daniela Zini



ALBANIA


il Vaso di Pandora?





“All over the Balkans, there is an association between highway robbery and revolutionary idealism which the Westerner finds disconcerting, but which is an inevitable consequence of the Turkish conquest.”
Rebecca West, Black Lamb and Grey Falcon: a Record of a ]ou mey through Yougoslavia in 1937, London 1943



Tirana, Piazza Scanderbeg


I
n un Paese come l’Albania, in cui la stabilità politica ed economica resta di una estrema fragilità, la costrizione esterna − che si tratti di quella esercitata dall’Unione Europea, per migliorare il funzionamento delle istituzioni, o di quella imposta dal Fondo Monetario Internazionale [International Monetary Fund, IMF], in materia di stabilizzazione macroeconomica, – è divenuta, dagli inizi degli anni 2000, un elemento sempre più decisivo della evoluzione del Paese.
Secondo l’opinione di militari albanesi come di diversi attori internazionali, questa pressione, legittimata dal progetto di integrazione, sempre più a lungo termine, alle strutture euro-atlantiche, non può allentarsi, se non a rischio di ingenerare nuove tensioni politiche e, soprattutto, una nuova regressione economica. Tuttavia, su questo piano, a dispetto degli aiuti finanziari esterni, in particolare quelli provenienti dall’Unione Europea [UE] e dalla Banca Mondiale [World Bank, WB], la cui efficacia continua a suscitare – in modo minore rispetto agli anni 1990 – un certo numero di riserve, le cifre malcelano una stagnazione economica, di cui testimonia, per contro, il livello di vita sempre molto basso della popolazione.
L’Albania non è così cool
“Ora guardo all’Albania, un Paese in crescita, candidato a entrare nell’Unione Europea, un Paese da cui ancora si parte per raggiungere l’altra sponda dell’Adriatico, ma ora rispetto al passato sempre più spesso per studiare. Per studiare e per poi tornare in patria, tanto all’Italia è rimasto davvero poco da offrire.”
Questa Albania NON è vera!
L’Albania NON è Tirana, Valona e Durazzo, dai bar chic e dai call-centers italiani; Albania è, anche, altre città, ridotte, letteralmente, alla miseria per mancati investimenti e amministrazioni corrotte.
Non esiste il miracolo albanese e chi lo afferma mente, sapendo di mentire!
Il rapporto dell’United Nations Development Programme [UNDP], intitolato Millennium Development Goals in Albania [http://www.un.org.al/subindex.php?faqe=details&id=13&mnu=14], sulla situazione economico-sociale dell’Albania, vista in prospettiva fino al 2015, asseriva che il Paese avrebbe dovuto affrontare difficili sfide per la stabilità, dopo l’uscita dalla crisi economica.
E, secondo l’Agenzia Nova:
Tirana, 11 mar 12:20 - [Agenzia Nova] - Il tasso di disoccupazione in Albania è cresciuto alla fine del 2015, salendo di 0,2 punti percentuali rispetto al terzo trimestre dello scorso anno, attestandosi a 17,7 per cento: lo rivela il sondaggio condotto dall’Istituto delle statistiche albanese [Instat]. Secondo i dati, il numero degli occupati è di 1.071.053 persone, mentre quello dei disoccupati dell’età fra 15 e 64 anni è di 230.747 persone. Altissimo invece il tasso di disoccupazione, 32,2 per cento, fra i giovani dell’età fra 15 e 29 anni. Rispetto al quarto trimestre del 2014, il numero degli occupati è salito di 31.717 persone, mentre quello dei disoccupati di 3.340 persone. Rispetto al terzo trimestre del 2015, invece, gli occupati sono cresciuti di 7.361 unità, mentre il numero dei disoccupati di 4.466 persone.” [http://www.agenzianova.com/a/0/1313982/2016-03-11/albania-tasso-disoccupazione-in-crescita-alla-fine-del-2015-sale-al-17-7-per-cento]
L’emigrazione non si è, mai, fermata!
Nell’ultimo decennio, molti imprenditori italiani hanno deciso di delocalizzare in Albania, spinti dal miraggio di maggiori profitti, in totale assenza di sindacati e di diritti per i lavoratori, conseguendo un notevole livello di radicamento nel mondo albanese con circa 400 piccole e medie imprese attive, soprattutto, nel manifatturiero, nelle costruzioni e nei servizi, tra cui spiccano gruppi industriali medio-grandi [Italcementi, Coca-Cola Albania, Intesa San Paolo e CONAD], che operano, prevalentemente, lungo la costa adriatica e nella parte occidentale del Paese[1].
Lo sfruttamento della manodopera a basso costo è una triste realtà in Albania!
Come scrive Fatos Lubonja:
“La politica albanese cerca di manipolare i cittadini attraverso i media internazionali, sfruttando le debolezze di persone che per stare meglio hanno bisogno di autocompiacersi, spesso all’interno di quel complesso di inferiorità che cerca conferme nell’attenzione degli stranieri. Il tutto anche per vendere all’estero questa realtà come una sorta di paradiso e per fare poi di questi articoli e reportage la superficie su cui invitare i cittadini a specchiarsi. Nonché per legittimare il potere e gli autori di un paradiso che in realtà è un inferno. In questo modo, chi non può contare sull’indipendenza di pensiero, rimane suggestionato dall’autorevolezza degli stranieri, riconoscendo nel proprio Paese paradiso e inferno nello stesso tempo; passando dall’uno all’altro senza riuscire a capire né dove stia l’inganno, né di chi sia opera.
Tale manipolazione, in particolare con i media italiani, è pesantemente in atto da qualche tempo. Non molto tempo fa, a Bari, due giornalisti mi hanno fatto quella che più che una domanda era un’affermazione: “Potrebbe cortesemente illustrarci questo miracolo albanese: ora non sono più gli albanesi a lasciare il Paese ma gli italiani ad andare in Albania”. Chiaramente rimasi basito. Mi venne in mente il film di Amelio di due-tre anni fa che finisce con il protagonista italiano che trova lavoro in Albania. Allora ho fatto notare ai giornalisti che forse avevano preso troppo sul serio l’ironia del regista, incentrata sulla difficile situazione italiana. Ma non molto tempo dopo ho visto un’intera pagina di Repubblica sullo stesso tema, con l’intervista ad un albanese di successo, rientrato in patria per aprirvi un call center. Ancora, una giornalista di Rai 2 non tardò a piombare un giorno a casa mia, dicendomi di essere venuta per immortalare l’Albania in cui da qualche tempo facevano ritorno gli albanesi, e ora anche gli italiani. Alla domanda su chi fossero queste imprese italiane che avevano da prima cercato e poi avuto cotanta fortuna in Albania, non seppe che nominare il caso del famoso call center. Come se quel lavoro dove i ragazzi sono rinchiusi come i polli nelle incubatrici, a fare telefonate assurde per otto ore al giorno e due-trecento euro al mese, avesse qualcosa anche di minimamente dignitoso.
Trovo che sia normale, anzi simpatico, che ci siano italiani dimentichi del razzismo che ancora oggi impregna il giudizio sull’Albania, ma un maggiore senso della realtà è dovuto e questi giornalisti non possono permettersi di raggirare i loro connazionali, senza considerare, per giunta, che forse sono loro stessi ad essere manipolati per abbindolare gli albanesi.”
L’Albania propriamente detta è uno Stato popolato da circa 2,8 milioni di abitanti; ma vivono circa 7 milioni di albanofoni in Montenegro e in Macedonia, senza contare le importanti diaspore in Turchia e in Italia. L’Albania è uno degli Stati la cui popolazione ha più sofferto della transizione dell’ex-blocco comunista verso la Democrazia. Nel 1990, festeggiammo, in anticipo, la fine del secolo, una specie di mattatatoio, e inaugurammo il nuovo Millennio. Ed è agli inizi degli anni 1990 che la eccezionale crisi economica sprofonda gli strati popolari in una estrema miseria, provocando un esodo massivo verso l’Occidente e, in particolare, verso l’Italia. Questo esodo ha favorito il traffico di migranti, lucrativo per le criminalità albanese e italiana. Dalla caduta del comunismo, nel 1991, l’Albania è, infatti, uno dei principali Paesi, che alimentano la tratta di bambini negli Stati europei vicini. I bambini tra i 4 e i 7 anni sono, particolarmente, quotati, perché sono quelli che riescono a raggranellare più danaro. E i trafficanti arrivano, anche, ad “affittare” neonati per le mendicanti. Si calcola che, almeno, 3mila bambini albanesi siano stati portati, in Grecia e in Italia, per chiedere l’elemosina.
Nell’ottobre del 1999, la Direzione Investigativa Antimafia [DIA] pubblicava un Rapporto sulle diverse forme di criminalità organizzata gestite da comunità straniere in Italia. All’interno del rapporto veniva evidenziato, in modo chiaro, come la presenza di un gran numero di cittadini extracomunitari clandestini o irregolarmente presenti nel nostro Paese giocasse a tutto favore della criminalità organizzata straniera, in quanto la precarietà della condizione di tali persone, spesso, senza legami, senza conoscenza di usi, costumi e lingua, alla ricerca disperata della sopravvivenza, li rendeva facile preda delle organizzazioni criminali. Sul tema specifico dell’accattonaggio, gli osservatori della DIA affermavano che i criminali dediti allo sfruttamento dei minori per l’accattonaggio e delle donne per la prostituzione fossero veri e propri schiavisti.
“I piccoli vengono in genere ceduti ai trafficanti dalle famiglie e diventano schiavi: vengono tenuti a gruppi in tuguri, nutriti al minimo, e vestiti di stracci, un po’ per risparmio e molto per attirare la pietà e, quindi, l’elemosina. Se alla fine della giornata non hanno raccolto il minimo previsto, sono minacce, percosse, torture. Alcuni bambini mangiano e vestono meglio: sono quelli destinati ai pedofili.”
Altre informazioni di un certo rilievo provengono dalla Relazione sul traffico di esseri umani, approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni similari, il 5 dicembre 2000.
“L’accattonaggio rappresenta un mercato illecito nel quale sono sfruttati soprattutto i minori di origine slava e albanese, provenienti da famiglie molto numerose ed estremamente disagiate. La lettura di rassegne stampa specifiche sull’argomento, ha permesso al Comitato di constatare come costantemente il ruolo dello sfruttatore sia rivestito da persone della stessa cittadinanza dei bambini sfruttati [albanesi, slavi, rumeni]. Questi ultimi, privati dei loro elementari diritti, costretti a vivere molto spesso all’interno di baracche situate nelle periferie delle città, questi piccoli bambini sono costretti all’esercizio dell’accattonaggio nelle stazioni delle grandi città o agli incroci di strade particolarmente trafficate.
Il loro compito è quello di guadagnare quotidianamente una determinata somma, richiedendo un’elemosina ai passanti ovvero cercando di attuare nei loro confronti il furto del portafoglio, della borsa o di un oggetto di particolare valore. Il mancato raggiungimento della somma prestabilita, così come qualsiasi tentativo di fuga o di ribellione ai propri sfruttatori, viene punito in maniera violenta, in modo tale che il reo ed i suoi compagni capiscano il senso della sanzione e abbandonino qualsiasi tentativo di ricerca della libertà. Probabili sono le possibilità che questi minori, oltre ad essere oggetto di compravendita o di scambi tra diversi sfruttatori, siano sottoposti ad abusi sessuali e, con il passare degli anni, impiegati all’interno di altri mercati illeciti nello svolgimento di attività criminali più evolute. Indagini svolte dal Comando Regionale Carabinieri della Regione Basilicata hanno avuto modo di accertare che i minori sono utilizzati per finalità legate alle adozioni illegali. Nel corso del 1998 e 1999, infatti, sono stati liberati sette bambini albanesi e un bambino bielorusso oggetto di questo turpe traffico”.
L’AQUILA E LA PIOVRA di Gianni Palagonia è il primo libro dedicato a questo soggetto, che tratta di cose terribili con la serietà e il pudore che si impongono. Una occasione di riflessione per ribadire, con forza, la importanza di procedere sulla strada dell’affermazione dei diritti e del rispetto della diversità, di quei principi di eguaglianza e di dignità politica e sociale, sanciti dalla nostra Costituzione. 
Quando una cultura dominante, utilizzata da una istituzione o da un potere, serve una verità prestabilita, il rischio è di mantenere, sotto il moggio, i mille e un misfatto, commessi sotto il mantello delle verità ufficiali.
Resta agli “Eretici” la cura di sbullonare le Verità troppo scomode, di riferire i fatti e di ridare un nome e una traccia ai “Capri Espiatori”.
Nel quadro proposto nelle pagine seguenti mi sono limitata solo a inserire alcune informazioni, che ritenevo utili alla comprensione del Paese.
Non preoccupatevi di me, di ciò che io sono stata, di ciò che io sono o di ciò che io sarò.
Io non sono che un Essere Umano tra i miliardi di Esseri Umani che popolano questo pianeta Terra.
Poco importa il mio nome, il mio colore della pelle, la mia religione, la mia statura, il mio peso, il mio sesso…
Io non sono che un cartello indicatore!
Abbiate, vi prego, la saggezza di seguire la direzione senza attardarvi.
E, se la direzione, che è data da questo libro, vi entusiasma e vi fa desiderare di fare parte degli “Eretici”, allora siate i benvenuti!
Comunque sia, ricordatevi che la direzione è saggia e giusta!
Se voi la sperimenterete sinceramente, la troverete.
Ora, sta a voi seguire il cammino e a me spigolare alcuni dei più sorprendenti passi di questo Mirabilis Liber



“Il comandante dell’aereo ci informò che eravamo prossimi all’atterraggio e che la temperatura a Tirana era di circa 35 gradi, ringraziandoci a nome della Compagnia per aver volato con la Belle Air. L’ultima virata di 90 gradi mi permise di avvistare a sinistra una montagna bellissima, circondata da una fitta foresta. Lì non si vedevano palazzi ma esclusivamente quelle che mi erano parse finora strane cupole grigie. Ora riuscivo a distinguerle bene. Niente dischi volanti: quelli non erano altro che bunker. Bunker, bunker dappertutto: uno spettacolo inquietante. Stavamo sorvolando a bassa quota l’ultimo tratto prima di atterrare e continuavo a vedere bunker a perdita d’occhio. A che diavolo serve tutta questa roba? Mi chiedevo.”[2]   

Parlare di un Paese povero non è esatto. Il prezzo del metro quadrato è considerevole in città e tutto si acquista in cash. Le vetture lussuose sono numerose e, anche, rubate. Hanno un costo, perché la lunga catena di collusioni e di complicità, necessarie per passare le frontiere e falsificare i documenti, sottintende un do ut des. Questo do ut des non è appannaggio esclusivo di questo Paese, esiste in tutti i Paesi che sono usciti dal comunismo e, se si guarda da vicino, le nostre democrazie occidentali non hanno lezioni da dare.

“Oltre al pericolo, lo spettacolo era quello di un contrasto incredibile: gente talmente povera da andare a piedi, mentre ai lati del nostro mezzo sfrecciavano auto costosissime come Hammer, Ferrari, Audi, Porsche, BMW, Mercedes, e addirittura una Bentley. La maggior parte erano Mercedes perché, a dire di Matteo, erano le auto con le sospensioni più forti per sopportare strade, che, in alcuni punti, erano poco più che mulattiere. La cosa più strana era che alla guida di queste auto costosissime c’erano anche ragazzi in apparenza appena maggiorenni. “Ma dove li prendono i soldi per mantenere auto di lusso?”  
“Droga, armi, riciclaggio o sfruttamento della prostituzione. La maggior parte delle macchine di grossa cilindrata sono rubate in Italia, Germania, Svizzera. Lasciano ancora le targhe originali, oppure vanno in giro senza targa. Molte auto sono acquistate regolarmente, ma con soldi sporchi. In genere a bordo ci sono figli di politici o imprenditori che non si sa come hanno fatto i soldi, anche se si può immaginare.”[3] 

Nel pensiero occidentale i Balcani sono sempre stati visti come “la brutta appendice” dell’Europa, una regione dove le tensioni etniche e i conflitti sono endemici.
Il principe Klemens von Metternich, che, in una nota inviata, il 2 agosto 1847, al conte Moritz Joseph von Dietrichstein, scrisse la famosa e controversa frase:
“La parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”,
riteneva che i Balcani non facessero parte dell’Europa:
“L’Asia inizia dalla Landstrasse.”,
la strada che iniziava da Vienna con direzione verso Sud-Est e verso l’Ungheria. Ma l’Albania, nonostante la cattiva opinione, è costituita da molte persone oneste, che, avendo perduto speranza nel loro Paese, sono andate a lavorare all’estero, temporaneamente o definitivamente, legalmente o illegalmente.

“Ma… gente onesta ce n’è in Albania?”
“Scherzi? L’80% della popolazione è gente bravissima che vive di duro lavoro, regolare o meno. Ci sono anche quelli che sono partiti dal niente e lavorando sodo si sono fatti una posizione. Magnifiche persone, vedrai. L’albanese, poi, ha un cuore grande, una dignità e un amor proprio che non hai idea. Il problema è quel 20% di canaglie che hanno rovinato una Nazione intera.”
“Un po’ come succede in Italia con mafia, camorra e ndrangheta…”[4] 

Una parte non trascurabile dell’élite intellettuale fugge dal Paese a flusso continuo da dieci anni. E lo sviluppo del Paese ne soffre notevolmente.

“Purtroppo c’è anche di peggio. Le ragazze, senza soldi per studiare o non preparate a dovere, superano gli esami in cambio di prestazioni sessuali. Intendiamoci, non tutti i docenti sono di questa specie, ma c’è chi si approfitta delle più deboli, magari senza un padre o un fratello in grado di difenderle, oppure di ragazze provenienti dai villaggi sperduti che, per non tornare a vivere nella solita miseria, preferiscono rimanere il più a lungo possibile a Tirana, che sembra offrire una libertà sconosciuta. Molti studenti hanno affiancato le ragazze che si sono ribellate a questo sistema, aiutandole a trovare il coraggio di denunciare i professori corrotti, ma gli illustri dirigenti delle università albanesi ai quali è stata chiesta una spiegazione hanno minimizzato, e del resto anche i media hanno dato poca importanza alla denuncia studentesca. Abbiamo provato a coinvolgere i professori onesti nella battaglia per la legalità, ma nessuno di loro si è schierato accanto a noi donne per sostenerci con la scusa che hanno paura di perdere il posto di lavoro. I Decani man mano ci stanno isolando non rinnovandoci il contratto annuale di supplenza. Ma noi non faremo un passo indietro. Solo le donne possono cambiare questa Nazione. Siamo state e siamo ancora emarginate dagli uomini, ma pian piano stiamo creandoci i nostri spazi. Certo restiamo anni luce indietro rispetto agli standard europei perché qui è difficile farsi ascoltare, ma prima o poi qualcosa dovrà pur cambiare!”[5]     

Gli albanesi sono, sempre, molto accoglienti; seppure, sovente, non abbiano nulla, vi offrono tutto.

“Nel frattempo era tornata la luce. Mentre ero seduto sul divano, osservai con quanta cura fosse arredata quella piccola casa. La donna accese la TV ed era sintonizzata su un canale italiano, che mi fece dimenticare per un attimo di essere in un altro Paese. Sul muro, in bella mostra, era appeso un quadretto con una scritta sempre in italiano:
La casa dell’Albanese è di Dio e dell’ospite.
All’ospite si deve fare onore offrendo il pane, il sale e il cuore.
Quella scritta mi fece capire che la cortesia di Genoveffa non era solo un fatto personale, ma legata a un costume ben radicato nel Paese. Poco dopo arrivarono la figlia e la sorella della signora, e anche loro mi diedero il benvenuto in perfetto italiano. Erano entrambe sorridenti e gentili, provai la bella sensazione di stare in famiglia.”[6]   

Molto spesso, la cooperazione internazionale nasce e si svolge senza tenere in giusto conto le caratteristiche storiche e strutturali del Paese partner e dei suoi territori, regioni, distretti e municipalità e tale sottovalutazione incide sulla efficacia di progetti a breve, medio e lungo termine.

“Per il cittadino albanese lo stato è irrimediabilmente fallito. La gente non lo percepisce, lo sente distante e incapace di risolvere i propri problemi. L’albanese ripone le proprie speranze al di là dei confini nazionali, anzi molti sperano che il Paese possa essere governato attraverso la figura di un protettorato internazionale.”[7]

Dalla ideologia comunista l’Albania è passata, senza alcuna transizione, alla ideologia ultracapitalista più sfrenata, dove libertà individuale significa, per molti, il diritto di fare tutto e qualsiasi cosa per e pur di arricchirsi. L’Albania è un Paese straziato da un passato terribile, da cinquanta anni di un sistema aberrante e mostruoso, che non ha risparmiato nessuno e che ha segnato ognuno, in modo irrimediabile, insinuando terrore e delazione fino all’interno delle stesse pareti domestiche.
Un Paese, sempre, alla ricerca dei propri morti… 48 campi di internamento, dagli 80 ai 100mila prigionieri politici, internati o relegati!

“Aliaj diventò improvvisamente serio quando raccontò che nel 1974 uno dei suoi quattro amici era stato sorpreso a canticchiare una canzone di Al Bano. Non aveva voluto rivelare come e dove aveva imparato i testi e il motivo di quella canzone, né svelare il nascondiglio della radio. Per questo, dopo l’inutile tortura era stato fucilato. Tutti i civili scoperti ad ascoltare radio occidentali, o semplicemente sospettati di farlo, venivano condannati per cospirazione e complotto contro il regime. La maggior parte veniva mandata a scontare la pena, mai inferiore ai 10 anni, nelle famigerate prigioni di Rubik e di Spaç dove i detenuti erano messi ai lavori forzati nelle miniere di cromo. Lì venivano mandati anche gli intellettuali dissidenti e i politici epurati con l’accusa di revisionismo.”[8]

Più di quindici anni fa, gli albanesi erano scesi in piazza contro il comunismo gridando a squarciagola:
“Vogliamo l’Albania in Europa.”
Da allora l’Europa è l’obiettivo maggiore di tutti i Governi che si sono susseguiti; ma, nonostante ciò, la classe politica locale non si è mostrata all’altezza e il “grande sogno” è continuato a rimanere lontano.
Oggi, l’Albania sembra una Brutta Addormentata nell’attesa che il Principe torni dai giochi della guerra e la baci.
Oggi, la bruttina malvestita, talvolta, affamata, abituata a tristi vicende – le tre “M” del transito faticoso: Mafia, Miseria e Malessere – cerca una cosa chiamata Europa.
Premessa necessaria per avviare le trattative sull’adesione, il 12 giugno 2006, l’Albania ha siglato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione [ASA] – ratificato dal Parlamento Europeo, il 6 ottobre 2006, ed entrato in vigore, il 1° aprile 2009 – con l’Unione Europea, che si era impegnata, in occasione del Vertice UE-Balcani Occidentali di Salonicco del 21 giugno 2003 [http://www.asgi.it/wp-content/uploads/public/accordo.tra.la.comunta.europea.e.la.repubblica.di.albania.di.facilitazione.del.rilascio.dei.visti.pdf], a offrire un avvenire a tutta questa regione in seno allo spazio comunitario, divenendo, così, il terzo Paese dei Balcani Occidentali, dopo la Croazia e la Macedonia, a garantire a Bruxelles profonde riforme.
Per Bruxelles, gli obiettivi erano due:
-        contrastare i diversi traffici, nei quali le reti albanesi erano implicate in modo accertato;
-     premunirsi contro una immigrazione clandestina, di cui una parte proveniva o transitava per il territorio albanese, la cui porosità la inquietava costantemente.
Nel suo discorso, Sali Berisha aveva definito la firma dell’ASA: “un grande passo verso la realizzazione del sogno degli Albanesi di ritornare nella loro famiglia europea. Ritornare, perché il secolo scorso ha riservato alla mia Nazione disgregazioni ingiuste, occupazioni, razzismo, pulizia etnica e una feroce dittatura che la hanno totalmente isolata dall’Europa”.
Consapevole di giocare la sua ultima carta politica di fronte a una opinione pubblica senza grande illusione sulle sue élites dirigenti, Sali Berisha sapeva, anche, che il compito di condurre una lotta senza quartiere alla corruzione e al crimine organizzato fosse quantomeno titanico e rappresentasse un test decisivo della capacità del suo Paese a trovare le forze necessarie per accettare una tale sfida, ma di importanza primaria agli occhi dei suoi partners internazionali.
“Sono consapevole che firmiamo questo Accordo mentre nella vostra memoria e in quella dei cittadini dei vostri Paesi si trovano ancora notizie, immagini ed eventi non piacevoli provenienti dall’Albania; e mentre la sindrome della stanchezza da allargamento dell’UE è una realtà. Ma io sono oggi qui per garantire a voi, ai vostri Governi e alle vostre Nazioni che la criminalità organizzata e il sistema della corruzione in Albania si stanno sgretolando rapidamente e che l’Albania sarà uno dei Paesi più sicuri nella regione balcanica.”[9]
Due mesi prima, il Governo si era affrettato a far votare una legge che legalizzava circa 200mila abitazioni edificate abusive, ritenendo fosse urgente mettere fine a una situazione giuridicamente e socialmente inestricabile.

“All’improvviso, come oasi nel deserto, vidi apparire parchi ben curati, grandi piazze, centri commerciali e bellissimi palazzi dipinti a tinte vivaci, forse con l’intento di far dimenticare i colori tristi dei casermoni che ricordavano l’epoca comunista. Un palazzo verde mi colpì più di tutti, perché sulla facciata erano state disegnate frecce di colore giallo. Matteo mi disse che le frecce indicavano la direzione d’uscita della città, e quella era stata un’idea del pittore Edi Rama, l’attuale sindaco di Tirana.”[10]

Nell’aprile del 2006, il Governo aveva, anche, nominato una commissione di inchiesta sulla costruzione di una tangenziale – dopo averne ordinato la sospensione dei lavori, avviati dal municipio, prima delle elezioni del luglio del 2005 – che, secondo lo stesso Governo, presentavano alcune irregolarità che rimandavano a Edi Rama.

Il peggio è anche che uno dei due autisti faceva parte della commissione elettorale come rappresentante del Ministro, alle elezioni politiche del 2005. E, nonostante i suoi precedenti penali, questo bandito si sposta in tutta Europa, grazie ad un visto tedesco che gli ha fatto avere il Ministro. Lo sanno tutti al Governo, ma fanno finta di niente: o perché ognuno di loro ha i suoi scheletri nell’armadio o perché ora si deve votare per il nuovo Sindaco della capitale e il Ministro si è candidato per questa carica, nella speranza di rifarsi una verginità politica con un nuovo ruolo. La precedente campagna elettorale del Ministro è stata pagata con i soldi provenienti dal traffico di droga e favorita con l’inganno orchestrato da media compiacenti. In TV mostravano sale piene di elettori appassionati. In realtà chiudevano fabbriche e costringevano gli operai a riempire le sale dove si svolgevano i convegni. Li portavano con i pulman e se qualcuno si rifiutava, veniva licenziato oppure gli creavano tanti di quei problemi, che lo costringevano ad andare via dalla fabbrica.[11] 

Misure più spettacolari, perfino più demagogiche, erano state adottate quali la creazione di numeri di telefono gratuiti per i cittadini, ansiosi di denunciare un caso di corruzione; l’interdizione di non impiegare più di un membro di una stessa famiglia nei servizi delle dogane; il divieto, per tre anni, dell’utilizzo di barche a motore – che fu l’occasione di un nuovo braccio di ferro con l’opposizione – al fine di diminuire i traffici di ogni genere per via marittima, in particolare con l’Italia e la Grecia.
Tutti i Paesi hanno un ambiente criminale. Limitati sono, tuttavia, i Paesi che hanno originato una autentica Mafia, una società segreta permanente, con un rituale di iniziazione, una legge del silenzio e un reclutamento clanico. Ma se la siciliana Cosa Nostra, la Triade cinese e la Yakuza giapponese sono note, si conosce, al contrario, male, la nuova e molto pericolosa Mafia albanese, quale opera nei feudi dell’Albania, della Macedonia e del Kosovo, in Europa e nella stessa America del Nord. E, tuttavia, la Mafia albanese controlla più del 70% del mercato dell’eroina in Svizzera, in Austria, in Germania e nei Paesi scandinavi.
Che una Mafia sia invisibile non significa che non esista!
Si deve qui, chiaramente, distinguere una entità terrorista – il cui funzionamento è clandestino, ma le azioni [attentati, etc.] sensazionali – da una società criminale, le cui attività sono esse stesse di una totale e duratura discrezione.
Quali paesini sono, in apparenza, più calmi, più tranquilli di quelli della Sicilia Occidentale, Corleone in testa?
Interrogarsi, dunque, sulle circostanze che portino una società clanica, fondata su valori di onore e di vendetta, a ingenerare una Mafia, è più che legittimo. Perché questa evoluzione non è “fatale” – la Corsica lo conferma – e neppure frequente. L’immagine botanica di quei semi incistati, sepolti, per decenni, nel deserto, e che un acquazzone è sufficiente a far fiorire, nell’arco di una sola notte, permette di illustrare un siffatto brusco sussulto.
Ma, nel caso dell’Albania, qual è la genesi di questa “fioritura” criminale?
Negli anni 1970 e 1980, i malviventi albanesi lavorano, il più sovente, per i mafiosi, italiani, newyorchesi, turchi, etc. In pochi anni, tuttavia, una serie di eventi di apparenza eteroclita si coniugano negli Stati Uniti e nei Balcani e spingono i “gregari” albanesi a “emanciparsi” e a mettersi in proprio[12].
Così, quando, alla fine degli anni 1980, la Storia si imballa, per una volta, nei Balcani – repressione in Kosovo, frammentazione della Jugoslavia post-Tito, guerra in Bosnia-Erzegovina – e tutto ciò alle porte dell’Albania, questa stessa in pieno disgelo, per tutti i criminali di tutte le comunità della regione, le opportunità sono sconfinate: traffico di migranti, di armi, di prostitute, di stupefacenti, di vetture rubate, etc. Ma nessun ambiente criminale si sviluppa tanto né si organizza meglio di quello albanese. Nel traffico dell’eroina, le cose vanno così velocemente che gli albanesi contendono, ben presto, la loro posizione dominante ai turchi. Il passaggio del testimone, già osservato nell’America Latina, dagli indeboliti cartelli colombiani ai loro omologhi messicani, si opera anche nel Sud-Est dell’Europa, a spese dei turchi e a profitto delle “famiglie” albanesi, ormai strutturate e ricche.
Ricche di dollari, ma anche di risorse umane!
Con la caduta del potere comunista, si assiste, in Albania e, più particolarmente, nel Nord montagnoso del Paese, dove sopravvive grazie all’isolamento costante del Paese per tutto il XX secolo – in modo si potrebbe dire chimicamente puro – la società clanica, rispettosa di ancestrali tradizioni di onore e di vendetta[13], a una rinascita improvvisa e brutale di queste antiche tradizioni. Per buona parte delle Mafie, queste leggi sono implicite, trasmesse oralmente, ma, in Albania, riposano su una struttura familiare clanica, retta da un codice d’onore o Kanun, che, ispirato dai sultani ottomani, si pronuncia su una dozzina di campi della vita quotidiana ed è in vendita nelle edicole. 

“Le riconciliazioni tra le famiglie sono molto rare. Nell’ottica del Kanun il perdono è visto come un segno di vigliaccheria, e di scarso rispetto per l’ucciso. Per poter perdonare a quei livelli non bastano dei bravi mediatori, ci vogliono motivazioni forti come quelle religiose. Sappiamo che una famiglia è riuscita a perdonare chi gli aveva ucciso il figlio, ma in quel caso la fede è stata determinante. Purtroppo tra questa gente la fede cristiana è il più delle volte sepolta sotto costumi e superstizioni arcaiche, come la credenza nei poteri magici.”[14]

La società tradizionale albanese è, da lunga data, affascinata dalle armi da fuoco.
“Il vanto che ha un allevatore del suo gregge e quella del collezionista che rimira i suoi pezzi più belli non sono nulla in confronto all’orgoglio che prova l’albanese dinanzi alle sue armi. Sono il guardiano del suo focolare, l’oggetto della sua ammirazione. Gli assicurano una gloria luminosa.”,
scriveva un viaggiatore inglese nei Balcani intorno al 1880.
E, nel 1928, lo scrittore e giornalista austriaco Joseph Roth, durante la sua visita in Albania, descrivendo la vita di una famiglia segregata in casa a causa della vendetta e la buona accoglienza che riservava, concludeva il suo articolo con queste parole:
È meglio un buon poliziotto che una buona accoglienza!”
Come, sovente, nelle Mafie, il tratto arcaico non ostacola una grande capacità a adeguarsi alle tecniche più moderne dei mercati mondiali. La Mafia albanese è una Mafia di primo piano, dalla organizzazione agile, flessibile ed evoluta. Una Mafia, la cui attività va crescendo nella sua base numero uno in Europa, l’Italia.
Il 9 aprile 1992, l’ex-cardiologo personale di Enver Hoxha, Sali Berisha, era arrivato al potere. Aveva purgato, implacabilmente, esercito, polizia e servizi speciali di tutti i numerosi fanatici del defunto regime stalinista. In pochi mesi, i due terzi dei quadri – soprattutto giovani ufficiali - della Drejtoria e Sigurimit të Shtetit[15], nota comunemente come SIGURIMI, la GHEPEÙ locale, si erano ritrovati in strada senza un soldo.
Ma non a lungo!
Le “famiglie” mafiose erano ben disposte a pagarli, lautamente, per organizzare i loro centri di comando e di comunicazione e addestrare i loro “soldati” a una ferrea disciplina militare. In possesso dei dossiers della defunta polizia segreta di Enver Hoxha, questi ex-sigurimisti sarebbero stati, anche, molto utili nel ricattare i politici e i funzionari del nuovo sistema.
E, alla fine del 1992, la Mafia albanese era, ormai, allineata e in assetto di combattimento, pronta a invadere il “mercato” europeo. E disponeva, non dimentichiamolo, di basi accreditate nell’America del Nord. Intatta, ancora invisibile, non aveva tardato a riaprire la rotta Sud dei Balcani.

“Dritor fece rientro in Albania nel 1993, con l’idea di aprire il più grande negozio di computer di Tirana. In effetti mise in piedi una bella struttura con i soldi guadagnati in Italia e quelli che gli aveva regalato l’ufficiale del SISDE. Quell’attività era, di fatto, la sua copertura. Infatti, nel frattempo era stato reclutato dallo SHISH. Nel 1994 Ferrara arrivò a Tirana con un aereo Falcon dei servizi segreti, per svolgere indagini su un traffico di titoli tra l’Italia e l’Albania e chiese l’aiuto di Dritor per svolgere accertamenti senza metterne a conoscenza lo stesso SHISH, di cui evidentemente le autorità italiane non si fidavano. A collaborare con l’ufficiale italiano c’era anche il direttore generale di una Banca albanese, costituita quasi interamente con capitale italiano.
Il Direttore [un italiano, si chiamava Panca o qualcosa del genere] aveva scoperto cose sconcertanti che aveva comunicato segretamente a Ferrara, il quale si era precipitato a Tirana per verificare l’attendibilità di quelle notizie. Pare che in un folto gruppo di imprese albanesi e italiane, alcune già costituite ed altre in fase di costituzione, stessero confluendo troppi soldi di origine sospetta. I soldi provenivano da finanziatori italiani che in quel modo riciclavano il frutto di evasioni fiscali, appalti pilotati, falsi in bilancio e cose del genere. Questi intrallazzi avvenivano sotto la supervisione di un Generale del SISDE in pensione, appartenente a una loggia massonica in cui risultavano iscritti anche membri di una famigerata banda criminale romana oltre a faccendieri e mercenari legati ad ambienti politici. Il Generale aveva lavorato con la copertura di “addetto militare” presso l’Ambasciata italiana di Bruxelles ed era esperto di movimenti finanziari. Ma la cosa più eclatante erano le prove dell’esistenza di fondi neri dei servizi segreti italiani e di un grande partito che gestiva un vero e proprio tesoro in nero destinato al finanziamento illegale.”[16]      

Che fosse per accrescere il suo PIL o per corteggiare l’Unione Europea, l’Albania ha accettato, per anni, i rifiuti dei suoi vicini europei, accumulandone più di quanti ne potesse assorbire.

“Sono voci che stiamo verificando. Ma quando le voci girano insistentemente, di solito c’è un fondo di verità. Abbiamo saputo che Bashkim è entrato a pieno titolo nel business dei rifiuti tossici, prestandosi ai favori delle mafie italiane che hanno aperto discariche nel nostro Paese, trasportando di tutto. Successivamente, rendendosi conto che i rifiuti facevano guadagnare più della droga, Bashkim si è messo in proprio aprendo società per lo smaltimento di veleni che in Italia non sanno più dove nascondere. Tonnellate e tonnellate di rifiuti tossici sono arrivate sin dal 2002, contravvenendo ai dettami delle Nazioni Unite che tentavano di evitare che i Paesi poveri diventassero le discariche dei Paesi ricchi.”
“Ma cosa trasportano?”
“Di tutto, Gianni, dai rifiuti normali, alle medicine scadute, olio di sentina, batterie al piombo, rifiuti elettronici, residui di olio, smalti, vernici, solventi ecc. Prova a dare uno sguardo alle relazioni dell’Ispra [Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale] oppure leggi cosa dice l’European Police Office [Agenzia finaziaria alla lotta al crimine dell’Unione Europea, meglio conosciuta come Europol]. Gianni per certi aspetti, l’Albania è diventata da moltissimi anni la ventunesima regione italiana… al di là di questo, devi sapere che ultimamente si parla anche della futura installazione in Albania di termovalorizzatori e di una centrale nucleare che in Italia nessuno vuole. Vedrai, Gianni, ci faranno diventare la pattumiera italiana ed europea. I problemi dei rifiuti li risolveranno qui, legalmente o illegalmente.”[17]  

Nel novembre del 2011, il Parlamento ha votato una legge molto controversa, che ha trasformato il Paese nella principale discarica d’Europa. L’obiettivo di Tirana era, all’epoca, di fare del trattamento dei rifiuti solidi uno dei più importanti settori dell’economia, sperando, così, di rafforzare la situazione economica dell’Albania e attirare nuovi investimenti. L’Albania non aveva le capacità di trattare i propri rifiuti, le numerose discariche selvagge di Tirana possono testimoniarlo. Il capo dell’esecutivo dell’epoca, Sali Berisha, aveva, allora, relativizzato, sostenendo che i rifiuti importati non fossero pericolosi. Ma i timori degli albanesi che il Governo avesse ceduto alle pressioni della Mafia italiana, che controlla il business dei rifiuti, sono ben descritti in un tweet dell’attuale premier, ma leader dell’opposizione socialista, nel 2011, Edi Rama:
“L’Albania è come una casa che ha aperto le sue porte alle immondizie dei vicini.”
Edi Rama aveva denunciato il rischio che rappresentava una tale legge:
“Importare rifiuti degli altri Paesi quando le strade dell’Albania sono coperte di più di un milione di tonnellate di rifiuti, è una vera catastrofe e un tradimento nazionale.”
Nel settembre del 2013, la prima misura presa da Edi Rama fu di abrogare questa legge.
“I rifiuti non entreranno più in Albania fintanto cha l’Albania non sarà in grado di raccogliere e riciclare i rifiuti prodotti nel Paese.”,
aveva dichiarato dinanzi al Parlamento.
Nonostante questo improvviso mutamento legislativo, sembrerebbe che il Paese faccia ancora fatica a fare applicare la legge e a mettere in essere i dispositivi di controlli necessari alle frontiere. Oggi, i contadini del Nord del Paese dominano questo mercato. Si sono riciclati all’interno per sfuggire alla miseria rurale.
Ma è sufficiente per sopravvivere?
Il guadagno mensile di questo lavoro illegale ammonta, in genere, a 100 euro pro capite. Non sarebbero meno di 700mila tonnellate i rifiuti che sono stati importati in Albania dall’estero, nel corso degli ultimi anni. Numerose industrie importatrici di rifiuti aggirano la legge facendoli passare sotto la denominazione di materie prime.

In Italia ritenevamo che Bashkim fosse uno dei più potenti trafficanti di droga ed armi dei Balcani, per giunta legato alle famiglie della ndranghetacalabrese. Inoltre pare che in Albania fosse ben inserito negli appalti pubblici, grazie agli appoggi delle istituzioni che, nel suo caso, non applicavano le norme antiriciclaggio. La richiesta precisa da Roma era quella di scoprire innanzitutto l’utenza telefonica del trafficante. Ai servizi di informazione risultava che l’uomo si recava spesso in Italia dove si incontrava con il titolare della COOFISH, una società che gestiva a livello nazionale la commercializzazione e distribuzione di pesce congelato. Pare che la nave/officina utilizzata da questa società italiana e il peschereccio di proprietà di Bashkim si incontrassero al largo, dove avveniva il passaggio della droga in un modo che aveva dell’incredibile. Il pesce pescato dagli albanesi veniva passato ai pescherecci italiani insieme alla droga. Nel tempo del ritorno sulla costa italiana, i marinai nascondevano la droga avvolta in appositi sacchetti nella pancia di pesci di media grandezza, soprattutto calamari e totani. Dopo averlo congelato, portavano il pesce nei porti di Ancona, Bari e Gioia Tauro. Di fatto, la parte superiore di ogni cassetta di pesce congelato era formata da pesci della stessa specie ma privi di droga, in modo da nascondere quelli “ripieni” che si trovavano sotto, e superare eventuali controlli della capitaneria di Porto e dell’ASL.[18]    
Esiste un legame stretto tra i gruppi criminali albano-kosovari e la ‘Ndrangheta[19]. Questi gruppi si occupano, in larga parte, di traffico di stupefacenti, dalla importazione alla grande distribuzione, senza impegnarsi nelle attività di spaccio in strada e beneficiano, in Albania, di referenti e di coperture, utili sia per fare uscire le droghe dal loro Paese, sia per fare entrare i proventi di questo traffico nel loro Paese.
Quanto al traffico di organi, messo in essere dai leaders kosovari – che fu denunciato dal Rapporto presentato da Dick Marty, il 16 dicembre 2010, al Consiglio d’Europa [http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/Dick-Marty-il-Kosovo-davanti-al-Consiglio-d-Europa-85730] ed è stato oggetto di numerose smentite ufficiali –, è stato confermato dal procuratore americano Clint Williamson, nel 2014, [http://balkans.courriers.info/article16529.html]. E, in un’intervista del 6 novembre 2014, l’ex-procuratore britannico della Missione Eulex, Maria Bamieh, denunciava che le persone che sono attualmente alla missione europea Eulex e che gestiscono Eulex da Bruxelles tentano più di coprire gli affari anziché scoprirli” [http://www.balcanicaucaso.org/aree/Kosovo/EULEX-lo-scandalo-corruzione-156961, http://www.eunews.it/2014/10/30/la-missione-di-giustizia-ue-in-kosovo-al-centro-di-accuse-di-corruzione/24248].
Al termine di questo inventario non esaustivo, la Mafia albanese sembra avere fatto nell’ultimo decennio un salto di qualità, diversificando le sue attività  e acquisendo un certo savoir-faire nelle relazioni internazionali. Si può, ragionevolmente, prevedere che la criminalità albanese raggiunga, presto, il club privé delle Mafie storiche, nel senso generale del termine, le quali costituiscono un vero soggetto politico organizzato. Questa Mafia  è in linea con i conflitti geopolitici permanenti in questa regione, che, paradossalmente, possono servirle di base e di motore per la conquista di nuovi territori. 

L’Albania che Gianni Palagonia vi presenta, un Paese selvaggio e misterioso, capace del meglio come del peggio, simile ai suoi vicini, che vivono tutti sulle vestigia di una grandezza passata reale o immaginaria, può essere più o meno erronea, perfino parziale, ma del resto, vi è una sola realtà?
Ancora una volta, un grazie a Gianni Palagonia e al piacere di rileggerlo!


Daniela Zini
Copyright © 3 aprile 2016 ADZ



[1] Il 30 dicembre scorso, il premier Matteo Renzi ha incontrato, a Tirana, il suo omologo albanese, Edi Rama, che ha invitato a delocalizzare le attività produttive a Sud dell’Adriatico:
“Non vorrei mettere in difficoltà Matteo dicendo agli imprenditori italiani di venire in Albania perché non ci sono i sindacati come in Italia e non si paga più del 15% di imposte.” [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/30/renzi-sponsor-dellalbania-in-ue-rama-niente-sindacati-tasse-15/1305270/]
La politica del nuovo Governo ha dato poche risposte chiare e risolutive. La povertà crescente, la disoccupazione, la corruzione, l’ingiustizia sociale, il clientelismo, la corruzione non sono state affrontate dal Governo, ma solamente nascoste tramite un efficace make-up televisivo. Fatti di cui i Media italiani non parlano, forse, per non turbare l’idilliaca rappresentazione dell’Eldorado albanese.

[2] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 5-6.

[3] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 20-21.

[4] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pag. 21.

[5] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 305-306.

[6] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 38-39.

[7] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 21-22. 

[8] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pag. 96.

[9] Sali Berisha aveva voluto con sé anche l’opposizione del centro-sinistra, come segno di grande tolleranza politica, ma una piccola vendetta personale non se l’era risparmiata: non aveva invitato a fare parte della delegazione albanese il leader dei socialisti, Edi Rama, limitandosi al suo vice, Pandeli Majko.

[10] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pag. 68.

[11] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 92-93. 

[12] Agli inizi degli anni 1980, la comunità albanese insediata negli Stati Uniti – all’epoca di 200/300mila persone – non racchiude che piccole bande poco organizzate, dedite a furti, racket, hold-up, spaccio in strada. Alcuni giovani albanesi, più ambiziosi, si mettono a frequentare Little ltaly e finiscono per essere reclutati dai “soldati” delle famiglie Gambino, Lucchese e Genovese come “fattorini” o killers. Segno di fiducia inaudito, Zef J. Mustafa, originario dell’Albania Meridionale, diviene, perfino, nella sua giovinezza l’autista di Frank “Frankie Loc” Lo Cascio.

[13] Durante la dittatura comunista, che è durata per circa cinquanta anni, la vendetta era stata dominata ed era quasi scomparsa. Ma solo in apparenza, perché era, sempre, là, annidata nell’ombra, mentre su scala nazionale un’altra vendetta sistematica, quella di un regime verso i suoi avversari reali o immaginari, diveniva la norma.

[14] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pag. 286.

[15] Con l’apertura dei dossiers del regime comunista, vengono portati alla luce e pubblicati i documenti che dimostrano i rapporti ventennali tra la Camorra napoletana e il SIGURIMI.

[16] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 330-331.

[17] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pag. 353-354.

[18] Gianni Palagonia, L’Aquila e la Piovra, pagg. 160-161.

[19] L’Operazione Cerbero del 9 febbraio 2010 [http://www.ntacalabria.it/cosenza/operazione-cerbero-14-arresti-per-sfruttamento-della-prostituzione.html] mostra l’esistenza di un accordo con la ‘Ndrangheta che, in cambio di droghe e di armi, lascia ai gruppi albanesi il controllo e lo sfruttamento della prostituzione di giovani donne dei Paesi dell’Est.