COMUNICATO STAMPA
Silenzio,
si uccide. Motore, azione, chk!
Anna
POLITKOVSKAJA
7
ottobre 2006 - 7 ottobre 2016
“Le parole possono salvare delle vite.”
Anna POLITKOVSKAJA
“Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche
religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico
stabilito dalla Legge.” [articolo 10]
“La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno
dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può, dunque, parlare,
scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà
nei casi determinati dalla Legge.”
[articolo 11]
Questo principio
ha una consacrazione internazionale nella Conferenza
interamericana sui problemi della guerra e la pace, che si svolge
a Città del Messico, dal 21 febbraio all’8 marzo del 1945, e che adotta una
risoluzione nota con il nome di Atto
di Chapultepec, in cui si
afferma che “nessuna società può essere libera senza libertà di
espressione e di stampa” e che l’esercizio di questa libertà non
è garantito “dalle autorità politiche, ma è un inalienabile diritto
popolare”; quindi, nella Dichiarazione universale dei diritti umani
[http://www.ohchr.org/en/udhr/pages/language.aspx?langid=itn], adottata, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
che all’articolo 19 recita:
“Ogni
individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il
diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare,
ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza
riguardo a frontiere.”
Il 12 novembre 1997, durante la Conferenza Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la
Scienza e la Cultura, riunitasi, a Parigi, dal 21 ottobre al 12 novembre
1997, viene adottata la Risoluzione 29 sulla condanna della violenza contro i giornalisti,
che mira a sensibilizzare i governi e le organizzazioni internazionali e
regionali a questo riguardo e tenta, dunque, di combattere la cultura della impunità.
Nei due terzi dei casi, infatti, gli assassini non sono neppure identificati.
In molti Paesi, l’assassinio è divenuto il mezzo più facile, più economico e
più efficace per far tacere i giornalisti “scomodi”. E più gli assassini se ne
tirano fuori, più si accelera la spirale della morte.
Il 23 dicembre 2006, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite adotta la Risoluzione 1738 sugli attacchi ai giornalisti, ai professionisti dei mezzi di
informazione e al personale associato nei conflitti armati [http://www.un.org/News/Press/docs/2006/sc8929.doc.htm].
“I regimi più repressivi possono facilmente disporre della
libertà di espressione e dei suoi sostenitori. Le organizzazioni non
governative sono messe al bando o cacciate fuori proprio da quei Paesi in cui ve
ne sarebbe più bisogno. Le principali istituzioni internazionali possono
protestare, minacciare sanzioni, denunciare la situazione ai più alti livelli,
senza ottenere alcun risultato.”
Non sono senza
colpa gli Stati occidentali, che condannano la mancanza di libertà in Paesi in
via di sviluppo; ma, in nome di interessi economici, non mostrano pari determinazione
con Paesi critici, quali la Russia o la Cina. La dichiarazione esprime
preoccupazione per gli attacchi alle voci della stampa libera e invita gli Stati a dare attuazione agli
impegni precedentemente espressi, a livello internazionale, attraverso l’adozione
delle Risoluzioni 29 e 1738.
Il 12 marzo
2008, Reporters sans Frontières indice la prima Giornata Mondiale per la libertà di
espressione on-line, allo scopo di denunciare la censura dei
governi sulla rete.
L’11 gennaio dello
scorso anno, per esprimere solidarietà alle vittime dell’attacco terroristico
contro la sede del giornale satirico Charlie
Hebdo, in cui sono morte 12 persone e 11 sono rimaste ferite, [https://www.youtube.com/watch?v=7HI07y0TkBA], si era riversata nelle strade di
Parigi una folla oceanica di oltre 2 milioni di manifestanti – oltre 3 milioni
e mezzo in tutta la Francia –. Tra i 44 capi di Stato e di governo che marciavano,
quel giorno, al fianco dei francesi vi erano leaders che non possono essere, innegabilmente, considerati dei campioni
della libertà di espressione:
Benjamin Netanyahu,
primo ministro di Israele;
Ibrahim Boubacar Keita,
presidente del Mali;
Mahmud Abbas,
presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese;
Mohammed Ismail Al-Sheikh, ambasciatore dell’Arabia Saudita in Francia;
Ahmet Davutoglu, primo ministro della Turchia;
Sameh Hassan Shoukry,
ministro degli affari esteri dell’Egitto;
Ramtane Lamamra, ministro degli affari esteri dell’Algeria;
Sergej Viktorovic Lavrov, ministro degli affari esteri della
Russia;
Viktor Mihaly Orban, primo ministro dell’Ungheria;
re ‘Abd Allah II ibn al-Husayn di Giordania;
Antonis Samaras, primo ministro della
Grecia;
Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro
degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti;
Mehdi Jomaa, primo
ministro della Tunisia;
Giorgi Kvirikashvili, primo ministro della Georgia;
Bojko Metodiev Borisov, primo
ministro della Bulgaria;
Enda Kenny, primo
ministro dell’Irlanda;
Miro Cerar, primo
ministro della Slovenia;
David William Donald Cameron, primo ministro del Regno Unito;
Ewa Kopacz, primo
ministro della Polonia;
Eric Holder, ministro della giustizia
degli Stati Uniti d’America;
Jens Stoltenberg, segretario generale
della NATO;
Non
esattamente i migliori amici dei giornalisti!
“E perché non Bashar al Assad?”,
Una
figura migliore l’ha fatta il ministro degli affari esteri del Marocco, Salaheddine Mezouar, venuto a Parigi per presentare le
condoglianze a François Hollande e, poi, rifiutatosi di
partecipare alla marcia.
L’indomani, si leggeva nel comunicato di Reporters sans Frontières:
“Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della
libertà di stampa a sfilare a Parigi in omaggio a un giornale che ha, sempre,
difeso la concezione più alta della libertà di espressione?”
L’ONG ricordava che
l’Egitto, la Russia, la Turchia, l’Algeria e gli Emirati Arabi Uniti erano,
rispettivamente, al 159°, 148°, 154°, 121° e 118° posto su 180 Paesi nella
classifica mondiale sulla libertà di stampa [http://rsf.org/en/ranking/2015].
“Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hebdo
senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo.”,
sintetizzava il
segretario generale di Reporters
sans Frontières, Christophe Deloire.
I giornalisti
uccisi nel corso del 2015 sono 69, 8
in più rispetto al 2014. È quanto emerge dal rapporto
annuale presentato, a New York, dal Committee
to Protect Journalists[CPJ] [https://cpj.org/killed/2015/, https://cpj.org/reports/], che riporta
anche la morte di 25 giornalisti in circostanze ancora da chiarire e la morte
di 3 operatori di media.
Secondo
l’organizzazione Reporters sans Frontières,
che ha pubblicato, il 29 dicembre
scorso, la sua relazione annuale, sono stati, sicuramente, uccisi, nel
2015, 67 giornalisti contro i 66 del
2014, 27 citizen journalists e 7 collaboratori di media di vario genere. In
realtà, i giornalisti uccisi sono 110, ma solo per 67 è stato dimostrato che
l’assassinio va messo in relazione con la loro professione:
“In 43 casi le circostanze della morte restano
indeterminate, perché non ci sono state inchieste imparziali e approfondite. E
per la cattiva volontà degli Stati di fare giustizia.”
Per questa
ragione, Reporters sans Frontières
ha chiesto la nomina, “senza
perdere tempo ulteriore, di un rappresentante speciale per la protezione dei
giornalisti presso il segretario generale dell’ONU”.
In testa ai
Paesi più colpiti, figurano l’Iraq e la Siria, seguiti dalla Francia, lo Yemen,
il Sudan del Sud, l’India, il Messico e le Filippine.
Dal 2005, sono
stati uccisi, almeno, 787 giornalisti.
Le parole sono armi e possono uccidere o meglio condannare a morte.
E lo hanno confermato, il 7 ottobre 2006, in pieno centro di
Mosca.
Anna Politkovskaja è stata
abbattuta, esattamente 10 anni fa, il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Il suo corpo veniva ritrovato, alle 17.10, da
una vicina, nell’ascensore del suo stabile, in via Lesnaja, nel centro di
Mosca. Accanto al suo cadavere, la polizia rinveniva una pistola Makarov 9 mm. – una pistola in dotazione all’Armata Rossa e al KGB – e quattro bossoli.
Anna Politkovskaja era la ventunesima giornalista assassinata in Russia
dall’elezione di Vladimir Putin, nel 2000. Anna Politkovskaja si
apprestava a pubblicare, sulla Novaja Gazeta, l’8 ottobre, un articolo
sulla pratica della tortura in Cecenia, che implicava direttamente Ramzan Kadyrov, primo ministro ceceno, nominato dal presidente
Vladimir Putin. La sua tomba è un foglio bianco crivellato da
cinque colpi di pistola. Il martedì 10 ottobre, nel cimitero Troekurovskij di
Mosca, migliaia di persone sfilavano davanti alla sua bara. Erano, soprattutto,
gente comune. Erano state, egualmente, presenti alcune grandi figure
dell’opposizione, quali Boris Nemtsov, ucciso, il 27
febbraio 2015, da ignoti sicari a pochi passi dalla piazza Rossa a Mosca [http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/03/02/chi-ha-ucciso-boris-nemtsov]
e Grigori Iavlinski. Ma per rappresentare il governo, non vi
erano stati che alcuni uomini sconosciuti del ministero della cultura. La
fronte della giornalista era celata da una benda bianca. L’assassino, che aveva
esploso contro di lei quattro colpi di pistola in rapida successione, per
assicurarsi di aver abbattuto il bersaglio, aveva sparato il colpo di grazia
alla nuca. Con lei, moriva, per molti, la speranza che la Russia potesse liberarsi
dai fantasmi del passato e divenire una grande democrazia rispettosa dei
diritti umani.
“Non è sorprendente… Noi siamo tornati là dove eravamo sotto
il regime comunista, quando il potere disprezzava l’individuo e le sue
libertà.”,
era insorto,
dalla massa degli anonimi, Khassan Satobayev, un russo
che è fuggito dalla Cecenia, nel 1995, dopo l’inizio della prima guerra.
“La maggioranza della gente continua a fare quello che dice
loro il capo. Ci hanno dato, certo, la libertà. Ma non abbiamo appreso a
usarla. Guardate la nostra televisione… Vi sono sesso, risate e birra. Ma non vi
è informazione!”
Khassan Satobayev non conosceva
personalmente Anna Politkovskaja. Ma, leggeva, regolarmente, i
suoi articoli su Internet.
Quello stesso 10
ottobre, a Dresda, Vladimir Putin, che era
rimasto in silenzio dopo l’assassinio, rilasciava questa dichiarazione
sibillina:
“Questa
persona aveva un atteggiamento critico nei confronti delle autorità, ma è
giusto che voi sappiate che lei non aveva alcuna influenza sulla politica
russa. Era conosciuta solo nell’ambiente dei giornalisti, nelle organizzazioni
per i diritti umani e in Occidente, ma ripeto: la sua influenza sulla vita
politica del nostro Paese era minima.”
La politica [in russo политика, si legge
politica], Anna Politkovskaja
l’aveva “piombata”, perfino, nel suo stesso cognome,
ed è contro quella, invadente, di Vladimir Putin, che aveva deciso di lottare.
“Assassinio dimostrativo:
uccisa il giorno del compleanno di Putin. In Russia, nel mondo del business e
della politica, è tradizionale, per il compleanno di una persona, offrirle in
dono la morte del suo oppositore o avversario principale.”
Triste reatà!
E la lista dei giornalisti russi uccisi si allunga tristemente.
Chi ha interesse a imbavagliare la stampa russa?
Il potere, gli oligarchi, la mafia, gli oppositori?
Nessuno ha la risposta, le inchieste giudiziarie non approdano, mai, a
nulla in Russia. Se i sicari vengono, talvolta, arestati, i responsabili di
questo genocidio non sono mai identificati.
Anna lo sapeva!
Nei suoi scritti invocava la necessità di rendere i giudici indipendenti e
la polizia più efficace.
La giustizia russa non è solo ingiusta, è assassina.
La giustizia russa non è solo dipendente dal potere, è serva.
La giustizia russa non è solo marcia, è fetida.
La giustizia
russa spinge i dissidenti a fuggire, come l’ex-campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, che ha ottenuto la nazionalità croata, nel
2014.
Ma, talvolta,
lasciare la Russia non basta.
Il 23 novembre
2006, moriva, a Londra, l’ex-agente dei servizi segreti russi Alexandr Val’terovic Litvinenko
[
http://www.theguardian.com/world/live/2016/jan/21/inquiry-into-the-death-of-alexander-litvinenko-live-updates],
a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, un isotopo
radioattivo del polonio, in circostanze poco chiare. Prima di morire, tuttavia,
in luglio Alexandr Val’terovic
Litvinenko aveva accusato, pubblicamente, il presidente russo
Vladimir Putin di essere il responsabile del suo avvelenamento
e il mandante dell’omicidio di Anna Poltkovskaja, e pubblicato on-line su Zakayev's Chechenpress [http://alt-f4.org/img/chechen-2006-07-05.html].
Il 23 marzo
2013, viene trovato morto nella sua residenza, nei pressi di Londra, il miliardario
sessantasettenne Boris Berezovski…
Suicidio,
assassinio?
La polizia
britannica parla di un “decesso
dovuto a cause non note”…
La sicurezza dei
giornalisti è essenziale alla difesa del diritto dei cittadini ad accedere a
informazioni affidabili e del diritto dei giornalisti a darle senza pregiudizio
alcuno per la propria sicurezza. Gli Stati e le Società devono creare e
mantenere le condizioni necessarie perché questi diritti fondamentali siano
esercitati da tutti. E, quando i crimini contro i giornalisti restano impuniti,
si può dubitare dell’impegno degli Stati a difendere le libertà fondamentali e
a imporre la supremazia del diritto. Di conseguenza, gli Stati devono adottare
una posizione ferma per impedire gli assassiniidei giornalisti e assicurare gli
autori dei crimini alla Giustizia.
Joseph Paul Goebbels, l’uomo della propaganda nazista, è stato il primo politico a
comprendere il potere della informazione e della propaganda e a utilizzarlo per la costruzione del Terzo Reich. Sosteneva:
“La propaganda è un’arte, non
importa se questa racconti la verità.”
e
suggeriva:
“Ripetete una menzogna cento,
mille, un milione di volte e diverrà una verità.”
Controllare la stampa, gestire l’opinione pubblica, modificare
il pensiero della società attraverso i media… ecco come si costruisce una menzogna,
che, dopo una brevissima gestazione, inizia a vivere di vita propria e diviene verità.
Con l’avvento, nelle democrazie contemporanee, di una vita politica imperniata
sui media, noi osserviamo due movimenti contraddittori: i media al servizio dei
politici e viceversa. È, dunque,
necessario interrogarsi sul potere dei media e la sua influenza sulla vita
democratica.
La libertà di
parola e di stampa sono garantite in Italia dalla Costituzione:
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o
censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'Autorità
giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa
espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge
stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia
possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro
della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria,
che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia
all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore
successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che
siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e
tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce
provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
E, tuttavia, il
mondo dell’informazione italiana, da anni, al centro di profonde
trasformazioni, è influenzato dalla presenza di forti potentati consolidati da
intrecci politici ed economici.
La mancanza di
indipendenza dei media viene alla ribalta, a livello internazionale, nella
classifica sulla libertà di stampa, redatta da Freedom House. L’Italia, infatti, scivolata,
nel 2003, dal 53° posto al 74°, frana rovinosamente, l’anno successivo, al 77°
posto ed entra nel gruppo dei Paesi “parzialmente
liberi”, unica anomalia dell’Europa Occidentale [https://freedomhouse.org/country/italy].
All’origine del declassamento, l’indiscutibile conflitto di interessi e l’altrettanto
indiscutibile concentrazione di proprietà dei media, che gravano sulla Presidenza
del Consiglio di Silvio Berlusconi, il quale, attraverso
proprietà familiari e potere politico sui networks
televisivi di Stato, controlla il 90% della informazione. Ad aggravare la
situazione anche la Legge 3 maggio 2004, n.112,
meglio nota come Legge Gasparri [http://www.rai.it/dl/docs/[1232099039939]LeggeGasparri.pdf],
pesantemente criticata a livello internazionale come “un pericolo per l’indipendenza della televisione pubblica e
una minaccia al pluralismo della informazione”, a dispetto di
ogni regola antitrust.
Lo scorso 20
aprile, è apparsa la classifica di Reporters sans Frontières
sulla libertà di stampa su un totale di 180 Paesi.
In questa
classifica, l’Italia è crollata di quattro posizioni, scendendo dal 73° posto
del 2015 al 77°, tra i Paesi della terza fascia [le fasce, in totale, sono 5],
al cui interno la condizione della informazione è giudicata “problematica”,
preceduta dal Lesotho, l’Armenia, il Nicaragua e la Moldova e seguita dal Benin
e la Guinea Bissau [http://rsf.org/ranking].
“La vera
libertà di stampa è dire alla gente
ciò che la gente non vorrebbe sentirsi
dire.”
George
Orwell
Daniela Zini
fondatrice e portavoce di DONNE in DIVENIRE
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