“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In politics, nothing happens by
accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D.
Roosevelt
Da sinistra a destra: Beppe Alfano,
don Pino
Puglisi mano nella mano con il piccolo Giuseppe Di Matteo, Peppino Impastato,
Giovanni
Falcone, Paolo Borsellino, Graziella Campagna, Libero Grassi, Carlo Alberto dalla Chiesa, Adolfo Parmaliana.
Il disegno è stato realizzato da Lelio Bonaccorso in occasione della
manifestazione Profumo di Libertà,
tenutasi a Messina, il 23 maggio 2010.
“La Mafia quando
diventa un fatto di infrastrutture, cessa di allarmare e di indignare.”
Ferdinando Imposimato
al Presidente
Ferdinando Imposimato
Finché vi sarà anche solo un Uomo che terrà viva la Memoria
di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vi sarà Speranza.
Grazie, Presidente.
Daniela
“Chi possiede coraggio e carattere, è sempre molto
inquietante per chi gli sta vicino.”
Hermann Hesse
In Democrazia bisogna rinunciare alla
Verità pur di garantire la Pace Civile?
La tesi dello Scrittore è che la
Verità sia indispensabile in Politica, poiché senza la Verità la Democrazia
perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
Non vi è più grande forza che dire la
Verità.
Ma che cos’è la Verità?
Negli ultimi anni, la Democrazia come
forma politica e sociale, ma, anche, come forma di Vita, è venuta a trovarsi
chiusa tra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale:
da un lato, ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base
religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro, ha dovuto misurarsi con
modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di una
economia mondiale dominata dai colossi di Internet, dove tutti sono produttori
e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale.
Vi sono, dunque, soprattutto, ragioni
politiche per dedicarsi al ruolo della Verità nella Democrazia.
Ma, poiché non esiste un metodo sicuro
per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono, pertanto, sempre
rivedibili, che cosa ci rimane, allora?
Altro non resta nella forma di Vita
eminentemente umana [Lebenswelt], se
non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni – empiriche e
normative – che sono, certamente, permeate dalla razionalità scientifica, ma
non sempre con essa coincidenti.
Dire la Verità può essere scomodo, a
volte, ma è l’unico modo per cambiare il Mondo.
A distanza di 24 anni, le Stragi di
Capaci e di via D’Amelio sono un “Mistero Italiano”, rimasto senza spiegazioni:
NESSUNA VERITA'!
Una mancanza di trasparenza che mina
la fiducia nello Stato.
Io credo che uno Scrittore abbia
l’Imperativo Morale di dire e di dirsi la Verità. E credo, anche, che, per uno
scrittore, l’Onestà Intellettuale sia il tesoro più inestimabile.
Fa scattare la scintilla...
Fa pensare: io debbo fare qualcosa...
E dentro di me è scattata quella
scintilla, che mi fa pensare:
IO DEBBO FARE QUALCOSA!
L’Onorata Società, primo nome della Mafia e prodotto
delle tradizioni locali, fu, innanzitutto, un mezzo per gli isolani per
resistere ai diversi invasori, succedutisi nella sua storia, e per protestare
contro la disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale.
Tuttavia, il contropotere iniziale divenne un “sistema parallelo
di autorità”, che si sostituì al
potere locale fino a costituire uno Stato nello Stato.
La lotta contro la Mafia, nonostante le rappresaglie
sanguinose di cui sono oggetto magistrati, forze dell’ordine e giornalisti,
continua in Italia.
“Crea di te con pazienza o impazienza
il più insostituibile e prezioso degli Esseri.”
André Gide
Tutto è pronto per la
morte,
Ciò che resiste meglio
sulla terra è la tristezza,
E ciò che resterà è la Parola sovrana.
Queste belle parole sono della grande Poetessa russa
Anna Akhmatova [1889-1966].
Nella breve introduzione al ciclo di poesie,
raccolte sotto il titolo di Requiem
[1935-1940], Anna Akhmatova racconta come queste siano nate:
“Negli anni terribili
della Ezovscinaio trascorsi
diciassette mesi in code di attesa fuori del carcere, a Leningrado. Un giorno,
qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dietro di me, con le labbra livide,
che, certamente, in vita sua, mai, aveva sentito il mio nome, riprendendosi dal
torpore mentale, che ci accomunava, mi domandò all’orecchio [là comunicavamo
tutti sottovoce]:
“Ma lei questo può
descriverlo?”
E io dissi:
“Io posso.”
Allora una specie di
sorriso scorse per quello che una volta era il suo viso.”
Leningrado, 1 aprile 1957
Anna Akhmatova [1889-1966] attribuisce al Poeta il compito di essere Voce e Coscienza del Popolo:
Io
sono la vostra Voce, il calore del vostro fiato,
Il
riflesso del vostro volto,
I
vani palpiti di vane ali...
Fa
lo stesso, sino alla fine io sto con voi.
In certi periodi della Storia vi è solo la Poesia che sia capace di guardare la realtà,
condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che, in nessun altro modo,
la mente riuscirebbe a trattenere.
In questo senso, tutto un Popolo prese il nom de
plume di Anna Akhmatova: ciò che spiega la sua popolarità e, fatto più
importante, le permise di parlare per il Popolo e di dire al Popolo cose che il
Popolo non sapeva.
Requiem è il risultato della grande e dolorosa prova di una
madre, alla quale hanno strappato il proprio figlio, ma Anna Akhmatova, al di
là del lirismo puramente personale, ingloba in questa raccolta la sofferenza di
tutto un Popolo.
Composto, alla fine degli anni 1930 per
testimoniare, con milioni di persone, la scomparsa di Esseri cari, Requiem passa, clandestinamente, di mano
in mano, e sarà il conforto di una popolazione sottomessa a un folle
sanguinario.
Sarà pubblicato, in Russia, soltanto nel 1980, ma
questa vittoria postuma è meno importante della battaglia vinta durante la sua
vita.
Nessuno aveva potuto condannarla al silenzio o
sopprimere la sua Memoria.
Come un sasso posato sul greto di un fiume ne
modifica il corso, così Anna Akhmatova, aggrappata al suo piccolo territorio,
aveva costretto il regime a scavalcarla, aggirarla, tenere conto della sua
presenza.
Bevevo le mie proprie
lacrime
Nelle mani degli altri.
Anna Akhmatova dedica questa raccolta a tutte le
donne che, come lei, avevano passato ore davanti alla prigione, per avere
notizie del proprio figlio o del proprio marito.
Questa figlia dell’alta
borghesia sarà etichettata “rinnegata”, nociva per la gioventù, reazionaria e
del tutto squilibrata da Stalin.
Solo la sua fama la
salverà dal gulag.
Come diceva il potere
sovietico:
“Noi
non possiamo conciliarci con una donna che non ha saputo morire in tempo.”
E, seppure morta, il suo
Fantasma continua a terrorizzare Putin e altri…
Anna Akhmatova è stata
per me un cartello indicatore.
La Poesia, per quanto intellettualizzata poteva esserne l’espressione,
era sempre diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea
che nasceva sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato.
Mescolava raramente il
patetico da un lato, l’elaborazione realistica dall’altro, al suo lirismo o
alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il
rigore o l’ipocrisia dei costumi non avevano influito sui Poeti antichi come su
questa donna del suo tempo.
Il gioco delle reticenze
e degli schermi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di eccessi,
perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permeava certi
componimenti ne erano una ulteriore testimonianza.
La vergogna e la paura
inseparabili da ogni esperienza clandestina conferivano alla Poesia la bellezza
di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi.
La posizione del Poeta
restava quella tipica delle grandi epoche, quella di un Artigiano squisito.
La sua funzione si
limitava a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più
precisa e la più levigata delle forme.
I suoi versi migliori
non ci davano delle esperienze o delle idee del Poeta che il punto di partenza
o quello di arrivo; tralasciavano tutto quello che, anche nei più raffinati, si
rivolgeva visibilmente al lettore, tutto quello che rientrava nell’ordine della
eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere nella saggezza un residuo
delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma più forte e più
condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e non la cenere.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono allontanata dalla
Poesia, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle mani rattrappite e
aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad andarmene a fondo.
Confesso che, di quando
in quando, l’aria intorno a me perdeva l’umidità e la permeabilità al suono; il
secchio, calato nel pozzo, non produceva un piacevole spruzzo, ma un colpo
secco contro la pietra e aveva inizio, in genere, una asfissia che durava anni.
Presentare le parole tra
loro, far scontrare le parole tra loro è divenuto usuale.
Ciò che era arditezza,
oggi, suona come una banalità!
Ma vi è un altro
percorso, anche più importante: l’esattezza, in modo che ciascuna parola, nel
verso, stia al proprio posto, come se vi fosse, già, da mille anni, ma il
lettore la sentisse, per la prima volta, nella vita.
È un percorso molto difficile, ma quando riesce le persone dicono:
“Mi riguarda; è come se fosse scritto da me.”
Io stessa, molto
raramente, provo questo sentimento nella lettura o nell’ascolto di versi
altrui.
È qualcosa tipo invidia,
ma un pò più nobile.
Scrissi la prima poesia
all’età di otto anni, era orribile, ma, già, prima, mio Padre mi chiamava,
chissà perché, poetessa decadente. Persistei nello scrivere versi, apponendovi
sopra dei numeri, cosa di cui si ignora il fine.
Viene per ciascuno di noi il momento in cui dobbiamo
pronunciare questo:
“Io
posso.”,
che non si riferisce a una certezza né a una
capacità specifica, e che, tuttavia, ci impegna e ci mette in gioco
interamente.
In un momento culturale, politico e sociale, così
carico di tensioni, ho deciso, dunque, di porre un accento di riflessione sulla
tormentata Storia del secondo dopoguerra italiano.
Far conoscere il significato universale degli eventi
disastrosi della nostra Storia è un debito verso le generazioni future e verso
il proprio Paese.
Platone diceva:
“Conoscere
è ricordare.”
E, il tentativo evoca
profondi strati di Passato: voci, suoni, odori, persone e così via, senza fine.
Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità,
l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il
pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di
appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un comportamento armonico per
la vita di questi Esseri.
Intimamente mi sorge una intuizione:
“La
forza, la posizione privilegiata, i mezzi, di cui dispongo, mi sono stati
donati in fiducia dagli Altri, affinché siano potenza di redenzione dei deboli?”
Mantenere viva la Memoria di tutte le Vittime,
civili o in divisa, cadute sotto il fuoco nemico o amico, aggiornandone l’elenco
e ricostruendone la storia è, dunque, l’impegno che prendo con:
A
Nicolò ALONGI
Nicolò AZOTI
Carmelo AGNONE
Giovan Battista ALCE
Vito ALLOTTA
Eugenio ALTOMARE
Giorgio AMBROSOLI
Carmine APUZZO
Pasquale ALMERICO
Filadelfio APARO
Vincenzo ABATE
Marcello ANGELINI
Giovanbattista ALTOBELLI
Ottavio ANDRIOLI
Cristiano ANTONIO
Giuseppe ASTA
Salvatore ASTA
Roberto ANTIOCHIA
Morello ALCAMO
Francesco ALFANO
Salvatore AVERSA
Cosimo ALEO
Antonino AGOSTINO
Alfredo AGOSTA
Antonio AMMATURO
Graziano ANTIMO
Sebastiano ALONGHI
Mariangela ANZALONE
Giovanni ATTARDO
Paolino AVELLA
Michele AMICO
Raffaele ARNESANO
Vincenzo ARATO
Agata AZZOLINA
Ilaria ALPI
Rita ATRIA
Beppe ALFANO
Fortunato ARENA
Giuseppe ALIOTTO
Carlo ALA
Alfredo ALBANES
Filippo ALBERGHINA
Emilio ALESSANDRINI
Luigi ALLEGRETTI
Antonio ANNARUMMA
Mario AMATO
Mauro AMATO
Pino AMATO
Antonio AMMATURO
Maurizio ARNESANO
Benito ATZEI
Giovanni ARNOLDI
Mauro ALGANON
Vito ALES
GIovanbattista ALTOBELLI
B
Mariano BARBATO
Fiorentino BONFIGLIO
Mario BOSCONE
Sebastiano BONFIGLIO
Antonio BUBUSA
Emanuele BUSELLINI
Giuseppe BIONDO
Salvatore BUSCEMI
Giovanni BELLISSIMA
Salvatore BOLOGNA
Attilio BONINCONTRO
Francesco BUTIFAR
Carmelo BATTAGLIA
Giuseppe BURGIO
Paolo BONGIORNO
Rocco Giuseppe BARILLA’
Domenico BENEVENTANO
Emanuele BASILE
Sebastiano BOSIO
Lorenzo BRUNETTI
Rodolfo BUSCEMI
Anna Maria BRANDI
Antonino BURRAFATO
Giuseppe BOMMARITO
Salvatore BARTOLOTTA
Michele BRESCIA
Pietro BUSETTA
Salvatore BENIGNO
Paolo BOTTONE
Donato BOSCIA
Giovanni BONSIGNORE
Andrea BONFORTE
Filippo BASILE
Angelo BRUNO
Gioacchino BISCEGLIA
Antonino BUSCEMI
Francesco BRUGNANO
Luigi BODENZA
Salvatore BENNICI
Paolo BORSELLINO
Francesco BUZZITI
Paolo BORSELLINO
Giuseppe BORSELLINO
Antonio BRANDI
Stefano BIONDI
Salvatore BOTTA
Carmelo BENVEGNA
Vittorio BACHELET
Antonio BANDIERA
Franco BATTAGLINI
Vittorio BATTAGLINI
Sergio BAZZEGA
Rosario BERARDI
Marco BIAGI
Franco BIGONZETTI
Carlo BONANTUONO
Domenico BORNAZZINI
Renato BRIANO
Gabriella BORTOLON
Felicia BARTOLOZZI SAIA
Nicola BUFFI
Giulietta BANZI BAZOLI
Sonia BURRI
Katia BERTASI
Euridia BERGIANTI
Nazzareno BASSO
Paolino BIANCHI
Irene BRETON BOUDOUBAN
Anna Maria BRANDI
Argeo BONORA
Francesco BETTI
Verdiana BIVONA
Silvana SERRAVALLI BARBERA
C
Nicola CALIPARI
Giuseppe CASSARA’
Vito CASSARA’
Giuseppe COMPAGNA
Calcedonio CATALANO
Calogero CICERO
Pino CAMILLERI
Giovanni CASTIGLIONE
Giuseppe CASARRUBEA
Alfonso CANZIO
Stefano CARONIA
Antonino CIOLINO
Vitangelo CINQUEPALMI
Margherita CLESCERI
Giorgio CUSENZA
Calogero COMAIANNI
Stefano CONDELLO
Vincenzo CARUSO
Calogero CAJOLA
Candeloro CATANESE
Giovanni CALABRESE
Calogero CANGELOSI
Salvatore CARNEVALE
Cosimo CRISTINA
Gaetano CAPPIELLO
Giorgio CIACCI
Filippo COSTA
Silvio CORRAO
Orazio COSTANTINO
Pasquale CAPPUCCIO
Pietro CERULLI
Gaetano COSTA
Susanna CAVALLI
Angela CALVANESE
Paolo CANALE
Antioco COCCO
Lucia CERRATO
Santo CALABRESE
Sergio COSMAI
Giovanni CARBONE
Graziella CAMPAGNA
Antonino CASSARÀ
Giuseppe CUTRONEO
Giulio CAPILLI
Bruno CACCIA
Rocco CHINNICI
Carmelo CERRUTO
Luigi CAFIERO
Giangiacomo CIACCIO MONTALTO
Domenico CELIENTO
Giovanni CATALANOTTI
Ida CASTELLUCCI
Donato CAPPETTA
Domenico CALVIELLO
Anna Maria CAMBRIA
Angelo CARBOTTI
Domenico CATALANO
Pietro CARUSO
Salvatore CASTELBUONO
Fabio CORTESE
Antonio CIVININI
Aniello CORDASCO
Francesco CRISOPULLI
Giuseppe CARUSO
Saverio CIRRINCIONE
Leonardo CANCIARI
Liliana CARUSO
Gioacchino COSTANZO
Giuseppe CILIA
Giovanni CARBONE
Fortunato CORREALE
Adolfo CARTISANO
Pasquale CAMPANELLO
Dario CAPOLICCHIO
Andrea CASTELLI
Angelo CARLISI
Giulio CASTELLINO
Antonio CONDELLO
Arturo CAPUTO
Antonio Carlo CORDOPATRI
Pasquale CRISTIANO
Agostino CATALANO
Walter Eddie COSINA
Ferdinando CHIAROTTI
Enrico CHIARENZA
Maria COLANGIULI
Saverio CATALDO
Paolo CASTALDI
Stefano CIARAMELLA
Torquato CIRIACO
Massimo CARBONE
Gianluca CONGIUSTA
Luigi CALABRESI
Fedele CALVOSA
Andrea CAMPAGNA
Mario CANCIELLO
Ciro CAPOBIANCO
Luigi CARBONE
Luigi CARLUCCIO
Giuseppe CARRETTA
Carlo CASALEGNO
Antonio CASU
Giovanni CERAVOLO
Antonio CESTARI
Antonio CHIONNA
Raffaele CINOTTI
Francesco CIAVATTA
Giuseppe CIOTTA
Carmine CIVITATE
Francesco COCO
Enea CODOTTO
Piero COGGIOLA
Ottavio CONTE
Lando CONTI
Giorgio CORBELLI
Ippolito CORTELLESSA
Martino COSSU
Roberto CRESCENZIO
Fulvio CROCE
Francesco CUSANO
Antonio CUSTRA
Lorenzo CUTUGNO
Pietro CUZZOLI
Rita CACICIA
Mirco CASTELLARO
Antonella CECI
Giulio CHINA
Eugenio CORSINI
Elena CELLI
Davide CAPRIOLI
Susanna CAVALLI
Lucia CERRATO
Dario Capolicchio
Flavia CASADEI
D
Croce DI GANGI
Giuseppe DI MAGGIO
Filippo DI SALVO
Agostino D’ALESSANDRO
Fedele DE FRANCISCA
Michele DI MICELI
Vincenzo DI SALVO
Antonino DAMANTI
Antonio DI SALVO
Mauro DE MAURO
Rosario DI SALVO
Carlo Alberto DALLA CHIESA
Emanuela SETTI CARRARO DALLA CHIESA
Luigi D’ALESSIO
Gennaro DE ANGELIS
Calogero DI BONA
Gerardo D’ARMINIO
Mario D’ALEO
Anna DE SIMONE
Giovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Luigi DI BARCA
Claudio DOMINO
Nicola D’ANTRASSI
Giovanni DI BENEDETTO
Cataldo D’IPPOLITO
Fabio DE PANDI
Cosimo DURANTE
Salvatore D’ADDARIO
Felice DARA
Giuseppe DI LAVORE
Rocco DI CILLO
Salvatore DI FALCO
Raffaele DI MERCURIO
Maurizio D’ELIA
Gaetano DE ROSA
Marco DE FRANCHIS
Alberto DE FALCO
Giuseppe DI MATTEO
Moussafir DRISS
Don Giuseppe DIANA
Pasquale DI LORENZO
Andrea DI MARCO
Agatino DIOLOSA’
Matteo DI CANDIA
Federico DEL PRETE
Annalisa DURANTE
Giovanni D’ALFONSO
Sebastiano D’ALLEO
Massimo D’ANTONA
Fanny DALLARI
Antioco DEIANA
Raffaele DELCOGLIANO
Bianca DELLER
Mario DE MARCO
Carmine DE ROSA
Francesco DI CATALDO
Giovanni DI LEONARDO
Fausto DIONISI
Ciriaco DI ROMA
Franco DONGIOVANNI
Pietro DENDENA
Elena DONATINI
Roberto DE MARCHI
Elisabetta MANEA DE MARCHI
Franca DALL’OLIO
Mauro DI VITTORIO
Antonio DI PAOLA
Angela CALVESE DE SIMONE
Anna DE SIMONE
GIovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Brigitte DROUHARD
E
Vittorio EPIFANI
Francesco ESTATICO
Maurizio ESTATE
Vittorio ESPOSITO
Antonio ESPOSITO
Francesco EVANGELISTA
Berta EBNER
F
Paolo FARINA
Domenico FRANCAVILLA
Salvatore FALCETTA
Marino FARDELLI
Francesco FERLAINO
Giuseppe FIORENZA
Mario FRANCESE
Antonio FONTANA
Antonio ESPOSITO FERRAIOLI
Silvano FRANZOLIN
Antonio FEDERICO
Giuseppe FAVA
Renata FONTE
Giovanni FILIANO
Giovanni FALCONE
Francesca MORVILLO FALCONE
Francesco FORTUGNO
Michele FAZIO
Rosario FLAMINIO
Salvatore FRAZZETTO
Giacomo FRAZZETTO
Serafino FAMÀ
Alessandro FERRARI
Antonino FAVA
Angela FIUME
Paolo FICALORA
Silvana FOGLIETTA
Giuseppe FALANGA
Antonio FERRARA
Leonardo FALCO
Graziella FAVA
Armando FEMIANO
Giuseppe FILIPPO
Lorenzo FORLEO
Filippo FOTI
Alessandro FLORIS
Antonio FRASCA
Antonio FERRARO
Tsugufumi FUKUDA
Angela FRESU
Maria FRESU
Rosa FASSARI
Mirella FORNASARI
Errica FRIGERIO DIOMEDE FRESA
Vito DIOMEDE FRESA
Cesare Francesco DIOMEDE FRESA
Alessandro Ferrari
G
Antonino GUARISCO
Gaetano GUARINO
Marcantonio GIACALONE
Antonio GIACALONE
Carlo GULINO
Francesco GULINO
Emanuele GRECO
Giorgio GENNARO
Giovanni GRIFO’
Luigi GERONAZZO
Paolo GIACCONE
Leopoldo GASSANI
Giuseppe GRIMALDI
Provvidenza GRECO
Rocco GATTO
Boris GIULIANO
Giuliano GIORGIO
Carmelo GANCI
Giovanni GIORDANO
Filippo GEBBIA
Alberto GIACOMELLI
Vincenzo GRASSO
Pietro GIRO
Elisabetta GAGLIARDI
Mario GRECO
Valentina GUARINO
Libero GRASSI
Nicola GUERRIERO
Giuliano GUAZZELLI
Gaetano GIORDANO
Giuseppe GRIMALDI
Vincenzo GAROFALO
Nicholas GREEN
Melchiorre GALLO
Giuseppina GUERRIERO
Giovanni GARGIULO
Loris GIAZZON
Giuseppe GIAMMONE
Domenico GULLACI
Giuseppe GRANDOLFO
Domenico GERACI
Nicola GIOITTA IACHINO
Guido GALLI
Enrico GALVALIGI
Antonio GALLUZZO
Lino GHEDINI
Carlo GHIGLIENO
Nicola GIACUMBI
Licio GIORGIERI
Graziano GIRALUCCI
Sergio GORI
Michele GRANAIO
Claudio GRAZIOSI
Giuseppe GURRIERI
Carlo GAIANI
Calogero GALATIOTO
Carlo GARAVAGLIA
Paolo GERLI
Manuela GALLON
Natalia AGOSTINI GALLON
Carla GOZZI
Pietro GALASSI
Andrea GANGEMI
Roberto GAIOLA
Raffaella GAROSI
Francesco GOMEZ MARTINEZ
H
Miran
HROVATIN
Wilhelmus
J. HANEMA
I
Castrenze INTRAVAIA
Giuseppe IMPASTATO
Filippo INTILE
Rosario IOZIA
Carmelo IANNÒ
Giuseppe INSALACO
Francesco IMPOSIMATO
Nicandro IZZO
Saverio IERACI
Giuseppe IACONA
Enrico INCOGNITO
Salvatore INCARDONA
Raffaele IORIO
Luigi IOCULANO
Raffaele IOZZINO
Emanuele IURILLI
Maria IDRIA AVATI
J
Carmelo JANNI’
Vito JEVOLELLA
K
John Andrei KOLPINSKI
Herbert KONTRINER
L
Paolo LI PUMA
Vincenzina LA FATA
Serafino LASCARI
Giovanni LA BROCCA
Vittorio LEVICO
Epifanio LI PUMA
Giuseppe LETIZIA
Angelo LOMBARDI
Vincenzo LA ROCCA
Vincenzo LO IACONO
Carmelo LENTINI
Armando LODDO
Caterina LIBERTI
Salvatore LONGO
Giannino LOSARDO
Pio LA TORRE
Giuseppe LALA
Antonino LORUSSO
Simonetta LAMBERTI
Renato LIO
Giuseppe LEONE
Calogero LORIA
Rosario LIVATINO
Pier Francesco LEONI
Stefano LI SACCHI
Vincenzo LEONARDI
Carlo LA CATENA
Giuseppe LA FRANCA
Raffaella LUPOLI
Antonio LIPPIELLO
Davide LADINI
Ferdinando LIQUORI
Fortunato LAROSA
Velia CARLI LAURO
Salvatore LAURO
Umberto LUGLI
Pier Francesco LAURENTI
Vincenzo LANCONELLI
Pier Francesco LEONI
Carlo La Catena
Emanuela LOI
Vincenzo LI MULI
Angelo Raffaele LONGO
Hamdi LALA
Rolando LANARI
Salvatore LANZA
Santo LANZAFAME
Giuseppe LOMBARDI
Oreste LEONARDI
Andrea LOMBARDINI
Giuseppe LORUSSO
Ezio LUCARELLI
Antonio Francesco LASCALA
M
Giuseppe MISURACA
Mario MISURACA
Accursio MIRAGLIA
Pietro MACCHIARELLA
Paolo MIRMINA
Giuseppe MONTICCIOLO
Santi MILISENNA
Enrico MATTEI
Giovanni MEGNA
Nicola MESSINA
Michele MARINAR
Giuseppe MANIACI
Salvatore MESSINA
Pasquale MARCONE
Sergio MANCINI
Lenin MANCUSO
Domenico MARRARA
Piersanti MATTARELLA
Giuseppe MARTURANO
Domenico MARTURANO
Mario MALAUSA
Calogero MORREALE
Giuseppe MUSCARELLI
Nicola MIGNOGNA
Rosario MONTALTO
Sebastiano MORABITO
Giuseppe MONTALBANO
Natale MONDO
Maria MARCELLA
Vincenzo MICELI
Pietro MORICI
Andrea MORMILE
Pasquale MANDATO
Salvatore MUSARO’
Luisella MATARAZZO
Maria Luigia MORINI
Gennaro MUSELLA
Vincenzo MULE’
Valeria MORATELLO
Giuseppe MANGANO
Antonio MARINO
Beppe MONTANA
Giuditta MILELLA
Carmine MOCCIA
Giuseppe MACHEDA
Antonio MORREALE
Girolamo MARINO
Antonio MONTALT
Antonino MONTELEONE
Pasquale Salvatore MAGRI’
Claudio MANCO
Giuseppe MONTALTO
Cosimo Fabio MAZZOLA
Rosario MINISTERI
Francesco MARZANO
Giuseppe MESSINA
Graziano MUNTONI
Francesco MANISCALCO
Salvatore MINEO
Antonino MONTINARO
Mauro MANIGLIO
Tonino MAIORANO
Tina MOTOC
Gaetano MARCHITELLI
Giuseppe MARNALO
Francesco MARCONE
Giuseppe MANFREDA
Gianfranco MADIA
Bartolomeo MANA
Angelo MANCIA
Mikaeli MANTAKAS
Luigi MARANGONI
Antonio MARINO
Felice MARITANO
Luigi MARONESE
Edoardo MARTINI
Federico MASARIN
Giorgina MASI
Manfredo MAZZANTI
Giuseppe MAZZOLA
Stefano MATTEI
Virgilio MATTEI
Antonio MEA
Girolamo MINERVINI
Aldo MORO
Gianni MUSSI
Anna Maria BOSIO MAURI
Carlo MAURI
Luca MAURI
Angela MARINO
Leo Luca MARINO
Domenica MARINO
Eckhardt MADER
Patrizia MESSINEO
Catherine Helen MITCHELL
Antonio MONTANARI
Rosina BARBARO MONTANI
Lina FERRETTI MANNOCCI
Rossella MARCEDDU
Margret ROHRS MADER
Kai MADER
Luigi MELONI
Vittorio MOCCHI
Antidio MEDAGLIA
Amorveno MARZAGALLI
Luisella MATARAZZO
Carmine MOCCIA
Valeria MORATELLO
Maria Luigia MORINI
Nicoletta MAZZOCCHIO
Driss Moussafir
Maria Angela MARANGON
Livia BOTTARDI MILANI
N
Emanuele NOTARBARTOLO
Pasquale NUCCIO
Luciano NICOLETTI
Nadia NENCIONI
Caterina NENCIONI
Fabrizio NENCIONI
Francesco NAZZARO
Emanuele NOBILE
Fabio NUNNERI
Salvatore NUVOLETTA
Antonio NIEDDA
Angelamaria Fiume Nencioni
Fabrizio Nencioni
Ceterina Nencioni
Nadia Nencioni
Nilla NATALI
Euplo NATALI
O
Lidia OLLA CARDILLO
Giovanni ORCEL
Andrea ORLANDO
Peter IWULE ONJEDEKE
Salvatore OTTONE
Giuseppe ORLANDO
Francesco OLIVIERO
Serafino OGLIASTRO
Vittorio OCCORSIO
Pierino OLLANU
P
Lorenzo PANEPINTO
Giorgio PECORARO
Vincenzo PECORARO
Antonino PECORARO
Mario PAOLETTI
Rosario PAGANO
Giuseppe PUNTARELLO
Pietro PONZO
Nunzio PASSAFIUME
Imerio PICCINI
Vito PIPITONE
Francesco PIGNATARO
Antonino POLLARI
Gabriele PALANDRANI
Anna PRESTIGIACOMO
Joe PETROSÌNO
Giuliano PENNACCHIO
Giacinto PULEO
Giuseppe PIANI
Nicolò PIOMBINO
Salvatore POLLARA
Pasquale PAOLA
Luciano PIGNATELLI
Antonio PIANESE
Pietro PATTI
Franco PUZZO
Roberto PARISI
Giuseppe PILLARI
Carmela PANNONE
Emanuele PIAZZA
Saverio PURITA
Nunzio PANDOLFI
Angelica PIRTOLI
Ignazio PANEPINTO
Maria Teresa PUGLIESE
Girolamo PALAZZOLO
Santa PUGLISI
Giuseppe PUGLISI
Stefano PICERNO
Sergio PASOTTO
don Giuseppe PUGLISI
Anna PACE
Luigi PULLI
Stefano POMPEO
Giovanni PANUNZIO
Claudio PEZZUTO
Francesco PEPI
Lucia PRECENZANO
Vito PROVENZANO
Calogero PANEPINTO
Domenico Nicolò PANDOLFO
Domenico PACILIO
Rodolfo PATERA
Ennio PETROSINO
Vittorio PADOVANI
Riccardo PALMA
Antonio PALUMBO
Prisco PALUMBO
Pasquale PAOLA
Alfredo PAOLELLA
Paolo PAOLETTI
Settimio PASSAMONTI
Enrico PEDENOVI
Antonio PEDIO
Giuseppe PEGLIEI
Giovanni PERSOGLIO GALAMERO
Emanuele PETRI
Franco PETRUCCI
Giuseppe PISCIUNERI
Salvatore PORCEDDU
Sergio Pasotto
Stefano Picerno
Giuseppe PANZINO
Donato POVEROMO
Gerolamo PAPETTI
Mario PASI
Carlo PEREGO
Luigi PINTO
Giuseppe PATRUNO
Roberto PROCELLI
Angelo PRIORE
Vincenzo PETTENI
Letizia Concetta PALUMBO
Q
Cosimo QUATTROCCHI
Francesco QUATTROCCHI
R
Giuseppe RECHICHI
Giuseppe RUMORE
Placido RIZZOTTO
Andrea RAJA
Vincenzo RICCARDELLI
Emanuele RIBOLI
Quinto REDA
Ilario RUSSO
Paolino RICCOBONO
Matteo RIZZUTO
Salvatore RAITI
Domenico RUSSO
Vincenzo RUSSO
Giuseppe RUSSO
Mauro ROSTAGNO
Luigi RANIERI
Michele REINA
Pietro RAGNO
Massimo RIZZI
Alessandro ROVETTA
Barbara RIZZO ASTA
Angelo RICCARDO
Domenico RANDÒ
Antonio RAMPINO
Antonio RUSSO
Francesco ROSSI
Attilio ROMANO’
Maria Incoronata RAMELLA
Silvia RUOTOLO
Giuseppe RUSSO
Nicola REMONDINO
Paolo RODA’
Giuseppe RADICIA
Salvatore ROSA
Romano RADICI
Giuseppe RAPESTA
Sergio RAMELLI
Stefano RECCHIONI
Valeria RENZI
Domenico RICCI
Giulio RIVERA
Mariano ROMITI
Guido ROSSA
Luciano ROSSI
Walter ROSSI
Francesco RUCCI
Roberto RUFFILI
Maria Santina CARRARO RUSSO
Marco RUSSO
Nunzio RUSSO
Pio Carmine REMOLLINO
Gaetano ROD
Romeo RUOZI
S
Costantino STELLA
Domenico SPATOLA
Mario SPATOLA
Pietro SPATOLA
Paolo SPATOLA
Antonino SCUDERI
Vito STASSI
Giovanni SANTANGELO
Vincenzo SANTANGELO
Giuseppe SANTANGELO
Giovanni SEVERINO
Marina SPINELLI
Francesco SASSANO
Giuseppe SPAGNUOLO
Filippo SCIMONE
Giuseppe SCALIA
Emanuela SANSONE
Nunzio SANSONE
Girolamo SCACCIA
Vincenza SPINA
Giovanni SPAMPINATO
Angelo SORINO
Michelangelo SALVIA
Vincenzo SAVOCA
Giuseppina SAVOCA
Vincenzo SPINELLI
Nunziata SPINA
Filippo SALSONE
Antonio SABIA
Antonino SAETTA
Stefano SAETTA
Giuseppe SALVIA
Rosario SCIACCA
Giuseppe SCEUSA
Salvatore SCEUSA
Grazia SCIME’
Andrea SAVOCA
Sandra STRANIERI
Antonino SCOPELLITI
Salvatore SCHIMMENTI
Giuseppe SPADA
Giancarlo SIANI
Biagio SICILIANO
Salvatore SQUILLACE
Incoronata SOLLAZZO
Maria Antonietta SAVONA
Riccardo SALERNO
Davide SANNINO
Rosario SALERNO
Antonio SOTTILE
Vincenzo SALVATORI
Stefano SIRAGUSA
Antonio SPARTÀ
Salvatore SPARTÀ
Vincenzo SPARTÀ
Giovanni SIMONETTI
Emanuele SAUNA
Antonino SIRAGUSA
Lucio STIFANI
Leonardo SANTORO
Dario SCHERILLO
Matilde SORRENTINO
Fedele SCARCELLA
Domenico STANISCI
Sandro SCARPATO
Luigi SEQUINO
Orazio SCIASCIO
Vito SCHIFANI
Francesco SCERBO
Lino SABBADIN
Franco SAMMARCO
Antonio SANTORO
Rocco SANTORO
Giovanni SAPONARA
Carlo SARONIO
Giuseppe SAVASTANO
Rosario SCALIA
Italo SCHETTINI
Roberto SCIALABBA
Giuseppe SCRAVAGLIERI
Gianfranco SPIGHI
Franco STRAULLU
Oreste SANGALLI
Angelo SCAGLIA
Carlo SILVA
Salvatore SEMINARA
Mario SICA
Iwao SEKIGUCHI
Silver SIROTTI
Loredana MOLINA SACRATI
Sergio SECCI
T
Giuseppe TESAURO
Giovanni TASQUIER
Antonino TRIPODO
Ugo TRIOLO
Mario TRAPASSI
Giuseppe TRAGNA
Michele Arcangelo TRIPODI
Carmine TRIPODI
Federica TAGLIALATELA
Gioacchino TAGLIALATELA
Roberto TICLI
Marcella TASSONE
Antonio TAMBORINO
Cesare TERRANOVA
Marcello TORRE
Claudio TAGLIATATELA
Hiso TELARAY
Francesco TAMMONE
Calogero TRAMUTA
Anna Maria TORNO
Claudio TRAINA
Giovanni TRECROCI
Francesco TRAMONTE
Valentina TERRACCIANO
Salvatore TIENI
Bonifacio TILOCCA
Ezio TARANTELLI
Giuseppe TALIERCIO
Girolamo TARTAGLIONE
Michele TATULLI
Domenico TAVERNA
Lucio TERMINIELLO
Euro TERSILLI
Walter TOBAGI
Pierluigi TORREGGIANI
Mario TOSA
Vincenzo TUMMIELLO
Emanuele TUTTOBENE
Bartolomeo TALENTI
Clementina CALZARI TREBESCHI
Maria Antonella TROLESE
Anna Maria SALVAGNINI TROLESE
Angelica TARSI
Federica TAGLIALATELA
Gioachino TAGLIALATELA
Alberto TREBESCHI
V
Bernardo VERRO
Francesco VICARI
Calogero VACCARO
Onofrio VALVOLA
Mariano VIRONE
Giuseppe VALARIOTI
Domenico VECCHIO
Antonio VALENTI
Leonardo VITALE
Abramo VASTARELLA
Vincenzo VENTO
Francesco VECCHIO
Paolo VINCI
Alberto VALLEFUOCO
Riccardo VOLPE
Antonino VASSALLO
Raffaele VITIELLO
Alberto VARONE
Gelsomina VERDE
Vincenzo VACCARO NOTTE
Salvatore VACCARO NOTTE
Giovanni VOLPE
Antonio VARISCO
Sebastiano VINCI
Eleno VISCARDI
Eliberto VOLGGER
Attilio VALÈ
Eleonora GERACI VACCARO
Vittorio VACCARO
Rita VERDE
Adriana Maria VASSALLO
Abramo VASTARELLA
Fausto VENTURI
Z
Giovanni ZANGARA
Celestino ZAPPONI
Calogero ZUCCHETTO
Carmelo ZACCARELLO
Daniele ZOCCOLA
Erilda ZTAUSCI
Ciro ZIRPOLI
Rosa ZAZA
Giuseppe ZIZOLFI
Agata ZUCCHERO
Alfio ZAPPALA’
Mario ZICCHIERI
Francesco ZIZZI
Vincenzina SALA ZANETTI
Paolo ZECCHI
Viviana BUGAMELLI ZECCHI
Onofrio ZAPPALÀ
Vittorio ZAMBARDA
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul
nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo
assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta,
dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte
delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno
alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi,
che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può
essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce
del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo
assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti
della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso
incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in
una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo
intimamente e storicamente contrari
alle società segrete, ai giuramenti
segreti e alle procedure segrete.
Abbiamo deciso, molto tempo fa, che
i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i
pericoli che vengono invocati
a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete,
che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra,
il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto
di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno
dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso
dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete
attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel
cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage,
solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più
conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i
segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in
parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia,
contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che
degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui
la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene,
incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo
fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di
Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una
idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono
stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui
non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un
disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le
nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici,
inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale,
governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché
eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle
repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella
rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei
faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società
stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo
era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse,
formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita
del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio
neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una
espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di
condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di
questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e,
dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo
di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la
certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un
grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette
vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra
dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la
nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione
delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti
sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di
società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive
settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza
sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta
esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite
dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei
loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà
interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a
partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è,
sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage,
senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere
e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini
SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Prima -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Seconda -
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma
Caput Immondum
A. La
Banca Romana
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
3. LA
QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano
Massoneria - Parte Terza -
Roma
Caput Immondum
B. Il
banchiere di Dio
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
4.
MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
II. LA
MAFIA
5.
TURIDDU 65 ANNI DOPO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
1. LA
SPADA E IL CILIEGIO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
2. IL
LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL
DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
III. I
SAMURAI
3.
CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE
IV. L’ORDINE
SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL
PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di
Daniela Zini
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini
“Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di
orientare certe azioni della Mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i
vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho
l’impressione che sia questo lo scenariosinto ttera più attendibile
se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad
assassinarmi.”
Giovanni Falcone
“Mi
uccideranno, ma non sarà una vendetta della Mafia, la Mafia non si vendica.
Forse, saranno mafiosi quelli che, materialmente, mi uccideranno, ma quelli che
avranno voluto la mia morte saranno altri.”
Paolo
Borsellino
6.
MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN
BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!”
“La Mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare
valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi
con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il
numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere
sempre diversa e sempre uguale a se stessa.”
Giovanni Falcone
Il 27 maggio
2013 [http://www.antimafiaduemila.com/home/primo-piano/43124-trattativa-stato-mafia-la-diretta-dal-processo.html,
http://www.ipezzimancanti.it/,
https://www.youtube.com/watch?v=su4PreRS0oM
], si apre, a Palermo, un processo storico per l’Italia: il processo dell’indicibile,
che tenterà di fare luce, venti anni dopo, sul patto suggellato tra Stato e
Cosa Nostra, nella Sicilia degli inizi degli anni 1990, con il sangue dei
giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati nel 1992.
Per la prima
volta, esponenti politici: l’ex-ministro dell’interno Nicola Mancino, il
senatore del PDL Marcello Dell’Utri e l’ex-ministro Calogero Mannino; alti
ufficiali del ROS: l’ex-generale Antonio Subranni, l’ex-generale del ROS, Mario
Mori, l’ex-colonnello del ROS Giuseppe De Donno; e… bosses di Cosa Nostra: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Nino
Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca si trovano, fianco a fianco, alla
sbarra. Il processo verrà richiesto anche per il figlio dell’ex-sindaco Vito
Ciancimino, Massimo.
“Questa
richiesta di rinvio a giudizio è un capriccio di Ingroia. Capovolge la mia
posizione: da minacciato prolungatamente dall’incombenza di un attentato
mafioso, ad accusato. Insomma, da vittima vengo trasformato da Ingroia in ben
altro.”,
è il commento di
Calogero Mannino.
“Il
vero problema della Giustizia a Palermo è proprio Ingroia. Da 21 anni vado e
vengo dal Palazzo di Giustizia di Palermo, risultando alla fine innocente. Ma
affronterò anche questa storia e affronterò Ingroia che, invece di cercare la
verità, l’affossa con questo processo.”[http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/stato-mafia-rinvio.aspx]
Sono 12 gli
indagati nella trattativa segreta, che sarebbe stata avviata tra la primavera
del 1992 e l’inverno del 1994. Per tutti il reato ipotizzato è quello di
attentato a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, a
eccezione di Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, dopo la sua
audizione al processo Mori-Obinu del 24
febbraio 2012.
“Hanno
agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato.”,
si legge nel provvedimento
dei magistrati palermitani.
Dietro questa
formula alquanto oscura si nasconde il sospetto che, alla fine dell’era
democristiana degli anni 1990, caratterizzata in Sicilia da una collusione,
almeno elettorale, tra politici e “ommini d’onore”, nuovi equilibri si siano
relalizzati tra mafiosi ed eletti locali o nazionali di origine siciliana.
Come si sarebbe
sostanziata questa nuova collusione?
Con una lista di
rivendicazioni, stilata dal Gotha di
Cosa Nostra, sulla quale figurava essenzialmente “l’attenuazione
del 41 bis”, vale a dire del regime del carcere duro per i
mafiosi detenuti.
In cambio, Cosa
Nostra offriva la fine degli attentati.
All’epoca, i
grandi partiti politici si erano spaccati e Forza Italia, la creatura di Silvio
Berlusconi, vedeva il giorno.
Da più di dieci
anni, i padrini di Cosa Nostra conducevano una guerra senza precedenti contro
lo Stato, eliminando i suoi rappresentanti, in Sicilia, gli uni dopo gli altri.
Sotto questo
tappeto di bombe, uomini, in seno alle istituzioni, avrebbero negoziato l’arresto
degli attentati e la pelle di politici allora minacciati, cedendo al ricatto
della Mafia…
In base alla
ricostruzione dei pm di Palermo, il primo contatto con Cosa Nostra sarebbe
stato cercato da Calogero Mannino, che, dopo l’omicidio di Salvo Lima,
paventava l’offensiva mafiosa nei confronti dei politici, rei di non aver
saputo bloccare le sentenze del Maxiprocesso. La trattativa sarebbe stata, poi,
avviata da Mori e De Donno, che incontrarono, più volte, don Vito Ciancimino
per arrivare a Riina. Il dialogo tra Mafia e Stato sarebbe proseguito fino al
novembre del 1993, quando l’allora
guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò oltre 300 provvedimenti di 41 bis per
detenuti mafiosi [http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/12/cottone-stragi-bozza/170026/,
http://palermo.blogsicilia.it/trattativa-lex-ministro-conso-sulla-revoca-del-41-bis-non-decise-da-solo/288770/
Ma perché
sarebbe illegittimo, riprovevole e passibile di azioni penali, che alcuni
rappresentanti dello Stato abbiano cercato di evitare attentati sanguinosi, che
avrebbero costato la vita a politici, magistrati e ad agenti di scorta e che
avrebbero destabilizzato, profondamente, la coscienza civica degli Italiani?
Non è ciò che
fanno tutti gli Stati democratici attraverso i loro servizi segreti, quando si
tratta di contrastare il crimine organizzato?
Negoziano!
Cedono
informazioni per ottenerne altre.
Fanno
concessioni che reputano irrilevanti in rapporto al fine che intendono
raggiungere.
In tutto il
mondo!
19
maggio 1949,
la seconda guerra mondiale si è appena conclusa e un giovane Salvatore Riina, appena diciannovenne,
detto Totò u curtu esce per la consueta partita di bocce al campo di via
Giovanbattista Scarlata. Scoppia una lite e partono le revolverate. Riina,
appena diciannovenne, uccide una persona e ne ferisce un’altra. È lo stesso
Navarra che lo obbliga a costituirsi: Riina entra per la prima volta all’interno
degli archivi di un tribunale della neonata Repubblica. La Corte di Assise di
Palermo lo condanna a sedici anni e
cinque mesi. La prima puntata della carriera criminale di Riina
contrapposta a quella dello Stato italiano è andata in scena. Cinque anni dopo u curtu è già fuori
grazie a sconti e condoni e cresce nella nuova classe dirigente di Cosa Nostra,
nonostante il suo livello di istruzione si fermi alla terza elementare,
conseguita in carcere a 22 anni.
Al grido di “Fuori la Mafia dallo Stato” e “Vergogna”, il popolo delle
Agende Rosse contesta l’ex-ministro Nicola Mancino, che sta lasciando l’aula bunker del Carcere Pagliarelli di
Palermo.
Palermo, 27
maggio, dunque.
Sono le 8.55,
nel Carcere Pagliarelli.
Sotto i flashes, un uomo, seguito dalla sua
scorta, si precipita nel bunker dove
sta per tenersi il processo. È Nicola Mancino l’ex-ministro dell’interno,
accusato di falsa testimonianza. Alla sbarra, si lagna:
“Non posso stare nello stesso processo in
cui c’è la Mafia.”
L’ex-generale Antonio Subranni nell’aula
bunker del carcere Pagliarelli.
Alle 8.58, lo
segue il generale Antonio Subranni,
comandante del ROS, nel 1992.
Alle 9.02,
arriva Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, ex-sindaco di Palermo .
“Milano...
Milano.”,
gracchia, alle
9.26, una voce in un altoparlante.
L’aula si
connette in videoconferenza con un detenuto del Carcere di Opera, a Milano.
Il volto
crepucolare di Totò Riina invade lo schermo. Il capo dei capi di Cosa Nostra,
il despota sanguinario, che ha ordinato la morte di Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, è vestito di grigio, statico.
Poi, appare un
altro detenuto, Leoluca Bagarella, uno dei killers
più spietati di Cosa Nostra.
Infine, in
diretta, da un altro carcere tenuto segreto, Giovanni Brusca.
I più bei fleurons della Mafia di fronte agli
uomini dello Stato!
Mancano in
questo casting eccezionale, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri, l’architetto di
Forza Italia e l’eminenza nera di Silvio Berlusconi.
176 testimoni
dovranno sfilare alla sbarra.
Se la corte lo
giudicherà necessario, potrebbe essere pregato di spiegarsi su una lettera, che
gli aveva inviato, il 18 giugno 2012 [http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=7581:napolitano-e-il-processo-sulla-trattativa-se-questo-e-un-presidente&catid=20:altri-documenti&Itemid=43,
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/17/trattativa-stato-mafia-napolitano-chiamato-a-testimoniare-nel-processo/597264/,
http://www.giornalettismo.com/archives/1566409/stato-mafia-la-procura-insiste-per-deposizione-di-napolitano/],
il suo ex-consigliere giuridico Loris D’Ambrosio – deceduto il 26 luglio 2012
–, in cui lo stesso D’Ambrosio esternava il “vivo
timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di
cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, nel
periodo tra il 1989 e il 1993, ovvero, quando ricopriva incarichi prima
all’Alto commissariato per la lotta a Cosa Nostra e, poi, al Ministero della
Giustizia. Lo stesso periodo in cui per l’accusa si sviluppava l’accordo
tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato...
Vi sono anche altri
testimoni eccellenti: l’ex-presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, l’ex-procuratore
nazionale antimafia Pietro Grasso, oggi, presidente del Senato.
Nessuno sa
quanto durerà il processo…
Le sue udienze
contribuiranno, forse, a scrivere il libro dei defunti ideali che l’Italia ha
festeggiato in quelle nozze di sangue e faranno, forse, luce sul presente.
Ma tutto resta
da provare in questa storia, dove uomini chiave sono morti, e dove tanti altri
hanno perso la memoria…
L’ex-capitano De
Donno, interrogato sulla presunta trattativa, come il suo capo Mori, sostiene
che loro hanno, sempre e solo, voluto indurre a collaborare Vito Ciancimino,
passando sopra la Direzione Investigativa Antimafia [DIA], uno sgambetto
investigativo e istituzionale contro l’organo che era, all’epoca, competente di
ogni azione di contrasto alla Mafia.
Sentito come
testimone al processo, che vedeva Mori, imputato a Firenze per favoreggiamento
alla Mafia, De Donno aveva raccontato degli incontri con Vito Ciancimino dopo
la strage in cui morì Giovanni Falcone.
“Decidemmo
di contattare in qualche modo la Mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare
le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa, non c’è mai stato nulla da
trattare. Non ho mai visto il “papello”. Anche il contropapello l’ho visto solo
sui giornali. In ogni caso, quello che è scritto sul contropapello era quello
che era scritto nel libro Le Mafie. Si possono confrontare.”,
così De Donno,
aveva risposto alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale di Mori.
Interrogato dal pm Nino Di Matteo, l’ex-ufficiale aveva
puntualizzato il concetto di trattativa, di cui lui stesso aveva parlato, come
gli aveva ricordato il pm, durante una deposizione, nel 1997, a Firenze, nel
processo sulle stragi. In quell’occasione, De Donno aveva asserito che, durante
i colloqui con Vito Ciancimino, “gli proponemmo
di farsi tramite con Cosa Nostra, al fine di trovare un punto d’incontro
finalizzato alla cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato”, e che in quella trattativa, i “carabinieri rappresentavano lo
Stato”.
De Donno aveva
ammesso la circostanza:
“Sì
è vero. Confermo di avere detto questo. Ma non parlo della trattativa come
viene intesa adesso. Con Ciancimino noi non volevamo trattare nulla, volevamo
la fine delle stragi. Non c’è stata nessuna trattativa. Noi cercammo un
approccio con Ciancimino su questo punto.”
De Donno aveva
precisato che i suoi rapporti con don Vito Ciancimino “nascono
nel giugno del 1992 dopo la morte di Falcone. Prima avevo avuto solo qualche
incontro con il figlio Massimo nelle aule del Tribunale. In quel periodo, il
generale Mori decise una serie di attività investigative per capire cosa stava
succedendo. Valutammo di contattare Vito Ciancimino attraverso Massimo. L’idea
fu mia e il colonnello Mori mi autorizzò”.
Sempre in quella
occasione De Donno aveva negato che lui e Mori avessero ricevuto il “papello”
da Ciancimino e aveva puntualizzato:
“Vito
Ciancimino non ha portato elementi utili alla cattura di Riina. Del resto lui
era stato arrestato a dicembre. Le indagini che portarono alla cattura di Riina
non furono in nessuna maniera aiutate da Ciancimino.”
A fare da
tramite tra De Donno e il sindaco, il figlio Massimo:
“Inizialmente
Massimo Ciancimino mi disse “ti faccio sapere” e poi mi comunicò dopo qualche
giorno la disponibilità del padre a incontrarmi. Mi recai nell’abitazione di
Vito Ciancimino a Roma e da lì iniziò il nostro rapporto. Nonostante l’avessi
arrestato in precedenza e fossi una delle cause dei suoi problemi giudiziari,
Vito Ciancimino non nutriva rancore per me. Mi riconosceva il fatto di avere
sempre agito con correttezza.”
E ancora:
“Le
prime tre volte, tutte tra le due stragi, furono molto pesanti, complesse e
formative. Dovevo farmi accettare da Ciancimino, instaurare con lui un dialogo
e fare in modo che si fidasse. Già incontrarlo era stato un enorme successo.
Inoltre avevamo scelto Ciancimino anche perché in quel periodo era ancora in
grado di gestire alcuni appalti. È chiaro che dietro questo c’era anche l’intento
di giungere all’apoteosi di questo rapporto che sarebbe stata la collaborazione
giudiziaria di Ciancimino. Ovviamente gli chiesi di avere elementi utili per
capire quello che stava succedendo. Era l’esigenza di tutti decifrare gli
accadimenti per indirizzare le indagini.”
Secondo De Donno
gli incontri tra Ciancimino e Mori erano iniziati dopo la Strage di via D’Amelio:
Il presidente della Corte di Assise
Alfredo Montalto nell’aula bunker.
Il pm Nino Di Matteo con la sua
scorta.
Nicola Mancino saluta il procuratore
della Repubblica Francesco Massineo.
Massimo Ciancimino sostiene che suo padre sarebbe stato l’intermediario
tra gli ufficiali dell’Arma e i bosses
dei bosses di Cosa Nostra. Per gli
inquirenti di Palermo, il “papello” sarebbe stato consegnato da Totò Riina a Vito
Ciancimino, tramite l’altro imputato Antonino Cinà.
“Mio padre, quando fu arrestato, sentì
di essere stato venduto. Era stato messo da parte perché sarebbe stato
sostituito, nel suo ruolo di mediatore tra lo Stato e la Mafia, da qualcun
altro. Infatti mio padre è morto da carcerato. A sostituire mio padre fu
Marcello Dell’Utri.”,
racconta
Massimo Ciancimino. Suo padre fu “posato” dopo l’arresto di Totò Riina, cui don
Vito, secondo il racconto del figlio, contribuì in modo decisivo. Da Ciancimino il
“papello” sarebbe, poi, arrivato ai carabinieri, i quali negano la
circostanza di avere mai ricevuto un documento con richieste messe per
iscritto.
Secondo il
pentito Giovanni Brusca, qualche
settimana dopo la Strage di Capaci, Riina voleva che la trattativa fosse “incoraggiata”.
Si doveva dare
un “colpetto”…
Da lì a poco, il
19 luglio, nella Strage di via D’Amelio, morivano con un’autobomba parcheggiata
sotto casa della madre il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della
scorta.
Nel 2008, un boss della ‘Ndrangheta, la potente Mafia
calabrese, ormai presente sui cinque continenti, ricordava questa regola d’oro
a un affiliato:
“Caro
amico, lei deve armarsi di coraggio e guardare all’avvenire, senza dimenticare
il passato.”
a. Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino
furono sacrificati
alla Ragione di Stato?
“Quando c’è un delitto di Mafia,
la prima corona che arriva è quella del
mandante.”
Carlo Alberto dalla Chiesa
Vi sarebbero
uomini dello Stato tra i mandanti dell’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino?
In verità, tutti
coloro che si sono interessati a quegli anni sanguinosi [1991-1994] di
opposizione frontale tra la Mafia e lo Stato, tutti hanno sospettato che vi
dovessero essere appoggi ai livelli istituzionali più alti per permettere
questi attentati.
Il primo a
parlare di “trattativa” è Giovanni Brusca, nel 1996, che asserisce di averne
sentito parlare da Totò Riina, tra la Strage di Capaci e la Strage di via D’Amelio.
Su queste dichiarazioni si sono basati i pm di Palermo e di Caltanissetta, nel
2009, dopo avere raccolto le parole di Massimo Ciancimino.
Apriamo il
dibattito con un rapido zoom sugli
eventi.
Il 23 maggio
1992, alle ore 17.58, sull’autostrada A29
Palermo-Trapani, nei pressi dello svincolo di Capaci, una carica di 500 chilogrammi di
tritolo fa saltare in aria le tre Fiat Croma di scorta a Giovanni Falcone.
Nella esplosione perdono la vita il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e
tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Gli unici sopravvissuti sono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo,
Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
Qualche giorno
prima dell’attentato, Falcone aveva confidato:
“Mi
hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano.”
Due giorni dopo,
mentre a Roma viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a
Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime. I
più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio
Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono, duramente, contestati
dalla cittadinanza e le immagini televisive delle parole e del pianto
straziante della giovane vedova dell’agente Schifani, Rosaria, susciteranno
particolare emozione nella opinione pubblica:
Il magistrato Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia, rivolgendosi ai
colleghi nell’Aula Magna del Tribunale di Milano:
“Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra
indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha
pure il coraggio di andare ai suoi funerali.”
Nel suo sfogo il
magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di
Capaci, ricorda anche il linciaggio subito da Falcone da parte dei colleghi
della sua stessa corrente:
“Due
mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’ANM. Non potrò mai dimenticare quel
giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura Democratica, erano
queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito
un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un’altra,
come hanno fatto il Consiglio Superiore della Magistratura, gli intellettuali
e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal
potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi
di Mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il Ministero della
Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura
unitaria contro la Mafia. Ed è stata una rivoluzione.”
Ilda Boccassini
criticherà anche l’atteggiamento dei magistrati milanesi del pool di Mani Pulite:
“Tu,
Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale?
Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano
un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da quelli di Milano,
che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli
allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: “Non si fidano neppure del direttore
degli affari penali.”
Ilda Boccassini,
confermerà le critiche in una intervista di Giuseppe D’Avanzo, apparsa su La Repubblica, il 21 maggio 2002, in
occasione dell’affissione di una targa in memoria di Giovanni Falcone al
Ministero della Giustizia.
D’Avanzo:
Dottoressa Boccassini, oggi al Ministero della Giustizia sarà scoperta una
targa in memoria di Giovanni Falcone, a dieci anni dalla morte...
Bocassini:
Non lo sapevo.
D’Avanzo:
È la prima volta che un magistrato ha quest’onore anche se è vero che solo
Giovanni Falcone, direttore degli affari penali in quella primavera del 1992, è
morto ammazzato quando era al vertice del Ministero di Giustizia.
Bocassini:
Non è del tutto vero, Girolamo Minervini quando fu ucciso, il 18 marzo del
1980, si preparava a diventare direttore dell’amministrazione penitenziaria:
dunque, un alto dirigente del ministero.
D’Avanzo:
E allora?
Bocassini:
Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro
magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno,
tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche.
D’Avanzo:
Buona domanda, qual è la sua risposta?
Bocassini:
Credo che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia del Paese, nel senso di
colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese
né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo
accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne
appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. È
soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni
Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre
schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi... Non c’è
stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone.
È stato sempre “trombatissimo”. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato
come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al CSM, e sarebbe stato
bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.
Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette
ricorrere a un personaggio letterario, l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di
solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non
c’è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute “trombature”, ogni
anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici
riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è
stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e
malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre
affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i
burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha
colpito.
D’Avanzo:
Polemiche, ancora polemiche, venti lustri dopo? Non le sembra una maledizione
di cui conviene, una buona volta, liberarsi?
Bocassini:
Non voglio risse né polemiche. Voglio ricordare, ragionare e capire perché -
credo - così si rispetta il sacrificio di questo strano tipo di italiano,
grande e scomodo, che è stato Giovanni. Voglio ricordare che la magistratura
italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge
che creava la Procura Nazionale Antimafia a lui destinata. Per bloccarne la
candidatura, ricordo, un togato del CSM, Gianfranco Viglietta, di Magistratura
Democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l’”assoluta
indipendenza” dell’antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che “i
criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono
notorietà o popolarità”. Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo “popolare”
per Viglietta. Più esplicito in quell’accusa fu Alfonso Amatucci, anch’egli
togato al CSM, per la corrente dei Verdi [cui pure Falcone aderiva]. Scrisse al
Sole-24 ore che Giovanni “in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad
apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica”. Falcone era più o
meno un “venduto” per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando Cascio, nel
1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra - che “dentro i
cassetti della procura di Palermo ce n’è abbastanza per fare giustizia sui
delitti politici”. Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di
Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l’accusa
di Amatucci e Viglietta: Falcone è un “venduto”. Delle due l’una, allora. O
quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato
che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono,
calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda. In
dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e
nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare.
Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di
comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del
dovere e delle istituzioni; di afferrare l’eccentricità “rivoluzionaria” del
suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte
dell’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era
questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a
rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la
parentesi al Ministero dove gli fu possibile sperimentare qualche sua
innovativa idea.
D’Avanzo:
Qual era, secondo lei, la “diversità” di Falcone?
Bocassini:
Una parte della magistratura italiana è stata sempre “sensibile” agli interessi
della politica e la politica ha sempre desiderato la magistratura “sensibile”
alla Ragion di Stato, agli equilibri di governo, alla difesa dello status quo,
alle convenienze dei più forti. Era vero venti anni fa quando i procuratori
generali mai pronunciavano la parola “Mafia” nei discorsi inaugurali dell’anno
giudiziario, è vero oggi. Anche ora alcuni magistrati tra i migliori della
nostra Repubblica, conservatori o riformisti che siano, sono attenti al gioco e
agli interessi della politica. Magari questa attenzione è meno esplicita, più
laterale e mediata, diciamo più scolorita e indiretta, ma è ancora presente. Bene,
Giovanni Falcone è stato sempre sensibile soltanto all’indipendenza e all’autonomia
della sua funzione: erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a un
privilegio di casta, come appare ad alcuni miei colleghi, né un riconoscimento
che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario,
pensava che autonomia e indipendenza fossero le gravose responsabilità che la
Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l’imparzialità del
giudizio, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della
macchina giudiziaria. Giovanni sentiva l’indipendenza del magistrato come
missione e risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di
servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che
fosse, ha avvertito questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso “straniero”
tra i magistrati “sensibili” e tra i politici innamorati dei magistrati “sensibili”:
così è diventato un “corpo estraneo” da bocciare, distruggere, calunniare. È
questa la ragione di fondo per cui non mi stancherò mai di chiedere alla
magistratura una severa autocritica. Solo facendo i conti con la storia di
Giovanni Falcone, la magistratura potrà trovare la forza e le ragioni per
fronteggiare chi oggi vuole manipolare, con l’ordinamento giudiziario, l’autonomia
e l’indipendenza della magistratura anche strumentalizzando le riflessioni di
Giovanni.
D’Avanzo:
Da lassù Falcone mi perdonerà, ma ho sempre avuto l’impressione di un fondo
ambiguo [ambiguo per necessità] nelle sue riflessioni. Come se, da tutti
osteggiato, dovesse farsi accorto, fare il suo pensiero prudente e mai
esplicito, esponendolo a letture contraddittorie e tuttavia non infondate. Da “destra”
come da “sinistra”, per così dire. Ora è il Governo a “leggere” Falcone in modo
da rafforzare l’impianto della riforma della giustizia e dell’ordinamento
giudiziario.
Bocassini:
Basta fare i nomi di chi oggi spende il nome di Giovanni per toccare con mano
la strumentalità e la malafede... .
D’Avanzo:
A chi pensa?
Bocassini:
Lascio cadere i nomi di tutti coloro che hanno ruolo istituzionale per evitare
altre polemiche. Forse il nome del senatore Lino Jannuzzi posso, tuttavia,
farlo. Jannuzzi, quando Falcone si trasferì al Ministero, consigliò agli
italiani di tenere a portata di mano il passaporto perché stava nascendo, dopo
la “cupola” mafiosa di Palermo, un’altra pericolosa “cupola” a Roma.
D’Avanzo:
Passi, e tuttavia quando nel Governo e nella maggioranza si ragiona su
separazione delle funzioni, terzietà del giudice, pubblico ministero si ascolta
l’eco delle riflessioni di Giovanni Falcone. Non le pare? Per dirne una, è
stato Falcone a scrivere che “il pubblico ministero deve avere un tipo di
regolamentazione ordinamentale differente rispetto a quella del giudice”.
Bocassini:
Se si è in buona fede, si deve ragionare sulle condizioni che hanno sollecitato
quegli scritti e, in premessa, riconoscere che Giovanni non è stato soltanto “simbolo
della lotta alla Mafia”, come riduttivamente qualcuno o troppi si accingono a
fare in questo decennale. Falcone, quando scrive, ha in mente il rito
accusatorio introdotto dalla riforma del processo del 1989. Ne intravede le
grandi possibilità di repressione del crimine e di contrasto alla criminalità
organizzata. Tiene a conservare il pubblico ministero come il dominus dell’indagine,
il regista e lo stratega del lavoro della polizia giudiziaria. Si rende conto
del potere di quell’ufficio nella raccolta delle prove e avverte la necessità
di un contrappeso nella terzietà del giudice che deve valutarle. È consapevole
che quel potere impone al magistrato un’autonomia cristallina e una forte ed
equilibrata professionalità, un lavoro ancora più rigoroso nelle fonti di prova
che dovranno essere “blindate”, per così dire, se si vuole affrontare il
dibattimento: se non lo sono, meglio lasciar perdere... Voglio dire che Falcone
vede, nel nuovo processo, la possibilità di garantire allo Stato maggiore forza
nel difendere la cittadinanza dalla criminalità senza mutilare le garanzie dell’imputato.
Non mi sembra questo, oggi, il centro del dibattito. L’ipertrofia legislativa
ha deturpato il processo rendendolo un ibrido osceno dove lo Stato non difende
più se stesso e le regole che si è dato e un imputato, se ha buone risorse, può
difendersene con cavilli ed escamotage addirittura impedendone la celebrazione.
Ecco, se si vogliono utilizzare le riflessioni di Falcone e questo vale sia per
la politica che per la magistratura - siano ripristinate le condizioni che
erano alla radice dei suoi ragionamenti: rito accusatorio, volontà dello Stato
di potenziare il controllo della legalità, garanzie per l’imputato nel processo
e non dal processo. Si mettano da parte le tentazioni di rendere subalterna ad
altri poteri l’attività giudiziaria. In caso contrario, si lasci in pace nella
sua tomba Giovanni Falcone.
D’Avanzo:
Tra le “fissazioni” di Falcone, non è soltanto il rito accusatorio a segnare il
passo. La legge per i “collaboratori di giustizia” è un arnese inutile ormai. L’unicità
di comando di Cosa Nostra appare un residuo culturale. La centralità delle
investigazioni, un’opzione non necessaria. L’intero “quadro” legislativo e di
metodo nato dall’esperienza di Falcone appare in crisi. Le chiedo: è vero? E,
se è vero, chi o che cosa ne porta la responsabilità?
Bocassini:
Anche a rischio di apparire provocatoria, le rispondo che quel “quadro”
legislativo e di metodo, come lo chiama lei, è in crisi perché chi lo ha
utilizzato, in alcuni casi, lo ha fatto senza la necessaria professionalità e
rigore. Mai Falcone avrebbe interrogato un mafioso di Cosa Nostra, come
Giovanni Brusca, alla presenza di dieci pubblici ministeri venuti a Roma da
procure diverse, come è purtroppo accaduto. Mai credo avrebbe accettato una
convivenza tra Stato e Mafia, il “quieto vivere” che abbiamo sotto gli occhi.
Si dice addirittura che siano in corso trattative con i capi di Cosa Nostra!
D’Avanzo:
Si riferisce alla lettera che Pietro Aglieri ha inviato al procuratore Vigna?
Bocassini:
Sì, a quei brani pubblicati dai giornali. Quella lettera, e lo dico per la mia
esperienza, non mi sembra possibile che sia stata scritta da Pietro Aglieri: è
un italiano troppo corretto ed efficace. Chi gliel’ha scritta? Mi auguro, anzi
sono sicura, che non si è aperta nessuna trattativa. Ma non mi spiego perché
quelle lettere non finiscano nel cestino della carta straccia. Questi signori
sono i responsabili dei più efferati delitti. Hanno ucciso bambini innocenti,
sciolto cadaveri nell’acido, massacrato servitori dello Stato. Sono stati
giudicati responsabili, con sentenze passate in giudicato, di migliaia di
omicidi commessi negli Anni Novanta, un eccidio degno di una guerra civile.
Ora
si fanno avanti annunciando di volersi dissociare. Che poi vuol dire ammettere
l’esistenza di Cosa Nostra senza accusare nessuno. Non capisco che cosa ci
possa guadagnare lo Stato da una trattativa come questa. Sappiamo già che Cosa
Nostra esiste, senza che ce lo dicano loro, e sappiamo che loro sono i capi e
gli assassini di Cosa Nostra. Non c’è nulla da trattare.
D’Avanzo:
Da quel che si è capito, il motivo ufficiale è l’abolizione del cosiddetto 41
bis, vogliono un carcere meno severo.
Bocassini:
Meno severo del 41 bis di oggi, annacquato come un vino di quart’ordine, c’è
soltanto il carcere-grand hotel di una volta. Il 41 bis in origine prevedeva
isolamento pieno in un’isola, un colloquio al mese e nessun contatto tra
detenuti. Ora i mafiosi hanno anche l’ora di socialità. Potrebbero
accontentarsi, ma non si accontentano. Vogliono riunirsi, organizzare un tavolo
di trattative. Chiedono di ricostruire il loro potere e c’è chi gli dà spago, a
quanto pare.
D’Avanzo:
Che cosa bisogna fare, secondo lei?
Bocassini:
Il loro potere criminale deve essere distrutto. Hanno avuto un giusto processo.
Sono stati condannati. Che il carcere per loro sia severo, come accade negli
Stati Uniti, dove per assassini come Aglieri la tolleranza è zero. Vogliono un
carcere meno duro? Dicano quello che sanno. A cominciare da collaboratori come
Brusca che non hanno detto tutto.
D’Avanzo:
Giovanni Brusca, che a Capaci attivò l’innesco del tritolo, ha confessato. Che
cosa doveva dire che non ha detto?
Bocassini:
Le sue dichiarazioni, per le stragi del 1992 e ‘93, mi sono sempre apparse
insufficienti. È stato latitante fino al 1996, era in grado di conoscere ben
altro che non l’operazione militare che portò alla morte di Paolo Borsellino e
Giovanni Falcone.
D’Avanzo:
Sta dicendo che Brusca conosce i mandanti non mafiosi della strage, ammesso che
ce ne siano?
Bocassini:
Nel 1993 ho scritto che, delle stragi, abbiamo soltanto una parziale
ricostruzione e che la verità non c’è ancora. Di questo sono tuttora convinta.
D’Avanzo:
Ritornerà ad occuparsene?
Bocassini:
L’attività giudiziaria ha le sue regole e le sue competenze. Se mi dovesse
capitare, non mi tirerò certo indietro. Spero di poter fare il mio lavoro con
un ordinamento giudiziario che sappia ancora garantire alla magistratura quell’autonomia
e indipendenza che, per Falcone, erano alimento essenziale del principio
costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
D’Avanzo:
Nutre qualche dubbio?
Bocassini:
Quale magistrato non coltiva oggi qualche dubbio con i progetti di riforma
presentati dal Governo? Io credo che in questa battaglia, che vede in gioco il
destino stesso di una funzione giudiziaria indipendente e quindi il futuro
dello Stato di diritto, la magistratura debba saper vedere meglio, più
acutamente - e finalmente, aggiungo - nell’esempio di Giovanni Falcone un modo
di essere un magistrato che umilmente, senza arroganza e tentazioni di potere,
serve il compito che la Costituzione gli ha assegnato. È un compito terribile,
essere autonomi; ma è il nostro compito. È il compito che Giovanni svolse fino
all’ultimo minuto della sua vita. È il “testimone” che ci ha consegnato. Noi
magistrati dobbiamo raccoglierlo e difenderlo senza le divisioni, il
risentimento e l’invidia che gli resero la vita breve e infelicissima.”
[http://www.repubblica.it/online/politica/falcone/falcone/falcone.html]
E Leoluca
Orlando, così, commenta l’ostracismo che Giovanni Falcone aveva subito da parte
di alcuni colleghi, negli ultimi mesi di vita:
“L’isolamento
era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse
fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale.”
Due mesi dopo la
Strage di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, un altro attentato
colpisce al cuore Palermo: Paolo Borsellino è ucciso in quella che viene
ricordata come la Strage di via D’Amelio. Il 19 luglio,
alle ore 16.58, una Fiat 126 rubata, contenente circa 90 chilogrammi di
esplosivo del tipo Semtex-H [miscela di PETN, tritolo e T4], telecomandati a
distanza, esplode in via Mariano D’Amelio 21, sotto il palazzo dove vive la
madre di Borsellino, presso la quale il giudice, quella domenica, si è recato
in visita, con la scorta, dopo aver pranzato con la moglie e i figli. Nell’attentato,
oltre a Borsellino, muoiono i cinque agenti della scorta: Emanuela Loi,
Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico
sopravvissuto, Antonino Vullo, che stava parcheggiando una delle auto della
scorta e si trova più lontano dal punto dello scoppio, così, descrive l’esplosione:
“Il giudice e i miei colleghi erano già scesi
dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo
parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun
rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno.
Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto
mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina.
Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto.”
Lo scenario
descritto dagli operatori della locale Squadra Mobile giunti sul posto è di “decine di auto
distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa
del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni
corpi orrendamente dilaniati”. Sul luogo della strage,
pochi minuti dopo il fatto, giunge il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che
abita nelle vicinanze.
Il 24 giugno
1992, Paolo Borsellino in una intervista a Lamberto Sposini per il TG5, citando
Ninni Cassarà, aveva dichiarato:
Sposini: Dopo la morte
di Falcone come è cambiata la vita di Borsellino?
Borsellino:
[lungo sospiro] La mia vita è cambiata innanzitutto perché… dalla morte… di
questo mio vecchio amico e compagno di lavoro è chiaro che io sono rimasto
particolarmente scosso e sono ancora impegnato, ad un mese di distanza, a
recuperare e…, vorrei dire, tutte le mie possibilità operative sulle quali il
dolore ha inciso in modo enorme. È cambiata anche perché sia per la morte di
Falcone, sia per taluni altri fatti, mi riferisco alle dichiarazioni ormai
pubbliche di quel collaboratore che ha parlato e ha detto di essere stato
incaricato di uccidermi e la notizia è arrivata alla stampa in concomitanza con
la notizia della Strage di Capaci. Le mie condizioni…, sono state estremamente
appesantite le misure di protezione nei miei confronti e nei confronti dei miei
familiari. È chiaro che in questo momento io ho visto comple…, quasi del tutto,
anzi, vorrei dire del tutto, pressoché abolita la mia vita privata. Ho temuto
nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel
lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno
ritrovato la rabbia per continuarlo a fare.
Sposini: Posso chiederle se lei si
sente un sopravvissuto?
Borsellino:
Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando
assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio
del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”.
La… l’espressione di Ninnì Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei
poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto la… ho sempre accettato
il… più che il rischio, la… condizione, quali sono le conseguenze del lavoro
che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio.
Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e
potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. Il…
la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto,
in… in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io
credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo
faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so
anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza
lasciarci condizionare e… alla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla
certezza che tutto questo può costarci caro.”
Cinque giorni
dopo, il 24 luglio, circa 10mila persone partecipano alle esequie di Paolo
Borsellino per essere vicini alla famiglia, che ha rifiutato i
funerali di Stato e accusa il Governo di non aver saputo proteggere Borsellino
dopo la morte di Falcone. Alcuni giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino
aveva, infatti, chiesto alla Questura di far rimuovere le auto nella zona
intorno alla casa della madre. Ma la sua richiesta non era stata accettata.
Dopo l’omicidio
di Borsellino, all’uscita della camera ardente, Antonino Caponnetto aveva
esclamato con voce rotta dall’emozione:
Quella che segue
è una sintesi della toccante intervista realizzata nel maggio del 1996 da
Gianni Minà: “Chi
ci tradì?” l’ultimo dubbio di Caponnetto:
Minà:
Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era
realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese?
Caponnetto:
Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto.
Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte
annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di
cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di
raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di
infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la
loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel
pronunciare quelle parole di sconforto e quanto mi dovevo impegnare per
continuare l’opera di Giovanni e Paolo.
Minà:
Caponnetto, lei non era nato eroe, ma uomo mite, e invece si è trovato, di
colpo, a dover essere coraggioso.
Caponnetto:
Sì, con quel tanto di paura che accompagna gli uomini in questo tipo di
avventure. Ricordo ancora la risposta che diede Paolo quando gli chiesero se
non avesse paura. “ Certo – disse – non sarei un essere umano se non avessi
paura, però mi sforzo di avere quel tanto di coraggio che serve per superarla,
per andare avanti”. Che risposta meravigliosa!
Minà:
Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo?
Caponnetto:
Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto
e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto
trent’anni a Pistoia e poi a Firenze.
Minà:
E perché invia la domanda per concorrere alla carica di consigliere
istruttorio, dopo l’assassinio di Chinnici?
Caponnetto:
Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c’è un cordone
ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a
liberare la mia terra dall’oppressione della Mafia, per restituire dignità e
libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco
Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché non pensavo
di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il
tempo mi ha perdonato… […]
Minà:
Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo?
Caponnetto:
Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano,
per loro ero comunque uno “straniero”che veniva a togliere lavoro ai siciliani,
e ai palermitani… […]
Minà:
Sicuramente c’erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli
uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far
saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C’è la certezza che
qualcuno ha tradito. Ma appena la Giustizia si avvicina a questo sottobosco
politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono
mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, e tuttora, a “coperture” anche
se si sta cercando di far luce su tutto questo.
Minà:
Lei ha mai conosciuto Contrada?
Caponnetto:
Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più
incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983.
Minà:
Come seppe dell’attentato a Falcone?
Caponnetto:
Dalla televisione, e mi sentii morire.
Minà:
Parlò con Borsellino quel giorno?
Caponnetto:
Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando
finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue
braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii
mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento.
Minà:
Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli?
Caponnetto:
Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più
importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo.
Minà:
Lei mi ha detto “Borsellino sapeva di morire”; in che senso sapeva di morire?
Caponnetto:
Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di
Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell’attentato
contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a
Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per
fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in
qualsiasi momento.
Minà:
Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo
per farlo saltare in aria?
Caponnetto:
Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo
occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare,
chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso.
Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla morte con una
serenità e una lucidità incredibili.
Minà:
Ma non c’era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno
che lo potesse aiutare in qualche modo?
Caponnetto:
Sì, Paolo aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato –
di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della
madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi
fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto
disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze… […]
Minà:
Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo
il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e
Guarnotta?
Caponnetto:
Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un’associazione così
ben organizzata come la Mafia, se non coordinandosi. C’era bisogno di riunire
le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di
lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di Mafia. Avevo già
coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di
un’esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la
stessa esperienza l’aveva vissuta a Roma.
Minà:
Come scelse i suoi collaboratori?
Caponnetto:
Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già li e aveva istruito il processo
Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell’omicidio
del commissario Basile…
Minà:
Parliamo dell’Operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e
certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la Mafia.
Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di
giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di
fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre 120 omicidi.
La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò per la prima volta i nome di
Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Leggio, dei Greco, dell’omicidio Scaglione,
rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”.
Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise – aprendo la
porta dall’interno – di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e
non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di
Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l’unico modo per entrare in una
struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai
progrediti […]
Minà:
Chi decise di smantellare il pool antimafia?
Caponnetto:
Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come
affrontare la lotta alla Mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a
Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per
lasciare il posto a Giovanni che era l’unico per competenza, prestigio
internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose
andarono diversamente.
Minà:
Chi bocciò Falcone?
Caponnetto:
Il CSM.
Minà:
Nelle persone di?
Caponnetto:
Mi porto sempre dietro l’appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi
dei presunti favorevoli, dall’altra quella dei quali dava per scontata l’opposizione.
Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all’ultimo
momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella
colonna a lui contraria.
Minà:
Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo
la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a
Palermo.
Caponnetto:
Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri,
in tanti documenti. Borsellino li definì Giuda”[https://www.youtube.com/watch?v=dqUSYwhmKCw],
quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del
1993, dopo l’eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera
Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua
aspirazione a succedere a Caponnetto, il CSM con motivazioni risibili gli
preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era
questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a
passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest’uomo
rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da
nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a
cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur
convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi
da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’Ufficio Istruzione del
Tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a
prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo,
preferì Antonino Meli.”
Minà:
Non so se - come disse Borsellino – siano stati dei Giuda, so però che chi non
ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci
e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio
senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi
ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli
occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto
il pool antimafia, Meli o Giammanco?
Caponnetto:
Ognuno ha fatto la sua parte. Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura
dell’Ufficio Istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone,
emarginandolo, smembrando i processi di Mafia e vanificando tutto il lavoro
fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la Procura della Repubblica, e ha
emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo
portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa
tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario
elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la Procura della
Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue […]
Minà:
In un’intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di
giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già
raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della
dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in
maniera adeguata e soprattutto regolamentato.”
Caponnetto:
Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il Parlamento non
avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei
loro familiari. È, quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti
decisivi per la lotta alla Mafia.
Minà:
Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò
ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria?
Caponnetto:
Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che
non lo saprò mai.
Il film documentario In un altro Paese di Marco Turco,
tratto dal libro del giornalista americano Alexander Stille, Excellent cadavers. The Mafia and the
Death of the First Italian Republic,
racconta
la clamorosa vittoria dei due giudici palermitani nella lotta contro la Mafia,
ma anche di come lo Stato non abbia fatto nulla per proseguire nel lavoro
avviato da Falcone e Borsellino.
“In un altro Paese”,
osserva Stille,
“gli artefici di una tale vittoria
sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima
battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi
fossero messi nella condizione di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne
proprio il contrario.”
Voi direte:
“Questi
due uomini sono Eroi!”
“Sì!”
“No!”
“Sono
dei Martiri!”
Perché la loro
opera per la legalità ha trovato poco terreno fertile presso l’opinione
pubblica e ancora meno presso gli uomini politici dell’epoca.
L’equivoco
su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un
mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le
organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel
politico è un uomo onesto.
E
NO!
Questo
discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di
carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche
gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire
quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del
genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni
disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia,
dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi
che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella
gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si
è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato
condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di
gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le
prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno,
indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto
essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti
coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se
non costituenti reati.
Paolo
Borsellino, Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa, 26 gennaio 1989
Venivano
accusati di essere dei “rossi”, giudici comunisti – argomento riutilizzato da
Berlusconi, all’epoca delle sue disavventure giudiziarie. Sono stati
intralciati, calunniati, minacciati nel loro lavoro da pezzi dello Stato!
Intoccabili per
la facciata, dalla loro morte, nessuno osa criticarli pubblicamente: tuttavia,
non mancano tentativi di delegittimazione da parte di alcuni politici, sempre
gli stessi.
Esempio
emblematico di questi tentativi di delegittimazione è la polemica lanciata nei
confronti di Roberto Saviano da Emilio Fede, quando era direttore del TG4 e
fedele cane - sì, si può dire! – di
Silvio Berlusconi.
Ma torniamo ai
fatti!
Quali pezzi
dello Stato avrebbero potuto patteggiare con Satana?
Capo di governo?
Ministri?
Servizi segreti?
Ancora oggi, non
è dato sapere!
Di certo, i
servizi segreti e alcuni personaggi della gerarchia delle forze dell’ordine
hanno manomesso prove e rallentato le inchieste.
Alcuni pentiti
mettono in causa Silvio Berlusconi e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri,
che, all’epoca, non erano, ancora, entrati in politica.
Per chi non ricorda o finge di non ricordare, una cronologia
sintetica degli eventi può aiutare ad analizzare la situazione e a proiettarci
in ciò che è accaduto, in Italia dal 1992 al
1994.
1992
30
Gennaio: prima condanna storica di tutto il Gotha
mafioso, sotto l’impulso determinante dei giudici Falcone e Borsellino, nel Maxiprocesso di
Palermo, che si svolge in un bunker
costruito per l’occasione: 338 condanne [74 in contumacia], 114 assoluzioni, 19
ergastoli, 2665 anni di carcere,11.5 miliardi di multe.
17 Febbraio: arresto di Mario Chiesa.
Scoppia
Tangentopoli!
È l’implosione della
classe politica italiana.
È la fine della
Democrazia Cristiana.
È la caduta di
Giulio Andreotti al potere da 40 anni.
Chi ha voluto
delegittimare i magistrati di Palermo, guidati dal procuratore Gian Carlo
Caselli, e osannare Giulio Andreotti, ha, sempre, detto che il sette volte
presidente del Consiglio dei Ministri è stato assolto dall’accusa di
associazione mafiosa.
Ma non è così!
Il 2 maggio
2003, la Corte di Appello confermava l’assoluzione ai sensi dell’articolo 530,
secondo comma, del codice di procedura penale, che ricalca la vecchia insufficienza
di prove. La Corte di Appello riteneva che fosse “ravvisabile
il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di
un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza
nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale,
nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata
negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di
una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’isola:
a] chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della
associazione, interventi para-egali, ancorché per finalità non riprovevoli; b]
incontri ripetutamente con esponenti di vertice della stessa associazione; c]
intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza
anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da
tali rapporti; d] appalesi autentico interessamento in relazione a vicende
particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e] indichi ai
mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i
medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione
con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire
denunciati; f] ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di
particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di
diretti contatti con i mafiosi; g] dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi
segni autentici e non meramente fittizi di amichevole disponibilità, idonei,
anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi
agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale,
inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il
sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.
Secondo la Corte
di Appello Andreotti, “con la sua
condotta [non meramente fittizia] ha, non senza personale tornaconto,
consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il
sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo
rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”.
Il giudizio
della Corte di Appello sarà confermato, in via definitiva e irrevocabile, dalla
Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, nella sentenza n. 49691. La Seconda
Sezione Penale della Suprema Corte, in 215 pagine depositate, spiega per quali
motivi abbia deciso di confermare in pieno la sentenza di appello sul processo
di Palermo, rendendo noto che il collegio “ha dovuto
limitare le sue valutazioni a verificare se le prove acquisite presentino una
evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della
sentenza in ordine all’insussistenza del fatto o all’estraneità allo stesso da
parte dell’imputato”. E, “mancando tali
estremi”, sia il ricorso della Procura di Palermo, che chiedeva
la la condanna per il senatore a vita, sia il ricorso di Giulio Andreotti, che
avrebbe voluto la piena assoluzione “vanno rigettati”.
In termini più
comprensibili, Giulio Andreotti era il referente politico della Mafia in seno
allo Stato.
Con Tangentopoli
e la fine della Democrazia Cristiana, si crea, dunque, un vuoto politico: la Mafia cerca un nuovo
interlocutore.
1993
8 gennaio: arresto di Balduccio Di Maggio a
Borgomanero [Novara]. Alcuni, incluso Giovanni Brusca, ammisero che Di Maggio
era uno specchietto per coprire il tradimento di Bernardo Provenzano,
strettissimo collaboratore di Riina.
Lo stesso giorno, viene assassinato, a
Barcellona, il giornalista Beppe Alfano.
15 gennaio: arresto di Salvatore Riina, capo di Cosa
Nostra dopo 23 anni di latitanza. Scoppiano le
polemiche per la mancata perquisizione del rifugio del capo dei capi.
27 marzo: Giulio Andreotti riceve
la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti
dall’allora Presidente del Senato, Giovanni Spadolini. La Procura di Palermo lo
vuole processare. Il capo di accusa è pesante come un macigno: concorso esterno
in associazione mafiosa. Poi, verrà commutato, semplicemente, in “associazione
mafiosa”. Le accuse sono contenute in un corposo dossier, 246 pagine in tutto, a firma dell’uomo che, a quel tempo,
guidava la Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, e dei tre suoi sostituti
Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nella documentazione si
sostiene che Andreotti avrebbe “contribuito,
non occasionalmente, alla tutela degli interessi e al raggiungimento degli
scopi dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra”. [http://www.repubblica.it/online/politica/giuliopalermo/storia/storia.html,
http://www.repubblica.it/online/politica/giuliopalermo/caselli/caselli.html]
13 aprile: arresto di
Francesco Barbaccia, medico del Carcere dell’Ucciardone di Palermo, accusato di
aver operato alle corde vocali il boss
Mario Martello.
20 aprile: viene estradato
dall’Argentina il boss Gaetano
Fidanzati.
Lo stesso
giorno, viene arrestato, in Brasile, Antonio Salomone, accusato di avere
organizzato insieme a Luciano Leggio, Michele Greco e Totò Riina, l’omicidio
del giudice Cesare Terranova.
1° maggio: arresto di
Antonio Ammaturo, in Perù, camorrista e trafficante di droga.
9
maggio: ad Agrigento, nella Valle dei
Templi, Giovanni Paolo II pronuncia una dura omelia contro la Mafia,
invitando i mafiosi a pentirsi e a cessare ogni violenza:
14 maggio: attentato, a Roma, in via Ruggero Fauro,
presso il Teatro Parioli, che “non aveva l’obiettivo
di uccidere il giornalista [Maurizio Costanzo,
n.d.r.], ma di dargli un avvertimento” [https://www.youtube.com/watch?v=zl_zYsqdnpA].
A rivelarlo, a
distanza di 21 anni dall’agguato di Cosa Nostra, è il pentito Tullio Cannella, nella deposizione al processo per la
trattativa tra Stato e Mafia, collegato in
videoconferenza con la Corte di Assise di Palermo. Cannella racconta di avere
saputo i retroscena dell’attentato a Maurizio Costanzo dal boss mafioso Leoluca Bagarella, con il quale era in buoni rapporti.
“Nel
‘93 vi fu un attentato e Bagarella stava andando al mare”,
spiega Cannella
rispondendo alle domande del pm Francesco Del Bene,
“e
mi fece una battuta sarcastica: “Tutti questi attentati in Italia… Secondo me
sono i terroristi, saranno quelli della Falange Armata.” Ma era stata una
battuta. Bagarella disse in dialetto: “Cu sta bummideddra, u Costanzo s’assistimò.”
Bagarella
mi fece capire che questo episodio intimidatorio induceva il giornalista a
evitare di fare programmi dove primeggiava l’attacco nei confronti della Mafia. Mi
disse anche che non si voleva uccidere Costanzo ma che si voleva dargli un
avvertimento. Perché lui girava in un
ambiente vicino a Cosa Nostra, lui lavorava per Mediaset, il cui proprietario
era all’epoca Berlusconi.”
Alla domanda del pm Del Bene sul perché si volesse
intimidire il giornalista e non ucciderlo, Cannella risponde:
“Costanzo
era vicino a degli amici, lavorava con personaggi che avevano un rapporto buono
con Cosa nostra.”
[http://www.ammazzatecitutti.it/primo-piano/2014/12/mafia-pentito-cannella-attentato-costanzo-era-per-avvertirlo-non-per-ucciderlo/]
18 maggio: arresto di Nitto Santapaola, nelle
campagne di Mazzarrone a Catania, nell’ambito
dell’Operazione Luna Piena. A tradirlo erano state le intercettazioni delle
conversazioni con i suoi figli.
26/27 maggio: strage di via
dei Georgofili, a Firenze, nella
notte tra il 26 e il 27 maggio1993. Una Fiat Fiorino imbottita di
esplosivo, fatta esplodere nei pressi della Torre dei Pulci, sede dell’Accademia
dei Georgofili, provoca la morte di cinque persone, di cui 2 bambini.
2 giugno: il giorno della
Festa della Repubblica, una pattuglia di carabinieri scopre una carica di
esplosivo sui sedili di una Fiat Cinquecento parcheggiata in via dei Sabini, a
Roma, a cento metri da Palazzo Chigi, dove è in corso una riunione del
Consiglio dei Ministri.
Lo stesso
giorno, viene catturato Salvatore
Pulvirenti, detto “u malpassotu”, 60 anni, latitante da 11. Il
cosiddetto Leone di Belpasso, uno degli ultimi grandi latitanti di Cosa Nostra,
considerato il braccio armato del clan
di Santapaola. La sua cattura era nell’aria da mesi. Le forze dell’ordine gli
avevano fatto terra bruciata e nella notte tra l’1 e il 2, con la
collaborazione del SISMI, entrarono in azione in un modesto casolare in
contrada Treare, nelle campagne di Belpasso. Giuseppe Pulvirenti era nel suo
regno, ma viveva miseramente in un covo sotterraneo di 2 metri per 4, accanto a
una casetta, metà in pietra lavica, metà in muratura. Nelle ultime settimane si
spostava continuamente utilizzando almeno quattro diversi rifugi. I carabinieri
lo presero nel sonno, senza dargli il tempo di impugnare la pistola calibro 38.
Era in compagnia di un muratore, Giuseppe Pappalardo, che gli faceva da
vivandiere e da autista.
22 luglio: il boss Salvatore Cancemi, capofamiglia,
reggente del mandamento di Porta Nuova, si consegna, spontaneamente, ai
carabinieri di Palermo per collaborare con la Giustizia, dichiarando che la
mattina successiva dovrebbe incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri, capo
del mandamento di Santa Maria di Gesù, per poi raggiungere Provenzano in una
località segreta e si offre di aiutarli a organizzare una trappola. L’informazione
viene considerata non veritiera dai carabinieri, i quali, convinti che
Provenzano sia morto perché dopo un decennio la moglie e i figli sono tornati a
vivere e a lavorare a Corleone, decidono di non sfruttare l’occasione.
27 luglio: attentato di
via Palestro a Milano, nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea. Cinque
vittime innocenti nell’esplosione. Una donna
bella, bionda, magra, probabilmente sotto i trent’anni, parcheggia la
Fiat Uno in via Palestro e, poi, si dilegua su un’altra autovettura con due
uomini a bordo. L’identikit è lo
stesso fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma. A Milano
sono in due ad averla vista parcheggiare l’auto verso le 22.30. Di quella
bionda, tuttavia, non vi è traccia in nessuna sentenza, e, mai, è stata
identificata.
27/28 luglio: autobombe esplodono a Roma davanti al
Vicariato, in piazza San Giovanni, e di fronte alla Chiesa di San Giorgio al
Velabro.
Mentre si
consumano gli attentati dinamitardi a Milano e Roma, Matteo Messina Denaro, nei
cui confronti è stato emesso un mandato di cattura, va in vacanza a Forte dei
Marmi insieme ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e, da allora, si rende
irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.
30
luglio: Antonino “Nino” Gioè, uomo d’onore
di Altofonte, detenuto nel carcere di
Rebibbia in quanto uno dei responsabili della Strage di Capaci si suicida. Gioè si suicida,
probabilmente, perché ha scoperto di essere stato intercettato mentre
parlava dell’attentato di Capaci e di alcuni bosses e, quindi, teme una vendetta trasversale; o, forse, perché
si sente inchiodato a un ergastolo sicuro. Forse, avrebbe parlato ancora,
forse, avrebbe scelto la via di fuga di Gioacchino La Barbera che inizia a
collaborare con la Giustizia. In ogni caso quel 30 luglio del 1993 Nino Gioè è
trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Ha usato i lacci delle
scarpe. Lasciò un biglietto con scritto:
“Io
rappresento la fine di tutto.”
Gioacchino La
Barbera, invece, parla, conferma il contenuto dei dialoghi e aggiunge altre e
più preziose informazioni che accompagnano in galera l’intero commando di Capaci, lasciando dubbi solo
sulla regia della intera operazione. Parla anche Di Matteo. Per costringere Di
Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella,
Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro decidono di rapire il figlio
Giuseppe.
15 settembre:
assassinio, a Palermo, di don Pino Puglisi, che sottrae alla Mafia i giovani di
Brancaccio, impiegati in spaccio e piccole rapine e affronta i mafiosi con una
serie di omelie sul sagrato della chiesa. Per il suo assassinio i fratelli
Graviano, Filippo e Giuseppe, vengono condannati all’ergastolo, quali mandanti
di Salvatore Grigoli.
31 ottobre: fallito attentato, al termine della partita Lazio-Udinese, allo Stadio Olimpico di Roma,
in viale dei Gladiatori, dove si trova un presidio dei carabinieri, che svolgono
funzioni di ordine pubblico durante le partite di calcio. L’esplosione dell’autobomba
fortunatamente non avviene per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe
dovuto innescare l’ordigno.
Carlo Azeglio
Ciampi, nel suo Da Livorno al Quirinale
scrive:
“Una
caratteristica del mio Governo
è stata quella di essere contrassegnato dalle bombe. Non faccio in tempo a
formare il Governo che la prima bomba scoppia in via Fauro. Subito dopo, il 27
maggio, le bombe di Firenze in via dei Georgofili. Poi, nella notte tra il 27 e
il 28 luglio, le due bombe di Roma a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni, e
contemporaneamente a Milano, dove ci furono dei morti. Poi c’è stato l’attentato
all’Olimpico, fallito solo perchè non scattò l’innesco dell’esplosivo. Si
scoprì poi il progetto di fare un attentato alla torre di Pisa, per il quale
avevano già procurato l’esplosivo.”
15
novembre: Luciano Leggio muore di
infarto, nel Carcere di Badu ‘e Carros a Nuoro. Viene sepolto a Corleone, dopo
una cerimonia svolta senza coinvolgimento pubblico, per divieto della Questura.
23
novembre: i bosses
Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro
rapiscono Giuseppe Di Matteo, 11 anni, per costringere il padre Santino, che
sta collaborando con la Giustizia, a ritrattare le sue dichiarazioni, nel
quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia. Dopo
779 giorni di prigionia, Giuseppe è strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido
nitrico. Ad ordinare l’esecuzione, avvenuta l’11 gennaio 1996, è Giovanni
Brusca, boss di San Giuseppe Jato.
1994
26 gennaio: nascita ufficiale di
Forza Italia, vale a dire la famosa “iniziativa
politica legata a Fininvest”, voluta da Marcello Dell’Utri, poi,
Bettino Craxi e altri.
“Pino
Marino parcheggiò l’autobomba fra una vecchia Uno e il furgone di un
panettiere. Dal vicino stadio Olimpico esplodevano, a tratti, gli scoppi d’ira
o di entusiasmo dei tifosi. Angelino, dal sedile di guida della sua Saab, vide
che il picciotto armeggiava nel vano motore. Starà controllando il contatto, si
disse. Erano nei pressi del cancello G-8. La partita era appena iniziata. Fra
un’ora e mezzo o poco più, i tifosi avrrebbero preso a defluire. Invadendo le
strade circostanti.
L’autobomba
era piazzata proprio lungo una di queste strade. Appostati in una piazzola a
cento metri, Pino e Angelino avrebbero dato il via alle danze al passaggio
della colonna di automezzi dei Carabinieri che smontavano dal servizio di
ordine pubblico. Doveva essere una carneficina. Duecento, cinquecento, forse
mille tra militi e tifosi.”
Lo stesso
giorno, Filippo e Giuseppe Graviano vengono arrestati a Milano. Tra i vari capi
d’accusa: la partecipazione agli attentati dei giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
19
marzo: a Casal di Principe, viene
ucciso don Giuseppe Diana, sacerdote impegnato nella lotta contro la Camorra.
27 marzo: Forza Italia,
il partito-impresa di Berlusconi, vince le Elezioni Politiche. Riscuote il 21%
dei consensi, divenendo, in pochi mesi, il primo partito italiano, il Partito
Democratico della Sinistra con il 20,4%,
il secondo.
scampa a un altro attentato dei nemici
corleonesi Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca. Tuttavia, l’esplosivo,
collocato in una cunetta ai lati di una strada nei pressi di Formello, dove
Contorno passa abitualmente, viene scoperto dai carabinieri, avvertiti dalla
telefonata di un cittadino insospettito da alcuni movimenti strani.
30 giugno: il Parlamento
approva la Legge n. 430 [http://www.parlamento.it/604], che
istituisce la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Mafia e sulle altre
Associazioni Criminali Similari [XII legislatura].
24 novembre: sono uccisi
Francesco Montalto, il figlio Salvatore, e Vito Basile.
Voi mi scuserete per questa cronologia, lunga, ma indispensabile per
comprendere il ragionamento che mi appresto a fare. Perché si deve avere questo
quadro ben presente nella mente, per meglio cogliere come si inscrive sullo
sfondo della tempesta giudiziaria forza 10, Tangentopoli, che ha visto decimare
e scomparire a velocità supersonica la classe economica e politica del Paese,
dopo mezzo secolo di Democrazia Cristiana e, soprattutto, sullo sfondo della nascita,
nel più grande segreto, del partito politico di Silvio Berlusconi, voluto da
Dell’Utri dal… l’estate del 1992!
In concreto, simultaneamente agli assassinii di Giovanni Falcone e di
Paolo Borsellino.
E senza che lo stesso Berlusconi lo sappia… fino all’autunno.
Federico Orlando, co-direttore de Il
Giornale, fondato da Indro Montanelli, ha pubblicato un libro intitolato Il sabato andavamo ad Arcore, in cui
racconta le riunioni in casa di Silvio Berlusconi con la partecipazione delle
colombe [Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo], che frenavano l’iniziativa,
temendo che fosse contro-produttiva per Berlusconi], e dei falchi [Ennio Doris,
Marcello Dell’Utri, Cesare Previti]. Una testimonianza che si unisce a quella
resa da Ezio Cartotto nel suo libro Operazione
Botticelli...
Ma ascoltiamo Marco Travaglio:
“Poi ci sono altre discussioni, ci sono ancora i frenatori
come Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo che sono piuttosto ostili al
progetto, o meglio temono che per Berlusconi sia un autogol.
Sarà un caso, ma
proprio il 14 maggio del 1993 la Mafia fa un attentato a Roma, il primo
attentato a Roma nella storia della Mafia, il primo attentato fuori dalla
Sicilia nella storia della Mafia viene fatto a Roma nel quartiere dei Parioli.
Contro chi? Ma guarda un po’: Maurizio Costanzo che sfugge poi, fortunatamente,
per un centesimo di secondo.
Quel Costanzo che
stava nella P2: evidentemente qualche ambientino non si aspettava che fosse
ostile alla discesa in campo. Perché lo dico? Perché in quello stesso periodo
in Sicilia e in tutto il Sud Ovest, anche Calabria, si muovevano delle strane
leghe meridionali che, in sintonia con la Lega Nord – c’era stato addirittura a
Lamezia Terme con un rappresentante della Lega Nord – si proponevano di
secedere, di staccare Sicilia, Calabra... infatti si chiamavano “Sicilia libera”,
“Calabria libera”. Era tutto un fronte di leghe molto strano: invece di esserci
i padani inferociti lì c’erano strani personaggi legati un po’ alla Mafia, un
po’ alla ‘ndragheta e un po’ alla P2 e uno di questi, il principe Orsini che
aveva legami con questi personaggi, aveva legami anche con Marcello Dell’Utri.
Quindi noi sappiamo
che Dell’Utri – lo ha dimostrato Gioacchino Genchi, ma guarda un po’, andando a
incrociare i telefoni e i tabulati di questi personaggi – aveva contatti
diretti con questo Principe Orsini. Dell’Utri inizialmente tiene d’occhio
questi ambienti, perché sono le organizzazioni mafiose, legate a personaggi
della P2 e dell’eversione nera, che si stanno mettendo insieme perché sentono
odore di colpo di Stato, sentono odore di nuova Repubblica e vogliono far
pesare, ancora una volta, la loro ipoteca con un partito o una serie di partiti
nuovi.
Come Sicilia
Libera, della quale si interessano direttamente boss come Tullio Cannella,
Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.
Dopodiché succede qualcosa, succede che dopo l’attentato a
Costanzo e dopo gli attentati che seguono – alla fine di maggio c’è l’attentato
a Firenze, ci sono addirittura cinque morti e diversi feriti; poi alla fine di
luglio ci sono gli attentati di Milano e Roma con altri cinque morti e diversi
feriti – questa strategia terroristica ad ampio raggio, della Mafia, sortisce i
risultati sperati: Riina non stava sparando all’impazzata, stava facendo la
guerra per fare la pace con lo Stato, così disse ai suoi uomini.
Una nuova pace con
nuovi soggetti e referenti politici che però, a differenza di quelli vecchi che
ormai erano agonizzanti, fossero vivi, vegeti, reattivi e in grado, fatto un
accordo, di rispettarlo.
È l’estate del 1993
quando Forza Italia è ormai decisa: Berlusconi nell’aprile-maggio ha comunicato
a Montanelli che entrerà in politica e che quindi il Giornale dovrà seguirlo
nella battaglia politica. Montanelli gli ha detto che se lo può scordare: tra l’estate
e l’autunno sono mesi in cui si consuma la rottura tra Montanelli e Berlusconi
perché Montanelli continua a scrivere che Berlusconi non deve entrare in politica
perché c’è un conflitto di interessi, perché non si può fare due mestieri
insieme.
Dall’altra parte,
ci sono le reti Fininvest che bombardano Montanelli per indurlo alle
dimissioni, perché era diventato un inciampo: il giornalista più famoso dell’ambito
conservatore che si scatenava contro quello che doveva diventare, secondo i
desideri di Berlusconi, un partito moderato, liberale, insomma il partito che
avrebbe dovuto incarnare gli ideali di cui Montanelli era sempre stato l’alfiere
e che invece Montanelli sapeva benissimo non avrebbe potuto incarnare perché
Berlusconi è tutto fuorché un moderato e un liberale: è un estremista
autoritario.
In quei mesi la Mafia decide di abbandonare il progetto di
Sicilia Libera che essa stessa aveva patrocinato e fondato e tutto ciò avviene
in seguito a una serie di riunioni, nell’ultima delle quali Bernardo Provenzano
– ce lo racconta il suo braccio destro, Nino Giuffré che ora collabora con la Giustizia
e che è stato ritenuto attendibile in decine e decine di processi compreso
quello Dell’Utri – convoca le famiglie mafiose, la cupola, per sapere che cosa
scelgono: se preferiscono andare avanti col progetto del partitino regionale
Sicilia Libera o se invece non preferiscano una soluzione più tradizionale come
quella che sta affacciandosi a Milano grazie all’opera di un loro vecchio
amico: Marcello Dell’Utri che conoscevano fin dai primi anni Settanta come
minimo, cioè da quando Dell’Utri, in rapporto con un mafioso come Cinà e un
mafioso come Mangano, aveva portato quest’ultimo dentro la casa di Berlusconi.
Si potrà discutere
se l’ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente, ma il fatto c’è: ha dato a
Cosa Nostra la possibilità di entrare dentro la casa privata e di stazionare
con un proprio rappresentante dentro la casa privata di uno dei più importanti
e promettenti finanzieri e imprenditori dell’epoca. Berlusconi era costruttore,
in quel periodo, poi sarebbe diventato editore e poi politico.”
La Mafia e la nuova Repubblica, Marco Travaglio
“È strano che non si trovi più nessuno, ma nemmeno all’estrema
sinistra, che ricordi questi fatti documentati. Ancora nel novembre del 1993
quando ormai per Forza Italia si tratta proprio di stabilire i colori delle
coccarde e delle bandierine, c’erano i kit del candidato, stavano facendo i
provini nel parco della villa di Arcore per vedere i candidati più telegenici;
in quel periodo, a tre mesi dalle elezioni del marzo del 1994, Mangano incontra
due volte Dell’Utri a Milano. E questa non è una diceria, c’è nelle agende
della segretaria di Dell’Utri: Palazzo Cellini, sede di Publitalia, Milano 2, i
magistrati arrivano e prendono le agende e nell’agenda del mese di novembre del
1993 si trovano due appuntamenti fra Dell’Utri e Mangano, il 2 novembre e il 30
novembre.
E Mangano chi era, in quel periodo? Non era più il giovane
disinvolto del ‘73-’74 quando fu ingaggiato e portato ad Arcore come stalliere:
qui siamo vent’anni dopo.
Mangano era stato in galera undici anni a scontare una
parte della pena complessiva di 13 anni che aveva subito al processo Spatola
per Mafia e al Maxiprocesso per droga, due processi istruiti da Falcone e
Borsellino insieme.
È stato definitivamente condannato per Mafia e droga a 13
anni, ne aveva scontati 11, uscito dal carcere nel 1991 era diventato il capo
reggente della famiglia mafiosa di Portanuova e grazie al suo silenzio in
quella lunga carcerazione aveva fatto carriera e partecipato alle decisioni del
vertice della Mafia di fare le stragi.
E poche settimane dopo le ultime stragi di Milano e Roma, Dell’Utri incontra un
soggetto del genere a Milano negli uffici dove sta lavorando alla nascita di
Forza Italia.
Io non so se tutto questo sia penalmente rilevante, lo
decideranno i magistrati: penso che sia politicamente e storicamente
fondamentale saperlo, mentre si vede Gianfranco Fini che cita Paolo Borsellino
al congresso che sta incoronando il responsabile di tutto questo, cioè
Berlusconi.
Verrebbe da dire “pulisciti la bocca”.
Possibile che invece di abboccare a tutti i suoi doppi
giochi, quelli del centrosinistra non – ma dico uno, non dico tutti, li
conosciamo, fanno inciuci dalla mattina alla sera e sono pronti a ricominciare
con la Costituente come se non gli fosse bastata la Bicamerale – uno, di quelli
anche più informati, che dica “ma come ti permetti di parlare di Borsellino?
Leggiti quello che diceva, Borsellino, di questi signori in quella famosa
intervista prima di morire“.
Leggiti quello che c’è scritto nella sentenza Dell’Utri e
poi vergognati, perché quel partito lì non l’ha fondato lo Spirito Santo, l’hanno
fondato Berlusconi, Dell’Utri, Craxi con l’aiuto di Mangano che faceva la spola
fra Palermo e Milano, infatti le famiglie mafiose decidono di votare per Forza
Italia e di abbandonare Sicilia Libera – che viene sciolta nell’acido
probabilmente – quando Mangano arriva giù a portare le garanzie.
Marco
Travaglio, Gli incontri tra Mangano e Dell’Utri
Il dibattimento di primo grado del processo Dell’Utri prende avvio, davanti al Tribunale di Palermo, nel
novembre del 1997 e si conclude l’11 dicembre 2004, con la condanna a nove anni di reclusione e l’interdizione
dai pubblici uffici in primo grado dell’ex-senatore di Forza
Italia, riconosciuto colpevole dei delitti di concorso esterno in associazione
semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa, legati dal vincolo
della continuazione ai sensi del capoverso dell’articolo 81 del codice penale [http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/3216-la_corte_di_cassazione_scrive_la_parola_fine_sul_processo_dell_utri/].
In motivazione, i giudici palermitani scrivono che l’istruttoria
dibattimentale ha dimostrato che l’imputato ha intrattenuto, a partire dalla metà
degli anni 1970 fino alla fine degli anni 1990, rapporti diretti e personali
con esponenti di spicco di Cosa nostra, e ha, altresì, svolto, nello stesso
periodo, una intensa e costante attività di mediazione tra questi e Silvio
Berlusconi; attività di mediazione volta, in un primo momento, a garantire all’ex-premier
protezione per sé e per la propria famiglia, e, successivamente, a sostenerne l’attività
imprenditoriale e politica, in cambio di cospicue somme di denaro, che lo
stesso Dell’Utri provvedeva a versare nelle casse di Cosa Nostra, così
contribuendo a consolidare il potere del sodalizio criminale. Nella sentenza, i magistrati di Palermo
scrivono: i rapporti tra Cosa Nostra e Dell’Utri “sopravvivono alle stragi
del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano
raggiunti dalla vendetta di Cosa Nostra – i vecchi politici: Lima, Salvo… – e
ciononostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso
nel suo complesso”. In
altre parole, nonostante la gente inizi veramente ad appassionarsi all’antimafia
dopo la morte di Falcone e Borsellino, Dell’Utri non cambia. Esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell’imputato
Dell’Utri anche relativamente alla sua stagione politica – quella di cui
abbiamo parlato –. Forza Italia nasce nel 1993 da un’idea di Dell’Utri il quale
non ha potuto negare che ancora nel novembre del 1993 incontrava Mangano a
Milano mentre era in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa
Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”.
Dell’Utri
incontrava Mangano nel 1993 e, poi, anche nel 1994 “promettendo
alla Mafia precisi vantaggi politici e la Mafia si era vieppiù orientata a
votare Forza Italia”.
Ciò detto, molti interrogativi restano.
1. Perché la Mafia
ha commesso questa serie di stragi e fuori del suo territorio siciliano, cosa
che non si era mai verificata né prima né dopo l’anno tragico del 1993?
2. Perché il
secondo attentato fallito allo Stadio Olimpico del 27 gennaio 1994, che sarebbe
stato, senza dubbio alcuno, il più violento di tutti, è stato annullato, all’ultimo
momento dai mandanti con una telefonata agli esecutori?
Non è, certo,
facile rispondere!
E, tuttavia, del
mancato attentato, ricostruito nei dettagli dagli inquirenti, sulla base delle
testimonianze incrociate e delle investigazioni condotte, colpisce l’epoca in
cui si situa. I sei precedenti attentati si sono concentrati da marzo [due mesi
dopo la cattura di Riina] a luglio del 1993, dunque, avrebbe dovuto avere luogo,
sei mesi più tardi, tra gli incontri di Dell’Utri e Mangano e la nascita di
Forza Italia, nel novembre del 1993, e le elezioni politiche, vinte da Forza
Italia, nel marzo del 1994.
Nel quadro di
insieme sembrerebbe che la Mafia abbia finito con l’ottenere ciò che voleva, se
tutta questa campagna di attentati non aveva altro scopo, secondo i giudici,
che “negoziare” una pax mafiosa con
lo Stato.
Una trattativa
il cui contenuto prendeva un solo foglio di carta, il famoso “papello”, che
Riina avrebbe rimesso – o fatto rimettere – ai suoi interlocutori, che
rappresentavano lo Stato italiano e sul quale era annotata la lista delle
pretese della Mafia nei confronti dello Stato: allentare la repressione contro
Cosa Nostra e promulgare una legislazione ad
hoc per arginare il fenomeno dei pentiti e ammorbidire le condizioni di
detenzione fissate dall’articolo 41 bis.
Un compromesso
Stato-Mafia totalmente inaccettabile per Paolo Borsellino, il cui migliore
amico era stato assassinato due mesi prima.
Rieccoci,
dunque, al punto di partenza: la Strage di via D’Amelio e i numerosi misteri
che vi aleggiano, ancora, d’intorno.
Secondo una mia “visione”
alquanto fantasiosa e fantastica, Berlusconi non sarebbe, direttamente, legato
agli attentati di Falcone e Borsellino; ma la sua entrata improvvisa in
politica, nel 1994, la sua amicizia con Dell’Utri, la prensenza in casa sua di
un mafioso notorio, Vittorio Mangano,
per 2 anni, mi fanno pensare che abbia potuto profittare dei voti della Mafia,
almeno nel 1994.
E si può, anche,
pensare che alcuni pentiti abbiano avuto voglia di raccontare delle cose su
Berlusconi, in particolare sull’origine della sua fortuna, per vendicarsi dello
Stato e forzarlo a “cooperare”.
Lo Stato può processare se stesso?
Non tarderemo a vederlo!
Vi sono tutte le condizioni perché la società italiana possa regolare i
suoi conti con se stessa.
L’esigenza di verità è forte, forte più che mai, ma sarà abbastanza
forte per avere gli effetti auspicati?
Questa è la domanda!
Se la risposta sarà sì, questo Paese avrà un Avvenire.
Se la risposta sarà no, allora l’occasione unica da afferrare oggi, con
le unghie e con i denti, non si ripresenterà più.
Vi sono appuntamenti con la Storia che un Paese degno di questo nome non
può mancare!
I misteri che
avvolgono, ancora oggi, via D’Amelio sono tre:
1. la trattativa tra lo Stato e la Mafia dopo
l’assassinio di Giovanni Falcone;
2. l’incontro tra Paolo Borsellino e Nicola
Mancino [1° luglio 1992];
3. la scomparsa dell’agenda rossa da cui
Paolo Borsellino non si separava mai [19 luglio 1992].
1.
La
trattativa tra lo Stato e la Mafia dopo l’assassinio di Giovanni Falcone
Le dichiarazioni
di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza confermano che la trattativa, avviata
da Totò Riina e proseguita da Bernardo Provenzano, sarebbe iniziata dopo l’attentato
a Giovanni Falcone e prima dell’assassinio di Paolo Borsellino.
E secondo Giovanni
Brusca:
“Borsellino muore per la
trattativa che era stata avviata tra i boss corleonesi e pezzi delle
istituzioni. Il magistrato, dopo la strage di Capaci, ne era venuto a
conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene zitto ma lui si era
rifiutato. A Borsellino era stato proposto di non opporsi alla revisione del Maxiprocesso
e di chiudere un occhio su altre vicende.”
Un coinvolgimento
dei servizi segreti nell’attentato non sembra lasciare dubbio alcuno,
anche se, come osserva Salvatore Borsellino, tutte le inchieste dirette in
questo senso si sono bloccate.
Gaspare Spatuzza
fornisce un dettaglio. Dichiara, infatti, di avere rubato la vettura servita
per l’attentato, prima di consegnarla a un “elemento
esterno a Cosa Nostra”, perché
fosse imbottita di un ordigno esplosivo.
Infine, tutto
ciò resta un “affare di famiglia”…
Vi assicuro che
la storia dei servizi segreti in questo Paese, dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale fino ai nostri giorni, vale un approfondimento.
Ma sarà per un’altra
volta…
Erano
le tre di notte ai primi di marzo di quest’anno, a Palermo. Mi sono svegliato
di soprassalto, mi sono alzato e sono andato a guardare, dal balcone al nono
piano della casa dove dormivo, il monte che sovrasta Palermo.
Non
c’era la luna, non c’erano le stelle, il cielo era nero, ma sulla cima del
monte si stagliava un castello.
Emanava
un lieve chiarore, come se fosse fosforescente, dotato di una luce propria, forse perché lo ho guardato a lungo tante
volte illuminato dal sole, e quell’immagine si è ormai stampata nella mia
memoria.
Ogni
volta che vado in Via D’Amelio vado vicino all’olivo che mia madre ha fatto
piantare nel punto in cui era stata piazzata la macchina piena di esplosivo,
nel punto dove sono stati massacrati Paolo e i suoi ragazzi, alzo gli occhi, lo
vedo e sto a lungo a guardarlo.
Chissà
se Paolo prima di alzare il braccio per suonare il campanello del citofono
della casa di nostra madre ha alzato gli occhi e lo ha visto per l’ultima
volta, chissà se anche i suoi ragazzi prima di essere fatti a pezzi lo hanno
guardato.
Di
certo qualcuno da una finestra di quel castello li stava osservando e aspettava
il momento migliore per azionare il detonatore.
Di
certo Gioacchino Genchi arrivando in via D’Amelio due ore
dopo la strage ha distolto gli occhi dal tronco di Paolo in mezzo alle macerie
del numero 19 di via D’Amelio, ha distolto gli occhi dai pezzi di Emanuela Loi che ancora si staccavano dall’intonaco del palazzo dove abitava la mamma di
Paolo e ha visto quel castello.
Quel
castello,
l’unico punto, come subito capì, da dove poteva essere stato azionato il
comando che aveva causato quella strage.
E allora prese l’auto, fece quei pochi
chilometri in salita che separano via D’Amelio da quello
sperone del Monte Pellegrino, andò davanti al cancello di quel castello e suonò
un altro campanello, lo suonò a lungo ma nessuno gli aprì nonostante là dentro
ci fossero tante persone come poté stabilire qualche tempo dopo elaborando,
come solo lui è in grado di fare, i tabulati telefonici dove sono riportati le
posizioni e le chiamate dei telefoni cellulari e dei telefoni fissi.
Incrociando
quelle telefonate si riescono a stabilire delle verità che nemmeno le intercettazioni
sono in grado di fare.
Si riesce a sapere che da un certo
numero di ville situate sulla strada tra Villagrazia di Carini e Palermo una serie di
telefonate partì per segnalare che Paolo stava arrivando al suo appuntamento
con la morte.
Si riesce a stabilire che nei 140
secondi intorno alle ore sedici cinquantotto minuti e venti secondi dell’esplosione
che causò la strage, delle telefonate partirono e arrivarono da una barca
ormeggiata nel golfo di Palermo per segnalare che Paolo era arrivato al suo
ultimo appuntamento e che l’esplosione era stata perfettamente sincronizzata
con il suo arrivo.
Su quella barca c’era Bruno Contrada
ed altri componenti dei servizi segreti civili, dentro quel castello, insieme a
persone che Genchi, con le sue tecniche è in grado di
individuare e avrebbe già individuato se non lo avessero subito fermato, c’era
Musco, una lugubre figura appartenente e animatore di logge massoniche deviate
che dovrebbe essere inquisito per tanti elementi che invece oggi si trovano
solo come spunto nelle sentenze di archiviazione di processi che non hanno
potuto svolgersi.
Che
forse non si svolgeranno mai, protetti come sono da un segreto di Stato non
dichiarato ma non per questo meno forte perché retto dai ricatti incrociati
basati sul contenuto di una Agenda Rossa.
Perché
invece di portare avanti quei processi si emanano sentenze assurde e vergognose
come quella che ha mandato assolto il cap.
Arcangioli, l’uomo fotografato e
ripreso subito dopo l’esplosione in via D’Amelio, con in mano la borsa di cuoio
di Paolo che sicuramente conteneva l’agenda rossa.
Perché
invece si svolgere altri processi che vanno a toccare i fili scoperti delle
consorterie di magistrati, uomini di governo, massoni e servizi deviati, si
massacrano altri giudici, non più con il tritolo, ma con metodi nuovi che non
fanno rumore, non fanno indignare l’opinione pubblica, come le bombe che in
Palestina amputano gli arti di civili palestinesi senza che venga versato del
sangue.
Massacri,
vere e proprie esecuzioni davanti a
plotoni di esecuzione composti da altri magistrati, come la decimazione della
Procura di Salerno, che vengono presentate da una stampa ormai asservita e
pavida di fronte al sistema di potere con un’ottica completamente distorta e
fuorviante.
Perché
il pericolo rappresentato da Genchi e
dalle sue consulenze in un eventuale processo agli esecutori occulti di questa
strage, anche se forse non si svolgerà mai, viene eliminato preventivamentre eliminando la possibilità di
un utilizzo delle sue raffinate tecniche di indagine in grado di inchiodare i
responsabili materiali di quella strage.
“L´attacco che viene fatto nei miei confronti
parte esattamente dagli stessi soggetti che io avevo identificato la sera del
diciannove luglio del 1992 dopo la strage di via D’Amelio, mentre vedevo ancora
il cadavere di Paolo Borsellino che bruciava e la povera Emanuela Loi che
cadeva a pezzi dalle mura di via D’Amelio numero diciannove dov’è scoppiata la
bomba, le stesse persone, gli stessi soggetti, la stessa vicenda che io trovai
allora la trovo adesso!”
Gioacchino Genchi, 27 febbraio 2009
Almeno
fino a quando, e non è impossibile che accada, qualcuno non deciderà che sia
necessaria la sua eliminazione anche fisica sfidando le reazioni che questa
potrebbe provocare nell’opinione pubblica.
Alla
stessa maniera in cui fu sfidata questa reazione quando fu necessario eliminare
in fretta Paolo per potere rimuovere del tutto l’unico ostacolo che si
frapponeva al portare avanti una ignobile trattativa tra Mafia e Stato, portata
avanti, in prima persona, dai più alti gradi del ROS. Quella trattativa della quale oggi,
punto per punto e in mezzo all’indifferenza e all’assuefazione dell’opinione
pubblica, vengono realizzati quei punti contenuti nel “papello” e che
sanciscono la definitiva sconfitta dello Stato di diritto.
Vogliamo anche noi dichiararci
sconfitti, vogliamo anche noi chinare il capo e dichiararci servi, vogliamo
anche noi rinunciare alla nostra libertà?
Il 19 luglio non è lontano.
Prepariamoci.
Quest’anno da quella via in cui tutto
è cominciato alle 5 del pomeriggio di 17 anni fa, dovrà nascere e non dovrà più
fermarsi la nostra RESISTENZA.
Non dovrà più fermarsi fino a quando
non sarà fatta Giustizia, fino a quando quei criminali che, anche dentro le
istituzioni, stanno oggi godendo i frutti di quella strage non saranno spazzati
via per sempre.
Salvatore Borsellino
2. L’incontro
tra Paolo Borsellino e Nicola Mancino [1° luglio 1992]
Il
primo luglio del 1992, 18 giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino è a
Roma, negli uffici della Direzione Investigativa Antimafia [DIA], per
interrogare un pentito, Gaspare Mutolo, uno dei primi a fare rivelazioni sui
rapporti tra Mafia e Politica, parlando di Salvo Lima, Giulio Andreotti, Domenico Signorino e Bruno Contrada, tra gli altri.
Quello stesso
giorno, Nicola
Mancino
si è insediato come nuovo ministro dell’interno. L’interrogatorio inizia alle
15.00, ma Borsellino deve interromperlo e e riprenderlo più tardi, perché il
neo-ministro lo ha chiamato per un incontro.
Una dichiarazione alquanto strana, per almeno due ragioni:
1.
nel 1992, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i giudici più noti d’Italia.
Dunque, che il ministro dell’interno, già in politica da una ventina di anni,
gli abbia stretto la mano senza rendersene conto, sembra poco probabile;
2.
e, anche prendendo per oro colato la versione di Nicola Mancino, il giudice
Borsellino non era certo uomo da stringere la mano a qualcuno senza
presentarsi, nel caso in specie il neo-ministro dell’interno nel giorno del suo
insediamento.
Abbiamo, dunque, la parola di un vivo contro quella di un morto, che ha,
tuttavia, lasciato, dietro di sé, una traccia molto imbarazzante, sulla sua
agenda grigia:
19.30 – Mancino!
In
merito alle inaccettabili lezioni di moralità che Nicola Mancino pretenderebbe
di impartire a Sonia Alfano, alla quale va tutta la mia solidarietà, devo
purtroppo constatare che lo stesso Mancino, non pago di avere finora occultato
la verità riguardo all’incontro avuto con Paolo Borsellino alle ore 19 e 30 del
1° Luglio 1992, nascondendosi dietro una pretesa e persistente amnesia,
comincia adesso a riferire, estraendole dalla nebbia della sua memoria,
circostanze che, guarda caso, riguardano persone morte e quindi non più in
grado di smentirlo.
Non
mi resta quindi che ribadire ancora una volta allo stesso Mancino come Paolo
Borsellino, piuttosto che smentire il colloquio avuto con Mancino, annotò di
suo pugno nell’agenda che è ancora in possesso della famiglia e dove segnava
ora per ora i suoi incontri e i suoi spostamenti, prima, alle ore 18.30 il nome
di Parisi e poi, alle ore 19.30, il nome di Mancino.
Allora
o Mancino deve accusare apertamente Paolo Borsellino di avere registrato, a
futura memoria, una annotazione falsa o deve confessare di avere avuto questo
incontro con Paolo e in conseguenza raccontare che cosa avvenne in quel
colloquio e perché Paolo ne uscì sconvolto.
Ci dovrebbe anche dire lo stesso Mancino quale fosse il motivo della presenza
di Bruno Contrada presso lo stesso Minsitero proprio mentre Gaspare Mutolo
stava raccontando a Paolo che Contrada non fosse altro che un traditore dello
Stato.
Se
poi non può farlo perché dovrebbe allora ammettere di avere prospettato a Paolo
la trattativa in corso tra Mafia e Stato, tra Stato e Antistato, e non può
farlo perché quella trattativa è proprio il motivo scatenante che rese
necessaria l’eliminazione di Paolo Borsellino, si ricordi che, oltre alla
Giustizia terrena, alla quale si può anche riuscire a sottrarsi, esiste anche
una Giustizia superiore alla quale è difficile, molto più difficile sottrarsi.
Racconta
Gioacchino Natoli:
“Mentre
aspetta di essere ricevuto dal ministro appena eletto, Borsellino sta fumando
nervosamente, allorché vede aprirsi la porta del salotto dove sarebbe stato
ricevuto e gli appare Bruno Contrada, l’allora numero tre del Sisde. Questo
fatto lo meravigliò non poco. Dietro Contrada c’era l’allora capo della Polizia
Vincenzo Parisi.”
E ancora:
“Borsellino
e Contrada si scambiarono un veloce saluto e nell’allontanarsi Contrada gli
disse: – So che ha incontrato Mutolo. Si ricordi che in passato mi sono
occupato di lui. Se ha bisogno, può rivolgersi a me –.”
Dall’incontro
al Viminale, ricorda Natoli, “Borsellino
tornò parecchio adirato. La collaborazione di Mutolo era appena iniziata e
sarebbe dovuta essere coperta da misure di cautela logiche e immaginabili.
Anzi, nel caso specifico, sarebbero dovute essere ulteriormente rafforzate,
visto il clima che si respirava dopo la strage di Capaci. Invece cautela e
riservatezza erano venute meno e questo lo fece andare su tutte le furie. Tanto
che la sera di quel 1° luglio mi chiamò ancora molto agitato, chiedendomi come
avesse fatto Contrada a sapere dell’interrogatorio di Mutolo.”[http://100passijournal.info/borsellino-incontro-mancino-due-settimane-prima-di-essere-ucciso/]
Dopo la morte di
Falcone, Borsellino sa che, presto, sarà il suo turno. Mette, dunque, tutto
nero su bianco: il programma delle sue giornate nella agenda grigia e le sue
riflessioni nella agenda rossa, da cui non si separa mai.
Ma vi ritornerò!
3. La
scomparsa dell’agenda rossa,
da cui Paolo Borsellino non si separava mai [19 luglio 1992]
Una
persona in giacca, che si muoveva vicino all’auto blindata del giudice Paolo
Borsellino pochi minuti dopo la strage di via d’Amelio, facendo domande sulla
valigetta del magistrato appena assassinato. Continua a rimanere senza volto il
misterioso personaggio che 22 anni fa si muoveva nell’inferno di via d’Amelio,
qualificandosi come agente dei servizi, mentre si dimostrava interessato alla
borsa che conteneva l’agenda rossa, il diario dove Borsellino appuntava ogni
sua riflessione nei mesi precedenti al suo assassinio: dopo la strage l’agenda
che potrebbe rappresentare la “scatola nera” della Seconda Repubblica sparì
senza lasciare traccia.
A
raccontare la presenza di quell’uomo è stato Giuseppe Garofalo, poliziotto in
servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, tra i primi ad
arrivare sul luogo della strage, il 19 luglio del 1992, testimoniando
davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, che sta celebrando il processo
Borsellino quater. “Ricordo di avere notato una persona, in abiti civili, alla
quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto.”
ha detto Garofalo. L’ennesimo procedimento penale sull’assassinio del
giudice Borsellino è nato dopo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza,
che hanno riscritto la modalità operativa della strage, smentendo
definitivamente il racconto del falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo
della Guadagna che si era auto accusato dell’eccidio. “Non riesco a ricordare
se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io
l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice.
Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla
borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi.” ha spiegato
Garofalo, che aveva messo a verbale i suoi ricordi per la prima volta solo nel
2005. “Sul soggetto – ha continuato – posso dire che era vestito in maniera
elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori”.
Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Pipitone, Borsellino Quater,
poliziotto: “Un agente dei Sercizi cerca la valigetta del giudice”
19 luglio 1992: in primo piano il
capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli.
Ora che la
cartella sia stata ritrovata, qualche ora più tardi, sul sedile posteriore
della vettura – ma senza l’agenda – suscita non pochi interrogativi.
Tanto più che
nessuno ne avrebbe, mai, saputo nulla, se le televisioni non ne avessero
catturato l’immagine.
Il 18 marzo
2009, sono state depositate le motivazioni della sentenza della VI Sezione
Penale della Corte di Cassazione, che pone, così, una pietra tombale sulle
speranze di fare luce su uno degli episodi più inquietanti della Storia della
Repubblica.
E, tuttavia, una domanda torna continuamente,
martellante, sempre la stessa.
“Perché
prendere la cartella con l’agenda, per poi rimetterla al suo posto senza l’agenda?”
Una domanda che
non ha ancora ricevuto una risposta plausibile.
Una domanda nata
morta.
Destinata a
cadere nel vuoto, con buona pace di chi cerca, con tenacia, Verità e Giustizia
per il giudice e gli agenti di scorta.
Una domanda che
non ha alcun senso porre.
Una domanda che
non si potrà mai più fare.
Per Antonio
Ingroia in quell’agenda “c’è la chiave
della strage di via D’Amelio. È improbabile che sia andata distrutta, più
logico pensare che sia in mano a qualcuno che la possa usare come arma di
ricatto”.
Secondo Sergio
Lari “non è una possibilità fantascientifica che dentro quell’agenda
ci fossero degli appunti di Borsellino su un possibile negoziato tra lo Stato e
le cosche, perchè si ponesse fine alle stragi”.
Luogo e data
reali dell’assassinio di Paolo Borsellino, luogo e data simbolici del passaggio
dalla Prima Repubblica [nata formalmente con il referendum costituzionale del 2
giugno 1946 e iniziata con la Costituzione del 1948] alla Seconda Repubblica.
Una molto lunga,
molto difficile, molto dolorosa e molto complessa evoluzione della Repubblica,
simbolizzata da un duopolio:
1. Democrazia Cristiana dal 1946 al 1993;
2.
Silvio
Berlusconi dal 1994 ai nostri giorni.
Ma perché dire che la Strage di via D’Amelio,
commissionata in pieno periodo di Mani Pulite, segna la nascita della Seconda
Repubblica?
Perché io sono di quelli che credono che
questa Seconda Repubblica è nata dal sangue dei giudici Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, assassinati dalla Mafia a 57 giorni di distanza l’uno dall’altro.
Giovanni
Falcone e sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo
Al processo Capaci bis per l’uccisione
del giudice Giovanni Falcone l’ex-presidente della Prima Sezione Penale della
Cassazione, Corrado Carnevale compare come teste davanti alla Corte di Assise
di Caltanissetta.
“Non
ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo.”
sostiene, nonostante esista l’intercettazione
di una conversazione dello stesso Carnevale con l’avvocato Giovanni Aricò dell’8
marzo 1994:
“I
motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino
di Falcone... perché i morti li rispetto, ... ma certi morti no.”
E non risparmia neppure la moglie di
Falcone, Francesca Morvillo:
Due delitti, intorno ai quali aleggia un mistero profondo sui veri
mandanti, vale a dire coloro che si nascondono dietro i mandanti mafiosi, in
parte identificati.
Due capri espiatori, perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno
osato istruire il Maxiprocesso, il più spettacolare processo intentato contro
la Mafia, iniziato il 10 febbraio1986 e, definitivamente, conclusosi in Corte
di Cassazione, il 30 gennaio 1992, con una sentenza che si può riassumere in due
numeri:
19 ergastoli, 2665 anni di carcere.
Si deve avere ben presente che, fino ad allora, in Italia, nessun boss mafioso era stato condannato all’ergastolo
e tutti erano convinti, dallo stesso Riina, che ne sarebbero usciti ancora una
volta, grazie al giudice Corrado Carnevale, “l’ammazzasentenze”, conosciuto per
“aggiustare” le condanne di appello, il più sovente per dettagli di procedura.
Falcone aveva scoperto la cosa e aveva, dunque, introdotto una rotazione
dei giudici, escludendo, così, dal Maxiprocesso Carnevale, che, in una
conversazione con l’avvocato Giovanni Aricò dell’8 marzo 1994, confessa:
Leale servitore dello Stato, il 21 giugno 2007, veniva reintegrato – grazie a
una legge scritta appositamente per lui! – alla Prima Sezione Civile della
Cassazione.
Così va l’Italia!
Daniela
Zini
Copyright
© 13 agosto 2016 ADZ
Lettera di Giovanni Falce a
Gheraldina Piazza
La lettera inviata da Giovanni
Falcone, l’11 febbraio 1983, alla signora Gheraldina Piazza, nipote del giudice
Terranova, in risposta a una lettera inviatagli all’indomani dell’omicidio del
prefetto dalla Chiesa.
Palermo, 11
febbraio 1983
Gentilissima
signora,
La prego di
scusarmi se rispondo con ritardo alla sua graditissima lettera, inviatami all’indomani
dell’omicidio del prefetto Dalla Chiesa.
Le sue parole mi
hanno realmente commosso e Le sono grato per le espressioni di stima e di
considerazione, certamente superiori ai miei meriti.
Adesso, dopo qualche mese dal barbaro eccidio, è forse lecito sperare che
qualcosa stia lentamente cambiando e che la società cominci a comprendere l’estrema
gravità del fenomeno mafioso e ciò costituisce presupposto indispensabile per
sconfiggere la Mafia.
Naturalmente,
non ci si deve illudere: la lotta sarà lunga e difficile ed è probabile che
sarà versato il sangue di altri servitori dello Stato, colpevoli solo di avere
compiuto il proprio dovere in un momento in cui non tutti si comportano allo
stesso modo.
In questa
difficilissima situazione le espressioni di solidarietà e di adesione che lei
ha sentito di rivolgermi, non soltanto costituiscono un conforto ed uno stimolo,
ma costituiscono la migliore conferma dell’esigenza di una forte zona della
società che respinge con sdegno qualsiasi tipo di convivenza con la Mafia,
autentica vergogna nazionale.
Con viva
cordialità
Giovanni Falcone
L’ultima
lettera di Paolo Borsellino
Questa è l’ultima lettera di Paolo
Borsellino, scritta alle 5.00 della mattina del 19 Luglio 1992, dodici ore
prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso
giorno, davanti al n. 19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della
sua scorta. Con questa lettera, rivolta alla preside di un liceo di Padova,
presso il quale avrebbe dovuto recarsi, nel mese di gennaio, per un incontro,
Borsellino, che, ormai, sapeva bene che il tritolo era arrivato anche per lui,
a Palermo, spiegava le ragioni per cui aveva dovuto rinunciare a incontrarli e
raccontare, in poche parole, la sua crescita, le sue scelte e le sue speranze.
“Gentilissima” professoressa,
uso le virgolette perché le ha usate Lei nello scrivermi, non so se per
sottolineare qualcosa, e “pentito” mi dichiaro e dispiaciutissimo per il
disappunto che ho causato agli studenti del Suo Liceo per la mia mancata
presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarle che non mi sono affatto trincerato dietro un
compiacente centralino telefonico [suppongo quello della Procura di Marsala]
non foss’altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la
settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove da pochi
giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le Sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che
non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero telefonico presso la Procura
di Palermo è [...], utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due
volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad
Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di
Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dott. Vento del Pungolo
di Trapani mi parlò della Vostra iniziativa per assicurarsi la mia
disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche
condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato
contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da
allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 Gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi
disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò
quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii
che era stata “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma
mi creda, non ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni di
lavoro sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi
personalmente e non affidarsi a intermediari di sorta o telefoni sbagliati.
Oggi non è per certo il giorno più adatto per risponderLe perché
frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho più
tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente poiché dormono
quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo
nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di
non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle
sue domande.
1] Sono diventato giudice perché nutrivo
grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea
di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalla
necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la
carriera per me più percorribile per dare sfogo al mio desiderio di ricerca
giuridica non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano
tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea [1964] e
fino al 1980 mi
occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’
vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia
famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione,
anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto
alle problematiche dei diritti reali, delle [...] legali, delle divisioni
ereditarie ecc.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Cons.
Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento.
Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal
Civile, il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il
mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a
questa scelta dovevo dare un senso.
I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi
casualmente, ma, se amavo questa terra, di essi dovevo esclusivamente
occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché
esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista poiché vedo che verso
di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da
quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando
questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la
mia generazione ne abbiamo avuta.
Lettera
di Agnese Borsellino a suo marito Paolo
Caro Paolo,
da venti lunghi
anni hai lasciato questa terra per raggiungere il Regno dei cieli, un periodo
in cui ho versato lacrime amare; mentre la bocca sorrideva, il cuore piangeva,
senza capire, stupita, smarrita, cercando di sapere. Mi conforta oggi possedere
tre preziosi gioielli: Lucia, Manfredi, Fiammetta; simboli di saggezza,
purezza, amore, posseggono quell’amore che tu hai saputo spargere attorno a te,
caro Paolo, diventando immortale. Hai lasciato una bella eredità, oggi raccolta
dai ragazzi di tutta Italia; ho idealmente adottato tanti altri figli, uniti
nel tuo ricordo dal nord al sud - non siamo soli. Desidero ricordare: sei stato
un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo
servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, resti per
noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti
ed essere protetto il bene più grande, “la vita”, sicuro di redimere con la tua
morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze. Quanta
gente hai convertito!!! Non dimentico: hai chiesto la comunione presso il
palazzo di giustizia la vigilia del viaggio verso l’eternità, viaggio
intrapreso con celestiale serenità, portando con te gli occhi intrisi di
limpidezza, uno sguardo col sorriso da fanciullo che noi non dimenticheremo
mai. In questo ventesimo anniversario ti prego di proteggere ed aiutare tutti i
giovani sui quali hai sempre riversato tutte le tue speranze e meritevoli di
trovare una degna collocazione nel mondo del lavoro. Dicevi: ‘Siete il nostro
futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle
difficoltà’. Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono
coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre
il meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo “grazie Paolo”.
Intervento di Paolo Borsellino
Biblioteca Comunale di Palermo, 25
giugno 1992
[http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=194:ultimo-intervento-di-paolo-borsellino&catid=18:i-video&Itemid=18]
Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di
lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad
allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per
ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io
ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un
magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di
utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e
dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio
lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone.
Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro
accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro,
perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi
giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo
raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante
sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle
convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi
che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità
giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so
possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita
di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia,
ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia
e della nostra vita.
Quindi io
questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno
di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano
che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui
giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima
cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in
pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per
evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti,
che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore”
dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... -
Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di
Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere
avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni
fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono
precisi - un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone
cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di
Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso
avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa
aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria;
non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa
strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però
quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci
rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste
vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese,
lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò
proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in
quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me
come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista
della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando
Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della
magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli.
C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che
Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della
sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale
rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non
sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo,
temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva.
E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente
convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo
riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla
successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse,
qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio
compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo:
preferì Antonino Meli.
Giovanni
Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la
sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel
quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella
convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della
magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo
nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato,
perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno
questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi
Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il
fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio
e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel
corso della presentazione del libro La Mafia d’Agrigento, denunciai quello che
stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da
Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava
pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato
cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai
conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio
superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio
approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al
più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto
perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve
essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il
pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione
pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto
1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della
magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di
agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu
rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto
della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri [perché, nonostante
quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua
sostanzialmente ad affermare che la Mafia non esiste] continuarono a fare
morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere
uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante
questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della
Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo
a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento
essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non
poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al
ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere
ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto
privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era
innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita
ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un
ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta
alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma
[in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato
professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo], una volta Giovanni
Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non
so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e
scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento
cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che
lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità
mafiosa.
Certo anch’io
talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune
manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente
sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture,
anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario.
Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma
Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché
sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare
lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua
permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato,
anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di
strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare
specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al
lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con
leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate
artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche
nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione,
ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io
ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera
sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello
Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui
creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue
idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di
ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione
mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di Mafia
e soltanto di Mafia, ma di Mafia si è trattato comunque - e l’organizzazione
mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha
preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano
concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la
violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura,
era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo
comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori
del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal
diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché,
forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva
proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece
soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte
le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo
intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di
uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura,
si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al
potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in
questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per
potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato
impedito, perché è questo che faceva paura.
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame
di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso
universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui
sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via
Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un
collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada
Palermo-Punta Raisi
Ricordo bene che
mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato
le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la
televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto,
non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e
raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se
accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale
dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra
le braccia.
Quel giorno per
me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre
che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari
momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre
pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto
mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno
del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la
scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se
con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al
19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra
nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi
riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio
subconscio era la vittima.
Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi,
proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze
delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre
avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie
sorelle, ma lo attribuivo [e giustificavo] al carico di lavoro e di
preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni.
Solo dopo la sua
morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato,
perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci
abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati”
qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del
19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai
libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario
in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno
[compresa la domenica] alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di
anticipo.
In quei giorni
di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii
con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon
mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova
la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla
nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare
della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico
esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con
la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in
verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo
desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto
successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe
stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui
avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo [cosa che
fece!] a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in
Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni
dopo la morte di suo padre.
Non era la prima
estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne
erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e
Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente,
nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di
morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.
Ma quella era un’estate
particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle
condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la
morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto
garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni
precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate
la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra
nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta”
per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata
protezione di chi vi dimorava.
Ricordo una
bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la
barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo”
mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio,
sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel
mare.
Anche il pranzo
in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo
palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la
cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti.
Ricordo che in
Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande
appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era
risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una
camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul
portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco
spazio all’immaginazione.
Dopo quello che
fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti,
compreso il costume da bagno [restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio] e l’agenda
rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere
salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale
limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio
della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino
alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal
cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli
sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a
Palermo con gli zii.
Ho realizzato
che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi
passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso
dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e
mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa.
Quindi, mentre
affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un
amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via
D’Amelio.
Non vidi mio
padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui
riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo
Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo
fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.
Seppi
successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto
di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera
mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre
avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci
riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla
fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di
sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una
grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti
salutare un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre,
è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta
ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a
qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico
in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci
trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della Mafia”, che noi
vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri
studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che
lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando
avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con
noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il
momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire
a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel
senso che lui temeva: siamo rimasti gli
stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre
strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i
sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte
delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”,
rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un
padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra.
E vorrei anche
dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in
questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più
difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare
che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato
del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini
come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre,
indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è
certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre,
ovverosia una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo
rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali
non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di
…. o perché di cognome fa Borsellino. […]
Ai miei figli,
ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei
farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli
ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della
sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono
più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Lettera di Salvatore Borsellino
19 Luglio 1992: Una strage di stato
[https://rivistapaginazero.wordpress.com/2007/07/20/lettera-di-salvatore-borsellino-una-strage-di-stato/]
Milano, 15
Luglio 2007
Per anni, dopo l’estate
del 1992 sono stato in tante scuole d’Italia a parlare del sogno di Paolo e
Giovanni, a parlare di speranza, di volontà di lottare, di quell’alba che
vedevo vicina grazie alla rinascita della coscienza civile dopo il loro
sacrificio, dopo la lunga notte di stragi senza colpevoli e della interminabile
serie di assassini di magistrati, poliziotti e giornalisti indegna di un paese
cosiddetto civile.
Poi quell’alba
si è rivelata solo un miraggio, la coscienza civile che purtroppo in Italia
deve sempre essere svegliata da tragedie come quella di Capaci o di Via D’Amelio,
si è di nuovo assopita sotto il peso dell’indifferenza e quella che sembrava
essere la volontà di riscatto dello Stato nella lotta alla Mafia si è di nuovo
spenta, sepolta dalla volontà di normalizzazione e compromesso e contro i
giudici, almeno contro quelli onesti e ancora vivi, è iniziata un altro tipo di
lotta, non più con il tritolo ma con armi più subdole, come la delegittimazione
della stessa funzione del magistrato, e di quelli morti si è cercato da ogni
parte di appropriarsene mistificandone il messaggio.
Per anni allora
ho sentito crescere in me, giorno per giorno, sentimenti di disillusione, di
rabbia e a poco a poco la speranza veniva sostituita dalla sfiducia nello
Stato, nelle Istituzioni che non avevano saputo raccogliere il frutto del
sacrificio di quegli uomini, e allora ho smesso di parlare ai giovani convinto
che non era mio diritto comunicare loro questi sentimenti, soprattutto che non
era mio diritto di farlo come fratello di Paolo che, sino all’ultimo momento
della sua vita, aveva sempre tenuto accesa dentro di sé, e in quelli che gli
stavano vicino, la speranza, anzi la certezza, di un domani diverso per la sua
Sicilia e per il suo Paese.
Per anni allora
non sono neanche più tornato in Sicilia, rifiutandomi di vedere, almeno con gli
occhi, l’abisso in cui questa terra era ancora sprofondata, di vedere, almeno
con gli occhi, come tutto quello contro cui Paolo aveva lottato, la corruzione,
il clientelismo, la contiguità fossero di nuovo imperanti, come nella politica,
nel governo della cosa pubblica, fossero riemersi tutti i vecchi personaggi più
ambigui, spesso dallo stesso Paolo inquisiti quando ancora in vita, e nuovi
personaggi ancora peggiori dato che ormai oggi essere inquisiti sembra
conferire un’aureola di persecuzione e quasi costituire un titolo di merito.
Da questa mia
apatia, da questo rinchiudermi in una torre d’avorio limitandomi a giudicare ma
senza più volere agire, sono stato di recente scosso da un incontro illuminante
con Gioacchino Basile, un uomo che ha pagato sempre di persona le sue scelte,
che, all’interno dei Cantieri Navali di Palermo e della Fincantrieri, ha sempre
condotto, praticamente da solo e avendo contro lo stesso sindacato, quella
lotta contro la Mafia che sarebbe stata compito degli organismi dello Stato,
Stato che invece, secondo le sue circostanziate denunce, intesseva accordi con
la Mafia trasformando le Partecipazioni Statali in un organismo di
partecipazione al finanziamento e al potere della Mafia in Sicilia.
I fatti riferiti
in queste denunce, di cui Paolo Borsellino si era occupato nei giorni
immediatamente precedenti il suo assassinio, sono state oggetto di una “Relazione
sull’infiltrazione mafiosa nei Cantieri Navali di Palermo” da parte della
Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della Mafia [relatore on.
Mantovano] ma come purtroppo troppo spesso succede in Italia con gli atti delle
commissioni parlamentari, non hanno poi avuto sviluppi sul piano parlamentare
mentre su quello giudiziario, come sempre succede quando si passa dalle
indagini sulla Mafia a quello sui livelli “superiori”, hanno subito la consueta
sorte dell’archiviazione.
Gioacchino
Basile è convinto che l’interesse personale che Paolo gli aveva assicurato nell’approfondimento
di questo filone di indagine e l’averne riferito in uno dei suoi incontri a
Roma nei giorni immediatamente precedenti la sua morte, sia il motivo
principale della “necessità” di eliminarlo con una rapidità definita “anomala”
dalla stessa Procura di Caltanissetta e che la sparizione di questo dossier dalla borsa di Paolo sia stata
contestuale alla sottrazione dell’agenda rossa.
Per parte mia io
credo che questo possa essere stato soltanto uno dei motivi, all’interno del
più ampio filone “Mafia-appalti” che lo stesso Paolo aveva fatto intuire fosse
il motivo principale dell’eliminazione di Giovanni Falcone insieme alla sua
ormai certa nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.
Il motivo
principale credo invece sia stato quell’accordo di non belligeranza tra lo Stato
e il potere mafioso che deve essergli stato prospettato nello studio di un
ministro negli incontri di Paolo a Roma nei giorni immediatamente precedenti la
strage, accordo al quale Paolo deve di sicuro essersi sdegnosamente opposto.
Su questi
incontri, che Paolo deve sicuramente aver annotato nella sua agenda scomparsa,
pesa un silenzio inquietante e l’epidemia di amnesie che ha colpito dopo la
morte di Paolo tutti i presunti partecipanti lo ha fatto diventare l’ultimo,
inquietante, segreto di Stato, come inquietanti sono i segreti di Stato e gli “omissis”
che riempiono le inchieste su tutte le altre stragi di Stato in Italia.
Ma il vero
segreto di Stato, anche se segreto credo non sia più per nessuno, è lo
scellerato accordo di mutuo soccorso stabilito negli anni tra lo Stato e la Mafia.
A partire da
quando i voti assicurati dalla Mafia in Sicilia consentivano alla Democrazia
Cristiana di governare nel resto dell’Italia anche se questo aveva come
conseguenza l’abbandono della Sicilia, così come di tutto il Sud al potere
mafioso, la rinuncia al controllo del territorio, l’accettazione della
coesistenza, insieme alle tasse dello Stato, delle tasse imposte dalla Mafia,
il pizzo e il taglieggiamento.
E, conseguenza
ancora più grave, la rinunzia, da parte dei giovani del Sud, alla speranza di
un lavoro se non ottenuto, da pochi, a prezzo di favori e clientelismo e negato,
a molti, per il mancato sviluppo dell’industrializzazione rispetto al resto del
Paese.
A seguire con il
“papello” contrattato da Riina con lo Stato con la minaccia di portare la
guerra anche nel resto del Paese [vedi via dei Georgofili e via Palestro],
contrattazione che è stata a mio avviso la causa principale della necessità di
eliminare Paolo Borsellino, e di eliminarlo in fretta.
A seguire,
infine, con l’individuazione di nuovi referenti politici dopo che le vicende di
Tangentopoli aveva fatto piazza pulita di buona parte della precedente classe
politica e dei referenti “storici”.
Accordi questi
che costituiscono la causa del degrado civile di oggi dove si consente che
indagati per associazione mafiosa governino la Sicilia e dove, a livello
nazionale, cresce, almeno nei sondaggi, il consenso popolare verso chi ha
probabilmente adoperato capitali di provenienza mafiosa per creare il proprio
impero industriale con annesso partito politico.
Come possono
allora chiamarsi “deviati” e non consoni all’essenza stesso di questo Stato
quei “Servizi” che, per “silenzio-assenso” del capo del Governo o su sua
esplicita richiesta, hanno spiato magistrati ritenuti e definiti “nemici” nei
relativi dossier e addirittura
convinto altri magistati a spiare quei loro colleghi che, sempre negli stessi dossier, venivano definiti come “nemici”,
“comunisti” e “braccio armato” della magistratura, con un linguaggio che non è
difficile ritrovare negli articoli di certi giornali e nelle dichiarazioni di
certi poltici.
Giaocchino Basile
mi dice che sarebbe mio diritto “pretendere” dallo Stato di conoscere la verità
sull’assassinio di Paolo, ma da “questo” Stato, dal quale ho respinto “l’indennizzo”
che pretendeva di offrirmi quale fratello di Paolo, indennizzo che andrebbe
semmai offerto a tutti i giovani siciliani e italiani per quello che gli è
stato tolto, sono sicuro che non otterrò altro che silenzi.
Gli stessi
silenzi, lo stesso “muro di gomma”, che hanno dovuto subire i figli del
Generale Dalla Chiesa, i parenti dei morti in quella interminabile serie di
stragi, la Strage di Portella della Ginestra, la Strage di Piazza Fontana, la Strage
di Piazza della Loggia, la Strage del Treno Italicus, la Strage di Ustica, la Strage
di Natale del rapido 904, la Strage di Pizzolungo, le Stragi di Via dei
Georgofili e di Via Palestro, delle quali oggi si conoscono raramente gli
esecutori, mai i mandanti e spesso neanche il movente, susseguitesi mentre nel
nostro Sud, grazie alla latitanza delle altre istituzioni dello Stato, uno dopo
l’altro venivano uccisi tutti i magistrati e i rappresentanti delle forze dell’ordine
che della lotta alla Mafia avevano fatto la propria ragione di vita, in una
tragica sequenza che non ha eguali in nessuno degli altri paesi del mondo
cosiddetto civile.
Io mi chiedo
invece, con amarezza, di quante altre stragi, di quanti altri morti avremo
ancora bisogno perché da parte dello Stato ci sia finalmente quella reazione
decisa e soprattutto duratura, come finora non è mai stata, che porti alla
sconfitta delle criminalità mafiosa e soprattutto dei poteri, sempre meno
occulti, ad essa legati, perché venga finalmente rotto quel patto scellerato di
non belligeranza che, come disse il giudice Di Lello il 20 Luglio del 1992,
pezzi dello Stato hanno da decenni stretto con la Mafia e che ha permesso e
continua a permettere non solo la passata decennale latitanza di boss famosi come Riina e Provenzano ma
la latitanza e l’impunità di decine di “capi mandamento” che sono i veri
padroni sia di Palermo che delle altre città della Sicilia.
Da parte mia
sono certo che non riuscirò a conoscere la verità in quel poco che mi resta da
vivere dato che, a 65 anni, sono solo un sopravvissuto in una famiglia in cui
mio padre, il fratello di mio padre, mio fratello, sono tutti morti a 52 anni,
i primi per cause naturali, l’ultimo perché era diventato un corpo estraneo
allo Stato le cui Istituzioni egli invece profondamente rispettava [sempre le
Istituzioni, non sempre invece quelli che le rappresentavano].
Spero soltanto
che, in questo anniversario, mi siano risparmiate la vista e le parole dei
tanti ipocriti che oggi piangono su Paolo e Giovanni quando, se fossero ancora
in vita, li osteggerebbero accusandoli, nella migiore della ipotesi, di essere
dei “professionisti dell’antimafia” o li farebbero addirittura spiare da
squallidi personaggi come Pio Pompa come “nemici” o come “braccio armato della
magistratura” .
Chiedo solo, in
questa occasione, di avere delle risposte ad almeno alcune delle tante domande,
dei tanti dubbi che non mi lasciano pace.
Chiedo al Proc.
Pietro Giammanco, allontanato da Palermo dopo l’assassinio di Paolo, ma
promosso ad un incarico più alto piuttosto che rimosso come avrebbe meritato,
perché non abbia disposto la bonifica e la zona di rimozione per via D’Amelio.
Eppure nella
stessa via, al n. 68 era stato da poco scoperto un covo dei Madonia e, a parte
il pericolo oggettivo per l’incolumità di Paolo Borsellino, le segnalazioni di
pericolo reale che pervenivano i quei giorni erano tali da da far confidare da
Paolo a Pippo Tricoli lo stesso 19 Luglio: “è arrivato in città il carico di
tritolo per me”.
A meno che, come
affermato dal Sen. Mancino in un suo intervento del 20 Luglio alla Camera,
anche lui credesse che “Borsellino non era un frequentatore abituale della casa
della madre”: infatti vi si recava appena almeno tre volte alla settimana!
La stessa
domanda inoltro all’allora prefetto di Palermo Mario Jovine anche se la
risposta ritiene di averla già data con l’affermazione fatta in quei giorni: “Nessuno
segnalò la pericolosità di Via D’Amelio.”
Affermazione
palesemente risibile: in quei giorni si erano susseguite le segnalazioni di
possibili attentati a Paolo Borsellino e bastava interrogare gli stessi agenti
della scorta, cinque dei quali morti insieme a lui, per sapere quali erano i
punti più a rischio.
Chiedo alla
Procura di Caltanissetta, e in particolare al gip Giovanbattista Tona, il
motivo dell’archiviazione delle indagini relative alla pista del Castello
Utveggio: eppure proprio da questo luogo partirono, subito dopo l’attentato,
delle telefonate dal cellulare clonato di Borsellino a quello del dott. Contrada,
oggi finalmente condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione per
collusione e favoreggiamento.
Chiedo alla
stessa Procura di Caltanissetta, e sempre allo stesso gip Giovanbattista Tona,
i motivi dell’archiviazione dell’inchiesta relativa ai mandanti occulti delle
stragi.
Per un’altra
archivazione, quella relativa alle vicissitudini del fascicolo Fincantieri ho
già inoltrato richiesta di chiarimenti in via ufficiale.
Chiedo alla
Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini
relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il
coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte.
Chiedo
soprattutto al sen. Nicola Mancino, del quale ricordo, negli anni
immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una
commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da
alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che
cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla
sua morte.
O spiegarci
perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando
Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo
della Poliza dott. Parisi e il dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì
sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Mutolo, da tenere in mano due
sigarette accese contemporaneamente.
Altrimenti,
grazie alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di
saperlo.
E in quel
colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della Strage di Via
D’Amelio.
Lettera
di Roberto Scarpinato a Paolo Borsellino
Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono
gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare
alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati
alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la
negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti
sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite
– per usare le tue parole – emanano quel puzzo
del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di
anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti
pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in
carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia
di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro
presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la
grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità,
giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e
rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del
denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri
piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è
dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come
Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un
valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del
padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese
nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli
occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati,
senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con
la Mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla Mafia avevano
costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi
di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio
1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per
dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare,
nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo
identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se
avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla Mafia
viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide
sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri
consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai
dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande
magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che
distrusse il mito della invincibilità della Mafia e riabilitò la potenza dello
Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari.
Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.
Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente,
perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di
questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con
volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “
Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande
Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e
coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche
cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più
grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a
distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica
ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la
strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto
e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni,
Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di
Giovanni dicesti: “Perché non è
fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è
turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza
che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa
sua città, verso questa terra che lo ha generato”.
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni,
ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci
stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la
tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché
ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te
dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere
da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di
Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di
reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti
ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi
sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come
la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le
contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che,
immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso
che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi
fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo
molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a
restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché
private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita
senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del
disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere
fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente
e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra
vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di
via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che
tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel
corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il
vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa
toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto,
perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre
il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa
dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza
è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che
in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo
di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove
sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool
antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi
avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli
intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e
regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e
della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro,
personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che
hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti,
che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi.
Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i
Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere
i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla Mafia da tanto
tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso
come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente
parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando
voi morivate, viene raccontata la favola che la Mafia è solo quella delle
estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la Mafia è costituita solo da una piccola minoranza di
criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi
simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da
soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi
da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la
strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la
verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici
delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per
questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti
sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte
portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti,
o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la Mafia, ma
saranno altri che mi faranno uccidere, la Mafia mi ucciderà quando altri lo
consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua
morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la
verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti
dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa
perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi
capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di
Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani
dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i
magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno
fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad
avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno
capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno
che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta
delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu
e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla
giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto
della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.
Paolo Borsellino, lettera di un
maestro
di Alex Corlazzoli
[http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/19/lettera-di-maestro-a-paolo-borsellino/660441]
19 luglio 2013
Caro Paolo,
quando sono
arrivato la prima volta in via D’Amelio ero un ragazzo che aveva da poco
compiuto i 18 anni. Nella mia città, nella mia scuola, in casa mia, nessuno mi
aveva parlato di Mafia. Non mi avevano mai raccontato di Placido Rizzotto, di
Peppino Impastato, di Portella della Ginestra.
La Mafia e la lotta alla Mafia non facevano parte del dizionario con il quale
ero cresciuto in un piccolo paese della Lombardia. Mentre nella tua Palermo la
gente veniva uccisa per strada, qualcuno al Nord diceva “si ammazzano tra loro.
Non ci riguarda”, come se fossimo due Paesi diversi.
In via D’Amelio mi ritrovai a suonare a quel citofono al civico 19, a fare quello che probabilmente fu il tuo
ultimo gesto. Tua sorella Rita, che si era spesa instancabilmente per tutt’Italia,
per portare il tuo nome in ogni scuola, parrocchia, associazione o comune, mi
accolse nella tua città, mi prese per mano accompagnandomi da giovane
giornalista a conoscere la tua storia, raccontandomi del “suo” Paolo.
Sono tornato
tante volte in via D’Amelio, accompagnando scolaresche e amici arrivati dal
Nord. Sono tornato ogni 19 luglio. Ho visto troppe corone d’alloro, troppi
minuti di silenzio.
In quella
strada, dove tu sei passato per l’ultima volta, ho visto Salvatore Cuffaro renderti
omaggio. A quel citofono nel 1994 Sivio Berlusconi, chiese a tua sorella che
aveva con coraggio scelto di non farlo salire in casa: “Cosa possiamo fare per
sconfiggere la Mafia?”
Ventuno anni
dopo, caro Paolo, in questo Paese che tu hai servito senza essere un eroe ma
svolgendo il tuo mestiere con dedizione e passione, il tuo nome rischia di
essere impresso solo nei libri di storia o sulle lapidi di qualche strada o
piazza.
Quando chiedo ai
miei ragazzi nelle classi quinte delle scuole primarie del Nord: “Chi sono
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone?”, spesso non sanno rispondermi. Magari
hanno scuole intitolate a te e al tuo fraterno amico, ma nessun insegnante si è
fermato con questi ragazzi a parlare di te, a leggere con loro le parole che ci
hai lasciato. Ecco perché nelle mie classi, il primo giorno di scuola, appendo
accanto alle cartine e al crocifisso la tua fotografia con Giovanni.
Tua sorella
Rita, 18 anni fa mi passò il testimone e ora da maestro ho il dovere di
passarlo ai miei bambini. E’ il compito di ogni insegnante perché il 19 luglio,
il 23 maggio non restino delle date che consentano ai politici di centrodestra
e di centrosinistra, di fare passerella.
Stamattina li
rivedremo: per un giorno la lotta alla Mafia sarà lo slogan di turno. Mi
tornano alla mente le parole che il magistrato Franca Imbergsmo mi ha
insegnato:
“A volte l’Antimafia
non fa meno schifo della Mafia.”
Oggi caro Paolo,
in questa Italia non ci serve a nulla avere politici che si fregiano di essere
onesti, di portare sulle spalle le vostre idee. Li abbiamo già visti. Abbiamo
bisogno di bambini che un giorno, molto presto, potranno essere magistrati,
sindaci, parlamentari, ingegneri, operai che conosceranno la storia di questo
paese, vivendo ogni giorno la vostra battaglia e non solo il 19 luglio.
Lettera aperta a Salvatore Borsellino
di Associazione Rai Bene Comune – Indignerai
[http://www.antimafiaduemila.com/home/opinioni/235-politica/59764-lettera-aperta-a-salvatore-borsellino-e-alle-vittime-di-mafia.html]
8
aprile 2016
Gentilissimo dott. Salvatore Borsellino,
ci presentiamo:
siamo un numeroso gruppo di dipendenti RAI che circa cinque anni fa, di fronte
al progressivo abbandono e smantellamento della nostra azienda RAI, hanno
deciso di associarsi nel gruppo Rai Bene Comune - Indignerai.
Nella nostra
comunità trovano casa anime politicamente e sindacalmente tra le più diverse.
Il nostro obiettivo quotidiano è denunciare tutti i giochi potere, interessi e
ingiustizie che gravitano intorno alla nostra azienda con lo scopo di
valorizzare il naturale ruolo di servizio pubblico per tutti i cittadini e gli
utenti che pagano il canone.
Nello specifico
ci riferiamo a concetti come qualità, intrattenimento non becero e servo dello
share, divulgazione scientifica e soprattutto, dott. Borsellino, libera
informazione.
A tal proposito
dott. Salvatore Borsellino, ci permettiamo di scriverLe soltanto per chiederle
umilmente SCUSA.
Come dipendenti,
come cittadini, come contribuenti, come strenui difensori della lotta alla Mafia
siamo indignati per l’intervista che ieri il giornalista RAI Bruno Vespa, nell’ambito
della sua nota trasmissione “Porta a Porta”, ha concesso al figlio del boss
Totò Riina.
Chiediamo scusa
a lei e a tutti coloro i quali sono stati colpiti dalla crudeltà dell’infame
fenomeno mafioso, chiediamo scusa al pubblico italiano, chiediamo scusa a chi
ogni giorno si impegna nelle istituzioni e nella società civile per contrastare
persone come Totò Riina e ciò che rappresentano.
Ci creda dott.
Borsellino, se avessimo potuto avremmo fatto molto di più per far sentire la
nostra voce contro l’ennesimo scempio televisivo ma chi le scrive sono solo dei
semplici dipendenti che ancora credono in una RAI Bene Pubblico al servizio
della parte migliore di questo schizofrenico paese.
Noi vorremmo
essere al servizio soprattutto di persone come Lei, Pino Maniaci, Maria Falcone
o Tina Montinari.
Al servizio
della memoria di tutti quanti sono caduti per mano delle mafie siciliane,
calabresi, campane o di qualsiasi altra natura o radicalizzazione geografica.
Quanto andato in
onda ieri non ha aggiunto niente alla cronaca, non ha alcuna rilevanza
giornalistica se non l’unico obiettivo di trarre profitto dal caos mediatico
che si è venuto a creare.
Nella logica
dell’audience, ogni mezzo è buono pur di aggiuntare un punto in più di
maledetto e venefico SHARE.
In questi anni
abbiamo visto dietro le nostre telecamere, regie e apparecchiature i più
svariati inchini e riverenze al potente di turno: destra o sinistra poco conta,
purché sia potente.
Ma questo, ci
creda, è il più riprovevole degli ossequi.
Non potevamo
stare zitti stavolta, non potevamo non fare sentire il nostro disprezzo, non
potevamo far passare il messaggio che la RAI e i suoi dipendenti possano
accettare passivamente tutto questo.
La Rai che noi
abbiamo a cuore è quella che produce il meraviglioso film di PIF “La Mafia
uccide solo d’estate”, la Rai che realizza fiction come “Il sindaco
pescatore”, la Rai che trasmette e informa il pubblico con lunghi speciali sul
maxi processo dall’ aula bunker dell’ Ucciardone a Palermo, la Rai che in prima
serata permette a Roberto Saviano di parlare di Camorra, la Rai dei mai
dimenticati Ilaria Alpi, Miran Hrovatin.
Dott.
Borsellino, ci scusi ancora se crede e se può.
Se possibile,
speriamo che questa lettera possa in parte lenire un rinnovato dolore che lei e
tutte le persone coinvolte nei fatti tragici di Mafia hanno ingiustamente
rivissuto in queste patetiche ore.
Speriamo passi
chiaro il messaggio che quella lì non è la RAI.
La Rai NON è [e
mai lo sarà] Cosa Loro.
Con rinnovata
stima
Associazione Rai Bene Comune - Indignerai
L’era di Nikolaj Ezov [1895-1940], capo del Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del
[NKVD], dal 1936 al 1938, è stato il periodo più
sanguinoso del Terrore staliniano. Nessuno, tranne Stalin, era al di sopra dei
sospetti dei funzionari del NKVD. Alla fine del 1938, Stalin proclamò la fine
delle “purghe” ed Ezov scomparve misteriosamente.
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these
conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the
courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two
requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be
reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first,
to the need for a far greater public information; and, second, to the need for
far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on
guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has
conscripted vast human and material resources into the building of a tightly
knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic,
intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every
citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every
citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common
good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper
business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America -
unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same
question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there
is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and
secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action
that results, are both painful and without precedent. But this is a time of
peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one
world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate
limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]
Nell’indagine sono finiti anche l’ex-ministro della
Giustizia Giovanni Conso, l’ex-capo del DAP Adalberto Capriotti e
l’europarlamentare dell’UDC Giuseppe Gargani, per i quali l’accusa è di false
informazioni al pubblico ministero. Ma la legge prevede che l’inchiesta, in
questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo
principale, quello, appunto, sulla trattativa; l’avviso di chiusura indagine,
dunque, ai tre indagati non è stato notificato.
La strage di Capaci, festeggiata dai mafiosi nel
Carcere dell’Ucciardone, provocò una reazione di sdegno nell’opinione pubblica.
Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l’attentato di Capaci
fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti. La strage, infatti,
avvenne nei giorni in cui il Parlamento era riunito in seduta comune per
l’elezione del presidente della Repubblica e Andreotti era considerato uno dei
candidati più accreditati per la carica, ma l’attentato orientò la scelta dei
parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro, che venne eletto il 25 maggio, ovvero
due giorni dopo la Strage di Capaci.
Nel 2013, la Procura di Caltanissetta ha archiviato,
definitivamente, l’inchiesta sui “mandanti occulti”:
“Da
questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti
esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall’inchiesta non vengono
fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con
Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emersenell’inchiesta
sull’eccidio di Via D’Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di
mandanti esterni.” [Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, in un’intervista
al Giornale di Sicilia, aprile 2013]
2 mesi prima dell’attentato, il pomeriggio del 19
maggio 1992, nel corso dell’XI scrutinio delle elezioni del presidente della
Repubblica, Gianfranco Fini [MSI] aveva dato indicazione ai suoi parlamentari
di votare per Paolo Borsellino, che ottenne in quello scrutinio 47 preferenze,
al sedicesimo scrutinio fu eletto Oscar Luigi Scalfaro.
Il primo
giugno 1991, Cossiga nomina Giulio
Andreotti senatore a vita.
Berlusconi e
la mafia. Paolo Borsellino, la sua ultima intervista censurata dalle tv [integrale]
[https://www.youtube.com/watch?v=NDyfC3Z_d5A].
Il 1° luglio 2014, con il deposito delle
motivazioni della sentenza n. 28225, pronunciata dalla Sezione I della Corte di
Cassazione, si è chiuso, dopo 17 anni, il processo penale a carico
dell’ex-senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato in via
definitiva alla pena di sette anni di reclusione per il delitto di concorso
esterno in associazione mafiosa.
“Spiega Fede
a Ferri: “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano
attraverso Marcello.” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era
tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Sì, sì era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che
investiva.” risponde Fede. Poi il giornalista si pone una
domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo
dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare.” Aggiunge
Fede: “Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l’unico che sa.
Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno
riferimento a Dell’Utri?” Quindi il giornalista fornisce al suo personal
trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico:
“La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, Mafia, Mafia, soldi, Mafia.”
Giuseppe
Pipitone, Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, Mafia, Mafia. Sosteneva
famiglia Mangano”, Il Fatto quotidiano, 22 luglio 2014