“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 31 agosto 2016

invito alla conferenza-dibattito: Silenzio, si uccide. Motore, azione, chk! venerdì, 7 ottobre 2016 - ore 17.00 a cura di Daniela Zini Odradek la Libreria 57, via dei Banchi Vecchi - Roma



Ho l’immenso piacere di invitarVi a un appuntamento per riflettere:
conferenza-dibattito:
Silenzio, si uccide. 
Motore, azione, chk!
a cura di Daniela Zini
Odradek la Libreria
57, via dei Banchi Vecchi - Roma 
venerdì, 7 ottobre 2016 - ore 17.00


 “Le parole possono salvare delle vite.”
Anna Politkovskaja 
[7 ottobre 2006 - 7 ottobre 2016]

“La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire.”
George Orwell [1903-1950]

Il principio della libertà di informazione, sul quale si pronuncia, il 4 dicembre 1963, lo stesso Concilio Vaticano II, con un decreto sugli strumenti di comunicazione sociale, Inter Mirifica [http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_decree_19631204_inter-mirifica_it.html], approvato con 1960 voti favorevoli e 164 contrari e promulgato da papa Paolo VI, viene sancito, il 26 agosto 1789, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino [http://www.dircost.unito.it/cs/docs/francia1789.htm]:
Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.” [articolo 10]
La libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può, dunque, parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge.” [articolo 11]
Questo principio ha una consacrazione internazionale nella Conferenza interamericana sui problemi della guerra e la pace, che si svolge a Città del Messico, dal 21 febbraio all’8 marzo del 1945, e che adotta una risoluzione nota con il nome di Atto di Chapultepec, in cui si afferma che “nessuna società può essere libera senza libertà di espressione e di stampa” e che l’esercizio di questa libertà non è garantito “dalle autorità politiche, ma è un inalienabile diritto popolare”; quindi, nella Dichiarazione universale dei diritti umani [http://www.ohchr.org/en/udhr/pages/language.aspx?langid=itn], adottata, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che all’articolo 19 recita:
“Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
Il 12 novembre 1997, durante la Conferenza Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, riunitasi, a Parigi, dal 21 ottobre al 12 novembre 1997, viene adottata la Risoluzione 29 sulla condanna della violenza contro i giornalisti, che mira a sensibilizzare i governi e le organizzazioni internazionali e regionali a questo riguardo e tenta, dunque, di combattere la cultura della impunità. Nei due terzi dei casi, infatti, gli assassini non sono neppure identificati. In molti Paesi, l’assassinio è divenuto il mezzo più facile, più economico e più efficace per far tacere i giornalisti “scomodi”. E più gli assassini se ne tirano fuori, più si accelera la spirale della morte.
Il 23 dicembre 2006, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta la Risoluzione 1738 sugli attacchi ai giornalisti, ai professionisti dei mezzi di informazione e al personale associato nei conflitti armati [http://www.un.org/News/Press/docs/2006/sc8929.doc.htm].
Il 3 maggio 2007, al termine della Conferenza Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, promossa in occasione della Giornata Mondiale della Libertà di Stampa, è adottata la Dichiarazione di Medellin per migliorare la sicurezza dei giornalisti e punire i crimini contro di loro [http://www.unesco.it/stampa/comunicati_stampa_2007/Comunicato%20Stampa%20026%202007%20Sicurezza%20giornalisti.doc]. Una necessità che chiama in causa tutti, come ricorda Reporters sans Frontières:
“I regimi più repressivi possono facilmente disporre della libertà di espressione e dei suoi sostenitori. Le organizzazioni non governative sono messe al bando o cacciate fuori proprio da quei Paesi in cui ve ne sarebbe più bisogno. Le principali istituzioni internazionali possono protestare, minacciare sanzioni, denunciare la situazione ai più alti livelli, senza ottenere alcun risultato.”
Non sono senza colpa gli Stati occidentali, che condannano la mancanza di libertà in Paesi in via di sviluppo; ma, in nome di interessi economici, non mostrano pari determinazione con Paesi critici, quali la Russia o la Cina. La dichiarazione esprime preoccupazione per gli attacchi alle voci della stampa libera e invita gli Stati a dare attuazione agli impegni precedentemente espressi, a livello internazionale, attraverso l’adozione delle Risoluzioni 29 e 1738.
Il 12 marzo 2008, Reporters sans Frontières indice la prima Giornata Mondiale per la libertà di espressione on-line, allo scopo di denunciare la censura dei governi sulla rete.
L’11 gennaio dello scorso anno, per esprimere solidarietà alle vittime dell’attacco terroristico contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo, in cui sono morte 12 persone e 11 sono rimaste ferite, [https://www.youtube.com/watch?v=7HI07y0TkBA], si era riversata nelle strade di Parigi una folla oceanica di oltre 2 milioni di manifestanti – oltre 3 milioni e mezzo in tutta la Francia –. Tra i 44 capi di Stato e di governo che marciavano, quel giorno, al fianco dei francesi vi erano leaders che non possono essere, innegabilmente, considerati dei campioni della libertà di espressione:
Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele;
Ibrahim Boubacar Keita, presidente del Mali;
Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese;
Mohammed Ismail Al-Sheikh, ambasciatore dell’Arabia Saudita in Francia;
Ahmet Davutoglu, primo ministro della Turchia;
Sameh Hassan Shoukry, ministro degli affari esteri dell’Egitto;
Ramtane Lamamra, ministro degli affari esteri dell’Algeria;
Sergej Viktorovic Lavrov, ministro degli affari esteri della Russia;
Viktor Mihaly Orban, primo ministro dell’Ungheria;
re ‘Abd Allah II ibn al-Husayn di Giordania;
Antonis Samaras, primo ministro della Grecia;
Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli affari esteri degli Emirati Arabi Uniti;
Mehdi Jomaa, primo ministro della Tunisia;
Giorgi Kvirikashvili, primo ministro della Georgia;
Bojko Metodiev Borisov, primo ministro della Bulgaria;
Enda Kenny, primo ministro dell’Irlanda;
Miro Cerar, primo ministro della Slovenia;
David William Donald Cameron, primo ministro del Regno Unito;
Ewa Kopacz, primo ministro della Polonia;
Eric Holder, ministro della giustizia degli Stati Uniti d’America;
Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO;
Non esattamente i migliori amici dei giornalisti!
“E perché non Bashar al Assad?”,
Una figura migliore l’ha fatta il ministro degli affari esteri del Marocco, Salaheddine Mezouar, venuto a Parigi per presentare le condoglianze a François Hollande e, poi, rifiutatosi di partecipare alla marcia.
L’indomani, si leggeva nel comunicato di Reporters sans Frontières:
“Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a Parigi in omaggio a un giornale che ha, sempre, difeso la concezione più alta della libertà di espressione?”
L’ONG ricordava che l’Egitto, la Russia, la Turchia, l’Algeria e gli Emirati Arabi Uniti erano, rispettivamente, al 159°, 148°, 154°, 121° e 118° posto su 180 Paesi nella classifica mondiale sulla libertà di stampa [http://rsf.org/en/ranking/2015].
“Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hebdo senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo.”,
sintetizzava il segretario generale di Reporters sans Frontières, Christophe Deloire.
I giornalisti uccisi nel corso del 2015 sono 69, 8 in più rispetto al 2014. È quanto emerge dal rapporto annuale presentato, a New York, dal Committee to Protect Journalists[CPJ] [https://cpj.org/killed/2015/, https://cpj.org/reports/], che riporta anche la morte di 25 giornalisti in circostanze ancora da chiarire e la morte di 3 operatori di media.
Secondo l’organizzazione Reporters sans Frontières, che ha pubblicato, il 29 dicembre scorso, la sua relazione annuale, sono stati, sicuramente, uccisi, nel 2015, 67 giornalisti contro i 66 del 2014, 27 citizen journalists e 7 collaboratori di media di vario genere. In realtà, i giornalisti uccisi sono 110, ma solo per 67 è stato dimostrato che l’assassinio va messo in relazione con la loro professione:
“In 43 casi le circostanze della morte restano indeterminate, perché non ci sono state inchieste imparziali e approfondite. E per la cattiva volontà degli Stati di fare giustizia.”
Per questa ragione, Reporters sans Frontières ha chiesto la nomina, “senza perdere tempo ulteriore, di un rappresentante speciale per la protezione dei giornalisti presso il segretario generale dell’ONU”.
In testa ai Paesi più colpiti, figurano l’Iraq e la Siria, seguiti dalla Francia, lo Yemen, il Sudan del Sud, l’India, il Messico e le Filippine.
Dal 2005, sono stati uccisi, almeno, 787 giornalisti.
Le parole sono armi e possono uccidere  o meglio condannare a morte.
E lo hanno confermato, il 7 ottobre 2006, in pieno centro di Mosca.
Anna Politkovskaja è stata abbattuta, esattamente 10 anni fa, il giorno del compleanno di Vladimir Putin. Il suo corpo veniva ritrovato, alle 17.10, da una vicina, nell’ascensore del suo stabile, in via Lesnaja, nel centro di Mosca. Accanto al suo cadavere, la polizia rinveniva una pistola Makarov 9 mm. – una pistola in dotazione all’Armata Rossa e al KGB – e quattro bossoli. Anna Politkovskaja era la ventunesima giornalista assassinata in Russia dall’elezione di Vladimir Putin, nel 2000.  Anna Politkovskaja si apprestava a pubblicare, sulla Novaja Gazeta, l’8 ottobre, un articolo sulla pratica della tortura in Cecenia, che implicava direttamente Ramzan Kadyrov, primo ministro ceceno, nominato dal presidente Vladimir Putin. La sua tomba è un foglio bianco crivellato da cinque colpi di pistola. Il martedì 10 ottobre, nel cimitero Troekurovskij di Mosca, migliaia di persone sfilavano davanti alla sua bara. Erano, soprattutto, gente comune. Erano state, egualmente, presenti alcune grandi figure dell’opposizione, quali Boris Nemtsov, ucciso, il 27 febbraio 2015, da ignoti sicari a pochi passi dalla piazza Rossa a Mosca [http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/03/02/chi-ha-ucciso-boris-nemtsov] e Grigori Iavlinski. Ma per rappresentare il governo, non vi erano stati che alcuni uomini sconosciuti del ministero della cultura. La fronte della giornalista era celata da una benda bianca. L’assassino, che aveva esploso contro di lei quattro colpi di pistola in rapida successione, per assicurarsi di aver abbattuto il bersaglio, aveva sparato il colpo di grazia alla nuca. Con lei, moriva, per molti, la speranza che la Russia potesse liberarsi dai fantasmi del passato e divenire una grande democrazia rispettosa dei diritti umani.
“Non è sorprendente… Noi siamo tornati là dove eravamo sotto il regime comunista, quando il potere disprezzava l’individuo e le sue libertà.”,
era insorto, dalla massa degli anonimi, Khassan Satobayev, un russo che è fuggito dalla Cecenia, nel 1995, dopo l’inizio della prima guerra.
“La maggioranza della gente continua a fare quello che dice loro il capo. Ci hanno dato, certo, la libertà. Ma non abbiamo appreso a usarla. Guardate la nostra televisione… Vi sono sesso, risate e birra. Ma non vi è informazione!”
Khassan Satobayev non conosceva personalmente Anna Politkovskaja. Ma, leggeva, regolarmente, i suoi articoli su Internet.
Quello stesso 10 ottobre, a Dresda, Vladimir Putin, che era rimasto in silenzio dopo l’assassinio, rilasciava questa dichiarazione sibillina:
“Questa persona aveva un atteggiamento critico nei confronti delle autorità, ma è giusto che voi sappiate che lei non aveva alcuna influenza sulla politica russa. Era conosciuta solo nell’ambiente dei giornalisti, nelle organizzazioni per i diritti umani e in Occidente, ma ripeto: la sua influenza sulla vita politica del nostro Paese era minima.”
La politica [in russo политика, si legge politica], Anna Politkovskaja l’aveva piombata”, perfino, nel suo stesso cognome, ed è contro quella, invadente, di Vladimir Putin, che aveva deciso di lottare.
L’attivista russo Ildar Dadin, condannato, il 7 dicembre scorso, da un tribunale di Mosca a 3 anni di reclusione per aver “ripetutamente” violato la legge sulle manifestazioni [http://it.rbth.com/politica/2013/05/01/putin_al_primo_anno_del_terzo_mandato_23867], con “picchetti solitari” o proteste non autorizzate contro la guerra in Ucraina, sulla morte di Anna Poltkovskaja ha scritto:
Assassinio dimostrativo: uccisa il giorno del compleanno di Putin. In Russia, nel mondo del business e della politica, è tradizionale, per il compleanno di una persona, offrirle in dono la morte del suo oppositore o avversario principale.
Triste reatà!
E la lista dei giornalisti russi uccisi si allunga tristemente.
Chi ha interesse a imbavagliare la stampa russa?
Il potere, gli oligarchi, la mafia, gli oppositori?
Nessuno ha la risposta, le inchieste giudiziarie non approdano, mai, a nulla in Russia. Se i sicari vengono, talvolta, arestati, i responsabili di questo genocidio non sono mai identificati.
Anna lo sapeva!
Nei suoi scritti invocava la necessità di rendere i giudici indipendenti e la polizia più efficace.
La giustizia russa non è solo ingiusta, è assassina.
La giustizia russa non è solo dipendente dal potere, è serva.
La giustizia russa non è solo marcia, è fetida.
La giustizia russa spinge i dissidenti a fuggire, come l’ex-campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, che ha ottenuto la nazionalità croata, nel 2014.
Ma, talvolta, lasciare la Russia non basta.
Il 23 novembre 2006, moriva, a Londra, l’ex-agente dei servizi segreti russi Alexandr Val’terovic Litvinenko [http://www.theguardian.com/world/live/2016/jan/21/inquiry-into-the-death-of-alexander-litvinenko-live-updates], a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, un isotopo radioattivo del polonio, in circostanze poco chiare. Prima di morire, tuttavia, in luglio Alexandr Val’terovic Litvinenko aveva accusato, pubblicamente, il presidente russo Vladimir Putin di essere il responsabile del suo avvelenamento e il mandante dell’omicidio di Anna Poltkovskaja, e pubblicato on-line su Zakayev's Chechenpress [http://alt-f4.org/img/chechen-2006-07-05.html].
Il 23 marzo 2013, viene trovato morto nella sua residenza, nei pressi di Londra, il miliardario sessantasettenne Boris Berezovski
Suicidio, assassinio?
La polizia britannica parla di un “decesso dovuto a cause non note”
La sicurezza dei giornalisti è essenziale alla difesa del diritto dei cittadini ad accedere a informazioni affidabili e del diritto dei giornalisti a darle senza pregiudizio alcuno per la propria sicurezza. Gli Stati e le Società devono creare e mantenere le condizioni necessarie perché questi diritti fondamentali siano esercitati da tutti. E, quando i crimini contro i giornalisti restano impuniti, si può dubitare dell’impegno degli Stati a difendere le libertà fondamentali e a imporre la supremazia del diritto. Di conseguenza, gli Stati devono adottare una posizione ferma per impedire gli assassiniidei giornalisti e assicurare gli autori dei crimini alla Giustizia.
Joseph Paul Goebbels, l’uomo della propaganda nazista, è stato il primo politico a comprendere il potere della informazione  e della propaganda e a utilizzarlo per la costruzione del Terzo Reich. Sosteneva:
“La propaganda è un’arte, non importa se questa racconti la verità.”
 e suggeriva:
“Ripetete una menzogna cento, mille, un milione di volte e diverrà una verità.”
Controllare la stampa, gestire l’opinione pubblica, modificare il pensiero della società attraverso i media… ecco come si costruisce una menzogna, che, dopo una brevissima gestazione, inizia a vivere di vita propria e diviene verità. Con l’avvento, nelle democrazie contemporanee, di una vita politica imperniata sui media, noi osserviamo due movimenti contraddittori: i media al servizio dei politici e viceversa. È, dunque, necessario interrogarsi sul potere dei media e la sua influenza sulla vita democratica.
La libertà di parola e di stampa sono garantite in Italia dalla Costituzione: 
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'Autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
[articolo 21]

E, tuttavia, il mondo dell’informazione italiana, da anni, al centro di profonde trasformazioni, è influenzato dalla presenza di forti potentati consolidati da intrecci politici ed economici.
La mancanza di indipendenza dei media viene alla ribalta, a livello internazionale, nella classifica sulla libertà di stampa, redatta da Freedom House. L’Italia, infatti, scivolata, nel 2003, dal 53° posto al 74°, frana rovinosamente, l’anno successivo, al 77° posto ed entra nel gruppo dei Paesi “parzialmente liberi”, unica anomalia dell’Europa Occidentale [https://freedomhouse.org/country/italy]. All’origine del declassamento, l’indiscutibile conflitto di interessi e l’altrettanto indiscutibile concentrazione di proprietà dei media, che gravano sulla Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, il quale, attraverso proprietà familiari e potere politico sui networks televisivi di Stato, controlla il 90% della informazione. Ad aggravare la situazione anche la Legge 3 maggio 2004, n.112, meglio nota come Legge Gasparri [http://www.rai.it/dl/docs/[1232099039939]LeggeGasparri.pdf], pesantemente criticata a livello internazionale come “un pericolo per l’indipendenza della televisione pubblica e una minaccia al pluralismo della informazione”, a dispetto di ogni regola antitrust.
Lo scorso 20 aprile, è apparsa la classifica di Reporters sans Frontières sulla libertà di stampa su un totale di 180 Paesi.
In questa classifica, l’Italia è crollata di quattro posizioni, scendendo dal 73° posto del 2015 al 77°, tra i Paesi della terza fascia [le fasce, in totale, sono 5], al cui interno la condizione della informazione è giudicata “problematica”, preceduta dal Lesotho, l’Armenia, il Nicaragua e la Moldova e seguita dal Benin e la Guinea Bissau [http://rsf.org/ranking].


Daniela Zini





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