Ho l’immenso piacere di invitarVi a un appuntamento
per riflettere:
conferenza-dibattito:
Silenzio, si uccide.
Motore, azione,
chk!
a
cura di Daniela Zini
Odradek la
Libreria
57, via dei Banchi Vecchi - Roma
venerdì, 7 ottobre 2016 - ore 17.00
“Le parole possono salvare
delle vite.”
Anna Politkovskaja
[7 ottobre 2006 - 7 ottobre 2016]
“La vera libertà di stampa
è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire.”
George Orwell [1903-1950]
“Nessuno
deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la
manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla Legge.” [articolo 10]
“La
libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più
preziosi dell’uomo; ogni cittadino può, dunque, parlare, scrivere, stampare
liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi
determinati dalla Legge.” [articolo
11]
Questo principio
ha una consacrazione internazionale nella Conferenza
interamericana sui problemi della guerra e la pace, che si
svolge a Città del Messico, dal 21 febbraio all’8 marzo del 1945, e che adotta
una risoluzione nota con il nome di Atto di Chapultepec, in cui si afferma
che “nessuna
società può essere libera senza libertà di espressione e di stampa”
e che l’esercizio di questa libertà non è garantito “dalle autorità politiche, ma è un
inalienabile diritto popolare”; quindi, nella Dichiarazione
universale dei diritti umani [http://www.ohchr.org/en/udhr/pages/language.aspx?langid=itn], adottata, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
che all’articolo 19 recita:
“Ogni individuo ha diritto
alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere
molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere
informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
Il 12 novembre 1997, durante la Conferenza Generale dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura, riunitasi, a
Parigi, dal 21 ottobre al 12 novembre 1997, viene adottata la Risoluzione 29 sulla condanna della violenza contro i
giornalisti, che mira a sensibilizzare i governi e le
organizzazioni internazionali e regionali a questo riguardo e tenta, dunque, di
combattere la cultura della impunità. Nei due terzi dei casi, infatti, gli
assassini non sono neppure identificati. In molti Paesi, l’assassinio è
divenuto il mezzo più facile, più economico e più efficace per far tacere i
giornalisti “scomodi”. E più gli assassini se ne tirano fuori, più si accelera
la spirale della morte.
Il 23 dicembre 2006, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
adotta la Risoluzione
1738 sugli attacchi ai giornalisti, ai
professionisti dei mezzi di informazione e al personale associato nei conflitti
armati [http://www.un.org/News/Press/docs/2006/sc8929.doc.htm].
“I
regimi più repressivi possono facilmente disporre della libertà di espressione
e dei suoi sostenitori. Le organizzazioni non governative sono messe al bando o
cacciate fuori proprio da quei Paesi in cui ve ne sarebbe più bisogno. Le
principali istituzioni internazionali possono protestare, minacciare sanzioni,
denunciare la situazione ai più alti livelli, senza ottenere alcun risultato.”
Non sono senza
colpa gli Stati occidentali, che condannano la mancanza di libertà in Paesi in
via di sviluppo; ma, in nome di interessi economici, non mostrano pari determinazione
con Paesi critici, quali la Russia o la Cina. La dichiarazione esprime
preoccupazione per gli attacchi alle voci della stampa libera e invita gli Stati a dare attuazione agli
impegni precedentemente espressi, a livello internazionale, attraverso
l’adozione delle Risoluzioni 29 e 1738.
Il 12 marzo
2008, Reporters
sans Frontières indice la prima Giornata
Mondiale per la libertà di espressione on-line, allo scopo di
denunciare la censura dei governi sulla rete.
L’11 gennaio
dello scorso anno, per esprimere solidarietà alle vittime dell’attacco
terroristico contro la sede del giornale satirico Charlie
Hebdo, in cui sono morte 12 persone e 11 sono rimaste ferite, [https://www.youtube.com/watch?v=7HI07y0TkBA], si era riversata nelle strade di
Parigi una folla oceanica di oltre 2 milioni di manifestanti – oltre 3 milioni
e mezzo in tutta la Francia –. Tra i 44 capi di Stato e di governo che
marciavano, quel giorno, al fianco dei francesi vi erano leaders che non possono essere, innegabilmente, considerati dei
campioni della libertà di espressione:
Benjamin
Netanyahu, primo ministro di
Israele;
Ibrahim
Boubacar Keita, presidente del Mali;
Mahmud
Abbas, presidente dell’Autorità
Nazionale Palestinese;
Mohammed
Ismail Al-Sheikh, ambasciatore
dell’Arabia Saudita in Francia;
Ahmet
Davutoglu, primo ministro della Turchia;
Sameh
Hassan Shoukry, ministro degli
affari esteri dell’Egitto;
Ramtane
Lamamra, ministro degli affari
esteri dell’Algeria;
Sergej
Viktorovic Lavrov, ministro degli affari esteri della Russia;
Viktor Mihaly Orban, primo ministro dell’Ungheria;
re ‘Abd Allah II ibn al-Husayn di Giordania;
Antonis
Samaras,
primo ministro della Grecia;
Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli affari
esteri degli Emirati Arabi Uniti;
Mehdi Jomaa, primo ministro della
Tunisia;
Giorgi
Kvirikashvili, primo ministro della
Georgia;
Bojko
Metodiev Borisov,
primo ministro della
Bulgaria;
Enda Kenny, primo ministro dell’Irlanda;
Miro Cerar, primo ministro della
Slovenia;
David
William Donald Cameron, primo
ministro del Regno Unito;
Ewa Kopacz, primo ministro della
Polonia;
Eric Holder, ministro della giustizia degli Stati Uniti d’America;
Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO;
Non
esattamente i migliori amici dei giornalisti!
“E
perché non Bashar al Assad?”,
Una
figura migliore l’ha fatta il ministro degli affari esteri del Marocco, Salaheddine
Mezouar, venuto a Parigi per presentare le condoglianze a François
Hollande e, poi, rifiutatosi di partecipare alla marcia.
L’indomani, si leggeva nel comunicato di Reporters
sans Frontières:
“Come
fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a
Parigi in omaggio a un giornale che ha, sempre, difeso la concezione più alta
della libertà di espressione?”
L’ONG ricordava
che l’Egitto, la Russia, la Turchia, l’Algeria e gli Emirati Arabi Uniti erano,
rispettivamente, al 159°, 148°, 154°, 121° e 118° posto su 180 Paesi nella
classifica mondiale sulla libertà di stampa [http://rsf.org/en/ranking/2015].
“Dobbiamo
dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hebdo senza dimenticare tutti gli
altri Charlie del mondo.”,
sintetizzava il
segretario generale di Reporters sans
Frontières, Christophe Deloire.
I giornalisti
uccisi nel corso del 2015 sono 69, 8
in più rispetto al 2014. È quanto emerge dal rapporto
annuale presentato, a New York, dal Committee to
Protect Journalists[CPJ] [https://cpj.org/killed/2015/, https://cpj.org/reports/],
che riporta anche la morte di 25 giornalisti in circostanze ancora da chiarire
e la morte di 3 operatori di media.
Secondo
l’organizzazione Reporters sans Frontières,
che ha pubblicato, il 29 dicembre
scorso, la sua relazione annuale, sono stati, sicuramente, uccisi, nel
2015, 67 giornalisti contro i 66 del
2014, 27 citizen journalists e 7 collaboratori di media di vario genere. In
realtà, i giornalisti uccisi sono 110, ma solo per 67 è stato dimostrato che
l’assassinio va messo in relazione con la loro professione:
“In
43 casi le circostanze della morte restano indeterminate, perché non ci
sono state inchieste imparziali e approfondite. E per la cattiva volontà degli
Stati di fare giustizia.”
Per questa
ragione, Reporters sans Frontières ha
chiesto la nomina, “senza perdere tempo ulteriore, di un
rappresentante speciale per la protezione dei giornalisti presso il segretario
generale dell’ONU”.
In testa ai
Paesi più colpiti, figurano l’Iraq e la Siria, seguiti dalla Francia, lo Yemen,
il Sudan del Sud, l’India, il Messico e le Filippine.
Dal 2005, sono
stati uccisi, almeno, 787 giornalisti.
Le parole sono armi e possono uccidere o meglio condannare a morte.
E lo hanno confermato, il 7 ottobre 2006, in pieno centro di
Mosca.
Anna Politkovskaja è stata
abbattuta, esattamente 10 anni fa, il giorno del compleanno di Vladimir Putin.
Il suo corpo veniva ritrovato, alle 17.10, da una vicina, nell’ascensore del
suo stabile, in via Lesnaja, nel centro di Mosca. Accanto al suo cadavere, la
polizia rinveniva una pistola Makarov 9 mm. – una pistola in dotazione all’Armata Rossa e al KGB – e quattro bossoli.
Anna Politkovskaja era la ventunesima giornalista assassinata in Russia
dall’elezione di Vladimir Putin, nel 2000.
Anna
Politkovskaja si apprestava a pubblicare, sulla Novaja Gazeta,
l’8 ottobre, un articolo sulla pratica della tortura in Cecenia, che implicava
direttamente Ramzan
Kadyrov, primo ministro ceceno, nominato dal presidente Vladimir Putin.
La sua tomba è un foglio bianco crivellato da cinque colpi di pistola. Il
martedì 10 ottobre, nel cimitero Troekurovskij di Mosca, migliaia di persone
sfilavano davanti alla sua bara. Erano, soprattutto, gente comune. Erano state,
egualmente, presenti alcune grandi figure dell’opposizione, quali Boris Nemtsov,
ucciso, il 27 febbraio 2015, da ignoti sicari a pochi passi dalla piazza Rossa
a Mosca [http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2015/03/02/chi-ha-ucciso-boris-nemtsov]
e Grigori Iavlinski.
Ma per rappresentare il governo, non vi erano stati che alcuni uomini
sconosciuti del ministero della cultura. La fronte della giornalista era celata
da una benda bianca. L’assassino, che aveva esploso contro di lei quattro colpi
di pistola in rapida successione, per assicurarsi di aver abbattuto il
bersaglio, aveva sparato il colpo di grazia alla nuca. Con lei, moriva, per
molti, la speranza che la
Russia potesse liberarsi dai fantasmi del passato e divenire
una grande democrazia rispettosa dei diritti umani.
“Non
è sorprendente… Noi siamo tornati là dove eravamo sotto il regime comunista,
quando il potere disprezzava l’individuo e le sue libertà.”,
era insorto,
dalla massa degli anonimi, Khassan Satobayev, un russo che è fuggito
dalla Cecenia, nel 1995, dopo l’inizio della prima guerra.
“La
maggioranza della gente continua a fare quello che dice loro il capo. Ci hanno
dato, certo, la libertà. Ma non abbiamo appreso a usarla. Guardate la nostra
televisione… Vi sono sesso, risate e birra. Ma non vi è informazione!”
Khassan Satobayev non conosceva
personalmente Anna
Politkovskaja. Ma, leggeva, regolarmente, i suoi articoli su
Internet.
Quello stesso 10
ottobre, a Dresda, Vladimir Putin, che era rimasto in silenzio
dopo l’assassinio, rilasciava questa dichiarazione sibillina:
“Questa persona aveva un
atteggiamento critico nei confronti delle autorità, ma è giusto che voi
sappiate che lei non aveva alcuna influenza sulla politica russa. Era
conosciuta solo nell’ambiente dei giornalisti, nelle organizzazioni per i
diritti umani e in Occidente, ma ripeto: la sua influenza sulla vita politica
del nostro Paese era minima.”
La politica [in russo политика, si legge
politica], Anna Politkovskaja l’aveva
“piombata”, perfino, nel suo stesso
cognome, ed è contro quella, invadente, di Vladimir Putin, che aveva deciso di lottare.
“Assassinio
dimostrativo: uccisa il giorno del compleanno di Putin. In Russia, nel mondo
del business e della politica, è tradizionale, per il compleanno di una
persona, offrirle in dono la morte del suo oppositore o avversario principale.”
Triste reatà!
E la lista dei giornalisti russi uccisi si allunga tristemente.
Chi ha interesse a imbavagliare la stampa russa?
Il potere, gli oligarchi, la mafia, gli oppositori?
Nessuno ha la risposta, le inchieste giudiziarie non approdano, mai, a
nulla in Russia. Se i sicari vengono, talvolta, arestati, i responsabili di
questo genocidio non sono mai identificati.
Anna lo sapeva!
Nei suoi scritti invocava la necessità di rendere i giudici indipendenti e
la polizia più efficace.
La giustizia russa non è solo ingiusta, è assassina.
La giustizia russa non è solo dipendente dal potere, è serva.
La giustizia russa non è solo marcia, è fetida.
La giustizia
russa spinge i dissidenti a fuggire, come l’ex-campione del mondo di scacchi Garry Kasparov,
che ha ottenuto la nazionalità croata, nel 2014.
Ma, talvolta,
lasciare la Russia non basta.
Il 23 novembre
2006, moriva, a Londra, l’ex-agente dei servizi segreti russi Alexandr Val’terovic Litvinenko
[
http://www.theguardian.com/world/live/2016/jan/21/inquiry-into-the-death-of-alexander-litvinenko-live-updates],
a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, un isotopo
radioattivo del polonio, in circostanze poco chiare. Prima di morire, tuttavia,
in luglio Alexandr Val’terovic Litvinenko
aveva accusato, pubblicamente, il presidente russo Vladimir Putin di essere il
responsabile del suo avvelenamento e il mandante dell’omicidio di Anna
Poltkovskaja, e pubblicato on-line
su Zakayev's Chechenpress [http://alt-f4.org/img/chechen-2006-07-05.html].
Il 23 marzo
2013, viene trovato morto nella sua residenza, nei pressi di Londra, il
miliardario sessantasettenne Boris Berezovski…
Suicidio,
assassinio?
La polizia
britannica parla di un “decesso dovuto
a cause non note”…
La sicurezza dei
giornalisti è essenziale alla difesa del diritto dei cittadini ad accedere a
informazioni affidabili e del diritto dei giornalisti a darle senza pregiudizio
alcuno per la propria sicurezza. Gli Stati e le Società devono creare e
mantenere le condizioni necessarie perché questi diritti fondamentali siano
esercitati da tutti. E, quando i crimini contro i giornalisti restano impuniti,
si può dubitare dell’impegno degli Stati a difendere le libertà fondamentali e
a imporre la supremazia del diritto. Di conseguenza, gli Stati devono adottare
una posizione ferma per impedire gli assassiniidei giornalisti e assicurare gli
autori dei crimini alla Giustizia.
Joseph
Paul Goebbels, l’uomo della propaganda nazista, è stato il primo politico a
comprendere il potere della informazione e della propaganda e a utilizzarlo per la costruzione del Terzo Reich.
Sosteneva:
“La propaganda è un’arte, non importa se questa
racconti la verità.”
e
suggeriva:
“Ripetete una menzogna cento, mille, un milione di
volte e diverrà una verità.”
Controllare la stampa, gestire l’opinione pubblica, modificare
il pensiero della società attraverso i media… ecco come si costruisce una
menzogna, che, dopo una brevissima gestazione, inizia a vivere di vita propria
e diviene verità. Con l’avvento, nelle democrazie contemporanee, di una vita
politica imperniata sui media, noi osserviamo due movimenti contraddittori: i
media al servizio dei politici e viceversa. È,
dunque, necessario interrogarsi sul potere dei media e la sua influenza sulla
vita democratica.
La libertà di
parola e di stampa sono garantite in Italia dalla
Costituzione:
“Tutti
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La
stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si
può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'Autorità giudiziaria
nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo
autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva
per l'indicazione dei responsabili.
In
tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo
intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può
essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente,
e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria. Se
questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro
s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La
legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i
mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono
vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre
manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti
adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”
E, tuttavia, il
mondo dell’informazione italiana, da anni, al centro di profonde
trasformazioni, è influenzato dalla presenza di forti potentati consolidati da
intrecci politici ed economici.
La mancanza di
indipendenza dei media viene alla ribalta, a livello internazionale, nella
classifica sulla libertà di stampa, redatta da Freedom
House. L’Italia, infatti, scivolata, nel 2003, dal 53° posto al
74°, frana rovinosamente, l’anno successivo, al 77° posto ed entra nel gruppo
dei Paesi “parzialmente liberi”, unica
anomalia dell’Europa Occidentale [https://freedomhouse.org/country/italy].
All’origine del declassamento, l’indiscutibile conflitto di interessi e
l’altrettanto indiscutibile concentrazione di proprietà dei media, che gravano
sulla Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, il quale, attraverso
proprietà familiari e potere politico sui networks
televisivi di Stato, controlla il 90% della informazione. Ad aggravare la
situazione anche la Legge 3 maggio 2004, n.112,
meglio nota come Legge Gasparri [http://www.rai.it/dl/docs/[1232099039939]LeggeGasparri.pdf],
pesantemente criticata a livello internazionale come “un
pericolo per l’indipendenza della televisione pubblica e una minaccia al
pluralismo della informazione”, a dispetto di ogni regola antitrust.
Lo scorso 20
aprile, è apparsa la classifica di Reporters sans Frontières sulla libertà di
stampa su un totale di 180 Paesi.
In questa classifica,
l’Italia è crollata di quattro posizioni, scendendo dal 73° posto del 2015 al
77°, tra i Paesi della terza fascia [le fasce, in totale, sono 5], al cui
interno la condizione della informazione è giudicata “problematica”, preceduta
dal Lesotho, l’Armenia, il Nicaragua e la Moldova e seguita dal Benin e la
Guinea Bissau [http://rsf.org/ranking].
Daniela Zini
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