“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In
politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was
planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
para mis Cuatro Amigos Invisibles
“Dicen que soy héroe, yo débil, tímido,
casi insignificante, si siendo como soy hice lo que hice, imagínense lo que
pueden hacer todos ustedes juntos.”
Gandhi
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che,
quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela Zini
Le Temps et le Compte
Daniela Zini
De moi-même le temps me demande compte;
Si je vais le rendre, le compte veut du
temps :
Car qui a dépensé sans compter un tel
temps,
Comment sans prendre temps rendrait-il
un tel compte ?
Le temps, du temps ne veut pas tenir
compte,
Parce que le compte ne se fit pas à
temps ;
Car le temps recevrait en compte le
temps
Si au compte du temps il y avait le
compte.
Quel compte pourrait suffire à un tel
temps ?
Quel temps pourrait suffire à tant de
comptes ?
Qui vit sans compte est dépourvu de
temps.
Je suis privée de temps et ne rends pas
de compte,
Sachant que de mon temps il me faut
rendre compte
Et que viendra pour moi le temps des
comptes.
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante
incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
II. LA MAFIA
di
Daniela
Zini
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
Nuovi attori assurgono
sulla scena internazionale: gli Stati mafiosi, che controllano e utilizzano
gruppi criminali, per servire i loro interessi nazionali e gli interessi dell’élite governante.
“La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come
tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna
rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può
vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa
battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.”
Giovanni Falcone
In ogni tempo, vi sono stati Paesi
governati da uomini dai comportamenti criminali. Nella maggioranza delle 196
Nazioni del mondo, l’utilizzo disonesto di danari pubblici e la “vendita” di
decisioni governative al migliore offerente sono moneta corrente.
La corruzione è divenuta la norma e noi ci
siamo assuefatti. Posto che questo fenomeno è, sempre, esistito e, sempre,
esisterà, è difficile accertare l’ascesa di questi nuovi attori sulla scena
internazionale: gli Stati mafiosi. Non sono solo Paesi, in cui regna la
corruzione o, in seno ai quali, importanti attività economiche e regioni intere
sono nelle mani del crimine organizzato. Si tratta di Stati che controllano e
utilizzano gruppi criminali per servire i loro interessi nazionali e gli
interessi dell’élite governante.
Questa pratica non ha, evidentemente,
niente di nuovo!
Quanti pirati e mercenari sono stati al
soldo di Monarchie e anche di Democrazie, a immagine degli Stati Uniti, che
sono ricorsi alla mafia per raggiungere i loro obiettivi?
Ma, in questi ultimi decenni, una serie di
mutazioni politiche ed economiche profonde, a livello internazionale, ha dato
vita a ciò che io chiamo gli Stati mafiosi. Paesi, nei quali le nozioni
tradizionali di corruzione, di crimine organizzato o di entità pubbliche,
infiltrate da gruppi criminali, non abbracciano il fenomeno in tutta la sua
ampiezza e complessità.
Là non è lo Stato che è vittima delle reti
criminali; è lo Stato che ha preso il controllo delle reti criminali. Non per
eradicarle, ma per metterle al servizio degli interessi economici dei
governanti, dei loro amici e dei loro partners.
In Paesi, quali la Bulgaria, la
Guinea-Bissau, il Montenegro, la Birmania, l’Ucraina, la Corea del Sud, l’Afghanistan
o il Venezuela, gli interessi nazionali e quelli del crimine organizzato sono,
inestricabilmente, collegati.
Sette anni dopo il suo ingresso nella
Unione Europea, la Bulgaria, il Paese più inquinato d’Europa, è anche il più
povero: i salari medi si aggirano intorno agli 800 lev [circa 400 euro]. Nel 2013, il tasso di disoccupazione era al
12,9% [http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/04226.asp],
0,6 punti in più rispetto al 2012, quando i tagli alla spesa avevano,
soprattutto, penalizzato l’istruzione e la sanità e la crescita era allo 0,8%
su una popolazione di 7,6 milioni, di cui il 22% viveva sotto la soglia della
povertà.
Uno dei primi effetti di questa adesione è
stata l’esplosione del traffico di esseri umani dall’Est nei nostri Paesi. Grazie
ai loro contatti diplomatici, i trafficanti circolano liberamente nello spazio
Schengen, per le loro attività di import-export.
Si trovano tra le 18mila e le 21mila prostitute dette “bulgare” sui marciapiedi
europei. Ma, se l’adesione all’Unione Europea ha facilitato il traffico di
esseri umani, i capi delle reti non sono più al riparo dietro le loro
frontiere. Il nuovo mandato di arresto europeo, che sostituisce i trattati di
estradizione per gli Stati Membri, rafforza la cooperazione dei servizi di
polizia e di giustizia.
Secondo il Servizio
Nazionale Investigativo bulgaro, l’entrata del Paese nell’Unione Europea, il
primo gennaio del 2007, ha
avuto effetti secondari stupefacenti sul crimine organizzato. E, i poliziotti esitano a parlare, temono per la
loro vita, da quando, l’ex-ministro dell’interno, il socialista Rumen Petkov è stato
costretto, il 13 aprile 2008,
a dimettersi per corruzione e collusione con la
criminalità organizzata e per violazione del segreto di Stato,
sotto pressione della stessa Commissione
Europea.
Nel 2006, 2mila bulgari erano stati
arrestati, in Europa.
Nel 2009, erano, praticamente, il 50% in
più.
La Commissione Europea, che ha, sempre,
nutrito forti sospetti circa i legami potenti esistenti tra criminalità e politica,
nel 2008, aveva consegnato un rapporto molto critico sulla corruzione
generalizzata a Sofia [http://www.parlamento.it/web/docuorc2004.nsf/00672360b4d2dc27c12576900058cad9/598897ae7a74932dc125749e004af4bc/$FILE/COM2008_0495_IT.pdf]
e, fatto rarissimo, aveva, anche, congelato, nell’attesa di una
migliore gestione, 500 milioni di euro di fondi comunitari, destinati al Paese,
a causa della dilagante corruzione nella gestione delle risorse, messe a
disposizione da Bruxelles.
Edward
Lucas, nel suo articolo pubblicato, il 24 luglio 2008, sul settimanale inglese,
The Economist, forniva
un contesto più ampio della situazione:
“Rispetto
allo stile impiegato abitualmente da Bruxelles, i toni sono stati piuttosto
aspri. Nelle relazioni pubblicate il 23 luglio dalla Commissione Europea, si
esprimevano critiche sui progressi [o mancati progressi] registrati da Bulgaria
e Romania nella lotta alla corruzione e nella gestione dei finanziamenti
erogati dall’Unione Europea, a dispetto di un grande lavoro di persuasione [da
parte dei rappresentanti dei due Paesi], che ha prodotto un sostanziale
smorzamento dei toni, in netto contrasto con la perentorietà delle
comunicazioni emesse in precedenza. E la Commissione ha rinunciato a notificare
alla Bulgaria una ammonizione per non compromettere la sua ammissione all’Euro
e al trattato di Schengen [che permette la libera circolazione alle frontiere].
Le
relazioni hanno, tuttavia, colpito nel segno, rilevando la “lampante” mancanza
di risultati convincenti nella lotta alla corruzione in Bulgaria, e il “serio
problema” della “mancanza di responsabilità e trasparenza negli appalti
pubblici” nell’utilizzo dei fondi della UE. La Commissione ha annunciato gravi
sanzioni, tra cui la sospensione delle sovvenzioni per un importo pari a 486
milioni euro [770 milioni USD]. In caso di mancata attuazione delle riforme, l’importo
della somma trattenuta aumenterà sensibilmente entro novembre.”
Distorsioni di una democrazia instabile,
che dopo la caduta del comunismo, nel 1989, si è lanciata in una transizione
basata sul modello russo dell’intreccio tra privatizzazioni selvagge e traffici
illeciti?
Secondo il generale Atanas Atanasov,
deputato del DSP, Democratici per una
Forte Bulgaria, ed ex-direttore dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, un
dipartimento del Ministero dell’Interno, che si occupa di intelligence, “altri
Paesi hanno una mafia; in Bulgaria, è la mafia che ha il Paese”.
Lo scorso dicembre,
il leader del partito di centro
bulgaro RZS, Yane Yanev, aveva proposto Silvio Berlusconi capolista
alle Elezioni Europee.
“Da
queste parti è molto popolare, vincerebbe di sicuro.”,
aveva spiegato
Yanev, aggiungendo che Berlusconi,
“Sarebbe
un eccellente paladino degli interessi bulgari a Bruxelles.”
In Venezuela, l’ex-presidente della Corte
Suprema, Eladio Aponte, aveva fornito molte prove che confermavano che alti
funzionari dello Stato erano a capo di importanti gruppi criminali
internazionali. Nel 2008, già, gli Stati Uniti avevano accusato il generale
Henry Rangek Silva di “sostenere
materialmente il traffico di droga”. All’inizio del 2012, l’ex-presidente Hugo Rafael Chávez Frías lo aveva nominato
ministro della difesa. Nel 2010, un altro venezuelano, Walid Makled García, alias El Turco o El Árabe, accusato da diversi governi di dirigere uno dei più importanti cartelli
del Paese, aveva sostenuto, al momento dell’arresto, di essere in possesso di
documenti, video e registrazioni che implicavano non meno di quindici generali
venezuelani, tra i quali il capo dell’informazione militare e il direttore dell’ufficio
di lotta contro gli stupefacenti, nonché il fratello del ministro dell’interno
e cinque deputati.
In Afghanistan,
Ahmed Wali Karzai – fratellastro del presidente Hamid Karzai e figlio di Abdul
Ahad Karzai –, assassinato, il 12 luglio 2011 [http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-14118884],
era stato accusato di avere il controllo sul traffico dell’oppio,
la principale attività economica di questo Paese: secondo il Financial Times, la fuga di capitali,
sotto forma di biglietti di banca, trasportati nelle valigette dai trafficanti
e dagli alti funzionari, equivale più o meno al budget dello Stato.
Questa confusione
tra governi e criminali non concerne, esclusivamente, Paesi nella bufera, come
l’Afghanistan, Stati in scacco, quali la Guinea-Bissau, o Nazioni che sono
ostaggi del narco-traffico.
Per prendere un
altro esempio, è impossibile comprendere ciascuno degli ingranaggi che reggono
i prezzi, gli intermediari o la struttura delle reti di approvvigionamento del
gas russo che arriva in Europa – transitando, tra gli altri, per l’Ucraina –
senza tenere conto del ruolo del crimine organizzato in questo business molto lucrativo.
Non sarebbe
ingenuo credere che le élites al
potere, in questi Paesi, non siano che vittime o spettatori impotenti?
Si constata
questo genere di “manovre” ovunque, in Africa, in Asia, nei Balcani e in
Europa.
Gli Stati mafiosi
contemporanei hanno preso una tale ampiezza che diviene necessario rivedere le
concezioni tradizionali, secondo cui l’ordine mondiale è composto da due
elementi fondamentali: da una parte, gli Stati-Nazioni e dall’altra, le
organizzazioni che intervengono in tutto il mondo – imprese, gruppi religiosi,
associazioni filantropiche, organizzazioni terroriste, criminali, educative,
ecc. –.
Lo Stato mafioso
moderno è una entità eteroclita di cui non comprendiamo, ancora, molto bene il
funzionamento e la portata. Ed è essenziale, perché non abbiamo,
sufficientemente, preso coscienza della sua esistenza.
Nell’introduzione al World Drug
Report 2000 dell’Office for Drug
Control and Crime Prevention [ODCCP, 2001], pubblicato all’inizio del 2001,
l’allora suo direttore, Pino Arlacchi, scriveva che “the psychology of despair has gripped the
minds of a generation”.
E, ancora:
È, esattamente,
il contrario.
La fine della
Guerra Fredda ha favorito, da una parte, la comparsa di pseudo-Stati, in seno
ai quali si è istituzionalizzata la corruzione della politica, dall’altra, ha
permesso lo scoppio di nuovi conflitti locali. I loro protagonisti, non ricevendo
più sussidi da uno dei due grandi blocchi, hanno dovuto cercare fonti di
finanziamento nelle attività illegali, al primo posto delle quali, il traffico
di droghe. Dalla Colombia all’Afghanistan, passando per l’Angola o il Kosovo,
la droga è uno degli elementi del prolungamento di questi conflitti. Infine, la
lotta contro il commercio di droghe è “inquinata” dagli interessi economici e
geopolitici degli Stati, particolarmente dei Paesi ricchi, che si pongono come leaders della guerra alle droghe, inclini
a dare prova di indulgenza nei confronti dei loro alleati o clienti.
Non essendo
nessun altra attività illecita così lucrativa, il traffico di droghe ha
accresciuto la capacità di nocività delle
organizzazioni criminali che vi si dedicano, in particolare il loro potere di
penetrare le strutture economiche e politiche di alcuni Stati. Sul piano
economico, hanno seguito il movimento della mondializzazione, quando non lo
hanno anticipato. Tuttavia, confrontate a una offensiva degli Stati le grandi
organizzazioni – cartelli colombiani, mafie italiane e cinesi, padrini
pakistani e turchi, ecc. – hanno, nella seconda metà degli anni 1990,
innanzitutto, decentralizzato le loro strutture, per essere meno vulnerabili
alla repressione. Simultaneamente, hanno diversificato le loro attività –
traffico di esseri umani, di diamanti, di specie protette, ecc. – e le hanno
delocalizzate stringendo legami di affari con i loro omologhi, che intervengono
su altri continenti.
Cosa Nostra, che aveva subito colpi
durissimi da parte delle forze di repressione, nel corso degli anni 1990,
rafforza il suo insediamento internazionale, in particolare in Brasile, in
Canada, nell’Europa dell’Est e nell’Africa del Sud. Le sue attività vanno dal
riciclaggio – società “schermo”, acquisto di beni immobiliari – al traffico di
cocaina, in collaborazione con i gruppi colombiani, passando per il
favoreggiamento dell’immigrazione di criminali. Queste attività sono favorite
da legami consolidati tra organizzazioni criminali e poteri politici. Ciò è
vero non solo nelle “dittature delle banane”, – Birmania, Guinea-Bissau – o nei
non-Stati – Afghanistan, Paraguay, Liberia –, ma anche nei grandi Paesi, che
svolgono un ruolo geopolitico chiave nella loro regione come, a esempio, la
Turchia, in Europa, e il Messico, nell’America del Nord.
Jean-François Boyer che ha interrogato alti
funzionari di polizia e accademici messicani, quali il politologo Jorge Germán Castañeda Gutman,
divenuto ministro degli affari esteri del presidente messicano Vicente Fox Quesada,
eletto nell’estate del 2000, scrive:
“En ce qui concerne Miguel de la Madrid, on
doit relever que la grave mise en cause dont il est l’objet dans le document du
CIAN n’a jamais été étayée publiquement, e elle doit donc être considérée avec une très grande prudence. Notons par ailleurs
que l’ancien président a toujours refusé de commenter les accusations portées
contre son fils à l’occasion d’affaires de blanchiment.
Que prévoyait le pacte entre les Narcos et
l’Etat? Pour le spécialistes, il s’agirait d’un “deal” assez simple: les
autorités financières du Pays auraient invité les narcotrafiquants à investir
leurs revenus dans une économie décapitalisée, en pleine restructuration; en
contrepartie, la police et l’armée mexicaine fermeraient les yeux sur le
narcotrafic; et les deux parties s’engageraient à ne pas recourir à la violence
et à négocier d’éventuelles arrestations au cas où il serait nécessaire de
lâcher du lest vis-à-vis des autorités antidrogues américaines. L’Etat mexicain
s’engagerait enfin à ne pas autoriser la DEA et les agences antidrogues
américaines à participer à la répression sur son territoire.
Qui l’a négocié? Les artisans de l’accord
furent vraisemblablement Raúl Salinas
Lozano, frère du president, Raúl
Salinas de Gortari, son frère, et José María Córdoba Montoya, l’éminence grise de Carlos Salinas de Gortari.
Bien sûr, le pacte ne s’est
pas négocié autour d’une table, réunissant les principaux représentants des
deux camps. Sa concretization s’est étalée sur plusieurs années au terme de
longs et laborieux contacts.
Jorge
Germán Castañeda Gutman,
brilliant politologue devenu conseiller du president élu Vicente Fox à l’été de
2000, est convaincu qu’il y a bien eu un pacte. Il m’a confié qu’un ministre de
Carlos Salinas de Gortari, de ses amis, partageait cette conviction – tout en
me demandant de protéger son anonymat.”
In compenso, le organizzazioni criminali
avrebbero investito nel Paese i loro profitti – dai 5 ai 10 miliardi di
dollari, ogni anno –, ciò che avrebbe contribuito a permettere al Messico di
mantenere le condizioni economiche, fissate dagli Stati Uniti, per la
creazione, nel 1994, di ALENA, l’accordo di libero scambio
nord-americano, siglato, nell’estate
del 1992, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994, che coinvolge gli Stati
Uniti, il Canada e il Messico. Va aggiunto, che ogni presidente, nuovamente
eletto, ha, soprattutto, represso il cartello, cui era più vicino il suo
predecessore e si è avvicinato a uno dei suoi rivali. Gli Stati Uniti hanno
chiuso gli occhi su questi “accordi”. Negli anni 1980, i loro servizi segreti
hanno, loro stessi, utilizzato i cartelli messicani per appoggiare i Contras, milizie che lottavano contro il regime marxista del Nicaragua, a
partire dai Paesi vicini.
Con l’esplosione e la diversificazione
delle produzioni di droghe e la trasformazione delle narco-organizzazioni, il
terzo elemento costitutivo della situazione attuale sono gli effetti sulla
criminalità e il traffico di droghe con la moltiplicazione dei conflitti
locali, effetto perverso della fine dell’antagonismo dei blocchi e degli
scossoni provocati dal crollo dell’Unione Europea. Durante la Guerra Fredda, le
grandi potenze, che la dissuasione nucleare impediva di affrontarsi
direttamente, lo facevano attraverso i loro alleati nel Terzo Mondo. Il danaro
della droga utilizzato dai belligeranti evitava, così, ad alcuni Paesi di dovere
attingere a fondi segreti per finanziare i loro alleati. Ciò è stato, in
particolare, il caso per tutte le grandi potenze – Stati Uniti, Francia – e le
potenze regionali – Israele, Siria –, toccate dalla guerra civile libanese, e
per gli Stati Uniti in America Centrale. La fine della guerra fredda, lontano
dal mettere fine a quei conflitti locali, non ha fatto che rivelare la loro
assenza di motivi ideologici, sollevando scontri etnici, nazionali, religiosi,
ecc. I belligeranti, non potendo, ormai, contare sul finanziamento dei loro
potenti protettori, hanno dovuto trovare nei traffici, quali quello di droghe,
risorse alternative. In una trentina di conflitti, aperti, latenti o in via di
risoluzione, la presenza della droga, a titoli e a livelli diversi è accertata:
in America Latina [Colombia, Perù, Messico]; in Asia [Afghanistan, Tajikistan,
India, Azerbaijan, Armenia, Cecenia, Georgia, Birmania, Filippine]; in Europa
[Jugoslavia, Turchia, Irlanda, Spagna] e in Africa [Algeria, Sudan, Egitto,
Senegal, Guinea-Bissau, Liberia, Sierra-Leone, RDC, Congo, Ciad, Uganda,
Angola, Somalia, Comore].
Alcuni di questi conflitti – in Colombia,
in Afghanistan o in Angola – esistevano prima della fine della guerra fredda.
Ma il ritiro di partiti fratelli o di potenti protettori ha fatto in modo che
prendessero un carattere nuovo: scivolamento progressivo verso attività di
predazione nel caso delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia [FARC];
antagonismi etnico-religiosi, manipolati dalle potenze regionali, in quello
delle guerre civili afghane e angolane. Altrove, è la caduta dei regimi
comunisti, che è all’origine dei conflitti jugoslavi, ceceni, azero-armeni e
delle guerre civili georgiane. I protagonisti di questi scontri, nella loro
ricerca di finanziamenti, utilizzano ogni mezzo: traffico di petroli, di
droghe, di metalli strategici. Uno degli esempi più significativi dell’utilizzo
della droga nello scoppio del conflitto, poi, negli ostacoli messi alla sua
risoluzione, è quello del Kosovo.
Dal 1991, l’Office
of Generic Drugs [OGD] segnalava
che i profitti della vendita di eroina, in tutta l’Europa, in particolare in
Svizzera, da residenti albanesi di questa provincia serba, erano utilizzati per
acquistare armi nella prospettiva di un sollevamento contro l’oppressione
serba. L’UCK, dopo aver fatto scattare operazioni militari, alla fine del 1997,
è stato cacciato, progressivamente, dai suoi bastioni dall’esercito e dalla
polizia jugoslava e non ha più operato che in sacche lungo la frontiera
albanese. Dopo la campagna di bombardamento della NATO in Serbia e in Kosovo –
dal 24 marzo al 10 giugno 1999 – non restava al gruppo nazionalista che
prepararsi a un ritorno in forza nella reinstallazione dei rifugiati. È la
ragione per cui aveva cercato di acquistare il vero potenziale militare, che
gli rifiutavano i Paesi occidentali. Per ciò, aveva avuto, innanzitutto, come
fonte di finanziamento l’imposta pagata dai 700mila albanesi della diaspora in
Europa [3% dei salari e sovente di più]. Ma questo finanziamento legale si è
rivelato vulnerabile, in particolare, quando il governo svizzero decise di
gestire il fondo dell’UCK, “La Patria
chiama”. È allora che questa organizzazione, sembra, abbia deciso di
privilegiare una ricerca di finanziamento nel traffico delle droghe, anche se
ciò implicava legami con le mafie italiane, che gli fornivano armi contro
eroina, cocaina o derivati della cannabis.
In certi affari, la presenza dell’UCK, in quanto tale, è stata chiaramente
stabilita, in particolare, dalla giustizia italiana; in altri l’identità dei
finanziatori di traffici albanesi è stata occultata, ma non lascia dubbi.
Infatti, quando la polizia e la giustizia di Paesi europei avevano prove dell’implicazione
dell’UCK, era per loro difficile, a causa del ruolo della NATO nel Kosovo,
renderle ufficialmente note. È la stampa che doveva trarre le conclusioni dalle
informazioni di cui disponeva o dalle fughe di cui beneficiava da parte di
certi magistrati.
Nel giugno del 1998, a esempio, un
centinaio di persone, di cui numerose kosovare, furono arrestate attraverso l’Italia
e altri Paesi europei per traffico di droghe e di armi. Secondo la Procura di
Milano, appartenevano a otto reti incaricate di introdurre armi nel Kosovo. 100 chilogrammi di
eroina e di cocaina, che sarebbero servite a pagare le armi, furono sequestrati.
Il 12 marzo 1999, la polizia ceca
annunciava l’arresto, a Praga, del kosovaro Princ Dobroshi [https://www.youtube.com/watch?v=QWk2LbtYqKE],
evaso da una prigione norvegese e considerato uno dei più importanti
trafficanti di droga, in Europa. Documenti attestavano, senza ambiguità, che l’uomo
di 35 anni, utilizzava il prodotto del suo traffico per l’acquisto di armi.
Citando un membro dei servizi segreti cechi [BIS], il giornale Lidove Noviny indicava che queste armi
erano state consegnate all’Esercito di Liberazione del Kosovo [UCK].
Nell’aprile del 1999, il giornale londinese
The Times, indicava che Europol
preparava un rapporto per i ministri europei dell’interno e della giustizia, sottolineando
le connessioni tra l’UCK e i narco-trafficanti. Secondo il quotidiano, le
polizie tedesca, svizzera e svedese, avrebbero avuto le prove del finanziamento
parziale dell’UCK dalla vendita di droghe.
I diversi tipi di compromissioni dei Paesi
ricchi con gli Stati trafficanti sono così diffusi, che le loro caratteristiche
possono essere modellizzate.
Il più diffuso ha per origine gli interessi
economici. Durante gli anni 1990, la Cina e la Polonia hanno accettato, senza
recalcitrare, che le armi, che vendevano alla Birmania, fossero pagate con il
danaro dell’eroina. Dal loro canto, la Banca
Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale non si sono, mai, posti tante domande sull’origine dei fondi
che permettono a certi Paesi – in particolare alla Colombia, durante tutti gli
anni 1980 – di pagare il loro debito estero. Se certi Paesi europei e l’Unione
Europea stessa chiudono gli occhi sulle protezioni ufficiali, di cui beneficia
la cultura di cannabis in Marocco, è
perché contribuisce, largamente, all’equilibrio economico del Paese e la loro
sostituzione costerebbe estremamente cara.
Ma la droga può essere, così, utilizzata
come arma diplomatica per destabilizzare o discreditare un avversario politico.
Un esempio di questo atteggiamento è la politica degli Stati Uniti nei
confronti dell’Iran nel campo dele droghe. Durante tutti gli anni 1990, a dispetto dei suoi
sforzi nel campo della lotta contro il transito dell’eroina afghana [l’Iran ha
perso circa 3mila uomini, in venti anni, in questa lotta], questo Paese è stato
decertificato da Washington, vale a dire posto sulla lista dei Paesi che sono
considerati Stati trafficanti. Questa misura produce la sospensione di ogni
aiuto economico da parte degli Stati Uniti e, soprattutto, il loro voto
negativo in tutte le istanze internazionali, incaricate di promuovere la
coooperazione internazionale. Interrogato dall’OGD, un rappresentante del
Dipartimento di Stato aveva risposto a tale riguardo che l’Iran era stato posto
sulla lista dei Paesi “decertificati” in quanto Stato terrorista e non a causa
della sua partecipazione al traffico internazionale delle droghe. Nel dicembre
del 1998, il presidente Bill Clinton annunciò che avrebbe ritirato l’Iran dalla
lista dei Paesi “decertificati”.
La ragione?
“L’Iran non è più un produttore
significativo di oppio e di eroina e ha cessato di essere un Paese di transito
della droga destinata agli Stati Uniti.”
Tutti avevano compreso che si trattava di
un gesto di buona volontà che rispondeva alla politica di apertura manifestata
dal presidente Mohammad Khatami, con il suo insediamento, nel 1997.
L’ultimo elemento, che concerne le
manipolazioni di cui la droga è l’obiettivo, è di carattere diplomatico. Si
tratta questa volta per un Paese di tacere le implicazioni di un altro Stato
nel traffico di droghe, al fine di esercitare un ricatto, perché vi metta fine
o faccia una politica voluta dal primo in un altro campo. Gli Stati Uniti
hanno, simultaneamente, mirato a questi due obiettivi nel caso della Siria,
Paese le cui truppe erano, profondamente, implicate nel traffico di hashish e di eroina nel Libano: hanno,
così, ottenuto delle campagne di eradicazione delle culture illecite nella
piana della Bekaa e la partecipazione della Siria ai negoziati di pace nel
Medio Oriente. La stessa strategia è stata utilizzata da Washington nei
confronti del generale Hugo Banzer, presidente della Bolivia. La dittatura
militare di quest’ultimo [1971-1978] si è non solo consegnata a gravi
violazioni dei diritti umani e all’assassinio di oppositori all’estero, nel
quadro del Piano Condor,
ma ha, anche, contribuito alla specializzazione della Bolivia nella produzione
di cocaina.
Strutturata in modo piramidale, la mafia
funziona grazie alle “famiglie”, che controllano, ciascuna, un territorio e si
rimettono a istanze più elevate, fino ai capi supremi dell’organizzazione.
Realizza i suoi grassi utili con il traffico della droga, il racket delle imprese e il controllo dei
mercati pubblici, ma si rifiuta, per una “questione di onore”, di “sporcarsi le
mani” con la prostituzione.
Le prime tracce della organizzazione
risalgono al XIX secolo e la sua creazione sarebbe legata, secondo alcuni
storici, al proposito di ricchi proprietari terrieri di proteggersi da rivolte
contadine, facendo appello a gruppi di vigilanti, che avrebbero, poi,
costituito Cosa Nostra.
A lungo trascurata dalle istituzioni
italiane, la mafia si è, veramente, fatta conoscere, dopo la Seconda Guerra
Mondiale, con una serie di assassinii eccellenti e, negli anni 1969, prendendo
il controllo del settore edilizio, a Palermo, grazie all’appoggio di uomini
politici locali.
Tra la fine degli anni 1970 e l’inizio
degli anni 1980, la storia di Cosa Nostra è insanguinata da una “guerra”
interna, quando i corleonesi e i loro alleati prendono il controllo dell’organizzazione.
Anche uomini delle istituzioni cadono sotto i colpi dei killers mafiosi:
-
Giorgio Boris Giuliano
[21
luglio 1979], capo
della Squadra Mobile di Palermo ;
- Cesare Terranova [25 settembre 1979], capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale
di Palermo;
- Piersanti Mattarella [6 gennaio 1980], presidente della Regione Sicilia e uomo
politico della Democrazia Cristiana;
-
Emanuele Basile [4 maggio 1980], capitano
dell’Arma dei Carabinieri;
-
Gaetano Costa [6 agosto 1980], procuratore capo di
Palermo;
- Pio La Torre [30 aprile 1982], segretario regionale del Partito Comunista
Italiano;
-
Carlo Alberto Dalla Chiesa [3 settembre 1982], prefetto di
Palermo;
-
Calogero Zucchetto [14 novembre 1982],
agente della Squadra Mobile di Palermo;
- Giangiacomo Ciaccio Montalto
[26 gennaio 1983], sostituto procuratore del Tribunale di Trapani;
- Rocco Chinnici
[29
luglio 1983], capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Tra il 1981 e il 1983, vengono commessi
circa 600 omicidi.
Ma questa guerra provoca, anche, numerose
defezioni, rompe l’omertà, la legge del silenzio e la invincibilità della
mafia. Lo Stato conclude, allora, con i pentiti un accordo, dando loro una
nuova identità e un lavoro in un luogo protetto.
È il giudice Giovanni Falcone a far nascere
la figura del collaboratore di giustizia. In una intervista del 1986,
Giovanni Falcone afferma:
“Le
confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante
riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno
mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso
dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato.”
“Io ho conosciuto tanti giudici in vita
mia. Ne ho conosciuti di tutti i tipi. Però di Falcone io vedevo la dinamicità
del pensiero, l’evoluzione dell’indagine. Con la sua mente da elefante, subito
percepiva il valore di quello che io intendevo dire. E difatti era l’unico che
aveva perfettamente capito quanto intendevo dire sul significato della parola
cupola.”
L’irrompere di Tommaso Buscetta sulla
scena, nel 1984, è una svolta fondamentale.
“Io mi definisco un uomo deluso dalla
mafia, un uomo che ha tanto contributo alla mafia e che vede ammazzare i propri
figli per nulla, svanire nel nulla. Io non credo che ci sia un padre che può
continuare a vivere in un ambiente come questo.”
È Tommaso Buscetta, infatti, il primo “uomo
d’onore” a svelare le regole e la burocrazia di Cosa Nostra: come è fatta, chi
comanda… e a infliggerle il primo duro colpo.
“Giovanni Falcone, poverino, che in pace
riposi, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica. Se già è un
problema parlare di Cosa Nostra perché non ci sono prove, perché non esistono
tessere, non esistono atti di notaio, se già è una difficoltà parlare di mafia,
immagini un po’ parlare di politica. Dove sono le prove? Sarebbe stato come
avere inventato io, lui, delle cose. È per questo che non ho mai parlato. Io
non ho remore, non avrei avuto remore a parlare di politica, se le cose che so
fossero suffragate da prove, ma io non ho prove. Io posso dire… quel giorno si
parlò, ma poi non si parlò, quindi sono delle cose astratte. Io non credo che
una persona come me debba affidarsi alle cose astratte, deve parlare quando ha
cognizione di causa.”
Il 29 settembre 1984, grazie alle
dichiarazioni di Buscetta, scatta la più importante operazione antimafia del XX
secolo, il blitz di San Michele,
durante il quale vengono emessi 366 mandati di cattura nei confronti di
presunti mafiosi. Al termine degli
arresti, i latitanti risultano solo una piccola percentuale. L’operazione fa
scalpore, in Italia e all’estero. Negli Stati Uniti, i commenti sono
entusiastici; in Italia, invece, ai complimenti di una parte del mondo politico
e giornalistico si oppongono i silenzi o le critiche di un’altra parte. Non
manca neppure una marcata ostilità di alcuni esponenti della magistratura
palermitana, che manifestano dubbi e critiche sul maxiprocesso in preparazione
e sui suoi promotori.
Sono,
in particolare, due i quotidiani che si fanno portavoce di coloro che
osteggiano la inchiesta e i giudici che la conducono, pubblicando articoli
fortemente critici o irridenti: Il
Giornale di Indro
Montalelli, che lo chiamava “quello scontro annunciato che è il
processone alle cosche” e Il
Giornale di Sicilia di Antonio Ardizzone, che, per giustificare il proprio
silenzio sul processo, titolava “Non facciamo del processo uno spettacolo
da baraccone”.
Leoluca
Orlando, in una puntata di Samarcanda
del 1990, accusò Giovanni Falcone di tenere chiusi nei cassetti una serie di
documenti su delitti eccellenti:
“Io
sono convinto e me ne assumo tutta la responsabilità che dentro i cassetti del
Palazzo di Giutizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza sui delitti Mattarella,
La Torre, Insalaco e Bonsignore.”
Nella
sua biografia di Falcone, il giornalista Francesco La Licata riporta il
commento fatto allora dal magistrato:
“Orlando
ormai ha bisogno della “temperatura” sempre più alta. Sarà costretto a spararla
ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato, lui e i suoi amici, sono
pronti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori.”
Tra il
1984 e il 1985, iniziano i primi arresti per il “terzo livello mafioso”, quello
politico.
Il 3
novembre 1984, viene arrestato, a Palermo, l’ex-sindaco democristiano Vito
Ciancimino, amico dei corleonesi.
“Ciancimino
è, relativamente, un pesce piccolo; ma è il primo leader politico ufficialmente
incriminato come mafioso. Questo fornisce un precedente, e una pista da
seguire. Un precedente, perché adesso nessuno può più negare che il rapporto
fra mafia e politica - il “terzo livello” di cui parlava Chinnici - esista
veramente e vada dunque risolutamente individuato e colpito.”
Il 18
aprile 1985, l’inchiesta del sostituto procuratore Carlo Palermo
sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti,
che i successivi eventi e attentati metteranno in evidenza essere di
decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Palermo definì il “quarto
livello”, vale a dire il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi
segreti, [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/10/18/il-giudice-palermo-trasferito-roma.html,
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/07/25/il-csm-critica-carlo-palermo-ma-non.html],
culmina con l’arresto dei “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, con l’accusa
di truffa, falsa fatturazione finalizzata a frode fiscale, falso in bilancio,
associazione a delinquere [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/04/20/retata-eccellente-la-sicilia-trema.html,
“Negli
ordini di cattura, firmati il pomeriggio del 18 aprile, ci sono ventisette
nomi: i cavalieri, i loro colletti bianchi, mezza dozzina di faccendieri
trapanesi ed un noto mafioso. L’accusa è contenuta in poche battute, “associazione
per delinquere finalizzata alla formazione ed utilizzazione di fatture per
operazioni inesistenti”.”
L’appellativo
viene attribuito da Giuseppe Fava, in un articolo della rivista I Siciliani, nel gennaio del 1983, al gruppo di
imprenditori edili catanesi che, dagli 1970 e 1980, aveva dominato la quasi
totalità degli aspetti economici della città di Catania.
“Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa
essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e
spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare
la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia
negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i
politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le
prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai
annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un’immensa
ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso [Pirandello è qui di
casa] nel gioco delle parti.” [http://www.girodivite.it/I-quattro-cavalieri-dell.html]
Il 5
gennaio 1984, un anno dopo la pubblicazione dell’articolo, e dopo vari
tentativi dei cavalieri di acquistare la rivista,
Giuseppe Fava venne ucciso da membri del clan mafioso dei Santapaola. Nell’ambito
del processo all’onorevole Antonino Drago, Giuseppe Fava sosteneva che fosse controproducente
attaccare i quattro cavalieri, i quali, anziché indebolirsi, sarebbero andati a
investire il proprio danaro in Liguria o in Piemonte.
Nell’estate
del 1982, durante i suoi cento giorni siciliani, prima di cadere nell’agguato
di Cosa Nostra, anche il prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa si era incuriosito ai cavalieri. Aveva, infatti, richiesto, il 2 giugno, un mese dopo il suo
insediamento, “al prefetto di Catania una scheda completa
riguardante i nuclei familiari, gli interessi, le società ed i possedimenti
degli imprenditori Graci e Costanzo. Ne avrebbe ottenuto in risposta, qualche
tempo dopo, una nota redatta con stile compilativo nella quale si teneva a
precisare la rilevanza degli interessi economico-finanziari gestiti dagli
stessi, e la natura del tutto necessitata di alcuni rapporti mantenuti con
esponenti della criminalità catanese, giustificati, a dire del massimo
esponente istituzionale della provincia di Catania, dalla necessità di “non
compromettere» il buon andamento di tali interessi; veniva specificato anzi che
l’impresa Costanzo era oggetto di “mire aggressive da parte della criminalità a
causa del suo ingente patrimonio”.” [http://legislature.camera.it/_dati/leg13/lavori/doc/xxiii/048/d030.htm]
Per
queste ragioni, il generale Dalla Chiesa, nella intervista concessa a Giorgio
Bocca, il 10 agosto 1982, dichiarò:
“È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia
occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla
conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro
maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che
potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”
Le
successive rivelazioni del pentito Antonino Calderone, secondo il quale “I cavalieri del lavoro di Catania non sono
mai stati vittime della mafia, [...], perché la mafia l’avevano già dentro”
risultarono, tuttavia, vane e insufficienti ai fini di una condanna. Nel 1991,
il giudice istruttore Luigi Russo assolse i cavalieri, con la motivazione che erano
stati costretti a subire la “protezione” del clan Santapaola per necessità.
Nel 1994, in seguito a una
inchiesta della DIA, da cui emersero ulteriori interazioni e intensi rapporti
tra i cavalieri e Cosa Nostra, il giudice Giuseppe Gennaro impugnò la sentenza,
ma gli imputati furono prosciolti, ancora una volta, in via definitiva.
L’azione di Carlo Palermo fu
bloccata da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie,
durante il governo Craxi, fino all’attentato stragista di Pizzolungo.
Si
scoprì, così, che, negli anni 1980, vi erano più sportelli bancari a Trapani
che a Bologna o a Genova e che la Sicilia era la regione d’Italia, in cui si
cambiavano più lire in dollari.
Negli ultimi venti anni gli sportelli delle
banche locali erano aumentati del 586% contro una media italiana dell’83%.
Un moltiplicarsi di nuove piccole banche, facilmente controllabili dai gruppi
di potere mafiosi. Insomma la mafia si comportava da “mafia
imprenditrice – sosteneva Pino Arlacchi - facendo
sue tecniche e comportamenti propri della società industriale”.
Il
Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi si era rivolto all’antimafia:
“Ci
sono troppi sportelli bancari in Sicilia.”
A 29
anni da quell’attentato destinato a Carlo Palermo, che costò la vita a Barbara
Rizzo e ai suoi due gemelli, Salvatore e Giuseppe Asta, la strage mafiosa di
Pizzolungo del 2 aprile 1985 è, ancora, un capitolo giudiziario aperto. Le
sentenze, che hanno condannato, quali mandanti, Totò Riina e Vincenzo Virga,
rispettivamente, capo della cupola siciliana e capo del mandamento di Trapani,
e quali esecutori, Nino Madonia e Balduccio Di Maggio, non hanno fatto luce sul
movente. Come in altre vicende chiuse, apparentemente risolte, ma che risolte
non sono, dall’assassinio del pubblico ministero trapanese Giangiacomo Ciaccio
Montalto,
il 25 gennaio 1983, agli attentati di Roma, Milano e Firenze del 1993. Venne
individuato un filo diretto tra la strage di Natale o del rapido 904,
proveniente da Napoli e diretto a Milano, all’interno del tunnel della Grande
Galleria dell’Appennino, e l’attentato di Pizzolungo, preparato per il giudice
Carlo Palermo. Quel tritolo, usato a Pizzolungo e uscito da polveriere
militari, fa parte di una lunga lista di sangue. Era stato, infatti, impiegato
nell’attentato del 23 dicembre 1984 al treno rapido 904; per far saltare in
aria, diciotto giorni dopo Pizzolungo, il 20 aprile, alla vigilia delle
elezioni per il rinnovo di numerosi consigli comunali, in Sicilia, il 12 e il
13 maggio 1985, la villa di Piana degli Albanesi dell’allora sindaco
democristiano di Palermo, Elda Pucci, e nel fallito attentato all’Addaura
a Giovanni Falcone, il 21 giugno 1989.
Un
connubio, quello tra mafia e destra, seguito anche dal vice-questore di
Trapani, Giuseppe Peri.
Carlo
Palermo restava vivo, ma come morto per lo Stato. Gli fu chiesto, dapprima, di
cambiare generalità e di riparare in Canada, poi, di fatto, fu abbandonato e
costretto a dismettere la toga di pubblico ministero e a vestire quella di
avvocato. In una intervista, pubblicata su Antimafia
2000, Carlo Palermo, dichiarò:
“Nell’85,
scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a
Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo.”
All’indomani della strage di Pizzolungo, Cosa Nostra sembra
aver imposto ai suoi attacchi verso lo Stato una sorta di tregua. Si tratta di
una finestra destinata a infrangersi, dopo breve tempo, nell’estate del 1985.
Alcuni la definiscono un rabbioso ed estremo tentativo di influenzare l’istruzione
del maxiprocesso.
La sera del 28 luglio, il giorno prima di andare in ferie, il commissario Giuseppe Montana [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/07/31/dopo-minacce-avvertimenti-temeva-ogni-giorno.html], 34 anni, che gli agenti della Squadra Mobile chiamano “Serpico”,
viene ucciso dai colpi di una
pistola 357 Magnum e di una calibro 38 con proiettili ad espansione, mentre passeggia sul molo di un piccolo centro marittimo
vicino a Palermo, Porticello, una frazione del
comune di Santa Flavia, dove è ormeggiato il suo motoscafo. Montana era responsabile della Sezione Catturandi.
Spesso, utilizzava il motoscafo per sorvegliare le residenze marittime estive
dei mafiosi, anche fuori servizio. Lui stesso aveva dichiarato:
“Bisogna cercare in quel tratto
di costa compreso tra Bagheria, Porticello, Casteldaccia, Termini Imerese. È là
che si nascondono decine di pericolosissimi latitanti. State pur certi che alla
fine salteranno fuori grossi nomi.”
Solo quattro giorni prima, il 24 luglio, sulle
tracce di un pericoloso latitante, legato ai corleonesi, Tommaso Cannella –
capomafia di Prizzi e uomo di fiducia di Totò Riina, nel comprensorio termitano
–, aveva interrotto una riunione al vertice di Cosa
Nostra, in una villa a Bonfornello. Ed è, forse, il blitz, conclusosi con la cattura dello stesso Cannella e di
altri sette mafiosi, tra i quali Antonio D’Amico e Biagio Picciurro, a spingere
Riina a rompere l’armistizio e a firmare la
condanna di Montana.
Viene fermato il venticinquenne Salvatore Marino, un
giocatore di calcio dilettante, figlio di una povera famiglia di pescatori. Il
clima di tensione e di paura, che serpeggia tra gli agenti, dopo anni segnati
da tanti morti tra le loro fila, degenera in “isteria collettiva” [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/05/03/processo-per-la-morte-in-questura.html].
Convinti di trovarsi di fronte l’ennesimo omertoso fiancheggiatore, agli uomini
addetti all’interrogatorio sfugge di mano la situazione. Il giovane muore in
questura verso le 5.00 del mattino: sul cadavere vi sono segni di violenza. La
questura finisce nel centro del mirino mediatico. Gli animi di molti
palermitani si incendiano, quando, al grido di “poliziotti assassini”, familiari
e amici del defunto portano la bara per i diversi quartieri della città.
Il 5
agosto, verso sera, viene diffusa la notizia che l’allora ministro dell’interno
Oscar Luigi Scalfaro ha rimosso il capo della squadra mobile, Francesco
Pellegrino, il capitano dei carabinieri, Gennaro Scala, e il dirigente della
sezione anti-rapine, Giuseppe Russo.
La
reazione mafiosa non si fa attendere.
Il
giorno dopo, il 6 agosto, alle ore
15.56, rientrando dalla questura nella sua abitazione di via Croce Rossa, nel
pieno di un caldo pomeriggio estivo, il commissario Antonino Cassarà[24],
diretto superiore di Montana, viene ucciso, mentre percorre a piedi il
breve tragitto dalla propria auto all’androne di casa da un commando di uomini armati di fucile
AK-47, appostati sulle finestre e sui piani dell’edificio in costruzione di
fronte alla sua palazzina [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/30/ecco-chi-uccise-cassara.html].
Spira sulle scale di casa tra le braccia della moglie Laura, che è accorsa,
dopo aver assistito, incredula, alla scena, insieme alla figlia di due anni,
Elvira, dal balcone dell’appartamento, all’ottavo piano. Degli agenti della
scorta, Roberto Antiochia,
uscito dall’auto per aprire lo sportello a Cassarà, viene colpito a morte,
Giovanni Salvatore Lercara viene, gravemente, ferito e Natale Mondo
resta illeso.
Dopo la morte di Giuseppe Montana, Antonino Cassarà
era rimasto solo. Aveva talento ed era incorruttibile: per la mafia, due buone
ragioni per eliminarlo. Viveva l’inferno, sapeva di avere la vita legata a un
filo. L’ultima confidenza che regalò a un collega non siciliano, il giorno
prima di essere ucciso, fu proprio la sua sensazione di pericolo:
“C’è un funzionario che mi ha fatto molte
domande in questi giorni: troppe offerte di collaborazione, di disinteressata
amicizia. Non mi fido: ho paura che mi vogliano fare la pelle.”
Non
tornava più a casa nell’intervallo, non seguiva mai lo stesso percorso,
cambiava orari e abitudini. Quel martedì, alle ore 14.55, il vice-questore
aveva telefonato alla moglie per avvertirla che sarebbe tornato a casa. Una “talpa”,
presumibilmente posta all’interno della questura, aveva intercettato la
telefonata e aveva fatto arrivare l’informazione a Cosa Nostra.
In soli
dieci giorni, Cosa Nostra aveva decapitato la
Squadra Mobile di Palermo dei suoi uomini più esperti ed efficienti. Due punti di riferimento affidabili a disposizione dell’intero
pool antimafia, protagonisti di quasi
tutte le operazioni sul campo di quella trionfante stagione di successi sulla
mafia. Obiettivi simbolici e strategici inequivocabili. Ai funerali di Cassarà
molti agenti in preda a una rabbiosa frustrazione, lanciarono insulti e sputi ai
politici presenti [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/08/gli-agenti-contro-il-loro-ministro.html].
L’accusa mossa verso il potere era chiara: lo Stato
era al fianco degli uomini che, in prima linea, combattevano da soli la mafia,
solo in occasione dei loro funerali.
Un senso di isolamento si diffuse contagioso.
“Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni
Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il
dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci
che siamo dei cadaveri che camminano.”.”
La tensione era destinata a salire quando, alcuni giorni più
tardi, confidenti attendibili informarono Antonino Caponnetto che, dal carcere,
era partito l’ordine di eliminare Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Immediatamente, si dispose il trasferimento dei due magistrati con le
rispettive famiglie all’Asinara per preparare il maxiprocesso in un luogo
protetto.
Il maxiprocesso si apre, il 10 febbraio
1986, nell’aula
bunker del Carcere Ucciardone di
Palermo, e si conclude, il 16 dicembre 1987, con 346 condanne e 114 assoluzioni, 19 ergastoli e pene detentive
per un totale di 2665 anni di reclusione. Il processo coinvolge 475
imputati, ritenuti essere affiliati di Cosa Nostra, poi scesi a 460, nel corso
del processo.
Il 10
gennaio 1987, quando il maxiprocesso di primo grado è in pieno svolgimento, Il Corriere della Sera pubblica un
articolo, a firma di Leonardo Sciascia, dal titolo: I professionisti dell’antimafia
[http://old.radicali.it/search_view.php?id=49224], dedicato al rapporto tra politica,
popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto è il libro di Christopher Duggan,
La mafia durante il fascismo. Lo scrittore siciliano, prendendo a
esempio la designazione di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala, a
discapito di colleghi con maggiore anzianità di servizio, seppure meno esperti
di mafia, deplorava come le inchieste contro Cosa Nostra fossero divenute una
scorciatoia per fare carriera, piuttosto che un servizio da rendere allo Stato.
Il pool
antimafia, organizzato da Antonino Caponnetto, non ha vita lunga.
Alla
fine del 1987, una volta concluso il primo grado del maxiprocesso, Caponnetto,
ritenendo, sostanzialmente, concluso il suo compito, decide di tornare a
Firenze, lasciando, quindi, il posto di consigliere istruttore presso il
Tribunale di Palermo.
Falcone
avanzò la propria candidatura a sostituirlo, e molti ritennero che tale
successione fosse nell’ordine delle cose. Tuttavia, un anziano magistrato,
Antonino Meli, che, inizialmente, intendeva candidarsi come presidente del
Tribunale di Palermo, venne convinto da alcuni colleghi a ritirare tale candidatura
e a correre per la carica meno prestigiosa di consigliere istruttore. Meli era
un magistrato di lunga esperienza, che, tuttavia, non si era, mai, occupato di
mafia, se non in una sola occasione.
Il 20
luglio 1988, Paolo Borsellino, in una intervista, denunciò lo smantellamento
del pool antimafia, riconducendone l’inizio
alla nomina a consigliere istruttore di Antonino Meli, preferito dal Consiglio
Superiore della Magistratura, per motivi di anzianità, a Falcone.
“Non so
se - come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha
votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e
so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio
senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi
ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli
occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto
il pool antimafia, Meli o Giammanco?”
Il 26
luglio, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, lanciò un forte
allarme antimafia, sollecitando i ministri dell’interno e della Giustizia e il
CSM a fare fino in fondo la propria parte. Il 30 luglio, iniziarono le
audizioni al CSM dei giudici del pool.
Giovanni Falcone denunciò la “normalizzazione” e annunciò le proprie
dimissioni. 7 consiglieri del Comitato antimafia del CSM contro 4, tuttavia,
votarono un documento che difendeva le posizioni di Meli e respingeva,
criticandole, le accuse mosse dal giudice Paolo Borsellino.
Il 26
settembre, veniva assassinato l’ex-leader di Lotta Continua Mauro Rostagno, che
dirigeva una comunità per il recupero di tossicodipendenti e, ogni sera, da una
emittente televisiva di Trapani, denunciava i crimini di Cosa Nostra e dei suoi
fiancheggiatori.
IL 28
giugno 1989, Giovanni Falcone venne nominato, all’unanimità, dal Consiglio
Superiore della Magistratura procuratore aggiunto di Palermo.
Il 29
ottobre 1991, con il decreto n. 345, poi convertito in legge, il 30 dicembre, veniva
istituita la Direzione Investigativa Antimafia [DIA]: il cosiddetto Federal Bureau Investigation [FBI]
italiano costituiva il primo tentativo di superare le rivalità tra forze di
polizia e di unificare le indagini in tema di criminalità organizzata.
Neppure
un mese dopo, il 20 novembre 1991, tra accese polemiche, veniva istituita, con
decreto n. 367, convertito in legge, il 20 gennaio 1992, la Direzione Nazionale
Antimafia. La cosiddetta Superprocura è una struttura di coordinamento, a
livello nazionale, delle indagini sulla criminalità organizzata, guidata da un
procuratore nazionale che, coadiuvato da 20 sostituti, coordina l’attività di
26 procure distrettuali.
Il 17
gennaio 1992, la quinta sezione del Tribunale di Palermo, condannava a 10 anni
di carcere Vito Ciancimino, primo politico palermitano a essere riconosciuto
colpevole di associazione mafiosa. E,
poco più di un mese dopo, il 22 febbraio 1992, il Tribunale di Caltanissetta
condannava a un anno e mezzo di reclusione, per calunnia, il giudice Alberto Di
Pisa, quale autore delle lettere anonime del “corvo” che, nell’estate del 1989,
avevano gettato ulteriore discredito su Giovanni Falcone e sugli altri giudici
del pool antimafia.
Quattro
giorni più tardi, il 26 febbraio 1992, venivano sequestrati, a Genova, 300 chilogrammi di
cocaina: era il più ingente sequestro di cocaina mai compiuto, in Italia.
Venivano arrestati, anche, grandi trafficanti internazionali, quali il
colombiano Cardona Vargas, leader del cartello di Calì.
Intanto,
il 30 gennaio 1992, la Corte di Cassazione aveva confermato gli ergastoli del
maxiprocesso.
E, per
Cosa Nostra era stato un colpo mortale.
Questo
è un passaggio chiave di lettura della condanna a morte, poi, inflitta a
entrambi i magistrati.
Dietro
le bombe che hanno insanguinato l’Italia, negli anni 1992-1993, che hanno fatto
saltare i due pionieri della lotta contro la mafia, Giovanni Falcone e il suo
amico Paolo Borsellino, si nascondeva un mandante di Stato?
Giovanni
Falcone era il più coriaceo avversario di Cosa Nostra. Abbandonato da una parte
della classe politica, moriva, il 23 maggio 1992, nell’esplosione di 500 chili
di dinamite, sull’autostrada di Palermo, e, meno di due mesi più tardi, il suo
amico, Paolo Borsellino era ucciso in via D’Amelio, a Palermo, con i cinque
agenti della sua scorta.
Una regia
occulta ha guidato la mano assassina di Cosa Nostra?
Su
questi attentati restano, sempre, ampie zone d’ombra, l’ipotesi è avanzata,
agghiacciante, dalle dichiarazioni dei pentiti e dello stesso ex-procuratore
nazionale antimafia, Piero Grasso:
“L’attentato al patrimonio artistico e
culturale dello Stato assumeva una duplice finalità: orientare la situazione in
atto in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, sempre balzata fuori nei
momenti critici della storia siciliana, e organizzare azioni criminose
eclatanti che, sconvolgendo, avrebbero dato la possibilità ad un’entità esterna
di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione
economica, politica, sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli.”
[Grasso: “Le stragi mafiose del ‘93
volevano favorire un’entità politica” http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/27/news/stragi_93-4363758/].
Attilio
Bolzoni, nel suo libro, FAQ Mafia,
illumina di una luce diversa il primo attentato contro Falcone, nel 1989.
Avanza, in effetti, una ipotesi non del tutto inedita, ma fornisce qualche
elemento in più, quando afferma che tra i mandanti del fallito attentato
dell’Addaura non vi sarebbero stati solo mafiosi – Totò Riina, Salvatore
Biondino e Antonino Madonna sono stati condannati per l’accaduto – ma anche “un
pezzo di Stato”, interessato a eliminare Giovanni Falcone.
“Ci sono testimonianze che rivelano un’altra
verità e che irrobustiscono sempre di più l’ipotesi di un “mandante di Stato”.
La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i
candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989
ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle
investigazioni, sembra che fossero due i “gruppi” presenti quel giorno davanti
alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta
e da uomini dei servizi segreti. E l’altro era in mare, su un canotto giallo o
color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di “appoggio”
al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c’è
certezza sull’identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno
sarebbe stato Antonino Agostino, l’altro Emanuele Piazza.”
Chi ha
ucciso Falcone e Borsellino?
Dopo 22
anni dalla loro morte, il dibattito è rilanciato.
Totò
Riina, il capo di Cosa Nostra, è stato condannato, nel 2002, in quanto mandante,
tuttavia…
Se
Riina è il mandante siciliano di questi omicidi, non si è, mai, trovato il
mandante italiano, politico, “CHI”,
con Cosa Nostra, ha pianificato gli attentati di Palermo, nel 1992, e, poi,
quelli sul continente, nel 1993.
Si è,
sempre, detto che gli autori fossero i mafiosi corleonesi e solo loro.
Sono
stati catturati e condannati.
Ma,
sempre più elementi, fanno pensare a un complotto di Stato. In particolare la
costante presenza sui luoghi delle stragi di “figure estranee” a Cosa Nostra,
agenti dei servizi segreti italiani.
Affiora
una nuova verità: la Mafia siciliana di Riina sarebbe stata il braccio armato
di un altro potere, strumentalizzato per fare il lavoro sporco.
“Non ha
mai vissuto attraverso la politica, la mafia. La mafia si è servita della
politica. Se lei prende un mafioso, dice: “Questo qua è un ignorantone, una
cosa ridicola.” Ma questi ignorantoni messi assieme sono un grandissimo
esercito, perché fra di loro esistono paratie stagne dove non filtra niente. I
mafiosi non sono terroristi. Non ho niente contro i terroristi, non voglio
offenderli. Avevano un ideale, per loro è finita, la guerra… Il mafioso no, il
mafioso tramanda ai figli.”
La
politica ha, dunque, bisogno della mafia!
Si
pensi alla frase lanciata da Totò Riina, nel luglio del 2009, parlando per la
prima volta dalla prigione, dopo diciassette anni di silenzio…
Sulla
morte di Borsellino, ha detto:
“L’ammazzarono
loro.”,
aggiungendo:
“Non
guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi.”
Un anno
fa, Riina faceva rivelazioni clamorose a due agenti del Gruppo Operativo
Mobile, confermando quanto, da anni, sostiene il figlio di Vito Ciancimino,
Massimo, che, per primo, ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di
Corleone nella cattura di Riina.
“Io non
ho cercato nessuno, sono loro che hanno cercato me.”
“A me
mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i
carabinieri.”
Il
prossimo 16 novembre, Totò Riina compirà 84 anni.
È
malato.
Sì,
anche lui ha realizzato che è stato utilizzato.
Si
spera che parli prima di morire...
Nell’attesa,
un pentito, interrogato dalla giustizia, ha parlato, lui.
Il
pentito Gaspare Spatuzza ha, infatti, rivelato che non sarebbe stato Vincenzo
Scarantino a rubare la Fiat 126, che ha fatto saltare Borsellino, ma lui. Ha,
soprattutto, detto che, nel garage di Palermo, dove si imbottiva di esplosivo l’auto,
non vi erano solo mafiosi, ma vi era, anche, un agente segreto di una
cinquantina di anni. Spatuzza lo ha identificato, per due volte: prima in foto,
poi, il 27 ottobre 2010, in
un confronto all’americana presso la DIA di Caltanissetta [http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/27/news/spatuzza_borsellino-8496629/,
http://palermo.repubblica.it/dettaglio-news/18:44/3861869].
E questo agente – che, nel 1992, aveva appunto una missione in Sicilia – è
stato anche riconosciuto da Massimo Ciancimino, che lo indica come l’accompagnatore
del “signor Franco”, l’uomo che, per trenta anni, avrebbe avuto contatti
stretti con suo padre, Vito. Avrebbe rimesso falsi passaporti e il papello, la
lista delle richieste di Totò Riina allo Stato per fermare le stragi.
Ciò che
emerge da tutto ciò, è che una parte dello Stato trattava con Cosa Nostra,
mentre un’altra parte partecipava alle stragi.
Ma chi,
in seno allo Stato?
La
Democrazia Cristiana era allora al potere...
La
Democrazia Cristiana aveva rapporti con la Mafia, ma quelli che hanno
destabilizzato l’Italia con le bombe sono da ricercare non nei partiti, ma in
seno all’apparato dello Stato. Infatti, queste bombe esplodono in un momento di
vuoto e di ricomposizione politica: la Democrazia Cristiana è crollata,
spazzata via dall’operazione anticorruzione Mani Pulite e un nuovo partito vede
la luce, quello di Silvio Berlusconi, Forza Italia.
Luogo e data reali dell’assassinio di Paolo
Borsellino, luogo e data simbolici del passaggio della Prima Repubblica Italiana
– nata formalmente con il referendum
costituzionale del 2 giugno 1946 e la
Costituzione del 1946 – alla Seconda Repubblica italiana, che è quella che noi
abbiamo sotto gli occhi oggi.
Ma perché dire che la strage di via D’Amelio,
avvenuta in pieno periodo di Mani Pulite, segni la nascita della Seconda Repubblica
Italiana?
Perché io sono di quelli che credono che questa Seconda
Repubblica sia nata dal sangue di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il 20 luglio 1992, nasceva la Seconda Repubblica
Italiana, basata sulla corruzione, la prevaricazione, la ricchezza illegale.
All’uscita
della camera ardente, Antonino Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall’emozione:
“Non c’è
più speranza…”
Il 23
maggio 1996, in
un intervista, rilasciata a Gianni Minà, per un servizio televisivo, Antonino Caponnetto
ricordava:
“Non fu
il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero
appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte
annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di
cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di
raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di
infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la
loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel
pronunciare quelle parole di sconforto e quanto mi dovevo impegnare per
continuare l’opera di Giovanni e Paolo.”
Le
testimonianze di Antonino Caponnetto e di Salvatore Borsellino riassumono i
dubbi, le perplessità, i tanti lati oscuri, i depistaggi su quanto accaduto in
via D’Amelio, alle 16,58 del 19 luglio 1992, con l’esplosione dell’autobomba, una
Fiat 126 con 100 chilogrammi
di esplosivo a bordo, che denotò, al passaggio dell’auto di Paolo Borsellino,
uccidendolo insieme ai cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, prima donna
della Polizia di Stato caduta in servizio, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muti,
Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
“Paolo
aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato – di
disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della
madre.
Ma la
domanda era rimasta inevasa.
Ancora
oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di
Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali
conseguenze.”
Il 22
luglio 1992, tre giorni dopo la strage di via D’Amelio, veniva protocollata,
anche, l’archiviazione dell’inchiesta “mafia e appalti” condotta da Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino. Borsellino, in particolare, si batteva per ottenere
una serie di arresti che avrebbero, sicuramente, originato una versione
siciliana di Mani Pulite. L’archiviazione, predisposta il 13 luglio, era
favorita da quegli stessi colleghi, che Borsellino accusava, in quei giorni, di
averlo lasciato solo.
Dopo i due attentati e l’arresto del capo
supremo Totò Riina, sostituito da Bernardo Provenzano, la mafia sceglie la
strategia del silenzio, senza clamore, con il fine di infiltrare ancora più la
società siciliana.
L’influenza del crimine organizzato sulle
istituzioni e la classe politica è, inversamente, proporzionale al potere della
polizia di condurre le indagini, in modo rapido ed efficace. In altre parole,
la mafia e gli altri gruppi criminali prosperano, mentre la polizia è
imbavagliata e con le mani legate.
Chi e cosa si deve biasimare?
La Costituzione, la moralità pubblica o il
governo?
O nessuna di queste risposte?
Cosa Nostra non è, mai, stata oggetto di
una effettiva visione di insieme, “bisogna arrivare a pensare, a sentire come
Paolo e Giovanni, considerare inevitabile la propria fine. Questa è la loro
storia: la storia di due che sapevano che sarebbero stati presi di mira, che
sarebbero rimasti progressivamente isolati e che avrebbero fatto quella fine.”
Daniela
Zini
Copyright
© 19 luglio 2014 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman,
ladies and gentlemen:
I appreciate very
much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy
responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of
how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your
profession.
You may remember
that in 1851 the New York Herald Tribune under
the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an
obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that
foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his
financial appeals were refused, Marx looked around for other means of
livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune
and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world
the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this
capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have selected as
the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest
that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But
those are not my sentiments tonight.
It is true, however,
that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our
State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was
unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for
the press, for the press had already made it clear that it was not responsible
for this Administration.
Nevertheless, my
purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one
party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints
about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my
purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press
conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans
regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the
incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are
these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press
should allow to any President and his family.
If in the last few
months your White House reporters and photographers have been attending church
services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand,
I realize that your staff and wire service photographers may be complaining
that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that
they once did.
It is true that my
predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in
action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is
a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk
about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of
recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the
dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years.
Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living
with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly
challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to
the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy”
is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and
historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret
proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted
concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to
justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a
closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is
little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not
survive with it. And there is very grave danger that an announced need for
increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I do ask every
publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own
standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war,
the government and the press have customarily joined in an effort based largely
on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time
of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged
rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national
security.
Today no war has
been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be
declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who
make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our
friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is
awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat
conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our
security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I
can only say that the danger has never been more clear and its presence has
never been more imminent.
It requires a
change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the
government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every
newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless
conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of
influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of
elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night
instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and
material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its preparations
are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its
dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is
printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a
war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every
democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the
question remains whether those restraints need to be more strictly observed if
we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of
the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through
our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft,
bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to
counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper
reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the
nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use,
have all been pinpointed in the press and other news media to a degree
sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the
publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were
followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers
which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for
you alone to answer. No public official should answer it for you. No
governmental plan should impose its restraints against your will. But I would
be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities
that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities,
if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful
consideration.
On many earlier
occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these
are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have no intention
of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I
am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security
classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and
would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the
newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own
responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger,
and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now
asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that
you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I
hope that every group in America
- unions and businessmen and public officials at every level - will ask the
same question of their endeavors, and subject their actions to the same
exacting tests.
And should the
press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps there will
be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a
free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any
discussion of this subject, and any action that results, are both painful and
without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is the unprecedented
nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an
obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the
American people - to make certain that they possess all the facts that they
need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of
our program and the choices that we face.
No President should
fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes
understanding; and from that understanding comes support or opposition. And
both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could
not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration
intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error
does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept
full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we
miss them.
Without debate,
without criticism, no Administration and no country can succeed - and no
republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This means greater
coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and
foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved
understanding of the news as well as improved transmission. And it means,
finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you
with the fullest possible information outside the narrowest limits of national
security - and we intend to do it.
III
It was early in the
Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions
already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press.
Now the links between the nations first forged by the compass have made us all
citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and
threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution
of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible
consequences of failure.
And so it is to the
printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience,
the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident
that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
L’Iran-Contras affair [noto
anche col nome di Irangate] è lo scandalo politico che nel 1985-1986 coinvolse
vari alti funzionari e militari dell’amministrazione del presidente degli Stati
Uniti, Ronald Reagan, accusati dell’organizzazione di un traffico illegale di
armi con l’Iran [su cui vigeva l’embargo],
con lo scopo di ottenere la liberazione degli ostaggi americani nell’ambasciata
americana di Tehran.
I proventi di questa operazione erano
serviti a finanziare l’opposizione violenta dei Contras al governo sandinista. Lo scandalo minò duramente la
credibilità di Reagan [recuperata poi con la sottoscrizione dell’accordo INF
con Gorbaciov], non impedendogli di ottenere la rielezione.
L’Iran, all’epoca impegnato nella guerra
contri l’Iraq di Saddam Hussein, pur violentemente antiamericano, era molto
sensibile alle offerte di materiale americano, visto che la maggior parte delle
sue forze armate erano equipaggiate proprio con veicoli e armi fabbricate negli
Stati Uniti, acquistate dallo shah Mohammad Reza Pahlavi prima della sua
cacciata.
L’Iran aveva cercato di diversificare le
proprie fonti di approvvigionamento, rivolgendosi alla Siria [nemica dell’Iraq
per la forte rivalità fra Assad e Hussein], la Libia di Gheddafi e la Cina, ma
ciononostante i missili anticarro TOW ed i pezzi di ricambio per le batterie
antiaeree HAWK erano assolutamente necessari allo sforzo bellico.
In un primo momento, gli Stati Uniti non
trasferirono, direttamente, materiale, ma si limitarono a rivelare al governo
di Tehran la localizzazione di magazzini segreti di pezzi di ricambio e
munizioni che lo shah ha fatto installare in sperdute località iraniane,
curando che solo alcuni fedelissimi ufficiali [tutti fuggiti durante la
rivoluzione] ne conoscessero l’ubicazione.
In seguito, esauriti i “depositi segreti”,
gli Stati Uniti si dimostrarono disposti a fornire armi e munizioni ex novo,
ma decisero di farlo in maniera segreta e al di fuori del controllo del
Congresso [che secondo le leggi deve approvare ogni aiuto militare a potenze
estere], in modo da destinare i proventi di tale traffico a sostegno delle
operazioni di guerriglia e terrorismo in America Centrale, in particolare ai Contras del Nicaragua. Regista dell’operazione
fu Oliver P. North, con l’approvazione del vice-ammiraglio John M. Poindexter,
consigliere nazionale della sicurezza, poi condannato a sei mesi di reclusione.
Nel novembre del 1986, un giornale libanese
rivelò l’esistenza del traffico clandestino. Le indagini effettuate fecero
collegare la situazione con la parallela operazione segreta in Nicaragua. Nel
novembre del 1987 una commissione di inchiesta con a capo l’ex-senatore John Tower
emise una dura condanna all’operato del presidente Reagan, non provando con
certezza la conoscenza da parte sua dei finanziamenti illegali ai Contras, ma
dichiarando che aveva tollerato una situazione di aperta illegalità. Nel 1992,
il presidente George Bush sr., vicepresidente nel momento dello scandalo e
sospettato di essere coinvolto nello stesso, concesse un’amnistia a tutti gli
alti ufficiali indiziati o condannati per la questione Iran-Contras.
Operazione
Condor fu il nome dato dai servizi segreti degli Stati Uniti a una
massiccia operazione di politica estera statunitense, avviata, negli anni 1970,
e volta a tutelare l’establishment in
tutti quegli Stati Centro e Sudamericani, nei quali l’influenza socialista e
comunista era ritenuta troppo potente, nonché a reprimere le varie opposizioni
ai governi partecipi dell’iniziativa.
Le procedure per mettere in atto questi
piani furono, di volta in volta, tutte diverse, tuttavia, ebbero in comune il
ricorso sistematico alla tortura e all’omicidio degli oppositori politici.
Spesso ambasciatori, politici o dissidenti rifugiati all’estero furono
assassinati anche oltre i confini dell’America Latina. Alcune tra le Nazioni
coinvolte furono il Cile, l’Argentina, la Bolivia, il Brasile, il Perù, il
Paraguay e l’Uruguay.
Nel gennaio del 1978, Gaetano Costa venne nominato procuratore capo di Palermo,
ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da ritardare
la sua presa di possesso fino al luglio di quell’anno. Insediandosi,
consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, fece la seguente
dichiarazione:
“Vengo, disse, in un ambiente dove non
conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che
provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio
inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si
sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non
ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da
rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà
fatalmente alla lite.”
Il
2 agosto, il procuratore Gaetano Costa firmò, personalmente, 55 ordini di
cattura contro il clan
Spatola-Inzerillo-Gambino, che i suoi sostituti non avevano voluto avallare.
Quattro giorni dopo, Costa venne ucciso.
Era mio padre, intervista a Marene
Ciaccio Montalto
[http://www.narcomafie.it/2013/04/16/era-mio-padre-intervista-a-marene-ciaccio-montalto/].
Il 29 luglio 1983, Rocco Chinnici venne ucciso da una autobomba davanti alla
propria abitazione. Nell’esplosione persero
la vita il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato
Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Il
magistrato, che aveva unificato le inchieste sui delitti politici e aveva
costituito un pool con i migliori
giudici del suo ufficio, fu eliminato per aver individuato il ruolo dei cugini
Ignazio e Antonino Salvo, in seno a Cosa Nostra.
In
una delle sue ultime interviste disse:
“La cosa peggiore che possa accadere è
essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta,
so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse
accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato
come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce
né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.”
Il
21 novembre, Antonino Caponnetto assunse l’incarico di consigliere istruttore.
Intervista di Enzo Biagi
a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.
Intervista di Enzo Biagi
a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.
A proposito di terzo livello, I Siciliani, Ottobre 1984.
Claudio Fava, Michele Gambino, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Fatture false
perché i cavalieri, I Siciliani, Maggio 1985
Erano accusati di false fatturazioni, finalizzate all’evasione fiscale;
successivamente, fu formulata l’accusa di associazione a delinquere, “ma la prima sezione penale della Corte di
Cassazione [presidente Corrado Carnevale] annullerà i mandati di cattura.
Quattro anni dopo, al processo, saranno tutti assolti dall’accusa di
associazione a delinquere; dalla condanna per la colossale evasione fiscale li
salverà, invece, un provvidenziale “condono” del ministro delle finanze Rino
Formica [PSI]” Dalla cronologia a
cura di Sebastiano Gulisano su www.claudiofava.it/memoria.
“Ma i fenomeni più patologici - spiega in
un documento la segreteria della CGIL-bancari - sono quelli delle
industrie-banche: istituti di credito che prosperano con incredibile rapidità,
pochi anni dopo essere stati creati, in una regione apparentemente povera.” Ne
costituisce un esempio la Banca Popolare S. Angelo di Licata, una cooperativa a
r.l. che in poco tempo ha saputo moltiplicare sportelli [oggi è presente con
venti agenzie in quattro province siciliane e ha uno sportello perfino a
Lampedusa] e depositi: 260 miliardi di mezzi amministrati nel 1982 con un
incremento del 31,36% rispetto all’anno precedente, 47 miliardi di depositi in
c/c, 250 dipendenti. L’esempio più calzante di quest’industria-banca siciliana
resta comunque la Banca Agricola Etnea, l’istituto di credito catanese che
appartiene al cavaliere del lavoro Gaetano Graci, uno dei quattro cavalieri -
gli altri sono Mario Rendo, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro - imputati
di associazione a delinquere nell’inchiesta sulle fatture false. “La crescita
della Banca Agricola Etnea - e ancora la CGIL-bancari - ha veramente
caratteristiche eccezionali. Da un unico sportello aperto nel 1970 a Raddusa, un paesino
in provincia di Catania, la banca è arrivata oggi a raccogliere più di duecento
miliardi l’anno di depositi.” 218 miliardi e 770 milioni, per l’esattezza, nel
1982 con un incremento, rispetto al 1978, del 291%. Oggi la BAE dispone di 18
sportelli sparsi fra le province di Catania, Messina ed Enna, ha quattro
agenzie stagionali a Panarea, Stromboli, Vulcano e Salina ed è al terzo posto
nella graduatoria degli istituti di credito siciliani alle spalle della Banca
Sicula di Trapani [che appartiene alla famiglia D’Alì] ed alla Banca del Sud di
Messina. Nel dossier “mafia-banche” cui da diversi anni sta lavorando Giovanni
Falcone, un ampio capitolo è dedicato proprio alla BAE”.
Giuseppe Montana li aveva messi, lucidamente, in conto i cinque proiettili, che
lo avevano ucciso sul molo di Porticello. Proprio dopo l’uccisione di Chinnici,
il giovane investigatore aveva dichiarato ai cronisti:
Natale Mondo aveva fatto parte della Squadra Mobile di Palermo, diretta dal
vice-questore Antonino Cassarà, con il quale aveva partecipato a molte
operazioni infiltrandosi anche all’interno delle cosche mafiose. Sfuggito all’attentato
del 6 Agosto 1985, costato la vita a Cassarà e all’agente Roberto Antiochia,
era stato accusato da un “pentito” di essere corrotto e al soldo della mafia.
Per questo l’assistente capo era stato arrestato e incarcerato. Fu salvato
dalla vedova del vice-questore Cassarà e da altri colleghi, che testimoniarono
che Mondo si era infiltrato nelle cosche mafiose del quartiere Arenella, ove
era nato e risiedeva, dietro ordine dello stesso Cassarà. Ciò, di fatto, lo
espose alla vendetta della mafia, che lo uccise, il 14 gennaio 1988, proprio
davanti al negozio di giocattoli della moglie, “Il Mondo dei Balocchi”.
Intervista di Gianni Minà ad Antonino Caponnetto, maggio 1996
Intervista di Gianni Minà ad Antonino Caponnetto
Intervista di Gianni Minà ad Antonino Caponnetto
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