“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

sabato 19 luglio 2014

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE



“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt

para mis Cuatro Amigos Invisibles
“Dicen que soy héroe, yo débil, tímido, casi insignificante, si siendo como soy hice lo que hice, imagínense lo que pueden hacer todos ustedes juntos.”
Gandhi




“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini


Le Temps et le Compte
Daniela Zini

De moi-même le temps me demande compte;
Si je vais le rendre, le compte veut du temps :
Car qui a dépensé sans compter un tel temps,
Comment sans prendre temps rendrait-il un tel compte ?

Le temps, du temps ne veut pas tenir compte,
Parce que le compte ne se fit pas à temps ;
Car le temps recevrait en compte le temps
Si au compte du temps il y avait le compte.

Quel compte pourrait suffire à un tel temps ?
Quel temps pourrait suffire à tant de comptes ?
Qui vit sans compte est dépourvu de temps.

Je suis privée de temps et ne rends pas de compte,
Sachant que de mon temps il me faut rendre compte
Et que viendra pour moi le temps des comptes.

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!


II. LA MAFIA
di
Daniela Zini

1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
Nuovi attori assurgono sulla scena internazionale: gli Stati mafiosi, che controllano e utilizzano gruppi criminali, per servire i loro interessi nazionali e gli interessi dell’élite governante.


La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.”
Giovanni Falcone

In ogni tempo, vi sono stati Paesi governati da uomini dai comportamenti criminali. Nella maggioranza delle 196 Nazioni del mondo, l’utilizzo disonesto di danari pubblici e la “vendita” di decisioni governative al migliore offerente sono moneta corrente.
La corruzione è divenuta la norma e noi ci siamo assuefatti. Posto che questo fenomeno è, sempre, esistito e, sempre, esisterà, è difficile accertare l’ascesa di questi nuovi attori sulla scena internazionale: gli Stati mafiosi. Non sono solo Paesi, in cui regna la corruzione o, in seno ai quali, importanti attività economiche e regioni intere sono nelle mani del crimine organizzato. Si tratta di Stati che controllano e utilizzano gruppi criminali per servire i loro interessi nazionali e gli interessi dell’élite governante.
Questa pratica non ha, evidentemente, niente di nuovo!
Quanti pirati e mercenari sono stati al soldo di Monarchie e anche di Democrazie, a immagine degli Stati Uniti, che sono ricorsi alla mafia per raggiungere i loro obiettivi?    
La decisione insensata della CIA di affidare a mafiosi l’assassinio di Fidel Castro, nel 1960, ne è, forse, l’esempio più conosciuto [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/07/03/la-cia-voleva-pagare-la-mafia-per.html]. 
Ma, in questi ultimi decenni, una serie di mutazioni politiche ed economiche profonde, a livello internazionale, ha dato vita a ciò che io chiamo gli Stati mafiosi. Paesi, nei quali le nozioni tradizionali di corruzione, di crimine organizzato o di entità pubbliche, infiltrate da gruppi criminali, non abbracciano il fenomeno in tutta la sua ampiezza e complessità.
Là non è lo Stato che è vittima delle reti criminali; è lo Stato che ha preso il controllo delle reti criminali. Non per eradicarle, ma per metterle al servizio degli interessi economici dei governanti, dei loro amici e dei loro partners.
In Paesi, quali la Bulgaria, la Guinea-Bissau, il Montenegro, la Birmania, l’Ucraina, la Corea del Sud, l’Afghanistan o il Venezuela, gli interessi nazionali e quelli del crimine organizzato sono, inestricabilmente, collegati.
Sette anni dopo il suo ingresso nella Unione Europea, la Bulgaria, il Paese più inquinato d’Europa, è anche il più povero: i salari medi si aggirano intorno agli 800 lev [circa 400 euro]. Nel 2013, il tasso di disoccupazione era al 12,9% [http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/04226.asp], 0,6 punti in più rispetto al 2012, quando i tagli alla spesa avevano, soprattutto, penalizzato l’istruzione e la sanità e la crescita era allo 0,8% su una popolazione di 7,6 milioni, di cui il 22% viveva sotto la soglia della povertà.
Uno dei primi effetti di questa adesione è stata l’esplosione del traffico di esseri umani dall’Est nei nostri Paesi. Grazie ai loro contatti diplomatici, i trafficanti circolano liberamente nello spazio Schengen, per le loro attività di import-export. Si trovano tra le 18mila e le 21mila prostitute dette “bulgare” sui marciapiedi europei. Ma, se l’adesione all’Unione Europea ha facilitato il traffico di esseri umani, i capi delle reti non sono più al riparo dietro le loro frontiere. Il nuovo mandato di arresto europeo, che sostituisce i trattati di estradizione per gli Stati Membri, rafforza la cooperazione dei servizi di polizia e di giustizia.
Secondo il Servizio Nazionale Investigativo bulgaro, l’entrata del Paese nell’Unione Europea, il primo gennaio del 2007, ha avuto effetti secondari stupefacenti sul crimine organizzato. E, i poliziotti esitano a parlare, temono per la loro vita, da quando, l’ex-ministro dell’interno, il socialista Rumen Petkov è stato costretto, il 13 aprile 2008, a dimettersi per corruzione e collusione con la criminalità organizzata e per violazione del segreto di Stato[2], sotto pressione della stessa Commissione Europea.
Nel 2006, 2mila bulgari erano stati arrestati, in Europa.
Nel 2009, erano, praticamente, il 50% in più.
La Commissione Europea, che ha, sempre, nutrito forti sospetti circa i legami potenti esistenti tra criminalità e politica, nel 2008, aveva consegnato un rapporto molto critico sulla corruzione generalizzata a Sofia [http://www.parlamento.it/web/docuorc2004.nsf/00672360b4d2dc27c12576900058cad9/598897ae7a74932dc125749e004af4bc/$FILE/COM2008_0495_IT.pdf] e, fatto rarissimo, aveva, anche, congelato, nell’attesa di una migliore gestione, 500 milioni di euro di fondi comunitari, destinati al Paese, a causa della dilagante corruzione nella gestione delle risorse, messe a disposizione da Bruxelles.
Edward Lucas, nel suo articolo pubblicato, il 24 luglio 2008, sul settimanale inglese, The Economist, forniva un contesto più ampio della situazione:
“Rispetto allo stile impiegato abitualmente da Bruxelles, i toni sono stati piuttosto aspri. Nelle relazioni pubblicate il 23 luglio dalla Commissione Europea, si esprimevano critiche sui progressi [o mancati progressi] registrati da Bulgaria e Romania nella lotta alla corruzione e nella gestione dei finanziamenti erogati dall’Unione Europea, a dispetto di un grande lavoro di persuasione [da parte dei rappresentanti dei due Paesi], che ha prodotto un sostanziale smorzamento dei toni, in netto contrasto con la perentorietà delle comunicazioni emesse in precedenza. E la Commissione ha rinunciato a notificare alla Bulgaria una ammonizione per non compromettere la sua ammissione all’Euro e al trattato di Schengen [che permette la libera circolazione alle frontiere].
Le relazioni hanno, tuttavia, colpito nel segno, rilevando la “lampante” mancanza di risultati convincenti nella lotta alla corruzione in Bulgaria, e il “serio problema” della “mancanza di responsabilità e trasparenza negli appalti pubblici” nell’utilizzo dei fondi della UE. La Commissione ha annunciato gravi sanzioni, tra cui la sospensione delle sovvenzioni per un importo pari a 486 milioni euro [770 milioni USD]. In caso di mancata attuazione delle riforme, l’importo della somma trattenuta aumenterà sensibilmente entro novembre.”


Distorsioni di una democrazia instabile, che dopo la caduta del comunismo, nel 1989, si è lanciata in una transizione basata sul modello russo dell’intreccio tra privatizzazioni selvagge e traffici illeciti?
Secondo il generale Atanas Atanasov, deputato del DSP, Democratici per una Forte Bulgaria, ed ex-direttore dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, un dipartimento del Ministero dell’Interno, che si occupa di intelligence, “altri Paesi hanno una mafia; in Bulgaria, è la mafia che ha il Paese”.
Lo scorso dicembre, il leader del partito di centro bulgaro RZS, Yane Yanev, aveva proposto Silvio Berlusconi capolista alle Elezioni Europee.
“Da queste parti è molto popolare, vincerebbe di sicuro.”,
aveva spiegato Yanev, aggiungendo che Berlusconi,
“Sarebbe un eccellente paladino degli interessi bulgari a Bruxelles.”
In Venezuela, l’ex-presidente della Corte Suprema, Eladio Aponte, aveva fornito molte prove che confermavano che alti funzionari dello Stato erano a capo di importanti gruppi criminali internazionali. Nel 2008, già, gli Stati Uniti avevano accusato il generale Henry Rangek Silva di “sostenere materialmente il traffico di droga”. All’inizio del 2012, l’ex-presidente Hugo Rafael Chávez Frías lo aveva nominato ministro della difesa. Nel 2010, un altro venezuelano, Walid Makled García, alias El Turco o El Árabe, accusato da diversi governi di dirigere uno dei più importanti cartelli del Paese, aveva sostenuto, al momento dell’arresto, di essere in possesso di documenti, video e registrazioni che implicavano non meno di quindici generali venezuelani, tra i quali il capo dell’informazione militare e il direttore dell’ufficio di lotta contro gli stupefacenti, nonché il fratello del ministro dell’interno e cinque deputati.
In Afghanistan, Ahmed Wali Karzai – fratellastro del presidente Hamid Karzai e figlio di Abdul Ahad Karzai –, assassinato, il 12 luglio 2011 [http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-14118884], era stato accusato di avere il controllo sul traffico dell’oppio, la principale attività economica di questo Paese: secondo il Financial Times, la fuga di capitali, sotto forma di biglietti di banca, trasportati nelle valigette dai trafficanti e dagli alti funzionari, equivale più o meno al budget dello Stato.
Questa confusione tra governi e criminali non concerne, esclusivamente, Paesi nella bufera, come l’Afghanistan, Stati in scacco, quali la Guinea-Bissau, o Nazioni che sono ostaggi del narco-traffico.
Per prendere un altro esempio, è impossibile comprendere ciascuno degli ingranaggi che reggono i prezzi, gli intermediari o la struttura delle reti di approvvigionamento del gas russo che arriva in Europa – transitando, tra gli altri, per l’Ucraina – senza tenere conto del ruolo del crimine organizzato in questo business molto lucrativo.
Non sarebbe ingenuo credere che le élites al potere, in questi Paesi, non siano che vittime o spettatori impotenti? 
Si constata questo genere di “manovre” ovunque, in Africa, in Asia, nei Balcani e in Europa.
Gli Stati mafiosi contemporanei hanno preso una tale ampiezza che diviene necessario rivedere le concezioni tradizionali, secondo cui l’ordine mondiale è composto da due elementi fondamentali: da una parte, gli Stati-Nazioni e dall’altra, le organizzazioni che intervengono in tutto il mondo – imprese, gruppi religiosi, associazioni filantropiche, organizzazioni terroriste, criminali, educative, ecc. –.
Lo Stato mafioso moderno è una entità eteroclita di cui non comprendiamo, ancora, molto bene il funzionamento e la portata. Ed è essenziale, perché non abbiamo, sufficientemente, preso coscienza della sua esistenza.
Nell’introduzione al World Drug Report 2000 dell’Office for Drug Control and Crime Prevention [ODCCP, 2001], pubblicato all’inizio del 2001, l’allora suo direttore, Pino Arlacchi, scriveva che the psychology of despair has gripped the minds of a generation”.
E, ancora:
The end of the Cold War and the emergence of real processes for peace in a number of hitherto insoluble conflicts have softened these tensions within the international system; making cooperation a more practical enterprise.” [http://www.unodc.org/pdf/world_drug_report_2000/report_2001-01-22_1.pdf]
È, esattamente, il contrario.
La fine della Guerra Fredda ha favorito, da una parte, la comparsa di pseudo-Stati, in seno ai quali si è istituzionalizzata la corruzione della politica, dall’altra, ha permesso lo scoppio di nuovi conflitti locali. I loro protagonisti, non ricevendo più sussidi da uno dei due grandi blocchi, hanno dovuto cercare fonti di finanziamento nelle attività illegali, al primo posto delle quali, il traffico di droghe. Dalla Colombia all’Afghanistan, passando per l’Angola o il Kosovo, la droga è uno degli elementi del prolungamento di questi conflitti. Infine, la lotta contro il commercio di droghe è “inquinata” dagli interessi economici e geopolitici degli Stati, particolarmente dei Paesi ricchi, che si pongono come leaders della guerra alle droghe, inclini a dare prova di indulgenza nei confronti dei loro alleati o clienti.
Non essendo nessun altra attività illecita così lucrativa, il traffico di droghe ha accresciuto la capacità di nocività delle organizzazioni criminali che vi si dedicano, in particolare il loro potere di penetrare le strutture economiche e politiche di alcuni Stati. Sul piano economico, hanno seguito il movimento della mondializzazione, quando non lo hanno anticipato. Tuttavia, confrontate a una offensiva degli Stati le grandi organizzazioni – cartelli colombiani, mafie italiane e cinesi, padrini pakistani e turchi, ecc. – hanno, nella seconda metà degli anni 1990, innanzitutto, decentralizzato le loro strutture, per essere meno vulnerabili alla repressione. Simultaneamente, hanno diversificato le loro attività – traffico di esseri umani, di diamanti, di specie protette, ecc. – e le hanno delocalizzate stringendo legami di affari con i loro omologhi, che intervengono su altri continenti. 
Cosa Nostra, che aveva subito colpi durissimi da parte delle forze di repressione, nel corso degli anni 1990, rafforza il suo insediamento internazionale, in particolare in Brasile, in Canada, nell’Europa dell’Est e nell’Africa del Sud. Le sue attività vanno dal riciclaggio – società “schermo”, acquisto di beni immobiliari – al traffico di cocaina, in collaborazione con i gruppi colombiani, passando per il favoreggiamento dell’immigrazione di criminali. Queste attività sono favorite da legami consolidati tra organizzazioni criminali e poteri politici. Ciò è vero non solo nelle “dittature delle banane”, – Birmania, Guinea-Bissau – o nei non-Stati – Afghanistan, Paraguay, Liberia –, ma anche nei grandi Paesi, che svolgono un ruolo geopolitico chiave nella loro regione come, a esempio, la Turchia, in Europa, e il Messico, nell’America del Nord.
Jean-François Boyer che ha interrogato alti funzionari di polizia e accademici messicani, quali il politologo Jorge Germán Castañeda Gutman, divenuto ministro degli affari esteri del presidente messicano Vicente Fox Quesada, eletto nell’estate del 2000, scrive:
“En ce qui concerne Miguel de la Madrid, on doit relever que la grave mise en cause dont il est l’objet dans le document du CIAN n’a jamais été étayée publiquement, e elle doit donc être considérée avec une très grande prudence. Notons par ailleurs que l’ancien président a toujours refusé de commenter les accusations portées contre son fils à l’occasion d’affaires de blanchiment.
Que prévoyait le pacte entre les Narcos et l’Etat? Pour le spécialistes, il s’agirait d’un “deal” assez simple: les autorités financières du Pays auraient invité les narcotrafiquants à investir leurs revenus dans une économie décapitalisée, en pleine restructuration; en contrepartie, la police et l’armée mexicaine fermeraient les yeux sur le narcotrafic; et les deux parties s’engageraient à ne pas recourir à la violence et à négocier d’éventuelles arrestations au cas où il serait nécessaire de lâcher du lest vis-à-vis des autorités antidrogues américaines. L’Etat mexicain s’engagerait enfin à ne pas autoriser la DEA et les agences antidrogues américaines à participer à la répression sur son territoire.
Qui l’a négocié? Les artisans de l’accord furent vraisemblablement Raúl Salinas Lozano, frère du president, Raúl Salinas de Gortari, son frère, et José María Córdoba Montoya, l’éminence grise de Carlos Salinas de Gortari.
Bien sûr, le pacte ne s’est pas négocié autour d’une table, réunissant les principaux représentants des deux camps. Sa concretization s’est étalée sur plusieurs années au terme de longs et laborieux contacts.
Jorge Germán Castañeda Gutman, brilliant politologue devenu conseiller du president élu Vicente Fox à l’été de 2000, est convaincu qu’il y a bien eu un pacte. Il m’a confié qu’un ministre de Carlos Salinas de Gortari, de ses amis, partageait cette conviction – tout en me demandant de protéger son anonymat.”
In compenso, le organizzazioni criminali avrebbero investito nel Paese i loro profitti – dai 5 ai 10 miliardi di dollari, ogni anno –, ciò che avrebbe contribuito a permettere al Messico di mantenere le condizioni economiche, fissate dagli Stati Uniti, per la creazione, nel 1994, di ALENA, l’accordo di libero scambio nord-americano, siglato, nell’estate del 1992, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994, che coinvolge gli Stati Uniti, il Canada e il Messico. Va aggiunto, che ogni presidente, nuovamente eletto, ha, soprattutto, represso il cartello, cui era più vicino il suo predecessore e si è avvicinato a uno dei suoi rivali. Gli Stati Uniti hanno chiuso gli occhi su questi “accordi”. Negli anni 1980, i loro servizi segreti hanno, loro stessi, utilizzato i cartelli messicani per appoggiare i Contras[3], milizie che lottavano contro il regime marxista del Nicaragua, a partire dai Paesi vicini.  
Con l’esplosione e la diversificazione delle produzioni di droghe e la trasformazione delle narco-organizzazioni, il terzo elemento costitutivo della situazione attuale sono gli effetti sulla criminalità e il traffico di droghe con la moltiplicazione dei conflitti locali, effetto perverso della fine dell’antagonismo dei blocchi e degli scossoni provocati dal crollo dell’Unione Europea. Durante la Guerra Fredda, le grandi potenze, che la dissuasione nucleare impediva di affrontarsi direttamente, lo facevano attraverso i loro alleati nel Terzo Mondo. Il danaro della droga utilizzato dai belligeranti evitava, così, ad alcuni Paesi di dovere attingere a fondi segreti per finanziare i loro alleati. Ciò è stato, in particolare, il caso per tutte le grandi potenze – Stati Uniti, Francia – e le potenze regionali – Israele, Siria –, toccate dalla guerra civile libanese, e per gli Stati Uniti in America Centrale. La fine della guerra fredda, lontano dal mettere fine a quei conflitti locali, non ha fatto che rivelare la loro assenza di motivi ideologici, sollevando scontri etnici, nazionali, religiosi, ecc. I belligeranti, non potendo, ormai, contare sul finanziamento dei loro potenti protettori, hanno dovuto trovare nei traffici, quali quello di droghe, risorse alternative. In una trentina di conflitti, aperti, latenti o in via di risoluzione, la presenza della droga, a titoli e a livelli diversi è accertata: in America Latina [Colombia, Perù, Messico]; in Asia [Afghanistan, Tajikistan, India, Azerbaijan, Armenia, Cecenia, Georgia, Birmania, Filippine]; in Europa [Jugoslavia, Turchia, Irlanda, Spagna] e in Africa [Algeria, Sudan, Egitto, Senegal, Guinea-Bissau, Liberia, Sierra-Leone, RDC, Congo, Ciad, Uganda, Angola, Somalia, Comore].
Alcuni di questi conflitti – in Colombia, in Afghanistan o in Angola – esistevano prima della fine della guerra fredda. Ma il ritiro di partiti fratelli o di potenti protettori ha fatto in modo che prendessero un carattere nuovo: scivolamento progressivo verso attività di predazione nel caso delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia [FARC]; antagonismi etnico-religiosi, manipolati dalle potenze regionali, in quello delle guerre civili afghane e angolane. Altrove, è la caduta dei regimi comunisti, che è all’origine dei conflitti jugoslavi, ceceni, azero-armeni e delle guerre civili georgiane. I protagonisti di questi scontri, nella loro ricerca di finanziamenti, utilizzano ogni mezzo: traffico di petroli, di droghe, di metalli strategici. Uno degli esempi più significativi dell’utilizzo della droga nello scoppio del conflitto, poi, negli ostacoli messi alla sua risoluzione, è quello del Kosovo.
Dal 1991, l’Office of Generic Drugs [OGD] segnalava che i profitti della vendita di eroina, in tutta l’Europa, in particolare in Svizzera, da residenti albanesi di questa provincia serba, erano utilizzati per acquistare armi nella prospettiva di un sollevamento contro l’oppressione serba. L’UCK, dopo aver fatto scattare operazioni militari, alla fine del 1997, è stato cacciato, progressivamente, dai suoi bastioni dall’esercito e dalla polizia jugoslava e non ha più operato che in sacche lungo la frontiera albanese. Dopo la campagna di bombardamento della NATO in Serbia e in Kosovo – dal 24 marzo al 10 giugno 1999 – non restava al gruppo nazionalista che prepararsi a un ritorno in forza nella reinstallazione dei rifugiati. È la ragione per cui aveva cercato di acquistare il vero potenziale militare, che gli rifiutavano i Paesi occidentali. Per ciò, aveva avuto, innanzitutto, come fonte di finanziamento l’imposta pagata dai 700mila albanesi della diaspora in Europa [3% dei salari e sovente di più]. Ma questo finanziamento legale si è rivelato vulnerabile, in particolare, quando il governo svizzero decise di gestire il fondo dell’UCK, “La Patria chiama”. È allora che questa organizzazione, sembra, abbia deciso di privilegiare una ricerca di finanziamento nel traffico delle droghe, anche se ciò implicava legami con le mafie italiane, che gli fornivano armi contro eroina, cocaina o derivati della cannabis. In certi affari, la presenza dell’UCK, in quanto tale, è stata chiaramente stabilita, in particolare, dalla giustizia italiana; in altri l’identità dei finanziatori di traffici albanesi è stata occultata, ma non lascia dubbi. Infatti, quando la polizia e la giustizia di Paesi europei avevano prove dell’implicazione dell’UCK, era per loro difficile, a causa del ruolo della NATO nel Kosovo, renderle ufficialmente note. È la stampa che doveva trarre le conclusioni dalle informazioni di cui disponeva o dalle fughe di cui beneficiava da parte di certi magistrati.
Nel giugno del 1998, a esempio, un centinaio di persone, di cui numerose kosovare, furono arrestate attraverso l’Italia e altri Paesi europei per traffico di droghe e di armi. Secondo la Procura di Milano, appartenevano a otto reti incaricate di introdurre armi nel Kosovo. 100 chilogrammi di eroina e di cocaina, che sarebbero servite a pagare le armi, furono sequestrati.
Il 12 marzo 1999, la polizia ceca annunciava l’arresto, a Praga, del kosovaro Princ Dobroshi  [https://www.youtube.com/watch?v=QWk2LbtYqKE], evaso da una prigione norvegese e considerato uno dei più importanti trafficanti di droga, in Europa. Documenti attestavano, senza ambiguità, che l’uomo di 35 anni, utilizzava il prodotto del suo traffico per l’acquisto di armi. Citando un membro dei servizi segreti cechi [BIS], il giornale Lidove Noviny indicava che queste armi erano state consegnate all’Esercito di Liberazione del Kosovo [UCK].
Nell’aprile del 1999, il giornale londinese The Times, indicava che Europol preparava un rapporto per i ministri europei dell’interno e della giustizia, sottolineando le connessioni tra l’UCK e i narco-trafficanti. Secondo il quotidiano, le polizie tedesca, svizzera e svedese, avrebbero avuto le prove del finanziamento parziale dell’UCK dalla vendita di droghe.  
I diversi tipi di compromissioni dei Paesi ricchi con gli Stati trafficanti sono così diffusi, che le loro caratteristiche possono essere modellizzate.
Il più diffuso ha per origine gli interessi economici. Durante gli anni 1990, la Cina e la Polonia hanno accettato, senza recalcitrare, che le armi, che vendevano alla Birmania, fossero pagate con il danaro dell’eroina. Dal loro canto, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale non si sono, mai, posti tante domande sull’origine dei fondi che permettono a certi Paesi – in particolare alla Colombia, durante tutti gli anni 1980 – di pagare il loro debito estero. Se certi Paesi europei e l’Unione Europea stessa chiudono gli occhi sulle protezioni ufficiali, di cui beneficia la cultura di cannabis in Marocco, è perché contribuisce, largamente, all’equilibrio economico del Paese e la loro sostituzione costerebbe estremamente cara. 
Ma la droga può essere, così, utilizzata come arma diplomatica per destabilizzare o discreditare un avversario politico. Un esempio di questo atteggiamento è la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran nel campo dele droghe. Durante tutti gli anni 1990, a dispetto dei suoi sforzi nel campo della lotta contro il transito dell’eroina afghana [l’Iran ha perso circa 3mila uomini, in venti anni, in questa lotta], questo Paese è stato decertificato da Washington, vale a dire posto sulla lista dei Paesi che sono considerati Stati trafficanti. Questa misura produce la sospensione di ogni aiuto economico da parte degli Stati Uniti e, soprattutto, il loro voto negativo in tutte le istanze internazionali, incaricate di promuovere la coooperazione internazionale. Interrogato dall’OGD, un rappresentante del Dipartimento di Stato aveva risposto a tale riguardo che l’Iran era stato posto sulla lista dei Paesi “decertificati” in quanto Stato terrorista e non a causa della sua partecipazione al traffico internazionale delle droghe. Nel dicembre del 1998, il presidente Bill Clinton annunciò che avrebbe ritirato l’Iran dalla lista dei Paesi “decertificati”. 
La ragione?
“L’Iran non è più un produttore significativo di oppio e di eroina e ha cessato di essere un Paese di transito della droga destinata agli Stati Uniti.”
Tutti avevano compreso che si trattava di un gesto di buona volontà che rispondeva alla politica di apertura manifestata dal presidente Mohammad Khatami, con il suo insediamento, nel 1997.
L’ultimo elemento, che concerne le manipolazioni di cui la droga è l’obiettivo, è di carattere diplomatico. Si tratta questa volta per un Paese di tacere le implicazioni di un altro Stato nel traffico di droghe, al fine di esercitare un ricatto, perché vi metta fine o faccia una politica voluta dal primo in un altro campo. Gli Stati Uniti hanno, simultaneamente, mirato a questi due obiettivi nel caso della Siria, Paese le cui truppe erano, profondamente, implicate nel traffico di hashish e di eroina nel Libano: hanno, così, ottenuto delle campagne di eradicazione delle culture illecite nella piana della Bekaa e la partecipazione della Siria ai negoziati di pace nel Medio Oriente. La stessa strategia è stata utilizzata da Washington nei confronti del generale Hugo Banzer, presidente della Bolivia. La dittatura militare di quest’ultimo [1971-1978] si è non solo consegnata a gravi violazioni dei diritti umani e all’assassinio di oppositori all’estero, nel quadro del Piano Condor[4], ma ha, anche, contribuito alla specializzazione della Bolivia nella produzione di cocaina.

 


Strutturata in modo piramidale, la mafia funziona grazie alle “famiglie”, che controllano, ciascuna, un territorio e si rimettono a istanze più elevate, fino ai capi supremi dell’organizzazione. Realizza i suoi grassi utili con il traffico della droga, il racket delle imprese e il controllo dei mercati pubblici, ma si rifiuta, per una “questione di onore”, di “sporcarsi le mani” con la prostituzione.
Le prime tracce della organizzazione risalgono al XIX secolo e la sua creazione sarebbe legata, secondo alcuni storici, al proposito di ricchi proprietari terrieri di proteggersi da rivolte contadine, facendo appello a gruppi di vigilanti, che avrebbero, poi, costituito Cosa Nostra.
A lungo trascurata dalle istituzioni italiane, la mafia si è, veramente, fatta conoscere, dopo la Seconda Guerra Mondiale, con una serie di assassinii eccellenti e, negli anni 1969, prendendo il controllo del settore edilizio, a Palermo, grazie all’appoggio di uomini politici locali.
Tra la fine degli anni 1970 e l’inizio degli anni 1980, la storia di Cosa Nostra è insanguinata da una “guerra” interna, quando i corleonesi e i loro alleati prendono il controllo dell’organizzazione. Anche uomini delle istituzioni cadono sotto i colpi dei killers mafiosi:
-        Giorgio Boris Giuliano[5] [21 luglio 1979], capo della Squadra Mobile di Palermo ;
-   Cesare Terranova[6] [25 settembre 1979], capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo;
-    Piersanti Mattarella [6 gennaio 1980], presidente della Regione Sicilia e uomo politico della Democrazia Cristiana;
-        Emanuele Basile [4 maggio 1980], capitano dell’Arma dei Carabinieri;
-        Gaetano Costa[7] [6 agosto 1980], procuratore capo di Palermo;
-   Pio La Torre[8] [30 aprile 1982], segretario regionale del Partito Comunista Italiano;
-        Carlo Alberto Dalla Chiesa [3 settembre 1982], prefetto di Palermo;
-        Calogero Zucchetto [14 novembre 1982], agente della Squadra Mobile di Palermo;
-      Giangiacomo Ciaccio Montalto[9] [26 gennaio 1983], sostituto procuratore del Tribunale di Trapani;
-       Rocco Chinnici[10] [29 luglio 1983], capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Tra il 1981 e il 1983, vengono commessi circa 600 omicidi.
Ma questa guerra provoca, anche, numerose defezioni, rompe l’omertà, la legge del silenzio e la invincibilità della mafia. Lo Stato conclude, allora, con i pentiti un accordo, dando loro una nuova identità e un lavoro in un luogo protetto.
È il giudice Giovanni Falcone a far nascere la figura del collaboratore di giustizia. In una intervista del 1986, Giovanni Falcone afferma:
“Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato.”


“Io ho conosciuto tanti giudici in vita mia. Ne ho conosciuti di tutti i tipi. Però di Falcone io vedevo la dinamicità del pensiero, l’evoluzione dell’indagine. Con la sua mente da elefante, subito percepiva il valore di quello che io intendevo dire. E difatti era l’unico che aveva perfettamente capito quanto intendevo dire sul significato della parola cupola.”[11]
L’irrompere di Tommaso Buscetta sulla scena, nel 1984, è una svolta fondamentale.
“Io mi definisco un uomo deluso dalla mafia, un uomo che ha tanto contributo alla mafia e che vede ammazzare i propri figli per nulla, svanire nel nulla. Io non credo che ci sia un padre che può continuare a vivere in un ambiente come questo.”[12]
È Tommaso Buscetta, infatti, il primo “uomo d’onore” a svelare le regole e la burocrazia di Cosa Nostra: come è fatta, chi comanda… e a infliggerle il primo duro colpo.   
“Giovanni Falcone, poverino, che in pace riposi, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica. Se già è un problema parlare di Cosa Nostra perché non ci sono prove, perché non esistono tessere, non esistono atti di notaio, se già è una difficoltà parlare di mafia, immagini un po’ parlare di politica. Dove sono le prove? Sarebbe stato come avere inventato io, lui, delle cose. È per questo che non ho mai parlato. Io non ho remore, non avrei avuto remore a parlare di politica, se le cose che so fossero suffragate da prove, ma io non ho prove. Io posso dire… quel giorno si parlò, ma poi non si parlò, quindi sono delle cose astratte. Io non credo che una persona come me debba affidarsi alle cose astratte, deve parlare quando ha cognizione di causa.” [13]
Il 29 settembre 1984, grazie alle dichiarazioni di Buscetta, scatta la più importante operazione antimafia del XX secolo, il blitz di San Michele, durante il quale vengono emessi 366 mandati di cattura nei confronti di presunti mafiosi. Al termine degli arresti, i latitanti risultano solo una piccola percentuale. L’operazione fa scalpore, in Italia e all’estero. Negli Stati Uniti, i commenti sono entusiastici; in Italia, invece, ai complimenti di una parte del mondo politico e giornalistico si oppongono i silenzi o le critiche di un’altra parte. Non manca neppure una marcata ostilità di alcuni esponenti della magistratura palermitana, che manifestano dubbi e critiche sul maxiprocesso in preparazione e sui suoi promotori.
Sono, in particolare, due i quotidiani che si fanno portavoce di coloro che osteggiano la inchiesta e i giudici che la conducono, pubblicando articoli fortemente critici o irridenti: Il Giornale[14] di Indro Montalelli, che lo chiamava “quello scontro annunciato che è il processone alle cosche” e Il Giornale di Sicilia di Antonio Ardizzone, che, per giustificare il proprio silenzio sul processo, titolava “Non facciamo del processo uno spettacolo da baraccone”.
Leoluca Orlando, in una puntata di Samarcanda del 1990, accusò Giovanni Falcone di tenere chiusi nei cassetti una serie di documenti su delitti eccellenti:
“Io sono convinto e me ne assumo tutta la responsabilità che dentro i cassetti del Palazzo di Giutizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza sui delitti Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore.”
Nella sua biografia di Falcone, il giornalista Francesco La Licata riporta il commento fatto allora dal magistrato:
“Orlando ormai ha bisogno della “temperatura” sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato, lui e i suoi amici, sono pronti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori.”
Tra il 1984 e il 1985, iniziano i primi arresti per il “terzo livello mafioso”, quello politico.
Il 3 novembre 1984, viene arrestato, a Palermo, l’ex-sindaco democristiano Vito Ciancimino, amico dei corleonesi.
“Ciancimino è, relativamente, un pesce piccolo; ma è il primo leader politico ufficialmente incriminato come mafioso. Questo fornisce un precedente, e una pista da seguire. Un precedente, perché adesso nessuno può più negare che il rapporto fra mafia e politica - il “terzo livello” di cui parlava Chinnici - esista veramente e vada dunque risolutamente individuato e colpito.”[15]
Il 18 aprile 1985, l’inchiesta del sostituto procuratore Carlo Palermo[16] sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, che i successivi eventi e attentati metteranno in evidenza essere di decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Palermo definì il “quarto livello”, vale a dire il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti,  [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/10/18/il-giudice-palermo-trasferito-roma.html, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/07/25/il-csm-critica-carlo-palermo-ma-non.html], culmina con l’arresto dei “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, con l’accusa di truffa, falsa fatturazione finalizzata a frode fiscale, falso in bilancio, associazione a delinquere [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/04/20/retata-eccellente-la-sicilia-trema.html,
“Negli ordini di cattura, firmati il pomeriggio del 18 aprile, ci sono ventisette nomi: i cavalieri, i loro colletti bianchi, mezza dozzina di faccendieri trapanesi ed un noto mafioso. L’accusa è contenuta in poche battute, “associazione per delinquere finalizzata alla formazione ed utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti”.”[17]
L’appellativo viene attribuito da Giuseppe Fava, in un articolo della rivista I Siciliani, nel gennaio del 1983, al gruppo di imprenditori edili catanesi che, dagli 1970 e 1980, aveva dominato la quasi totalità degli aspetti economici della città di Catania.
“Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un’immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso [Pirandello è qui di casa] nel gioco delle parti.” [http://www.girodivite.it/I-quattro-cavalieri-dell.html]
Il 5 gennaio 1984, un anno dopo la pubblicazione dell’articolo, e dopo vari tentativi dei cavalieri di acquistare la rivista[18], Giuseppe Fava venne ucciso da membri del clan mafioso dei Santapaola. Nell’ambito del processo all’onorevole Antonino Drago, Giuseppe Fava sosteneva che fosse controproducente attaccare i quattro cavalieri, i quali, anziché indebolirsi, sarebbero andati a investire il proprio danaro in Liguria o in Piemonte.
Nell’estate del 1982, durante i suoi cento giorni siciliani, prima di cadere nell’agguato di Cosa Nostra, anche il prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si era incuriosito ai cavalieri. Aveva, infatti,  richiesto, il 2 giugno, un mese dopo il suo insediamento, “al prefetto di Catania una scheda completa riguardante i nuclei familiari, gli interessi, le società ed i possedimenti degli imprenditori Graci e Costanzo. Ne avrebbe ottenuto in risposta, qualche tempo dopo, una nota redatta con stile compilativo nella quale si teneva a precisare la rilevanza degli interessi economico-finanziari gestiti dagli stessi, e la natura del tutto necessitata di alcuni rapporti mantenuti con esponenti della criminalità catanese, giustificati, a dire del massimo esponente istituzionale della provincia di Catania, dalla necessità di “non compromettere» il buon andamento di tali interessi; veniva specificato anzi che l’impresa Costanzo era oggetto di “mire aggressive da parte della criminalità a causa del suo ingente patrimonio”.”  [http://legislature.camera.it/_dati/leg13/lavori/doc/xxiii/048/d030.htm]
Per queste ragioni, il generale Dalla Chiesa, nella intervista concessa a Giorgio Bocca, il 10 agosto 1982, dichiarò:
È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”
Le successive rivelazioni del pentito Antonino Calderone, secondo il quale I cavalieri del lavoro di Catania non sono mai stati vittime della mafia, [...], perché la mafia l’avevano già dentro” risultarono, tuttavia, vane e insufficienti ai fini di una condanna. Nel 1991, il giudice istruttore Luigi Russo assolse i cavalieri, con la motivazione che erano stati costretti a subire la “protezione” del clan Santapaola per necessità.
Nel 1994, in seguito a una inchiesta della DIA, da cui emersero ulteriori interazioni e intensi rapporti tra i cavalieri e Cosa Nostra, il giudice Giuseppe Gennaro impugnò la sentenza, ma gli imputati furono prosciolti, ancora una volta, in via definitiva[19]. L’azione di Carlo Palermo fu bloccata da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie, durante il governo Craxi, fino all’attentato stragista di Pizzolungo.
Si scoprì, così, che, negli anni 1980, vi erano più sportelli bancari a Trapani che a Bologna o a Genova e che la Sicilia era la regione d’Italia, in cui si cambiavano più lire in dollari[20]. Negli ultimi venti anni gli sportelli delle  banche locali erano aumentati del 586% contro una media italiana dell’83%. Un moltiplicarsi di nuove piccole banche, facilmente controllabili dai gruppi di potere mafiosi. Insomma la mafia si comportava da “mafia imprenditrice – sosteneva Pino Arlacchi - facendo sue tecniche e comportamenti propri della società industriale”.
Il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi si era rivolto all’antimafia:
“Ci sono troppi sportelli bancari in Sicilia.”
A 29 anni da quell’attentato destinato a Carlo Palermo, che costò la vita a Barbara Rizzo e ai suoi due gemelli, Salvatore e Giuseppe Asta, la strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985 è, ancora, un capitolo giudiziario aperto. Le sentenze, che hanno condannato, quali mandanti, Totò Riina e Vincenzo Virga, rispettivamente, capo della cupola siciliana e capo del mandamento di Trapani, e quali esecutori, Nino Madonia e Balduccio Di Maggio, non hanno fatto luce sul movente. Come in altre vicende chiuse, apparentemente risolte, ma che risolte non sono, dall’assassinio del pubblico ministero trapanese Giangiacomo Ciaccio Montalto[21], il 25 gennaio 1983, agli attentati di Roma, Milano e Firenze del 1993. Venne individuato un filo diretto tra la strage di Natale o del rapido 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano, all’interno del tunnel della Grande Galleria dell’Appennino, e l’attentato di Pizzolungo, preparato per il giudice Carlo Palermo. Quel tritolo, usato a Pizzolungo e uscito da polveriere militari, fa parte di una lunga lista di sangue. Era stato, infatti, impiegato nell’attentato del 23 dicembre 1984 al treno rapido 904; per far saltare in aria, diciotto giorni dopo Pizzolungo, il 20 aprile, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo di numerosi consigli comunali, in Sicilia, il 12 e il 13 maggio 1985, la villa di Piana degli Albanesi dell’allora sindaco democristiano di Palermo, Elda Pucci, e nel fallito attentato all’Addaura a Giovanni Falcone, il 21 giugno 1989.
Un connubio, quello tra mafia e destra, seguito anche dal vice-questore di Trapani, Giuseppe Peri[22].    
Carlo Palermo restava vivo, ma come morto per lo Stato. Gli fu chiesto, dapprima, di cambiare generalità e di riparare in Canada, poi, di fatto, fu abbandonato e costretto a dismettere la toga di pubblico ministero e a vestire quella di avvocato. In una intervista, pubblicata su Antimafia 2000, Carlo Palermo, dichiarò:
Nell’85, scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo.”
All’indomani della strage di Pizzolungo, Cosa Nostra sembra aver imposto ai suoi attacchi verso lo Stato una sorta di tregua. Si tratta di una finestra destinata a infrangersi, dopo breve tempo, nell’estate del 1985. Alcuni la definiscono un rabbioso ed estremo tentativo di influenzare l’istruzione del maxiprocesso.
La sera del 28 luglio, il giorno prima di andare in ferie, il commissario Giuseppe Montana[23] [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/07/31/dopo-minacce-avvertimenti-temeva-ogni-giorno.html], 34 anni, che gli agenti della Squadra Mobile chiamano “Serpico”, viene ucciso dai colpi di una pistola 357 Magnum e di una calibro 38 con proiettili ad espansione, mentre passeggia sul molo di un piccolo centro marittimo vicino a Palermo, Porticello, una frazione del comune di Santa Flavia, dove è ormeggiato il suo motoscafo. Montana era responsabile della Sezione Catturandi. Spesso, utilizzava il motoscafo per sorvegliare le residenze marittime estive dei mafiosi, anche fuori servizio. Lui stesso aveva dichiarato:
“Bisogna cercare in quel tratto di costa compreso tra Bagheria, Porticello, Casteldaccia, Termini Imerese. È là che si nascondono decine di pericolosissimi latitanti. State pur certi che alla fine salteranno fuori grossi nomi.”
Solo quattro giorni prima, il 24 luglio, sulle tracce di un pericoloso latitante, legato ai corleonesi, Tommaso Cannella – capomafia di Prizzi e uomo di fiducia di Totò Riina, nel comprensorio termitano –, aveva interrotto una riunione al vertice di Cosa Nostra, in una villa a Bonfornello. Ed è, forse, il blitz, conclusosi con la cattura dello stesso Cannella e di altri sette mafiosi, tra i quali Antonio D’Amico e Biagio Picciurro, a spingere Riina a rompere l’armistizio e a firmare la condanna di Montana.
“Cannella e i corleonesi fanno parte di un’unica cordata. Cannella è quello che pranzava con Michele Greco, uno dei pochi autorizzati a dargli del tu. Sì, questa volta abbiamo quasi la certezza che i capi corleonesi non si sono mai allontanati da Palermo. Arrestando Cannella abbiamo svolto un ottimo lavoro.” [http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/170000/165014.xml?key=Saverio+Lodato&first=391&orderby=1&f=fir]
Viene fermato il venticinquenne Salvatore Marino, un giocatore di calcio dilettante, figlio di una povera famiglia di pescatori. Il clima di tensione e di paura, che serpeggia tra gli agenti, dopo anni segnati da tanti morti tra le loro fila, degenera in “isteria collettiva”  [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/05/03/processo-per-la-morte-in-questura.html]. Convinti di trovarsi di fronte l’ennesimo omertoso fiancheggiatore, agli uomini addetti all’interrogatorio sfugge di mano la situazione. Il giovane muore in questura verso le 5.00 del mattino: sul cadavere vi sono segni di violenza. La questura finisce nel centro del mirino mediatico. Gli animi di molti palermitani si incendiano, quando, al grido di “poliziotti assassini”, familiari e amici del defunto portano la bara per i diversi quartieri della città.
Il 5 agosto, verso sera, viene diffusa la notizia che l’allora ministro dell’interno Oscar Luigi Scalfaro ha rimosso il capo della squadra mobile, Francesco Pellegrino, il capitano dei carabinieri, Gennaro Scala, e il dirigente della sezione anti-rapine, Giuseppe Russo.
La reazione mafiosa non si fa attendere.
Il giorno dopo, il 6 agosto, alle ore 15.56, rientrando dalla questura nella sua abitazione di via Croce Rossa, nel pieno di un caldo pomeriggio estivo, il commissario Antonino Cassarà[24], diretto superiore di Montana, viene ucciso, mentre percorre a piedi il breve tragitto dalla propria auto all’androne di casa da un commando di uomini armati di fucile AK-47, appostati sulle finestre e sui piani dell’edificio in costruzione di fronte alla sua palazzina [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/30/ecco-chi-uccise-cassara.html]. Spira sulle scale di casa tra le braccia della moglie Laura, che è accorsa, dopo aver assistito, incredula, alla scena, insieme alla figlia di due anni, Elvira, dal balcone dell’appartamento, all’ottavo piano. Degli agenti della scorta, Roberto Antiochia[25], uscito dall’auto per aprire lo sportello a Cassarà, viene colpito a morte, Giovanni Salvatore Lercara viene, gravemente, ferito e Natale Mondo[26] resta illeso.
Dopo la morte di Giuseppe Montana, Antonino Cassarà era rimasto solo. Aveva talento ed era incorruttibile: per la mafia, due buone ragioni per eliminarlo. Viveva l’inferno, sapeva di avere la vita legata a un filo. L’ultima confidenza che regalò a un collega non siciliano, il giorno prima di essere ucciso, fu proprio la sua sensazione di pericolo:
C’è un funzionario che mi ha fatto molte domande in questi giorni: troppe offerte di collaborazione, di disinteressata amicizia. Non mi fido: ho paura che mi vogliano fare la pelle.
Non tornava più a casa nell’intervallo, non seguiva mai lo stesso percorso, cambiava orari e abitudini. Quel martedì, alle ore 14.55, il vice-questore aveva telefonato alla moglie per avvertirla che sarebbe tornato a casa. Una “talpa”, presumibilmente posta all’interno della questura, aveva intercettato la telefonata e aveva fatto arrivare l’informazione a Cosa Nostra.
In soli dieci giorni, Cosa Nostra aveva decapitato la Squadra Mobile di Palermo dei suoi uomini più esperti ed efficienti[27]. Due punti di riferimento affidabili a disposizione dell’intero pool antimafia, protagonisti di quasi tutte le operazioni sul campo di quella trionfante stagione di successi sulla mafia. Obiettivi simbolici e strategici inequivocabili. Ai funerali di Cassarà molti agenti in preda a una rabbiosa frustrazione, lanciarono insulti e sputi ai politici presenti [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/08/08/gli-agenti-contro-il-loro-ministro.html]. L’accusa mossa verso il potere era chiara: lo Stato era al fianco degli uomini che, in prima linea, combattevano da soli la mafia, solo in occasione dei loro funerali.
Un senso di isolamento si diffuse contagioso.
“Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano.”.”[28]
La tensione era destinata a salire quando, alcuni giorni più tardi, confidenti attendibili informarono Antonino Caponnetto che, dal carcere, era partito l’ordine di eliminare Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Immediatamente, si dispose il trasferimento dei due magistrati con le rispettive famiglie all’Asinara per preparare il maxiprocesso in un luogo protetto.
Il maxiprocesso si apre, il 10 febbraio 1986, nell’aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo, e si conclude, il 16 dicembre 1987, con 346 condanne e 114 assoluzioni, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Il processo coinvolge 475 imputati, ritenuti essere affiliati di Cosa Nostra, poi scesi a 460, nel corso del processo.
Il 10 gennaio 1987, quando il maxiprocesso di primo grado è in pieno svolgimento, Il Corriere della Sera pubblica un articolo, a firma di Leonardo Sciascia, dal titolo: I professionisti dell’antimafia  [http://old.radicali.it/search_view.php?id=49224], dedicato al rapporto tra politica, popolarità e lotta alla mafia. A fornire lo spunto è il libro di Christopher Duggan, La mafia durante il fascismo. Lo scrittore siciliano, prendendo a esempio la designazione di Paolo Borsellino a procuratore capo di Marsala, a discapito di colleghi con maggiore anzianità di servizio, seppure meno esperti di mafia, deplorava come le inchieste contro Cosa Nostra fossero divenute una scorciatoia per fare carriera, piuttosto che un servizio da rendere allo Stato.
Il pool antimafia, organizzato da Antonino Caponnetto, non ha vita lunga.
Alla fine del 1987, una volta concluso il primo grado del maxiprocesso, Caponnetto, ritenendo, sostanzialmente, concluso il suo compito, decide di tornare a Firenze, lasciando, quindi, il posto di consigliere istruttore presso il Tribunale di Palermo.
Falcone avanzò la propria candidatura a sostituirlo, e molti ritennero che tale successione fosse nell’ordine delle cose. Tuttavia, un anziano magistrato, Antonino Meli, che, inizialmente, intendeva candidarsi come presidente del Tribunale di Palermo, venne convinto da alcuni colleghi a ritirare tale candidatura e a correre per la carica meno prestigiosa di consigliere istruttore. Meli era un magistrato di lunga esperienza, che, tuttavia, non si era, mai, occupato di mafia, se non in una sola occasione.
Il 20 luglio 1988, Paolo Borsellino, in una intervista, denunciò lo smantellamento del pool antimafia, riconducendone l’inizio alla nomina a consigliere istruttore di Antonino Meli, preferito dal Consiglio Superiore della Magistratura, per motivi di anzianità, a Falcone.
“Non so se - come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco?”[29]
Il 26 luglio, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, lanciò un forte allarme antimafia, sollecitando i ministri dell’interno e della Giustizia e il CSM a fare fino in fondo la propria parte. Il 30 luglio, iniziarono le audizioni al CSM dei giudici del pool. Giovanni Falcone denunciò la “normalizzazione” e annunciò le proprie dimissioni. 7 consiglieri del Comitato antimafia del CSM contro 4, tuttavia, votarono un documento che difendeva le posizioni di Meli e respingeva, criticandole, le accuse mosse dal giudice Paolo Borsellino.
Il 26 settembre, veniva assassinato l’ex-leader di Lotta Continua Mauro Rostagno, che dirigeva una comunità per il recupero di tossicodipendenti e, ogni sera, da una emittente televisiva di Trapani, denunciava i crimini di Cosa Nostra e dei suoi fiancheggiatori.
IL 28 giugno 1989, Giovanni Falcone venne nominato, all’unanimità, dal Consiglio Superiore della Magistratura procuratore aggiunto di Palermo.  
Il 29 ottobre 1991, con il decreto n. 345, poi convertito in legge, il 30 dicembre, veniva istituita la Direzione Investigativa Antimafia [DIA]: il cosiddetto Federal Bureau Investigation [FBI] italiano costituiva il primo tentativo di superare le rivalità tra forze di polizia e di unificare le indagini in tema di criminalità organizzata.
Neppure un mese dopo, il 20 novembre 1991, tra accese polemiche, veniva istituita, con decreto n. 367, convertito in legge, il 20 gennaio 1992, la Direzione Nazionale Antimafia. La cosiddetta Superprocura è una struttura di coordinamento, a livello nazionale, delle indagini sulla criminalità organizzata, guidata da un procuratore nazionale che, coadiuvato da 20 sostituti, coordina l’attività di 26 procure distrettuali.
Il 17 gennaio 1992, la quinta sezione del Tribunale di Palermo, condannava a 10 anni di carcere Vito Ciancimino, primo politico palermitano a essere riconosciuto colpevole di associazione mafiosa.  E, poco più di un mese dopo, il 22 febbraio 1992, il Tribunale di Caltanissetta condannava a un anno e mezzo di reclusione, per calunnia, il giudice Alberto Di Pisa, quale autore delle lettere anonime del “corvo” che, nell’estate del 1989, avevano gettato ulteriore discredito su Giovanni Falcone e sugli altri giudici del pool antimafia.
Quattro giorni più tardi, il 26 febbraio 1992, venivano sequestrati, a Genova, 300 chilogrammi di cocaina: era il più ingente sequestro di cocaina mai compiuto, in Italia. Venivano arrestati, anche, grandi trafficanti internazionali, quali il colombiano Cardona Vargas, leader del cartello di Calì.
Intanto, il 30 gennaio 1992, la Corte di Cassazione aveva confermato gli ergastoli del maxiprocesso.
E, per Cosa Nostra era stato un colpo mortale.
Questo è un passaggio chiave di lettura della condanna a morte, poi, inflitta a entrambi i magistrati.
Dietro le bombe che hanno insanguinato l’Italia, negli anni 1992-1993, che hanno fatto saltare i due pionieri della lotta contro la mafia, Giovanni Falcone e il suo amico Paolo Borsellino, si nascondeva un mandante di Stato?
Giovanni Falcone era il più coriaceo avversario di Cosa Nostra. Abbandonato da una parte della classe politica, moriva, il 23 maggio 1992, nell’esplosione di 500 chili di dinamite, sull’autostrada di Palermo, e, meno di due mesi più tardi, il suo amico, Paolo Borsellino era ucciso in via D’Amelio, a Palermo, con i cinque agenti della sua scorta.
Una regia occulta ha guidato la mano assassina di Cosa Nostra?
Su questi attentati restano, sempre, ampie zone d’ombra, l’ipotesi è avanzata, agghiacciante, dalle dichiarazioni dei pentiti e dello stesso ex-procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso:
 “L’attentato al patrimonio artistico e culturale dello Stato assumeva una duplice finalità: orientare la situazione in atto in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, sempre balzata fuori nei momenti critici della storia siciliana, e organizzare azioni criminose eclatanti che, sconvolgendo, avrebbero dato la possibilità ad un’entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli.” [Grasso: “Le stragi mafiose del ‘93
volevano favorire un’entità politica” http://www.repubblica.it/cronaca/2010/05/27/news/stragi_93-4363758/]
.
Attilio Bolzoni, nel suo libro, FAQ Mafia, illumina di una luce diversa il primo attentato contro Falcone, nel 1989. Avanza, in effetti, una ipotesi non del tutto inedita, ma fornisce qualche elemento in più, quando afferma che tra i mandanti del fallito attentato dell’Addaura non vi sarebbero stati solo mafiosi – Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonna sono stati condannati per l’accaduto – ma anche “un pezzo di Stato”, interessato a eliminare Giovanni Falcone.
“Ci sono testimonianze che rivelano un’altra verità e che irrobustiscono sempre di più l’ipotesi di un “mandante di Stato”. La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989 ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle investigazioni, sembra che fossero due i “gruppi” presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta e da uomini dei servizi segreti. E l’altro era in mare, su un canotto giallo o color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di “appoggio” al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c’è certezza sull’identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno sarebbe stato Antonino Agostino, l’altro Emanuele Piazza[30].”
Chi ha ucciso Falcone e Borsellino?
Dopo 22 anni dalla loro morte, il dibattito è rilanciato.
Totò Riina, il capo di Cosa Nostra, è stato condannato, nel 2002, in quanto mandante, tuttavia…
Se Riina è il mandante siciliano di questi omicidi, non si è, mai, trovato il mandante italiano, politico, “CHI”, con Cosa Nostra, ha pianificato gli attentati di Palermo, nel 1992, e, poi, quelli sul continente, nel 1993.
Si è, sempre, detto che gli autori fossero i mafiosi corleonesi e solo loro.
Sono stati catturati e condannati. 
Ma, sempre più elementi, fanno pensare a un complotto di Stato. In particolare la costante presenza sui luoghi delle stragi di “figure estranee” a Cosa Nostra, agenti dei servizi segreti italiani.
Affiora una nuova verità: la Mafia siciliana di Riina sarebbe stata il braccio armato di un altro potere, strumentalizzato per fare il lavoro sporco. 
“Non ha mai vissuto attraverso la politica, la mafia. La mafia si è servita della politica. Se lei prende un mafioso, dice: “Questo qua è un ignorantone, una cosa ridicola.” Ma questi ignorantoni messi assieme sono un grandissimo esercito, perché fra di loro esistono paratie stagne dove non filtra niente. I mafiosi non sono terroristi. Non ho niente contro i terroristi, non voglio offenderli. Avevano un ideale, per loro è finita, la guerra… Il mafioso no, il mafioso tramanda ai figli.”[31]
La politica ha, dunque, bisogno della mafia!
Si pensi alla frase lanciata da Totò Riina, nel luglio del 2009, parlando per la prima volta dalla prigione, dopo diciassette anni di silenzio…
Sulla morte di Borsellino, ha detto:
“L’ammazzarono loro.”,
aggiungendo:
“Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi.”
Un anno fa, Riina faceva rivelazioni clamorose a due agenti del Gruppo Operativo Mobile, confermando quanto, da anni, sostiene il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, che, per primo, ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina.
“Io non ho cercato nessuno, sono loro che hanno cercato me.”
“A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri.”
Il prossimo 16 novembre, Totò Riina compirà 84 anni.
È malato.
Sì, anche lui ha realizzato che è stato utilizzato.
Si spera che parli prima di morire...
Nell’attesa, un pentito, interrogato dalla giustizia, ha parlato, lui. 
Il pentito Gaspare Spatuzza ha, infatti, rivelato che non sarebbe stato Vincenzo Scarantino a rubare la Fiat 126, che ha fatto saltare Borsellino, ma lui. Ha, soprattutto, detto che, nel garage di Palermo, dove si imbottiva di esplosivo l’auto, non vi erano solo mafiosi, ma vi era, anche, un agente segreto di una cinquantina di anni. Spatuzza lo ha identificato, per due volte: prima in foto, poi, il 27 ottobre 2010, in un confronto all’americana presso la DIA di Caltanissetta [http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/27/news/spatuzza_borsellino-8496629/, http://palermo.repubblica.it/dettaglio-news/18:44/3861869]. E questo agente – che, nel 1992, aveva appunto una missione in Sicilia – è stato anche riconosciuto da Massimo Ciancimino, che lo indica come l’accompagnatore del “signor Franco”, l’uomo che, per trenta anni, avrebbe avuto contatti stretti con suo padre, Vito. Avrebbe rimesso falsi passaporti e il papello, la lista delle richieste di Totò Riina allo Stato per fermare le stragi. 
Ciò che emerge da tutto ciò, è che una parte dello Stato trattava con Cosa Nostra, mentre un’altra parte partecipava alle stragi.
Ma chi, in seno allo Stato?
La Democrazia Cristiana era allora al potere...
La Democrazia Cristiana aveva rapporti con la Mafia, ma quelli che hanno destabilizzato l’Italia con le bombe sono da ricercare non nei partiti, ma in seno all’apparato dello Stato. Infatti, queste bombe esplodono in un momento di vuoto e di ricomposizione politica: la Democrazia Cristiana è crollata, spazzata via dall’operazione anticorruzione Mani Pulite e un nuovo partito vede la luce, quello di Silvio Berlusconi, Forza Italia.
Luogo e data reali dell’assassinio di Paolo Borsellino, luogo e data simbolici del passaggio della Prima Repubblica Italiana – nata formalmente con il referendum costituzionale del 2 giugno 1946  e la Costituzione del 1946 – alla Seconda Repubblica italiana, che è quella che noi abbiamo sotto gli occhi oggi.
Ma perché dire che la strage di via D’Amelio, avvenuta in pieno periodo di Mani Pulite, segni la nascita della Seconda Repubblica Italiana?
Perché io sono di quelli che credono che questa Seconda Repubblica sia nata dal sangue di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il 20 luglio 1992, nasceva la Seconda Repubblica Italiana, basata sulla corruzione, la prevaricazione, la ricchezza illegale.
All’uscita della camera ardente, Antonino Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall’emozione:
“Non c’è più speranza…”
Il 23 maggio 1996, in un intervista, rilasciata a Gianni Minà, per un servizio televisivo, Antonino Caponnetto ricordava:
“Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole di sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.”[32]
Le testimonianze di Antonino Caponnetto e di Salvatore Borsellino riassumono i dubbi, le perplessità, i tanti lati oscuri, i depistaggi su quanto accaduto in via D’Amelio, alle 16,58 del 19 luglio 1992, con l’esplosione dell’autobomba, una Fiat 126 con 100 chilogrammi di esplosivo a bordo, che denotò, al passaggio dell’auto di Paolo Borsellino, uccidendolo insieme ai cinque agenti della scorta, Emanuela Loi, prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muti, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
“Paolo aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre.
Ma la domanda era rimasta inevasa.
Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze.”[33]
Il 22 luglio 1992, tre giorni dopo la strage di via D’Amelio, veniva protocollata, anche, l’archiviazione dell’inchiesta “mafia e appalti” condotta da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Borsellino, in particolare, si batteva per ottenere una serie di arresti che avrebbero, sicuramente, originato una versione siciliana di Mani Pulite. L’archiviazione, predisposta il 13 luglio, era favorita da quegli stessi colleghi, che Borsellino accusava, in quei giorni, di averlo lasciato solo.
Dopo i due attentati e l’arresto del capo supremo Totò Riina, sostituito da Bernardo Provenzano, la mafia sceglie la strategia del silenzio, senza clamore, con il fine di infiltrare ancora più la società siciliana.
L’influenza del crimine organizzato sulle istituzioni e la classe politica è, inversamente, proporzionale al potere della polizia di condurre le indagini, in modo rapido ed efficace. In altre parole, la mafia e gli altri gruppi criminali prosperano, mentre la polizia è imbavagliata e con le mani legate.
Chi e cosa si deve biasimare?
La Costituzione, la moralità pubblica o il governo?
O nessuna di queste risposte?
Cosa Nostra non è, mai, stata oggetto di una effettiva visione di insieme,  “bisogna arrivare a pensare, a sentire come Paolo e Giovanni, considerare inevitabile la propria fine. Questa è la loro storia: la storia di due che sapevano che sarebbero stati presi di mira, che sarebbero rimasti progressivamente isolati e che avrebbero fatto quella fine.”[34]


Daniela Zini
Copyright © 19 luglio 2014 ADZ



[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] “La procura ha, finalmente, trovato il coraggio per accusare Rumen Petkov.”,
titolava il 21 ottobre 2008, il quotidiano, Ora, citando il procuratore di Sofia, Nikolay Kokinov, secondo il quale Petkov era stato incriminato per aver rivelato il nome di un agente segreto dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale [DANS], che lavorava sotto copertura negli ambienti della malavita bulgara.


[3] L’Iran-Contras affair [noto anche col nome di Irangate] è lo scandalo politico che nel 1985-1986 coinvolse vari alti funzionari e militari dell’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, accusati dell’organizzazione di un traffico illegale di armi con l’Iran [su cui vigeva l’embargo], con lo scopo di ottenere la liberazione degli ostaggi americani nell’ambasciata americana di Tehran.
I proventi di questa operazione erano serviti a finanziare l’opposizione violenta dei Contras al governo sandinista. Lo scandalo minò duramente la credibilità di Reagan [recuperata poi con la sottoscrizione dell’accordo INF con Gorbaciov], non impedendogli di ottenere la rielezione.
L’Iran, all’epoca impegnato nella guerra contri l’Iraq di Saddam Hussein, pur violentemente antiamericano, era molto sensibile alle offerte di materiale americano, visto che la maggior parte delle sue forze armate erano equipaggiate proprio con veicoli e armi fabbricate negli Stati Uniti, acquistate dallo shah Mohammad Reza Pahlavi prima della sua cacciata.
L’Iran aveva cercato di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, rivolgendosi alla Siria [nemica dell’Iraq per la forte rivalità fra Assad e Hussein], la Libia di Gheddafi e la Cina, ma ciononostante i missili anticarro TOW ed i pezzi di ricambio per le batterie antiaeree HAWK erano assolutamente necessari allo sforzo bellico.
In un primo momento, gli Stati Uniti non trasferirono, direttamente, materiale, ma si limitarono a rivelare al governo di Tehran la localizzazione di magazzini segreti di pezzi di ricambio e munizioni che lo shah ha fatto installare in sperdute località iraniane, curando che solo alcuni fedelissimi ufficiali [tutti fuggiti durante la rivoluzione] ne conoscessero l’ubicazione.
In seguito, esauriti i “depositi segreti”, gli Stati Uniti si dimostrarono disposti a fornire armi e munizioni ex novo, ma decisero di farlo in maniera segreta e al di fuori del controllo del Congresso [che secondo le leggi deve approvare ogni aiuto militare a potenze estere], in modo da destinare i proventi di tale traffico a sostegno delle operazioni di guerriglia e terrorismo in America Centrale, in particolare ai Contras del Nicaragua. Regista dell’operazione fu Oliver P. North, con l’approvazione del vice-ammiraglio John M. Poindexter, consigliere nazionale della sicurezza, poi condannato a sei mesi di reclusione.
Nel novembre del 1986, un giornale libanese rivelò l’esistenza del traffico clandestino. Le indagini effettuate fecero collegare la situazione con la parallela operazione segreta in Nicaragua. Nel novembre del 1987 una commissione di inchiesta con a capo l’ex-senatore John Tower emise una dura condanna all’operato del presidente Reagan, non provando con certezza la conoscenza da parte sua dei finanziamenti illegali ai Contras, ma dichiarando che aveva tollerato una situazione di aperta illegalità. Nel 1992, il presidente George Bush sr., vicepresidente nel momento dello scandalo e sospettato di essere coinvolto nello stesso, concesse un’amnistia a tutti gli alti ufficiali indiziati o condannati per la questione Iran-Contras.


[4] Operazione Condor fu il nome dato dai servizi segreti degli Stati Uniti a una massiccia operazione di politica estera statunitense, avviata, negli anni 1970, e volta a tutelare l’establishment in tutti quegli Stati Centro e Sudamericani, nei quali l’influenza socialista e comunista era ritenuta troppo potente, nonché a reprimere le varie opposizioni ai governi partecipi dell’iniziativa.
Le procedure per mettere in atto questi piani furono, di volta in volta, tutte diverse, tuttavia, ebbero in comune il ricorso sistematico alla tortura e all’omicidio degli oppositori politici. Spesso ambasciatori, politici o dissidenti rifugiati all’estero furono assassinati anche oltre i confini dell’America Latina. Alcune tra le Nazioni coinvolte furono il Cile, l’Argentina, la Bolivia, il Brasile, il Perù, il Paraguay e l’Uruguay.

[5] Nel giugno del 1979, il commissario Giorgio Boris Giuliano trovò all’aeroporto di Palermo, una valigia, proveniente da New York, con 500mila dollari; due giorni dopo, all’aeroporto Kennedy, gli uomini della DEA sequestravano 10 chilogrammi di eroina, spedita da Palermo. Giuliano venne ucciso, il 21 luglio dello stesso anno.  
                                            
[6] Cesare Terranova, giudice istruttore al processo di Catanzaro, deputato eletto nel PCI, membro della Commissione Antimafia per due legislature, venne assassintato in un agguato sotto casa.

[7] Nel gennaio del 1978, Gaetano Costa venne nominato procuratore capo di Palermo, ma la reazione del “Palazzo” fu, in larga misura, negativa, tanto da ritardare la sua presa di possesso fino al luglio di quell’anno. Insediandosi, consapevole delle resistenze che avrebbe dovuto affrontare, fece la seguente dichiarazione:
“Vengo, disse, in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite.”
Il 2 agosto, il procuratore Gaetano Costa firmò, personalmente, 55 ordini di cattura contro il clan Spatola-Inzerillo-Gambino, che i suoi sostituti non avevano voluto avallare. Quattro giorni dopo, Costa venne ucciso.

[8] Il 30 aprile 1982, due sicari uccisero Pio La Torre, il segretario regionale del PCI, deputato e membro della Commissione Antimafia, nonché protagonista di due grandi battaglie, l’una contro l’installazione della base missilistica a Comiso, l’altra per la introduzione di una misura di legge contro l’arricchimento illecito dei mafiosi e dei loro fiancheggiatori. Tale proposta venne recepita dal Parlamento solo dopo la sua morte.

[9] Era mio padre, intervista a Marene Ciaccio Montalto [http://www.narcomafie.it/2013/04/16/era-mio-padre-intervista-a-marene-ciaccio-montalto/].

[10] Il 29 luglio 1983, Rocco Chinnici venne ucciso da una autobomba davanti alla propria abitazione.  Nell’esplosione persero la vita il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Il magistrato, che aveva unificato le inchieste sui delitti politici e aveva costituito un pool con i migliori giudici del suo ufficio, fu eliminato per aver individuato il ruolo dei cugini Ignazio e Antonino Salvo, in seno a Cosa Nostra.
In una delle sue ultime interviste disse:
“La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.”
Il 21 novembre, Antonino Caponnetto assunse l’incarico di consigliere istruttore.

[11] Intervista di Enzo Biagi a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.

[12] Intervista di Enzo Biagi a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.

[13] Intervista di Enzo Biagi a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.

[14] Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, dal 1979, è stato fondato da Indro Montanelli, che lo diresse fino al 1994.
[15] A proposito di terzo livello, I Siciliani, Ottobre 1984.

[16] Nel gennaio del 1985, il giudice istruttore Carlo Palermo, che aveva, appena, concluso, tra mille difficoltà, una inchiesta sul traffico di armi e droga tra mafiosi siciliani e trafficanti turchi, chiese il trasferimento dal Tribunale di Trento al Tribunale di Trapani. Giunto in Sicilia, Palermo iniziò le indagini sui cavalieri del lavoro Rendo e Costanzo. Il 2 aprile dello stesso anno, il magistrato è vittima di un attentato, in cui morirono una donna e i suoi due gemelli.   

[17] Claudio Fava, Michele Gambino, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Fatture false perché i cavalieri, I Siciliani, Maggio 1985

[18] L’assassinio di Giuseppe Fava segnò un tragico punto di svolta; il giornale sembrò dover chiudere, ma i redattori, Graziella Proto, Elena Brancati, Claudio Fava, Rosario Lanza, Lillo Venezia, decisero di continuare il lavoro di denuncia. Tuttavia, per anni, la rivista I Nuovi Siciliani si trovò isolata e privata di introiti pubblicitari, per la mancanza di sostegno di industriali e commercianti, fino al fallimento. Nel 2009, dopo venticinque anni, i vecchi redattori si trovarono a rischio di pignoramento delle proprie case per una sentenza di fallimento, prima ancora dell’appello, a favore di un creditore, l’ente regionale IRCAC, ormai disciolto da anni [http://archiviostorico.corriere.it/2009/giugno/30/pignoramento_colpisce_gli_onesti_co_9_090630055.shtml].

[19] Erano accusati di false fatturazioni, finalizzate all’evasione fiscale; successivamente, fu formulata l’accusa di associazione a delinquere, “ma la prima sezione penale della Corte di Cassazione [presidente Corrado Carnevale] annullerà i mandati di cattura. Quattro anni dopo, al processo, saranno tutti assolti dall’accusa di associazione a delinquere; dalla condanna per la colossale evasione fiscale li salverà, invece, un provvidenziale “condono” del ministro delle finanze Rino Formica [PSI]” Dalla cronologia a cura di Sebastiano Gulisano su www.claudiofava.it/memoria.

[20] “Ma i fenomeni più patologici - spiega in un documento la segreteria della CGIL-bancari - sono quelli delle industrie-banche: istituti di credito che prosperano con incredibile rapidità, pochi anni dopo essere stati creati, in una regione apparentemente povera.” Ne costituisce un esempio la Banca Popolare S. Angelo di Licata, una cooperativa a r.l. che in poco tempo ha saputo moltiplicare sportelli [oggi è presente con venti agenzie in quattro province siciliane e ha uno sportello perfino a Lampedusa] e depositi: 260 miliardi di mezzi amministrati nel 1982 con un incremento del 31,36% rispetto all’anno precedente, 47 miliardi di depositi in c/c, 250 dipendenti. L’esempio più calzante di quest’industria-banca siciliana resta comunque la Banca Agricola Etnea, l’istituto di credito catanese che appartiene al cavaliere del lavoro Gaetano Graci, uno dei quattro cavalieri - gli altri sono Mario Rendo, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro - imputati di associazione a delinquere nell’inchiesta sulle fatture false. “La crescita della Banca Agricola Etnea - e ancora la CGIL-bancari - ha veramente caratteristiche eccezionali. Da un unico sportello aperto nel 1970 a Raddusa, un paesino in provincia di Catania, la banca è arrivata oggi a raccogliere più di duecento miliardi l’anno di depositi.” 218 miliardi e 770 milioni, per l’esattezza, nel 1982 con un incremento, rispetto al 1978, del 291%. Oggi la BAE dispone di 18 sportelli sparsi fra le province di Catania, Messina ed Enna, ha quattro agenzie stagionali a Panarea, Stromboli, Vulcano e Salina ed è al terzo posto nella graduatoria degli istituti di credito siciliani alle spalle della Banca Sicula di Trapani [che appartiene alla famiglia D’Alì] ed alla Banca del Sud di Messina. Nel dossier “mafia-banche” cui da diversi anni sta lavorando Giovanni Falcone, un ampio capitolo è dedicato proprio alla BAE”.
Claudio Fava, Michele Gambino, Mafia e Banche, I Siciliani, Aprile 1984

[21] Dell’omicidio di Gian Giacomo Ciaccio Montalto venne sospettato il boss trapanese Salvatore Minore, che era, già, ricercato per omicidio e associazione mafiosa, in seguito alle inchieste di Ciaccio Montalto. Solo nel 1998, si accertò che Minore era stato ucciso, nel 1992, dai corleonesi e il suo cadavere fatto sparire. Nonostante ciò, nel 1989, Minore fu condannato in primo grado all’ergastolo, in contumacia, per l’omicidio di Ciaccio Montalto, insieme ai mafiosi siculo-americani Ambrogio Farina e Natale Evola, ritenuti gli esecutori materiali del delitto. Nel 1992, i tre imputati vennero assolti dalla Corte d’Appello di Caltanissetta e la sentenza di assoluzione venne confermata, nel 1994, dalla Cassazione. Nel 1995, le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, Rosario Spatola, Giacoma Filippello, Vincenzo Calcara e Matteo Litrico, portarono alla identificazione dei veri responsabili dell’omicidio: Totò Riina, Mariano Agate, Mariano Asaro, ritenuto l’esecutore materiale, e l’avvocato massone Antonio Messina, che avevano ordinato il delitto, perché il trasferimento, ormai, deciso del magistrato alla Procura di Firenze avrebbe minacciato gli interessi mafiosi in Toscana. Nel 1998, Riina e Agate vennero condannati all’ergastolo in primo grado, mentre l’avvocato Antonio Messina e Mariano Asaro vennero assolti; la sentenza venne anche confermata nei successivi due gradi di giudizio.

[22] Il 22 agosto 1997, Giuseppe Peri, vicequestore a Trapani, inviò un rapporto alle procure di Trapani, Palermo, Agrigento, Taranto, Milano, Torino e Marsala. Peri aveva dedicato tanto tempo a indagare su una serie di rapimenti e omicidi in territorio siciliano che lo avevano condotto al disastro aereo di Montagna Longa. 
“È esistita ed esiste una potente organizzazione dedita alla consumazione dei sequestri di persona, con richiesta di prezzi di riscatto di diversi miliardi per fini eversivi i cui promotori, mandanti dei sequestri, vanno ricercati negli ambienti politici delle trame nere ed in ambienti insospettabili”, si leggeva nel rapporto. Questi ambienti insospettabili erano ambienti militari connessi a “una centrale eversiva di cui fanno parte individui al di sopra di ogni sospetto inseriti nell’apparato statale ai vari livelli”. 
In sintesi, Giuseppe Peri sosteneva che alcune organizzazioni dell’eversione nera compivano sequestri di autofinanziamento. Queste organizzazioni, nelle quali spiccava il nome di Pierluigi Concutelli, tra gli accusati da Peri, erano in contatto, insieme anche ad associazioni mafiose, con ambienti militari legati a Gladio e ai servizi segreti italiani, che, a loro volta, erano legati alla CIA. Lo scopo era, sempre, lo stesso: la strategia della tensione. Il sostituto procuratore Salvatore Cassata, ricevuto il rapporto, lo archiviò. Giuseppe Varchi, il capo di gabinetto della Questura di Trapani, dove Peri lavorava, fece trasferire il vice-questore.
Nel 1981, durante la perquisizione degli archivi di Licio Gelli, disposta da Gherardo Colombo, era emersa la lista degli iscritti alla P2. La tessera numero 2193 risultava intestata a Giuseppe Varchi e la tessera numero 2187 al sostituto procuratore di Marsala, Salvatore Cassata.     
   
[23] Giuseppe Montana li aveva messi, lucidamente, in conto i cinque proiettili, che lo avevano ucciso sul molo di Porticello. Proprio dopo l’uccisione di Chinnici, il giovane investigatore aveva dichiarato ai cronisti:
“A Palermo siamo poco più di una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killers ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà.” [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2005/07/28/20-anni-fa.html]

[24] Il 17 febbraio 1995, la terza sezione della Corte di Assise di Palermo condannava all’ergastolo, quali mandanti dell’omicidio di Antonino Cassarà, cinque componenti della Cupola mafiosa: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Bernardo Brusca e Francesco Madonia, quali mandanti del delitto.

[25] Roberto Antiochia non sarebbe dovuto essere là quel giorno, in quanto era il suo periodo di ferie. Ma, dopo l’uccisione di Giuseppe Montana, si era offerto di guardare le spalle al proprio superiore, in quel momento delicato. Aveva 23 anni e, pochi mesi dopo, avrebbe dovuto sposarsi.

[26] Natale Mondo aveva fatto parte della Squadra Mobile di Palermo, diretta dal vice-questore Antonino Cassarà, con il quale aveva partecipato a molte operazioni infiltrandosi anche all’interno delle cosche mafiose. Sfuggito all’attentato del 6 Agosto 1985, costato la vita a Cassarà e all’agente Roberto Antiochia, era stato accusato da un “pentito” di essere corrotto e al soldo della mafia. Per questo l’assistente capo era stato arrestato e incarcerato. Fu salvato dalla vedova del vice-questore Cassarà e da altri colleghi, che testimoniarono che Mondo si era infiltrato nelle cosche mafiose del quartiere Arenella, ove era nato e risiedeva, dietro ordine dello stesso Cassarà. Ciò, di fatto, lo espose alla vendetta della mafia, che lo uccise, il 14 gennaio 1988, proprio davanti al negozio di giocattoli della moglie, “Il Mondo dei Balocchi”.

[27] Giuseppe Montana e Antonino Cassarà avevano portato a termine la nota Operazione Pizza Connection. Prima di essere assassinato, Antonino Cassarà stava conducendo indagini su un imprenditore palermitano, Arturo Cassina e sui suoi conti in Svizzera, usati per il riciclaggio di denaro sporco.

[28] Paolo Borsellino, 1992

[30] Antonino Agostino ed Emanuele Piazza erano due poliziotti specializzati nella caccia ai latitanti. Entrambi furono uccisi, poco dopo l’attentato fallito dell’Addaura: Agostino nell’agosto del 1989, Piazza nel marzo del 1990. Su ambedue le morti non si è, mai, fatta chiarezza. Di Agostino, il pentito Giovanbattista Ferrante disse che fu ucciso “perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della Questura di Palermo” [http://archivio.antimafiaduemila.com/rassegna-stampa/46-marco-travaglio-/28107-la-diretta-con-passaparola.html?start=3]: circostanza confermata dal pentito Oreste Pagano. Dopo la sua morte, la Suadra Mobile di Palermo seguì per mesi una improbabile “pista passionale”.  Piazza, invece, fu ucciso dalla mafia, ma anche nel suo caso, le indagini presero tutt’altra strada: la Squadra Mobile di Palermo indirizzò, inizialmente, le ricerche su “una fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una donna”.

[31] Intervista di Enzo Biagi a Tommaso Buscetta, 24 luglio 1992.
[34] Antonino Caponnetto

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