“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

sabato 27 dicembre 2014

INFANTICIDIO I. INFANTICIDIO:DEFINIZIONE di Daniela Zini






BETTER WORLD
CHILDREN PROJECT
START WITH THE CHILDREN,
STAY WITH THE CHILDREN!
 The world is a dangerous place, not because of those who do evil, but because of those who look on and do nothing.”
Albert Einstein
  

a Giovanni Sarubbi, direttore de Il Dialogo, alla redazione tutta e a me
La problematica della messa a morte del proprio Figlio è universale. Così l’infanticidio appartiene ai miti e alla mitologia, ai racconti biblici e alla letteratura come lo dimostrano Saturno, Abramo e Pot-Bouille.
Facciamo sentire la nostra voce e immaginiamo un Mondo migliore per i Bambini.
Un Sogno che si sogna da soli è, forse, un Sogno, ma un Sogno che più persone sognano insieme è una Realtà.
Buon Anno!
D


Sapevate che, in Europa, 1 BAMBINO su 5 è vittima di violenza sessuale?
Sapevate che, nel 70-85% dei casi, l’autore della violenza sessuale è qualcuno che il BAMBINO conosce o di cui ha fiducia?
Sapevate che, nel 90% dei casi, la violenza sessuale non è denunciata alle autorità?
Sapevate, infine, che, il 29 novembre 2010, il Consiglio d’Europa, nel quadro del programma “COSTRUIRE UNA EUROPA PER E CON I BAMBINI”,  ha lanciato una vasta campagna di sensibilizzazione, per promuovere misure giuridiche, educative e di altro tipo, destinate a combattere ogni forma di violenza sessuale compiuta su un BAMBINO, simbolicamente, chiamata 1 su 5?
Questo BAMBINO è depositario di un terribile segreto.
Questo BAMBINO è smarrito.
Noi possiamo essere colei o colui che ascolterà e aiuterà questo BAMBINO. 
DONNE IN DIVENIRE sostiene che un mondo senza violenza è una necessità imperativa per l’avvenire della UMANITÀ. In quanto proiezione di questo avvenire, il BAMBINO ha diritto a una protezione particolare contro ogni forma di violenza, nella sua evoluzione. Per una società in preda alla miseria crescente e alla povertà antropologica, il BAMBINO è sempre più considerato una fonte di reddito, ciò ha per effetto di favorire e rafforzare la spirale della tratta dei BAMBINI a fini di sfruttamento sessuale.    
Daniela Zini
fondatrice e portavoce di DONNE IN DIVENIRE


GESU’ E I FANCIULLI
di Daniela Zini

I BAMBINI GIUDICANO I LORO GENITORI

PEDOFILIA
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA
I. CHE COSA SI INTENDE PER PEDOFILIA?
di Daniela Zini

PEDOFILIA
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA
II. PEDOFILIA E COMPLESSO DI EDIPO
di Daniela Zini

PEDOFILIA
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA
III. PEDOFILIA E TURISMO SESSUALE
di Daniela Zini

PEDOFILIA
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA
IV. LETTERA APERTA A UN BASTARDO PEDOCRIMINALE
di Daniela Zini

PEDOFILIA
L’INFANZIA NEGATA E VIOLATA
V. STUPRARE UN BAMBINO!
CHI FAREBBE UNA COSA SIMILE?
di Daniela Zini
 



Pour Toi
Daniela Zini

Au début j’étais amoureuse
De la splendeur de tes yeux,
De ton sourire,
De ta joie de vivre.

Maintenant j’aime aussi tes larmes
Ta peur de vivre
Et le désarroi
Dans tes yeux.

Mais contre la peur
Je t’aiderai,
Car ma joie de vivre
Est encore la splendeur des tes yeux.

 

Cari Ragazzi, 
mentre guardavo questo filmato [http://www.youtube.com/watch?v=zNUxq8rI6lM&feature=player_embedded] ho pensato a Voi Ragazzi, piccoli e grandi dei cinque continenti, Voi, che siete pieni di vita, che studiate, che giocate, che lavorate…
Voi siete gli animatori delle nostre case, delle nostre aule, nel mondo intero…
Sì, ho pensato, subito, a Voi, perché Voi siete sensibili e attenti al dolore e alle sofferenze di quei Ragazzi che, in questo stesso momento, sono, in strada, gli occhi impauriti, pieni di dolore, in cerca della loro famiglia, di un segno di vita e di un senso di tutto ciò che accade loro.
Io mi rivolgo a Voi perché Voi siete generosi, capaci di gesti coraggiosi.
La gatta ama i suoi piccoli. Ma non li distingue più, una volta che sono divenuti adulti. Invece, nel corso del suo cammino, l’uomo è, costantemente, obbligato a scegliere.
Può decidere di far mangiare, prima di lui, la persona che ama.
Mi piace ripetere questa frase:
“L’uomo è l’immagine di Dio.”
Alcuni ci scherzano su, rispondendo:
“Beh, allora Dio non è molto bello!”
Ma io paragono l’uomo a Dio come il sigillo che viene impresso nella cera. Non conosco il timbro, forse, non lo vedrò mai, ma se osservo, con attenzione, me stessa in profondità, scopro l’infinito. L’uomo è immagine di Dio in negativo, perché tutto ciò che grida in lui, tutto ciò che tende a superare la legge naturale, che è soggetta a istinti brutali, rappresenta una scelta.
Non esiste la generosità istintiva.
Se non esistesse nel cosmo quella piccola nullità che è l’uomo, dotato della libertà che gli permette o di raccogliere, da egoista, tutto ciò che trova, anche a scapito degli Altri, o di sforzarsi di aiutare il prossimo a condurre una vita migliore; se non vi fossero gli esseri umani, che non sono altro che polvere infinitesimale del cosmo, l’universo nella sua totalità sarebbe assurdo.
E questo che cosa significa?
Se la libertà non fosse in grado di sprigionarsi in qualche momento cruciale – quel momento che io chiamo attenzione – la vita sarebbe assurda…
 Io Vi domando di trasmettere questo messaggio alle Vostre famiglie, alle persone del Vostro quartiere, alla Vostra scuola, affinché la catena di solidarietà cresca nel mondo intero e divenga un segno di speranza e di amore concreto.
 Io sono sicura che il Vostro cuore Vi suggerirà le parole per fare delle Vostre case, delle Vostre scuole, luoghi di solidarietà.
Restiamo uniti con tutti i Ragazzi del mondo e tra noi: l’unione fa la forza!
Vi ringrazio di cuore.
Crediate in tutto il mio affetto.

Daniela  Zini
 

INFANTICIDIO


di
Daniela Zini

La rarità dell’infanticidio nella nostra epoca, allorché molto diffuso fino al XIX secolo, lo fa apparire, agli occhi dei contemporanei, un crimine sconcertante e inspiegabile.
La prima reazione è di sorpresa:
“Come una madre può uccidere il proprio figlio se non è folle?”
Ma la maggioranza delle madri infanticide non lo è.
Come scrive Michèle Benhaim, questo atto è talmente inaccettabile che si preferisce pensarlo folle…
Nel 1910, Sigmund Freud, nel suo saggio Su un tipo particolare di scelta oggettuale nell’uomo, che doveva essere il punto di partenza per le speculazioni di Otto Rank, ci offre una pista per comprendere questa difficoltà di elaborazione:
“La nascita è il primo di tutti i pericoli che la vita riserva, il prototipo di tutti i pericoli successivi che temiamo, e l’esperienza della nascita lascia dietro di sé il suo marchio su quella espressione emotiva che chiamiamo angoscia.”
Questo reportage nasce dal desiderio di trovare, forse, un senso a questo atto insensato, che, dal mito antico di Euripide ai nostri giorni, ha attraversato tutte le culture.
Nelle nostre società occidentali, che si ostinano a bandire la morte dalla realtà quotidiana, la morte di un bambino è incocepibile.
L’assassinio di un bambino da parte della propria madre è inimmaginabile.
Medea, archetipo del mostro, suscita orrore.
Questo crimine così particolare, in cui la madre “sceglie” di uccidere il proprio figlio solleva molteplici domande.
Noi ci interesseremo delle madri infanticide per far emergere il legame di filiazione inerente a questo atto.
Solo gli infanticidi saranno presi in considerazione in questo lavoro; le altre forme di minaccia alla vita o alla salute del bambino ne saranno esclusi: sindrome di Münchhausen per procura [MSP][1], sindrome del bambino picchiato, maltrattamenti…
È il passaggio all’atto criminale che ci interroga.
Alla domanda:
“Come una madre può essere indotta a uccidere il proprio bambino?”,
tenteremo di dare una risposta.
L’infanticidio sarà, innanzitutto, considerato nelle sue dimensioni socio-culturale, storica e giuridica.
Gli esempi di infanticidio sono innumerevoli nella mitologia e Medea è, forse, la donna infanticida più conosciuta, a volte descritta come una donna abbandonata e prostrata, a volte descri
tta come una donna vendicativa.
La dimensione simbolica sarà evocata grazie al sacrificio di Isacco.
Lo spaccato storico metterà in luce il posto preponderante dato al bambino nella nostra società occidentale, spiegando, in parte, l’evoluzione della Giustizia, che condanna, sempre più, le madri infanticide.
La questione della follia deve essere affrontata ed esporremo nei dettagli, dunque, l’infanticidio patologico.
Poi, basandoci su casi clinici, ci proveremo a far emergere le ipotesi psicopatologiche su questo passaggio all’atto criminale, in cui il legame di filiazione tiene un posto centrale.
Questo tentativo di comprensione ci porterà a scoprire prospettive di cura. 
 
 I. Infanticidio: definizione
 Francisco Goya [1746-1828] - Saturno che divora suo figlio [1819-1823]
Museo del Prado, Madrid

Etimologicamente, il termine infanticidio significa omicidio di un bambino [infans = colui che non parla e caedere = uccidere] e non specifica il legame di parentela tra l’omicida e la vittima. Rimane, tuttavia, molto usato per designare l’omicidio di un bambino da parte di un genitore.
Gli storici del diritto sono, ormai, concordi nel ritenere che, nel mondo greco-romano, prevalesse l’atteggiamento di considerare i figli una proprietà dei genitori, i quali potevano disporre anche della loro vita. Non è senza importanza che il termine infanticidium non si ritrovi nel latino classico e sia attestato solo a partire dal II secolo d.C.

“Non i cristiani meritano di essere accusati di infanticidio e di pasti nefandi, ma essi, i pagani. Altrettanto dicasi dell’incesto.”
Quinto Settimio Fiorente Tertulliano di Cartagine[2], Apologetico
In Italia, il percorso di elaborazione di tale reato, prima di approdare al testo definitivo del 1889, fu lungo e tortuoso.
Per il diritto, l’infanticidio non designava l’uccisione di un bambino in genere, o per la precisione, di colui che non sapeva parlare, ma di un neonato. Tanto bastava a differenziare l’infanticidio dal figlicidio e dall’aborto, oltre che dal comune omicidio.
È utile rammentare che, con l’unità d’Italia, si era resa necessaria l’uniformazione normativa penale. Il nostro Paese si presentava, infatti, con il dualismo normativo espresso dai codici sardo-piemontese[3] e toscano[4], che riassumevano ed esprimevano le diverse istanze e concezioni, che avevano attraversato la scienza e la legislazione italiana del XIX secolo.
In una prima fase, si estese il codice penale sardo-piemontese al Regno d’Italia, a eccezione del territorio dell’ex-Granducato di Toscana, ove rimase in vigore il codice penale del 1853.
Nel 1868, iniziarono i lavori, proseguiti per trenta anni e svolti da nove diverse commissioni, per la preparazione di un codice penale unitario. La discussione dell’epoca intorno alla stesura del testo del delitto di infanticidio fu molto accesa, soprattutto in relazione alla mitigazione della pena rispetto all’omicidio volontario.
Nel 1889, dopo una lunga serie di progetti preliminari [se ne contano nove] fu emanato il primo codice penale unitario, il codice Zanardelli[5], che rimase in vigore fino all’avvento del codice Rocco[6], nel 1930.
E, così, al termine di questa lunga gestazione, si delineò l’articolo 369:
Quando il delitto preveduto dall’articolo 364 [omicidio volontario, ndr] sia commesso sopra la persona di un infante non ancora inscritto nei registri dello stato civile e nei primi cinque giorni dalla nascita, per salvare l’onore proprio, della moglie, della sorella, della discendente o della figlia adottiva, la pena è della reclusione da tre a dodici anni.”,
rispetto alla reclusione da diciotto a ventuno anni per l’omicidio semplice e da ventidue a ventiquattro o finanche l’ergastolo nell’ipotesi in cui i due soggetti fossero legati da particolari vincoli di parentela o di sangue [articoli 364-366].
L’articolo non fa menzione del requisito dell’illegittimità della prole, che era, invece, considerato un elemento costitutivo del reato nella maggior parte dei codici preunitari e in alcuni progetti di revisione del codice penale.
Il codice penale del 1889 attenuava, di fatto, la colpa di infanticidio, considerandolo meno grave dell’omicidio, commesso “per salvare il proprio onore” o per “evitare sovrastanti sevizie”.
L’infanticida per eccellenza era, infatti, la madre, o meglio la madre cosiddetta illegittima.
Il codice Zanardelli rappresenta un significativo esempio di quella tendenza della società del XIX secolo a considerare le cause d’onore come il principale movente dell’infanticidio. In questo senso, il trattamento sanzionatorio privilegiato veniva giustificato dal fatto che un così grave delitto potesse essere commesso sotto l’impulso di un “nobile” motivo, quello di tutelare il proprio onore e quello della propria famiglia.
Con il codice Rocco, l’infanticidio per causa d’onore, che il codice Zanardelli disciplinava come ipotesi attenuata di omicidio, viene, espressamente, configurato come titolo speciale di reato. L’attenuante non era solo per le madri, ma per chiunque, per motivi di onore, uccidesse un neonato.
L’articolo 578 del codice penale del 1930 recitava:
“Chiunque cagiona la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, ovvero di un feto durante il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
Alla stessa pena soggiacciono coloro che concorrono nel fatto al solo scopo di favorire talune delle persone indicate nella disposizione precedente. In ogni caso, a coloro che concorrono nel fatto si applica la reclusione non inferiore a dieci anni.
Non si applicano le aggravanti stabilite nell’art. 61.”
La situazione viene modificata con l’articolo 1 della legge n. 442 del 5 agosto 1981 [http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1981-08-05;442], quando la causa d’onore viene abolita da tutti i reati che la contemplavano e si torna a identificare nella madre la principale agente dell’infanticidio, senza più attribuzioni di maternità illegittima, oltre alla considerazione del gesto in “condizioni di abbandono materiale e morale”.
Oggi, chiaramente, si vive nel rispetto della infanzia, tuttavia, la cultura del bambino, con molta difficoltà, riesce ad affermarsi. Giuridicamente parlando, qualcosa viene fatto attraverso le norme per tutelare l’infanzia e, ciò nonostante, viviamo, continuamente, episodi cruenti di violenza e di morte. Nel nostro codice penale gli articoli 575[7] e 578[8] sono solo un piccolo passo avanti, ma significativo rispetto al passato.
Dal 1880 al 1883, in Italia, furono registrati, in media, ogni anno, 30 casi di figlicidio. Dal 1906 al 1911, i casi di figlicidio salirono a 47, fino a giungere a 75, nel decennio dal 1950 al 1959. Dal 1978, con l’entrata in vigore della legge sulla interruzione volontaria di gravidanza, si riscontrò un rapidissimo calo.   
L’infanticidio si distingue dal libericidio che riguarda i bambini con almeno tre giorni di vita, termine coniato dal latino liberi = bambini di condizione libera[9] e da caedere.
Lo psichiatra americano Phillip J. Resnick, nel suo articolo princeps del 1969, introduce nuovi termini più precisi: il neonaticidio che corrisponde all’omicidio del neonato di meno di 24 ore, per lo più a opera delle madri, e il figlicidio che corrisponde all’omicidio del proprio figlio di più di 24 ore, dal latino filius = figlio e caedere. Si distingue il figlicidio precoce, che concerne i bambini tra le 24 ore di vita e un anno, e il figlicidio tardivo per i bambini di più di un anno.
Il figlicidio implica, ineluttabilmente, un legame di filiazione tra l’omicida e la vittima.
Il termine neonaticidio è stato ripreso tale e quale dallo psichiatra spagnolo Julian de Ajuriaguerra, nell’edizione del 1977 del suo Trattato di psichiatria del bambino.
Delle diversità esistono tra figlicidio e neonaticidio: il primo è un crimine dei due genitori e non un crimine esclusivamente materno, non concerne egualmente i due sessi e il maschio è, il più sovente, vittima [ratio tra 1,5 e 1,8, secondo gli studi]. Le turbe psichiatriche nei genitori sono più frequenti nel figlicidio, quando le turbe mentali nella madre non sarebbero che del 20% nel neonaticidio.
Questo reportage si atterrà al figlicidio, perché è il legame di filiazione in questi crimini che ci interroga e, più particolarmente, alle madri figlicide.
Nonostante tutte le definizioni più precise summenzionate, il termine infanticidio resta il più usato e il più inquietante.
Utilizzeremo, pertanto, il termine infanticidio nel suo senso letterario “omicidio di un bambino”, come termine di filiazione e non nel senso ritenuto dalla Giustizia.     


Daniela Zini
Copyright © 27 dicembre 2014 ADZ



[1] La sindrome di Münchhausen per procura [MSP], conosciuta anche come sindrome di Polle [Polle era il figlio del barone di Münchhausen, morto infante, in circostanze misteriose] è un disturbo mentale che affligge genitori e tutori e li spinge ad arrecare un danno fisico al[la] figlio[a] [o ad altra persona incapace, a esempio un familiare disabile] per farlo[a] credere malato[a] e attirare l’attenzione su di sé. Il genitore e il tutore viene, così, a godere della stima e dell’affetto delle altre persone, perché, apparentemente, si preoccupa della salute del[la] proprio[a] figlio[a]. 

[2] I Romani attribuivano a una potenza occulta e soprannaturale i fatti che non potevano spiegare. È ciò che fecero per l’incendio a Roma: se ne attribuì la causa ai sortilegi dei cristiani. E, egualmente, dopo Nerone, per giustificare la severità esercitata contro di loro. Si consideravano naturae totius inimici. Si adduceva a pretesto, ad odii defensionem, secondo Tertulliano, che i cristiani fossero la causa di tutte le calamità pubbliche: se il Tevere straripava, se il Nilo inondava le campagne, se la terra tremava, se la carestia o la peste devastavano una provincia, si gridava subito: i cristiani ai leoni. Non deve, dunque, stupirci se Tacito chiamasse la nuova religione exitiabilis superstitio. Tertulliano affermava, altresì, che si credesse che i cristiani praticassero il “rito dell’infanticidio”: ogni nuovo adepto doveva condurre ai misteri cristiani un bambino da sacrificare durante la cerimonia, le cui carni erano, in seguito, consumate.
Gli Sciti e alcuni Popoli del Ponto e dell’India suscitavano l’indignazione dei Greci per la loro consumazione di carne umana. Attribuire, dunque, l’antropofagia ai cristiani respingeva la loro fede fuori del quadro di civiltà in cui il cristianesimo si sviluppava. 

[3] Il codice penale sardo-piemontese del 1859 non era molto indulgente. Infatti, all’articolo 571 definiva l’infanticidio:
“L’omicidio volontario di un infante di recente nato è qualificato infanticidio.”,
riprendendo la definizione di nouveau né del codice penale francese del 1801. E stabiliva all’articolo 577 che “i colpevoli dei crimini […] di infanticidio […] sono puniti colla morte”, ma con la specificazione [articolo 579] secondo cui “la pena dell’infanticidio potrà essere diminuita di uno o di due gradi riguardo alla madre che lo abbia commesso sulla prole illegittima, quando concorrano circostanze attenuanti”. In altri termini, l’infanticidio era un omicidio qualificato punito al pari del parricidio, del venefizio e dell’assassinio. La pena poteva essere diminuita fino a dieci anni di lavori forzati nei confronti della madre che avesse soppresso la prole illegittima. Non vi è, dunque, una menzione specifica della causa d’onore che, con ogni probabilità, era presunta in ogni caso di concepimento illegittimo, senza tuttavia imporre automatismi applicativi [si noti l’utilizzo dell’espressione “potrà essere diminuita”], potendo darsi il caso di uccisione di infante legittimamente concepito, non dettata dalla necessità di salvare il proprio onore.
Nel 1861, in conseguenza della proclamazione dell’unità d’Italia, il codice sardo fu esteso a tutto il Regno, a eccezione del territorio dell’ex-Granducato di Toscana. Nell’applicarlo ai territori napoletani e siciliani si ritenne di apportare alcune modifiche agli articoli 525 e 532 per renderli più conformi alle tradizioni legislative di quei territori. L’articolo 525, come modificato dal decreto luogotenenziale del 17 febbraio 1861, definiva l’infanticidio come l’uccisione di un fanciullo di recente nato e non ancora battezzato o iscritto sui registri dello stato civile. L’articolo 532 nella sua nuova formulazione rendeva obbligatoria la diminuzione della pena per la madre, richiedendo come requisito non solo la illegittimità della prole, ma anche che la uccisione fosse avvenuta per salvare il proprio onore.

[4] Il codice toscano del 1853 era, certamente, all’avanguardia nella codificazione dell’epoca. Per quanto riguarda l’infanticidio, l’articolo 316 ne dava definizione nei seguenti termini:
“Quella donna che nel tempo del parto o poco dopo di esso ha dolosamente cagionato la morte della sua prole illegittimamente concepita, è rea d’infanticidio”.
Era prevista una graduazione dettagliata che comprendeva la forma colposa [articolo 320, con previsione di una pena ridotta, da due mesi a un anno] oltre a quella dolosa. Rispetto a quest’ultima [si osservi che la causa d’onore non era prevista tra i requisiti del delitto], la graduazione della pena era in funzione del momento in cui la donna avesse preso la decisione di uccidere il neonato, vale a dire se prima o dopo l’inizio del travaglio di parto [articolo 317: la pena maggiore da 10 a 15 anni di “casa di forza” se prima, altrimenti da 5 a 10 anni]. L’articolo 318 prevedeva una riduzione di pena nel caso in cui l’infanticidio fosse “… stato commesso per evitare sovrastanti sevizie …”, riprendendo la graduazione dell’articolo 317 in riferimento al momento di inizio del travaglio di parto [rispettivamente, 5-10 anni e 3-7 anni]. Evidentemente, tale previsione includeva anche le conseguenze sociali di una gravidanza illegittima. Infine, l’articolo 319 prevedeva una ulteriore diminuzione della pena per il caso della prole nata non vitale [nel caso dell’infanticidio doloso, reclusione da 6 mesi a 2 anni].
 
[5] Il codice penale italiano del 1889, comunemente detto codice Zanardelli dal nome di Giuseppe Zanardelli, l’allora ministro di grazia e giustizia, che ne promosse l’approvazione, entrò in vigore il 1º gennaio 1890, seppur approvato, con l’unanimità delle due Camere, già dal 30 giugno 1889.
Questo codice aboliva la pena di morte, che era ancora in vigore nei principali Stati europei e consentiva una limitata libertà di sciopero. Inoltre introduceva la libertà condizionale, il principio rieducativo della pena e aumentava la discrezionalità del giudice, al fine di adeguare la pena alla effettiva colpevolezza del reo.
Nella Relazione al Re Giuseppe Zanardelli si diceva convinto che “le leggi devono essere scritte in modo che anche gli uomini di scarsa cultura possano intenderne il significato; e ciò deve dirsi specialmente di un codice penale, il quale concerne un grandissimo numero di cittadini anche nelle classi popolari, ai quali deve essere dato modo di sapere, senza bisogno d’interpreti, ciò che dal codice è vietato”.
Zanardelli riteneva che la legge penale non dovesse, mai, dimenticare i diritti dell’uomo e del cittadino e che non dovesse guardare al delinquente come a un essere necessariamente irrecuperabile: non occorreva solo intimidire e reprimere, ma anche correggere ed educare.

[6] Il codice penale, noto come codice Rocco dal nome del suo principale estensore, il ministro di grazia e giustizia del governo Mussolini, Alfredo Rocco, è una delle fonti del diritto penale italiano vigente, unitamente alla Costituzione e alle Leggi Speciali.

[7] “Articolo 575. Omicidio. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.”

[8] “Articolo 578. La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro a dodici anni.
A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi.
Non si applicano le aggravanti stabilite dall’articolo 61 del codice penale.”

[9] Nell’antica Roma, quando un bambino nasceva, veniva deposto ai piedi del padre che poteva accettarlo o rifiutarlo. I figli deformi, solitamente, venivano uccisi, perché erano un peso per la famiglia e per la res publica. Il diritto romano contemplava, infatti, che il pater familias avesse decisioni di vita o di morte sui familiari. Il console Lucio Giunio Bruto fece bastonare e, poi, decapitare i suoi due figli, perché avevano aiutato Tarquinio il Superbo a entrare in Roma, cospirando contro il regime repubblicano.