URANIO
IMPOVERITO
o
la
guerra atomica camuffata
Inchiesta sull’Uranio
Impoverito, Depleted Uranium, in
sigla DU, utilizzato nell’industria
bellica, la cui pericolosità per la salute è minimizzata dalle lobbies militari-industriali.
“The world is a
dangerous place to live; not because of the people who are evil, but because of
the people who don’t do anything about it.”
Albert Einstein
Mi chiederai tu, morto disadorno,
d’abbandonare questa disperata
passione di essere nel mondo?
Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci
Pier Paolo Pasolini davanti alla tomba di
Antonio Gramsci nel Cimitero Acattolico di Roma.
“Amo la vita così
ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati
fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza: è un vizio molto più
tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n’è un’abbondanza
sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro, divoro...
Come andrà a finire,
non lo so.”
Pier Paolo Pasolini,
Ritratti su misura
Il 12 dicembre 1969, a Milano, è
giorno di mercato e in Piazza Fontana, dove si svolge, tradizionalmente, la
contrattazione delle merci agricole e la Banca Nazionale dell’Agricoltura è
aperta, anche, il pomeriggio, e, particolarmente, frequentata, alle ore 16:37, esplode,
nel grande salone del tetto a cupola, un ordigno contenente 7 chilogrammi di
tritolo.
Una seconda bomba è rinvenuta
inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della
Scala.
La borsa viene recuperata, ma
l’ordigno, che avrebbe potuto fornire preziosi elementi per l’indagine, viene
fatto brillare dagli artificieri, la sera stessa.
“L’ultima serie di attentati comprendeva i cinque di Milano e di
Roma del 12 dicembre 1969. Oltre a quello a Piazza Fontana, infatti, alle 16:25
fu trovata dal commesso Rodolfo Borroni dentro la Banca Commerciale Italiana di
Piazza della Scala una borsa in similpelle marca Mosbach-Gruber con all’interno
una cassetta metallica. La borsa, di colore nero, recava la scritta “Made in
Germany”, e c’era un gallo impresso sulla piastrina inferiore della chiusura.
Conteneva anch’essa una bomba ad altissimo potenziale, caricata a tempo con un
congegno elettronico a transistor. Era stata trovata dentro un ascensore della
banca che andava dal piano terra a quello sottostante, dove c’erano le cassette
di sicurezza. L’aveva notata il commesso poco prima di chiudere. L’uomo, ignaro
del contenuto, l’aveva portata in direzione e consegnata al direttore,
dicendogli: “Qualche cliente l’ha dimenticata nel sottoscala.” Questi l’aveva
messa da parte, tranquillo; ma, non appena aveva saputo della bomba esplosa
pochi minuti dopo in Piazza Fontana, aveva richiesto l’intervento della polizia
e disposto l’immediato allontanamento di tutti gli impiegati e dei clienti. La Questura
di via Fatebenefratelli aveva mandato alla Commerciale il capo della
scientifica per il sopralluogo e la raccolta dei reperti. Il dottor Antonino
Mento constatò che la cassetta metallica conteneva circa otto chilogrammi di
esplosivo. Se fosse deflagrato, avrebbe fatto saltare in aria l’intero edificio
e i morti sarebbero stati non decine, ma centinaia, in quel 12 dicembre 1969.”
Ferdinando Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite
Una terza bomba esplode, a Roma,
alle 16:55, nel passaggio sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto della
Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio.
Altre due bombe esplodono, a
Roma, tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra
all’ingresso del Museo Centrale del Risorgimento, in piazza Venezia.
“Il 12 dicembre a Roma e a Milano sono collocati cinque ordigni,
tra cui quello micidiale di piazza Fontana. Secondo la ricostruzione del
giudice Salvini, a Milano entrano in azione i veneti di Ordine Nuovo, nella
capitale i romani di Avanguardia Nazionale, guidati da Stefano Delle Chiaie, er
Caccola, il gruppo milanese La Fenice di Giancarlo Rognoni offre il supporto
logistico: mette a disposizione una base nei pressi di Piazza Fontana, dove
viene avviato il timer della bomba, e prepara un’azione di copertura, con un
sosia di Valpreda, forse il fascista Nino Sottosanti, che fa un giro in taxi,
per poter incastrare il colpevole designato. Forse Rognoni in persona si occupa
del secondo attentato, quello alla Banca Commerciale Italiana di piazza Scala,
dove la bomba non scoppia.
La preparazione degli attentati, secondo l’indagine di Salvini
era avvenuta nell’estate 1969. Un gruppo di ordinovisti veneti si ritrova in un
casolare di Paese, nei pressi di Treviso. Ci sono Zorzi, Ventura, Marco Pozzan.
E Carlo Digilio, zio Otto. Il gruppo prepara l’esplosivo per gli attentati. È
stato proprio zio Otto a procurare la gelignite, mediando l’acquisto per conto
di Zorzi. Digilio cerca di darsi da fare anche per insegnare ai camerati l’utilizzo
di timer e candelotti.
Ma più di vent’anni dopo, colpo di scena, Salvini scopre che l’indignatissimo
zio Otto aveva anche un nome in codice: Erodoto. E un’identità segreta: “Digilio
Carlo iniziò la sua attività nel 1967, quando subentrò a suo padre Michelangelo
nel ruolo di fiduciario CIA del Veneto. Il nome in codice Erodoto, che fu del
padre, venne da lui ripreso alla morte di questi.” Così scrive il capitano
Massimo Giraudo nel rapporto del maggio 1996 realizzato dal ROS [Raggruppamento
Operativo Speciale] dei carabinieri.”
Gianni Barbacetto, Il Grande Vecchio
La Strage di Piazza Fontana
segna, profondamente, l’Italia.
“Ho pensato che cominciava davvero un periodo cupo, un periodo
atroce.”,
ricorda Corrado Stajano.
“Per la prima volta gli italiani avevano l’impressione di essere
stati ingannati, traditi dal loro Stato.”,
scrive Giorgio Bocca.
Nesun italiano aveva fino ad
allora neppure immaginato la possibilità di assistere a un delitto così
efferato; inoltre, come fu ben presto chiaro, erano coinvolti uomini dei
servizi segreti.
Iniziava, così, in Italia,
quella che venne definita STRATEGIA DELLA TENSIONE
che, tra il 1968 e il 1974, fomentò 140 attentati dinamitardi.
Proprio in quegli anni, riprese
corpo l’azione dell’estrema destra, e nacquero organizzazioni come i Nuclei Armati Rivoluzionari [NAR],
Terza Posizione [TP]
e Costruiamo l’Azione [CLA].
Nel 1978, si consuma l’attacco
al cuore dello Stato con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro.
“La c.d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se
fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari
della “normalità” dopo le vicende del ‘68 ed il cosiddetto autunno caldo. Si
può presumere che Paesi associati a vario titolo alla nostra politica e quindi
interessati a un certo indirizzo vi fossero in qualche modo impegnati
attraverso i loro servizi d’informazioni. Su significative presenze della
Grecia e della Spagna fascista non può esservi dubbio e lo stesso servizio
italiano per avvenimenti venuti poi largamente in luce e per altri precedenti [presenza
accertata in casa SID di molteplici deputati missini, inchiesta di Padova,
persecuzioni contro la consorte dell’[ambasciatore] Ducci, falsamente accusata
di essere spia polacca] può essere considerato uno di quegli apparati italiani
sui quali grava maggiormente il sospetto di complicità, del resto accennato in
una sentenza incidentale del Processo di Catanzaro ed in via di accertamento,
finalmente serio, a Catanzaro stessa ed a Milano.
Fautori ne erano in generale coloro che nella nostra storia si
trovano periodicamente, e cioè ad ogni buona occasione che si presenti, dalla
parte di [chi] respinge le novità scomode e vorrebbe tornare all’antico. Tra
essi erano anche elettori e simpatizzanti della D.C., che, del resto, non erano
nemmeno riusciti a pagare il prezzo non eccessivo della nazionalizzazione
elettrica, senza far registrare alla D.C. una rilevante perdita di voti. E così
ora, non soli, ma certo con altri, lamentavano l’insostenibilità economica dell’autunno
caldo, la necessità di arretrare nella via delle riforme e magari di dare un
giro di vite anche sul terreno politico.
Debbo dire che in quell’epoca ero ministro degli esteri e quasi
continuamente fuori d’Italia, come si potrebbe documentare dal calendario degli
impegni internazionali. Fui colto proprio a Parigi, al Consiglio d’Europa, dall’orribile
notizia di Piazza Fontana. Le notizie che ancora a Parigi, e dopo, mi furono
date dal segr. gen. pres. rep. Picella, di fonte Vicari, erano per la pista
Rossa, cosa cui non ho creduto nemmeno per un minuto. La pista era vistosamente
nera, come si è poi rapidamente riconosciuto. Fino a questo momento non è stato
compiutamente definito a Catanzaro il ruolo [preminente] del SID e quello [pure
esistente] delle Forze di Polizia. Ma che questa implicazione ci sia non c’è
dubbio. Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla
D.C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia
sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e
tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto. Risulta invece,
mi pare soprattutto dopo la Strage di Brescia, un atteggiamento di folla
fortemente critico e ostile proprio nei confronti di esponenti e personalità di
questo orientamento politico, anche se non di essi soli.
Dislocato, come può essere asserito e dimostrato,
prevalentemente all’estero, non ebbi occasione né di partecipare a riunioni né
di fare distesi colloqui. Ricordo una viva raccomandazione fatta al ministro
dell’interno on. Rumor [egli stesso fatto oggetto di attentato] di lavorare per
la pista nera. Ricordo un episodio che mi colpì, anche se mi lasciò piuttosto
incredulo. Uscendo dalla Camera tempo dopo i fatti di Piazza Fontana, l’amico
on. Salvi, antifascista militante e uomo di grande rettitudine [cugino di una
persona morta e di altre ferite nella strage, di nome Trebeschi, già
appartenente a mondo cattolico] mi comunicò che in ambienti giudiziari di
Brescia si parlava di connivenze ed indulgenze deprecabili della D.C. e
accennava all’on. Fanfani come promotore, sia pure da lontano, della Strategia
della Tensione. Io ebbi francamente una reazione d’incredulità e il Salvi
stesso aggiunse che la voce non era stata comprovata né aveva avuto seguito.
Per quanto riguarda l’on. Rumor, che [era] sia presidente del consiglio
sia ministro dell’interno all’epoca e fatto oggetto di attacco del Bertoli, si
può fare riferimento al processo di Catanzaro, dove il guardasigilli Zagari ha
asserito di avere portato in udienza la richiesta del magistrato circa
Giannettini e di averne investito il presidente del consiglio. Quest’ultimo
dichiara di non ricordare, ma di non voler mettere in dubbio la parola del collega.
Anche alla luce delle dichiarazioni dei rispettivi capi di gabinetto si può
ritenere che il documento sia stato presentato e letto o ricostruito. Risulta
poi che esso non fu lasciato alla Presidenza né fatto oggetto di nota formale.
Potrebbe quindi parlarsi di una di quelle deprecabili forme di trascuranza che
pesano sul partito della D.C.
Sta poi a sé il caso Giannettini, riferibile all’on. Andreotti,
il quale di tale rivelazione fece materia d’intervista di stampa, appena
rientrato alla Difesa dopo la guida del Governo con i liberali. Il fatto in sé
è ineccepibile. Restano non pochi interrogativi, tenuto conto della stranezza
della forma adoperata e cioè la stampa e non una dichiarazione amministrativa o
parlamentare. Fu forse solo esibizionismo dopo il ritiro dall’esperienza con i
liberali? Fu fatto su richiesta di Mancini? E perché? Per riannodare tra i due
Partiti? C’era un qualche rapporto tra l’imputato Maletti [amico dell’on.
Mancini] e il Giannettini? Le valutazioni e interpretazioni sono molteplici.
Dell’on. Andreotti si può dire che diresse più a lungo di chiunque altro i
servizi segreti, sia dalla Difesa, sia, poi, dalla Presidenza del Consiglio con
i liberali. Si muoveva molto agevolmente nei rapporti con i colleghi della CIA [oltre
che sul terreno diplomatico], tanto che poté essere informato di rapporti
confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani.
È doveroso alla fine rilevare che quello della Strategia della Tensione
fu un periodo di autentica ed alta pericolosità, con il rischio di una
deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente
non permise. Ed invece, come abbiamo detto, se vi furono settori del partito
immuni da ogni accusa [es. on. Salvi] vi furono però settori, ambienti, organi
che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza
e fermezza. È quella commistione, di cui dianzi dicevo, della D.C., per la
quale, perseguendo una politica di egemonia politica, non è talvolta abbastanza
attenta a selezionare e rischiare d’inquinare con pericolose intrusioni quelle
masse popolari, d’ispirazione cattolica, le quali debbono essere preservate da
inquinamenti totalitari ed essere strumento efficace di democrazia. Questa
considerazione è di particolare attualità e valore, per mettere fuori
discussione l’antifascismo della D.C. in qualsiasi contingenza politica.”
Aldo Moro, Memoriale
La Strage di Bologna
segna, in un certo senso, la fine degli Anni Settanta.
La
formula di questa strategia era estremamente semplice ed efficace:
DESTABILIZZARE IL PAESE PER STABILIZZARE IL POTERE.
Il movente principale della Strategia
della Tensione sarebbe stato quello di destabilizzare la situazione politica
italiana. In tale ottica, tali attentati terroristici avevano lo scopo di
seminare il terrore tra la popolazione, in modo da legittimare l’instaurazione
di un governo di tipo autoritario o addirittura colpi di Stato da parte di
forze politiche, o comunque organizzate, generalmente gravitanti nell’area dell’estrema
destra. Tale strategia golpistica trae origine ideologica, dalla metà degli Anni
Sessanta, in particolare, dal cosiddetto Piano
Solo [il fallito colpo di Stato del 1964]
e dal Convegno dell’Hotel Parco dei
Principi,
organizzato dall’Istituto di Studi Militari
Alberto Pollio, nel maggio del 1965, avente come tema la “guerra
rivoluzionaria” anticomunista, cui intervennero personalità del mondo
imprenditoriale, alti ufficiali dell’esercito, giornalisti, politici ed
esponenti neofascisti, quali Pino Rauti, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino.
Il
14 novembre 1974, Pier Paolo Pasolini pubblica sul Corriere della Sera Che cos’è
questo golpe? Io so. In tale articolo, Pasolini afferma di conoscere i nomi
degli esecutori materiali delle stragi e di quello che lui definisce golpe e
accusa giornalisti, politici e intellettuali, di sapere, di avere, anche, le
prove, ma di tacere per servilismo nei confronti del Potere.
“Probabilmente i giornalisti e i
politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è
questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente
degli indizi, non fanno i nomi. A chi dunque compete fare questi nomi?”
La
domanda è chiara:
“A chi dunque compete fare questi
nomi?”
Pasolini
risponde che solo chi “non è compromesso
nella carica del Potere” e che, per definizione, non ha niente da
perdere, un intellettuale, può, anzi, deve, assumersi questa responsabilità nei
confronti del Popolo.
Ed
è da questo momento, dal momento in cui si fa carico di questa responsabilità,
che Pier Paolo Pasolini inizia un vero e proprio ATTACCO
AL POTERE, sul campo aperto.
“I have no special talent.
I am only passionately curious.”
Albert Einstein
“[…]
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro
ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai
malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come
killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti [attentati alle
istituzioni e stragi] di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di
seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di
immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche
lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero
coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà,
la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio
mestiere.
[…]”
È un proclama che poteva fare
paura a chi avesse ordito le Stragi degli anni 1970.
Pasolini
poteva costituire una minaccia.
Occorre ricordare che, nel 1974,
viene messa in liquidazione la Banca Privata Italiana, nata dalla fusione di
Banca Unione e Banca Privata Finanziaria; inizia la crisi dell’impero Sindona
e, nel contempo, il ruolo di finanziatore dell’eversione si sposta da Michele
Sindona a Licio Gelli. In quello stesso periodo, il Banco Ambrosiano
ristruttura il proprio apparato estero: una barriera protettiva grazie alla
presenza dello IOR, l’istituto
bancario vaticano difficilmente penetrabile da controlli delle autorità
monetarie e finanziarie, anche nel punto chiave di uscita del danaro.
In particolare, nel 1974, fu
fondata la United Trade Company [UTC].
Ma quello che interessa
sottolineare è che, come è scritto nell’ordinanza di rinvio a giudizio per il
crack del Banco Ambrosiano, nel 1975, la UTC
inizia a erogare, in modo assolutamente ingiustificato, ingenti somme a fondo
perduto su conti presso banche svizzere e sudamericane, appartenenti o comunque
riferibili a Licio Gelli e Umberto Ortolani.
Il
4 ottobre 1974, il giudice istruttore di Milano, Ovilio Urbisci, emette contro Sindona un primo mandato di
cattura per i reati di false comunicazioni sociali e illegale ripartizione
degli utili e, dopo che, con sentenza
del 14 ottobre 1974, il Tribunale Civile di Milano dichiara lo stato di
insolvenza della Banca Privata Italiana nei confronti di Sindona, viene
promossa l’azione penale anche per il reato di bancarotta fraudolenta, con
ordine di cattura, emesso il 24 ottobre 1974,
confermato dal giudice istruttore Urbisci, a seguito della formalizzazione del
procedimento, con mandato di cattura del 2 luglio 1975 [cfr. la sentenza n.
20/86 del 18 marzo 1986 della Corte di Assise di Milano, acquisita al fascicolo
per il dibattimento].
Le perdite superano i 200
miliardi. L’incarico di liquidatore della Banca Privata Italiana viene affidato
a Giorgio Ambrosoli,
che metterà a nudo le truffaldine operazioni di Sindona.
Il 1974 è un anno di sangue!
Pier Paolo Pasolini con Ferdinando Adornato e Walter Veltroni alla
manifestazione in
sostegno del movimento antifranchista davanti all’Ambasciata di Spagna, in Piazza
di Spagna, a Roma, il 24 settembre 1975.
“L’euforia per la vittoria del no al Referendum sul divorzio del
12 maggio 1974 non si era ancora spenta, quando il sinistro fragore delle bombe
assassine tornò a farsi sentire a Brescia, una delle città che aveva ospitato
la Repubblica Sociale Italiana e dove più accesa era stata la lotta della
Resistenza contro i fascisti. Alle 10:12 del 28 maggio 1974, un ordigno ad alto
potenziale esplose a Piazza della Loggia mentre si svolgeva una manifestazione
del Comitato antifascista per protestare contro le violenze di matrice nera. Il
bilancio di sangue ancora una volta fu terribile: otto morti e centotré feriti.
La bomba era stata posta in un cestino portarifiuti e fu fatta scoppiare con un
congegno elettronico a distanza. La piazza venne lavata con gli idranti
pochissimo tempo dopo l’esplosione, distruggendo e disperdendo così i frammenti
dell’ordigno e del congegno di innesco. L’attentato fu rivendicato dall’organizzazione
neofascista Ordine Nero che aveva preso il posto del disciolto Ordine Nuovo.
Il 31 maggio 1974 – ai funerali di alcune vittime [Alberto
Trebeschi (37 anni, insegnante di fisica, n.d.r.),
Clementina Calzari Trebeschi ( 31 anni, insegnante, n.d.r.), Giulietta Banzi Bazoli, (34 anni, insegnante di francese, n.d.r.), Livia Bottardi Milani (32 anni, insegnante di lettere alle medie, n.d.r.), Euplo Natali (69 anni, pensionato, ex
partigiano, n.d.r.), Bartolomeo
Talenti (56 anni, operaio, n.d.r.)] – il popolo bresciano, silente per tutto il tempo della mesta
cerimonia, all’improvviso si mise a urlare contro i rappresentanti del Governo
presenti, fischiandoli e accusandoli di complicità. Come abbiamo appena detto
nel capitolo precedente, oggetto dell’attacco fu il presidente del consiglio
Mariano Rumor, che quattordici giorni prima era stato a sua volta oggetto di un
grave attentato presso la questura di Milano a opera di Gianfranco Bertoli.”
Ferdinando Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite
Il 28 maggio 1974, è una mattina
di pioggia e alle 10:12 minuti, mentre in Piazza della Loggia sta parlando il
sindacalista della CISL Franco
Castrezzati, scoppia una bomba posta in un cestino per i rifiuti, sul lato est,
sotto i portici.
L’attentato provoca la morte di
8 persone e il ferimento di altre 102.
Qualche mese dopo la Strage di
Piazza della Loggia, il 4 agosto 1974, nel cuore della notte, mentre il treno espresso 1486, Italicus, proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera via
Brennero, esce dalla galleria della Direttissima, sulla tratta ferroviaria tra
Firenze e Bologna, esplode una bomba ad alto potenziale nel secondo
scompartimento della quinta carrozza.
Nell’attentato muoiono 12
persone e altre 48 rimangono ferite.
Il 5 agosto 1974, verrà rinvenuto,
a Bologna, in una cabina telefonica, un volantino di rivendicazione dell’attentato
a firma di Ordine Nero, che dichiara:
“Giancarlo Esposti è stato vendicato. Abbiamo voluto dimostrare
alla Nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi
ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno;
seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti.”
Lo scrittore Italo Calvino, in
un articolo intitolato La strage,
pubblicato sul Corriere della Sera,
il 6 ottobre 1974, esprime molto bene il clima di violenza dell’epoca:
“Almeno un risultato questi delle bombe l’hanno ottenuto,
insistendo nel loro monotono lavoro di collezionisti di stragi: di esaurire la
possibilità che la parola scritta e parlata ha di esprimere l’indignazione, l’esecrazione,
la ferma volontà di impedire il ripetersi.”
Il giorno dopo, il 2 novembre
1975, Giorno dei Morti, il corpo senza vita del poeta viene trovato all’Idroscalo
di Ostia.
Non si è Italiani se non si ha
una teoria personale del “complotto” di quel giorno!
Il
suo assassinio interrompe le sue indagini politiche, ma una parte di Petrolio è, già, stata scritta e
continua a parlare dopo la sua morte. Se si continuasse a studiarlo dal punto
di vista economico-politico, forse, potrebbe rivelare qualche segreto che i potenti
di allora volevano nascondere, o, forse, potrebbe portare a una pista
finora neppure ipotizzata e svelare quanto sia accaduto. Perché rivelare la verità a
tutti era il desiderio di Pier Paolo Pasolini, come scrive Gianni d’Elia:
“Il dono che ha fatto Pasolini agli
italiani, negli ultimi anni di vita, è stato ed è quello di un privilegio
contrario ed esattamente opposto al privilegio ricevuto per editto e
consuetudine dal Potere, politico giudiziario, della menzogna: il diritto, e soprattutto
il dovere, alla verità storica e politica del male che ha afflitto e affligge
la nostra Nazione.”
Pasolini sapeva i nomi dei
responsabili che si nascondevano dietro
la strategia della tensione, “di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le
disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali”, e lo afferma, in modo reiterato, di sapere,
ma afferma, anche:
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”
Così, il suo discorso differisce
da un discorso scientifico o storico: il suo sapere è puramente intuitivo,
letterario.
Il suo articolo diviene, allora,
una sorta di J’accuse! mancato. Riprende
la struttura anaforica del J’accuse!
di Emile Zola, con una differenza, tuttavia: Pasolini afferma di sapere, ma non
può dire, non può citare i nomi, perché non ha prove.
Zola, al contrario, “accusa”,
nominando colpevoli precisi, perché ha le prove. Reiterando l’affermazione “Io so.”, Pasolini conferisce allo scrittore
lo status di strumento cognitivo,
capace di scoprire una Verità, di
costituire un Sapere.
È, dunque, la sua condizione di
scrittore che gli permette di ritrovare il fil
rouge in seno agli episodi apparentemente privi di una logica propria.
È la sua condizione di scrittore
che gli permette di trovare un senso agli episodi misteriosi – a quel momento
non ancora chiariti – che caratterizzano la Storia italiana degli anni 1970.
26 gennaio [1976, n.d.r.]
Niente governo neppure oggi. Invece per rallegrare la scena è
scoppiato lo scandalo dei dollari della CIA ai nostri partiti. Il “New York
Times” e il “Washington Post” [i giornali dello scandalo Nixon] hanno
pubblicato larghi estratti delle relazioni della commissione senatoriale e di
quelle del congresso sui finanziamenti della CIA in Italia […]. Si parla di 21
uomini politici compromessi ma non farebbero nomi. I nomi e grossi li fa invece
il “New York Times”. Sono quelli di Andreotti e di Donat Cattin per la DC, di
Saragat per la sinistra socialdemocratica, di Vito Scalia della CISL. Il nome
che fa più impressione è naturalmente quello di Saragat. Egli oppone [come gli
altri del resto] una indignata protesta, mai visto una volta, mai visto un
soldo.
Vedremo il seguito della polemica. Mi appare sbalorditivo che un
nome come quello di Saragat possa essere buttato nel fango in questo modo, è un
ex-presidente della Repubblica, è l’uomo che nel 1947 fece la scissione del
partito socialista in difesa degli Stati Uniti. Da tanti anni l’America si
avvale di lui per sbandierare la sua propria missione di libertà nel mondo.
Adesso lo si dà in pasto alle calunnie. Potrà risollevarsi o no
dal colpo che riceve e dai molti che sono pronti ad accettare per vero. Ma l’attuale
classe dirigente appare vile e smarrita. Una classe dirigente che per certo non
può reggere la leadership del mondo alla quale pretende.
Quanto ai finanziamenti si tratta adesso di accertare dov’è la
verità.
28 gennaio [1976, n.d.r.]
Altra e più grave rivelazione della “Stampa” sui finanziamenti della
CIA in Italia. Il caso denunciato oggi è infinitamente più grave dei precedenti
[…]. Dai passi citati risulta che l’ambasciatore in persona nel febbraio 1970
versò circa 500 milioni di lire a un altissimo personaggio dei servizi segreti
italiani e che costui li girò a un giornalista di estrema destra per
influenzare in questo senso la politica in questione.
“La Stampa” sostiene che i due personaggi sono il generale Vito
Miceli [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/12/02/morto-vito-miceli.html]
e Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, giornalista e deputato missino.
Interventi di questo genere vanno oltre il finanziamento dei partiti o dei
sindacati, investono la sicurezza del Paese. Miceli ha smentito e Rauti ha
fatto naturalmente lo stesso ma non ha aperto bocca l’ambasciatore. Non fiata
il Dipartimento di Stato […].
29 gennaio [1976, n.d.r.]
Nello scandalo dei finanziamenti della CIA in Italia i politici
passano un poco in seconda linea. La tensione e lo sdegno si concentrano nel
mezzo miliardo dell’ambasciatore americano al SID […] La crisi ministeriale è
tornata dopo 24 giorni al suo punto di partenza. La direzione della DC non si è
opposta al monocolore che Moro cura di costituire ma lo ha condizionato a un
accordo della vecchia maggioranza se non sulla formula sul programma del nuovo
governo. La palla cioè ritorna nel nostro giardinetto.
Pietro Nenni, Socialista libertario giacobino: Diari [1973-1979]
Oggi, la Verità è preda di due
opposte e concomitanti follie: il Nichilismo di chi sostiene che la Verità non
esista, ma vi siano solo i punti di vista e il Fanatismo di chi ritiene di
avere il monopolio della Verità.
Ma nessuno ha la Verità in
tasca!
La Verità è latente nel profondo
dell’animo umano, o, meglio nel nostro io spirituale e occorre un certo grado
di evoluzione perché ne appaia qualche luce. Noi andiamo verso la Verità a
piccole tappe, che sono illusioni, ma, nel momento, sono per noi Verità, la
nostra Verità.
La Verità è più grande di noi e
nessuno ne detiene il monopolio, ci trascende.
Noi possiamo aspirare a essere
nella Verità, ma non ad avere la Verità in pugno.
Noi possiamo nutrire passione di
Verità e possiamo cogliere alcuni aspetti della Verità, perché la Verità ha
molti lati.
È la poligonia obiettiva del
vero, di cui parla Vincenzo Gioberti nella Teoria
del sovrannaturale: la Verità ha vari lati, non uno solo.
Si tratta, pertanto,
di ripristinare la relazione tra il vero e il fatto, come direbbe Giovan
Battista Vico.
Il vero è la visione
intelligente del fatto.
I fatti sono
parziali, le interpretazioni partigiane.
La Verità è l’intero
rispetto alle parti.
Ognuno, dunque, faccia la sua parte, senza la pretesa di dire
il Tutto o di rivelare il Nulla.
Questo salva la Verità dal
monopolio dispotico e dalla negazione nichilista.
Vi è stato un tempo nella Storia
degli uomini, in cui veniva imposto di
credere ciò che piaceva a chi era al Potere, pena la persecuzione, la prigionia
e la forca. Furono, così, commessi innumerevoli delitti, mentre gli
autori incoscienti si proclamavano seguaci di Verità, e l’istituzione nefasta
fu, perfino, canonizzata con il nome di Santa Inquisizione.
Questa aberrazione umana
continua, ancora oggi.
Ed è, sempre, la miopia degli
uomini che rende intollerante chi si ritiene possessore della Verità.
La
pericolosità dei dogmatici, non solo nel campo religioso, ma in quello
politico, scientifico, è nel credersi i soli possessori della Verità assoluta e
di ritenere gli Altri nell’errore. Per questo si credono in dovere di
combatterli per portarli alla posizione che ritengono la sola giusta e vera.
“La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e
vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la
verità.”
Il brigadiere cominciava a stancarsi: si sentiva come un cane
costretto a seguire il cammino del cacciatore attraverso una pietraia arsa,
dove non stinge la più tenue traccia di selvaggina. Un lungo contorto cammino:
sfioravano appena i morti ammazzati e subito allargavano il giro; la Chiesa, l’umanità,
la morte. Una conversazione da circolo, Cristo Dio: e con un delinquente…
“Lei ha aiutato molti uomini” disse il capitano “a trovare la
verità in fondo a un pozzo.”
Don Mariano gli apr in faccia occhi freddi come monete di
nichel. Non dise niente.
“E il Dibella era già nella verità” continuò il capitano “quando
scrisse il suo nome e quello di Pizzuco…”
“Nella pazzia era, altro che verità.”
Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta
Quando Leonardo Sciascia scrive Il giorno della civetta, crede nella
Verità, nella sua esistenza e nella sua conoscibilità anche quando qualcuno, a
essa nemico, tenta di nasconderla e imposturarla. Nel romanzo, Verità e
Giustizia si incontrano per dividersi subito: la Verità, pur se nota, non porta
con sé la Giustizia, che è impedita dal Potere che assicura l’impunità.
Il coraggio della Verità si
prefigge di investigare aspetti miracolosamente, verrebbe da dire, ancora poco
indagati.
Mala tempora currunt per
i ricercatori di Verità, nell’opera di Sciascia e nella Storia italiana del
Dopoguerra!
La Verità che Sciascia, da
cittadino e da intellettuale, ha, sempre, cercato è stata una Verità in
conflitto con le ragioni della politica dei Partiti, dei Governi, delle Istituzioni.
In conflitto con la Ragione di Stato e la Ragione di Partito.
E io ho deciso di fare mie le
parole di Leonardo Sciascia a Marcelle Padovani:
“Sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se
la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è
quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e
sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche
rendendola più oscura, per come la realtà spesso è.”
Il Presente è, sempre, il
risultato del Passato e il collettivo è una dimensione dell’individuale: non
posso comprendere me stesso senza comprendere gli altri.
Ogni mio scritto nasce da una
domanda.
Perché?
Calarmi nelle storie e nei personaggi
è frutto della mia esperienza di “prestato scrittore al giornalismo”.
Ho appreso doti di chiarezza e
velocità e, anche, a inventarmi in ruoli diversi in ogni romanzo, come in un
gioco, perché la Letteratura è uno strip-tease
al contrario: lo scrittore parte nudo e si veste fino a diventare un nuovo o
più nuovi personaggi.
A
cosa serve conoscere il Passato?
Perché occuparsi di ciò che è
accaduto dieci, mille, diecimila anni fa?
Non sarebbe meglio esaminare il
Presente, ciò che accade intorno a noi e da cui dipende la nostra Vita?
Studiamo il Passato proprio per
comprendere il Presente.
Sulla Terra tutto si evolve, in
altri termini, tutto si trasforma.
Un miliardo di anni fa, la Terra
appariva un immenso globo arroventato, circondato di vapori, su cui non vi era
e non poteva esservi Vita.
Centinaia di milioni di anni fa,
la Vita si generò sulla Terra.
Decine di milioni di anni fa,
già, esistevano una ricca vegetazione, boschi sterminati, una moltitudine di
animali di ogni specie, sia acquatici sia terrestri.
Tutto quel Mondo somigliava
molto poco al Mondo attuale, che, tuttavia, si è sviluppato da quello, mediante
una lunga serie di mutamenti ininterrotti.
Come è avvenuto tutto questo?
Non per caso, ma secondo leggi
determinate.
Se ci limitiamo a esaminare la
Vita, oggi, non riusciamo a cogliere queste leggi, vale a dire il carattere
necessario dei mutamenti. Prima che si studiasse il lontano Passato del Pianeta
Terra, prima che si scoprissero i fossili degli animali e dei vegetali,
esistiti milioni di anni fa, si riteneva che il Mondo non fosse, mai, mutato
dall’attimo in cui era stato creato. Si rideva dei pochi scienziati che
osassero affermare il contrario. Eppure, quegli studiosi asserivano, ciò che,
oggi, sembra evidente, che la Vita si sia sviluppata sulla Terra, a poco a
poco, nel corso dei secoli.
Le osservazioni sui resti dell’Antico
Mondo vegetale e animale, che sono giunti fino a noi, perché sono rimasti
sepolti per centinaia di secoli, hanno dimostrato che il Vecchio Mondo animale
e vegetale somigliava molto poco al nostro, che il Mondo è, sempre, cambiato,
nel corso dei secoli, e che, naturalmente, tutto continua e continuerà a
cambiare.
È una legge di natura!
Ma la dottrina, secondo cui il
Mondo è immutabile e tutto è stato creato in un attimo, è stata sostenuta, a
lungo, non per caso o per pura ignoranza.
Questa dottrina era vantaggiosa
a molti.
Se, in generale, nulla cambia
nel Mondo, non cambia neppure la Società. Anche questa ha un suo assetto
immutabile: così è, sempre, stata e, così, sempre, sarà.
Ma per quale motivo si doveva
credere, in Passato, che la Società fosse, sempre, stata la stessa?
Per il semplice motivo che una
simile credenza era utile a chi godeva di tutti i benefici nella vecchia
Società.
Chi aveva, sempre, detenuto il
potere voleva persuadersi che sarebbe stato, sempre, così, e cercava di
convincere se stesso, ma, soprattutto, la Massa che, così, dovesse essere e che
le cose non potessero andare diversamente.
Se lo studio del Passato della
Terra, dell’Antico Mondo animale e vegetale, se la Geologia e la Paleontologia
hanno mandato in frantumi la Fiaba, secondo cui il Mondo è stato creato in un
attimo e non può cambiare; la Storia e l’Archeologia mandano in frantumi l’altra
Fiaba, secondo cui la Società è, sempre, stata e, quindi, sarà, sempre, quale
è.
L’Uomo, invece, cambia e
cambierà, come tutto il resto.
Alcuni ordinamenti sociali
nascono, altri tramontano e, al loro posto, ne sorgono di nuovi.
La fine di tali mutamenti non
possiamo prevederla né immaginarla; ma, se osserveremo il prodursi di tali
fenomeni, nel corso di decine e centinaia di anni, giungeremo a coglierne le
leggi. E, se non riusciremo a dire come diverrà la Società, tra qualche
migliaio di anni, potremo, tuttavia, sapere per quali vie l’Umanità si andrà
modificando.
Chi prevede l’Avvenire lo
domina, perché si prepara a esso, si organizza per evitare le future calamità e
utilizzare al massimo i beni che l’Avvenire gli riserva.
Conoscere significa prevedere,
prevedere significa padroneggiare.
La conoscenza del Passato dà,
quindi, all’Uomo un potere sul Futuro.
Ecco perché abbiamo bisogno di
conoscere il Passato.
Ora, se per individuare il
carattere necessario dei mutamenti che si producono nella Società, dobbiamo
esaminare tali mutamenti, nel corso di un lungo periodo, ciò non significa che
si debba intraprendere l’esame dalle Età più remote.
Si può, anche, seguire la strada
inversa.
Anzi, le leggi dei mutamenti
della Società sono più facili da cogliere, ove si proceda dal Presente verso il
lontano Passato.
Muoviamo, quindi, dal
Presente.
In tutto il Mondo si sta
producendo, oggi, una Rivoluzione.
Osservando il Presente o il
Passato relativamente prossimo, possiamo individuare le leggi dei mutamenti
storici, comprendere che la Storia è fatta di uomini che svolgono determinati
compiti ed è modificata dalla classe sociale che opera i singoli mutamenti.
Come si generano le classi
sociali?
Perché mai tutta la produzione
era in Passato nelle mani dei contadini e dalla campagna si ricevevano non solo
il grano, il lino, la lana, ma anche i calzari e le vesti, e tutto veniva
fabbricato dai singoli artigiani, che se ne stavano rintanati ognuno nella
propria bottega o in casa, mentre, oggi, vi sono grandi industrie calzaturiere
e manufatturiere?
Solo perché – non esistendo o pressoché
le macchine – l’Uomo di quel tempo era costretto a fare tutto con le sue mani.
Esistevano, naturalmente, macchine idrauliche, come i mulini, ma le macchine di
questo tipo erano molto poche.
Trecento anni fa, l’Uomo iniziò
a costruire macchine a vapore, in seguito, quelle elettriche e termiche.
Con la comparsa delle macchine
si riuscì a produrre oggetti di ogni genere in quantità maggiore e con un ritmo
più rapido. Non si poté più, a tale punto, lavorare isolatamente, perché il
singolo operaio non poteva usare da solo la macchina e gli operai iniziarono,
quindi, a radunarsi in Massa intorno alle macchine.
Ebbe, pertanto, origine la
grande produzione: la fabbrica.
I proprietari delle macchine,
imprenditori o borghesi, divennero i padroni di tutto. Fornivano agli operai la
possibilità di usare le macchine e, al tempo stesso, li privavano dei frutti
del loro lavoro, retribuendoli con salari di fame.
Nacque, così, la classe degli
operai, che non lavoravano più in casa propria e solo con le proprie mani, ma
in casa di altri e con l’aiuto di macchine non loro.
Si formò, quindi, il
Proletariato.
Questo significa che la nascita
di una data classe sociale si spiega con il modo di gestione dell’Economia.
In Passato, si lavorava
isolatamente, in piccole imprese e questo era un assetto sociale determinato.
In seguito, si iniziò a lavorare
tutti insieme e si ebbe un diverso assetto della Società.
Tutti i mutamenti sono,
pertanto, fondati su una trasformazione dell’Economia.
Cosa costringe l’Uomo a
occuparsi di Economia?
Dall’inizio del XX secolo, l’intera
Umanità vive in circostanze catastrofiche. I tempi tranquilli, nei quali un
Sistema Universale e profondamente radicato di valori scientifici, creativi e
vitali pareva sussistere incrollabile, sono scomparsi totalmente.
Ovunque divisioni, contrasti,
scissioni, ovunque avvenimenti fluttuanti, mutevoli, contraddittori. Eppure, al
di sopra di essi sta l’ideale di una finalità comune, che è quella di riunire
in una comunità unitaria i Popoli, perché si adattino gli uni agli altri e si
fecondino a vicenda.
Certo, non è possibile cogliere
l’Umanità in tutto il suo complesso, poiché non vi è in essa un contenuto
culturale comune, capace di costruire una Civiltà nuova; tuttavia, questa
esperienza non impedisce che si aspiri al collegamento e all’unione dei Popoli,
poiché si avverte che le finalità, in campo sociale ed etico, debbono, sempre,
oltrepassare il verosimile per avere una efficacia creativa.
Fenomeno strano, ma
comprensibile, nella nostra Epoca inquieta e rivoluzionaria sono vive due
tendenze contrastanti: l’una, che spinge alla scissione, perfino all’autodisgregazione;
l’altra, che mira all’unificazione.
Nel gioco delle forze
politico-sociali manca una linea unitaria: forze diverse in lotta tra loro,
dominano la Vita multiforme degli individui e degli strati sociali. Questa
duplicità delle forze fondamentali e apparentemente inconciliabili, questi
effetti di forze contrarie, ma tra loro intersecate, si ritrovano in tutti i
grandi periodi della Storia, sia nell’Antichità Classica e nell’Impero
Bizantino, sia in diversi momenti dell’Era Moderna.
Si ha, tuttavia, l’impressione
che l’Umanità non abbia, mai, conosciuto tensioni e sconvolgimenti della
potenza e della vastità di quelli che abbiamo occasione di osservare noi, oggi.
In queste circostanze caotiche,
nelle quali vediamo Masse, Popoli e Culture crollare e nuove strutture
politiche e sociali sorgere al loro posto, emergono, naturalmente, problemi di
ogni genere, nuovi e vecchi, razionali e irrazionali, che, solo in piccola
parte, ammettono una soluzione.
Le nuove idee di attualità, i
progetti, le ideologie, le parole altisonanti e le teorie cavillose
contribuiscono a confondere gli Spiriti.
Si presuppone che gli Uomini
siano in grado, per la loro preparazione, di venire, felicemente, a capo di
questi compiti in tutta la loro estensione. Senza una speciale selezione, si
affidano agli individui i compiti più diversi, e la maggior parte di loro
sembra, anche, essere capace di eseguire i lavori assegnati, fintanto che non
siano richieste forza creatrice e grandezza personale. Di fronte a una tale
grande Massa di capaci sta lo strato più esiguo degli individui dotati di
attitudini creative, quella degli individui di talento, predestinati da Natura
a compiti più ardui e più elevati.
Perché scrivo?
Scrivere è, forse, una delle più
incredibili Avventure che ci sia data.
Non richiede che un foglio, una
penna ed è un Universo intero a sorgere, ad accalcarsi, già, dietro la porta.
Tra le righe!
Vi è qualcosa di magico. Di
affascinante. Forse, anche di inquietante. Perché questo Mondo, se non è,
forse, completamente reale, nondimeno ha il potere di trasformarci. Molto
sovente, almeno se il Libro è buono, non è più la stessa persona che finisce un
romanzo quella che l’ha iniziato.
E ciò vale sia per il lettore
sia per lo scrittore.
No, scrivere, leggere, non è
anodino!
Non se ne esce, sempre, indenni…
I libri possono cambiare il
mondo, non d’improvviso, ma a poco a poco, trasformando la percezione dei
lettori.
Vi sono Libri che ci
accompagnano, che ci fanno crescere, che divengono vecchi Amici.
Fanno parte della Famiglia,
hanno il loro posto accreditato sui ripiani della libreria.
Libri di cui si ama accarezzare,
teneramente, la rilegatura; scorrere, a caso, qualche frase, per la musica
interiore; respirarne l’odore…
E, poi, altri che, un giorno, si
dimenticano o, peggio ancora, si tradiscono, ignobilmente, per il tale autore
alla moda…
Libri allettanti e facili,
tentatori come il Demonio, scritture di dubbia virtù, zerbini letterari di
circostanza…
È la Vita!
Precisamente.
E si deve assaporarla fino all’ultima
pagina…
Perché leggere è un atto sacro.
“Se l’uomo
non avesse un’immaginazione così debole e facile a stancarsi, se la sua
capacità di meravigliarsi non fosse così limitata, abbandonerebbe per sempre le
fantasticherie celesti. Imparerebbe a percepire l’assoluto e il meraviglioso
nell’acqua, nelle foglie e nel silenzio, e sarebbe una consolazione più che
sufficiente per la perdita degli antichi sogni.”
Io leggo Libri che mi rendono un
Uomo migliore, che sfidano il mio modo di pensare, che mi fanno fluire e
proseguire nel cammino.
E se il Libro è Desert Solitaire di Edward Abbey,
che riconosco, geneticamente, vicino a ciò che scrivo, mi scatta il senso
profondo donato all’Uomo dall’umiltà, che mi fa comprendere che il “Labirinto”
è solo all’inizio.
Vero Edward?
“Vorrei che gli italiani sapessero di tanti altri ragazzi
soldato, decine e decine, ormai centinaia, morti ugualmente per aver servito lo
Stato nelle missioni di pace nelle zone di guerra. Ma lo fanno in silenzio, tra
atroci dolori, in un lettino d’ospedale, uccisi dai tumori diagnosticati dopo
il Kosovo, la Somalia, l’Iraq, l’Afghanistan. E non hanno nessun funerale
ufficiale, nessun sostegno se non quello dei genitori e delle mogli che li
assistono sino all’ultimo.”
“L’intervento italiano in Afghanistan si realizza nel pieno
rispetto dei principi e delle circostanze stabiliti dall’articolo 11 della
nostra Costituzione.
Siamo in Afghanistan non per recare offesa alla libertà di un altro popolo, né
per risolvere con la guerra una controversia, ma per rispondere all’appello di
quelle organizzazioni internazionali impegnate ad assicurare la pace e la giustizia
tra le nazioni cui la Costituzione fa esplicito riferimento”.
Giorgio Napolitano, 1 agosto 2011, ore 11.34
Dove
finiscono le armi quando finiscono le guerre?
Tutto
ha origine quando l’Unione Sovietica inizia a dismettere gli arsenali e la preoccupazione
di un Terza Guerra Mondiale viene meno.
I
Balcani costituiscono, da sempre, un’area molto appetibile per i mercanti di
armi: guerre continue, sia pure di portata regionale, a causa della forte
compresenza di diverse etnie e religioni.
Il 23
Dicembre 1990 –
data dell’esito positivo del Referendum popolare
sull’indipendenza della Slovenia – inizia la disgregazione della Repubblica
Socialista Federale di Jugoslavia [Socijalistička Federativna Republika Jugoslavija, SFRJ]. Da
quel momento, i maggiori Stati produttori e venditori di armi iniziano a “farsi
i loro affari”, anche se favorevoli alla Risoluzione
713 [http://www.un.org/fr/documents/view_doc.asp?symbol=S/RES/713[1991]],
adottata, il 25 settembre 1991, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che decretava l’embargo generale
sulle armi e sull’equipaggiamento militare contro l’intera Federazione
Jugoslava e invitava il segretario generale Javier Pérez de Cuéllar [1º gennaio
1982 – 31 dicembre 1991] a
offrire la propria assistenza per sostenere lo sforzo negoziale condotto dalla
Comunità Europea nell’ambito della Conferenza dell’Aia.
Grazie
alla sua posizione geografica l’ex-Jugoslavia rappresenta un ponte naturale tra
l’Europa e l’Oriente e, con la copertura della guerra, si consolida la sua
posizione di crocevia strategico per qualsiasi traffico illecito. La struttura
statale inesistente e legittima favorisce lo sviluppo e il proliferare della
criminalità organizzata e, così, in Bosnia, le forze internazionali organizzano
un intenso traffico di armi che avrebbero dovuto distruggere. Quando scoppia
una guerra, sono in molti a lanciarsi in un business
che permette di accumulare ingenti
ricchezze!
Mercanti
di armi e rappresentanti di Governi, sebbene implicati, non vengono, mai,
giudicati responsabili né condannati.
Tra
il 1991 e il 1992,
quando nei Balcani il traffico di armi prospera, 20 navi cariche di armi
approdano, in grande segreto, nel porto sloveno di Koper.
“Il
porto di Koper costituiva un’ottima opportunità per aggirare l’embargo,”,
“perché non
era controllato dagli ispettori internazionali. La supervisione sulle
spedizioni veniva eseguita dalla stessa Slovenia, che permetteva l’importazione di armi da altri Paesi europei.”
È un
ottimo escamotage per aggirare l’embargo
stabilito dall’ONU.
Il
carico viene, poi, inviato in Croazia e in Bosnia.
L’operazione
ha la regia delle Mafie italiana, albanese e russa.
Tali
armi avrebbero dovuto essere utilizzate a scopo difensivo. Favoriscono, invece,
aggressioni e atrocità di ogni tipo.
Le
armi acquistate dalla Croazia hanno permesso di respingere l’Esercito Popolare Jugoslavo [JLA], ma
non dobbiamo dimenticare che i leaders
militari croati sono stati condannati e che croati e serbi sono stati coinvolti nel massacro di
musulmani bosniaci.
Conclusosi
il conflitto, il traffico di armi confluisce nei servizi segreti.
Di
nuovo, vi è chi ne sa trarre una grande quantità di danaro…
Come disse, duemila anni fa, al
figlio Tito l’imperatore Vespasiano, quando impose la tassa sulle latrine
pubbliche:
“Il danaro non puzza!”
Questo adagio, ormai classico,
vuole mettere in luce un contrassegno positivo del danaro, vale a dire, il suo
valore è indipendente dalle circostanze in cui è stato fatto.
Ma quello che valeva duemila
anni fa per il danaro dell’imperatore romano, non vale più, oggi, nei confronti
del crimine organizzato.
Soldi guadagnati illegalmente
possono essere ritirati dalla circolazione dallo Stato anche se sono stati “deodorati”
in un graduale processo di lavaggio, come si definisce in tedesco il riciclaggio.
Il lavaggio di danaro o
riciclaggio è stato, fino agli anni 1980 inoltrati, una metafora pregnante del
linguaggio giornalistico e, solo agli inizi degli anni 1990, si è trasformato
in concetto giuridico.
Nel 1990, il gruppo delle
Nazioni economicamente più importanti [G7] presentò delle direttive fatte
elaborare dal Financial Action Task Force
on Money [ FATF ].
Oggi, interi settori economici,
anzi intere economie nazionali sono minacciate dall’infiltrarsi del crimine
organizzato. I riciclatori di danaro lo aiutano ad accedere alle posizioni di
potere dell’economia e della società legali.
Il Fondo Monetario Internazionale [FMI] ritiene che, nel 1995, siano
stati immessi, clandestinamente, nei mercati finanziari legali complessivamente
500 miliardi di dollari di danaro sporco, nonostante fossero state rafforzate
le misure contro il riciclaggio.
FARE LUCE è la parola d’ordine
di questa inchiesta.
Non si vuole tanto portare l’attenzione
su singoli casi, avvenimenti, scandali, quanto rendere visibili quelle
strutture e quegli intrecci della finanza, in cui il flusso del danaro sporco
si mescola con quello legale.
Fare i nomi di società e persone
diviene, pertanto, inevitabile.
Conformi a questo approccio sono
anche le numerose note a piè di pagina disseminate nel testo, che contengono
particolari concreti sui punti nodali e le diramazioni di organismi finanziari
invisibili.
Da venti anni, i reduci dalle
missioni NATO, in Libano, in
Afghanistan, in Bosnia, in Somalia, in Kosovo e in Iraq si ammalano per le
conseguenze dell’uso di proiettili all’uranio
impoverito. È l’Osservatorio Militare, presieduto dal maresciallo in pensione
Domenico Leggiero, ex-pilota dell’Aeronautica [http://www.osservatoriomilitare.it/] a
fornire i numeri di questa strage dimenticata, sui quali a fare luce non sono
servite tre Commissioni di Inchiesta Parlamentari, regolarmente azzoppate dal
crollo anticipato delle legislature.
Ne è decollata una quarta,
presieduta dal deputato PD della
Sardegna Gian Piero Scanu.
“L’universo della sicurezza militare non è governato da norme
adeguate. C’è bisogno di una nuova legge, senza la quale resteranno immutate le
scelte strategiche di fondo che trasformano i militari in lavoratori deboli e
umiliano i militari ammalati o morti per la sproporzione tra la dedizione
dimostrata e la riluttanza istituzionale al tempestivo riconoscimento di
congrui indennizzi.”,
ha dichiarato Scanu, il 19
luglio scorso, durante una conferenza stampa, in cui ha reso nota la relazione
intermedia della Commissione di Inchiesta Parlamentare, il cui lavoro è
culminato in una proposta di legge intitolata “Sicurezza sul lavoro e la tutela assicurativa contro gli infortuni e
le malattie professionali del personale delle Forze armate” [https://ilmanifesto.it/uranio-soldati-senza-protezione/].
“Le sostanze inquinanti”,
si legge nella relazione,
“entrano nella catena alimentare e quindi l’accettazione di soglie
più elevate della norma espone a un rischio significativo chiunque utilizza i
prodotti derivati.”
Miles Gloriosus ovvero morire d’uranio impoverito, per la regia di
Antonello Taurino [https://vimeo.com/38099678],
ricostruisce la vicenda dei soldati malati di cancro a causa dell’uranio
impoverito delle munizioni sparate in alcune missioni all’estero.
In ottanta minuti
di una forma di teatro civile, che non segue schemi classici, il regista
conduce gli spettatori attraverso una vicenda dolorosa, di ingiustizia e
abbandono delle istituzioni, ma lo fa con la commedia e non con l’orazione
seria.
“Per fare teatro civile”,
spiega il regista;
“non basta dire i fatti, serve metterci una storia intorno. La
storia è l’esca per attirare e poter raccontare.”
Voi siete a favore o contro l’energia
nucleare?
O non avete, ancora, preso una
posizione?
Una posizione, di fatto, noi
Italiani l’abbiamo presa e l’abbiamo, anche, espressa, dicendo NO all’avventura
atomica, con i 3 Referenda popolari
dell’8 e del 9 novembre 1987 [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/03/18/nucleare-il-pci-dice-si-tutti-referendum.html,
https://www.legambiente.it/contenuti/comunicati/il-nucleare-non-%C3%A8-sicuro-non-%C3%A8-economico-non-%C3%A8-utile],
e ribadendola, il 12 e il 13 giugno 2011,
con un nuovo Referendum popolare
contro le centrali nucleari [http://www.repubblica.it/politica/2011/06/13/news/referendum_la_giornata_dei_s_il_quorum_arriva_tra_le_polemiche-17645020/],
cui hanno votato il 57% degli aventi diritto, per abrogare le norme furbette,
con le quali il Governo Berlusconi [http://www.governo.it/i-governi-dal-1943-ad-oggi/xvi-legislatura-dal-29-aprile-2008-al-23-dicembre-2012/governo-berlusconi]
e il Parlamento avevano reintrodotto l’industria atomica in Italia, violando la
volontà popolare.
Chi, invece, non si può
esprimere è l’Organizzazione Mondiale
della Sanità [OMS], l’organismo che, per conto dell’ONU, deve occuparsi della salute delle popolazioni.
Eppure, il
Capitolo II della sua Costituzione indica come l’OMS perverrà a elevare il livello di salute, esercitando
determinate funzioni.
Capitolo II
Delle Funzioni
Art. 2
a] Agisce come autorità direttrice e coordinatrice, nel campo
sanitario, dei lavori di carattere internazionale;
b] Stabilisce e mantiene una collaborazione effettiva con le
Nazioni Unite, con le istituzioni speciali, con le amministrazioni sanitarie
governative, con i gruppi professionali, come pure con altre organizzazioni che
potessero entrare in linea di conto;
c] Aiuta governi, se richiesta, a rafforzare i loro servizi
sanitari;
d] Fornisce l’assistenza tecnica appropriata e, nei casi
urgenti, l’aiuto necessario, se i governi lo domandano oppure se l’accettano;
e] Fornisce o aiuta a fornire, a richiesta delle Nazioni Unite,
servizi sanitari e soccorsi a gruppi speciali di popolazioni, per esempio alle
popolazioni dei territori sotto tutela;
f] Stabilisce e mantiene i servizi amministrativi e tecnici
ritenuti necessari, compresi i servizi di epidemiologia e di statistica;
g] Stimola e promuove lo sviluppo dell’azione intesa alla
soppressione delle malattie epidemiche, endemiche e altre;
h] Promuove, se necessario, facendo capo ad altre istituzioni
speciali, l’adozione delle misure atte a prevenire i danni causati dagli
infortuni;
i] Favorisce, se necessario, facendo capo ad altre istituzioni
speciali, il miglioramento dell’alimentazione, il risanamento delle abitazioni,
delle installazioni sanitarie, il miglior impiego degli intervalli di riposo,
il miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro, come pure di tutti
gli altri fattori dell’igiene dell’ambiente;
j] Favorisce la cooperazione tra i gruppi scientifici e professionali
che contribuiscono al progresso sanitario;
k] Propone convenzioni, accordi e regolamenti, fa
raccomandazioni concernenti le questioni sanitarie internazionali ed esegue i
compiti che possono pertanto essere attribuiti all’Organizzazione e sono conformi
al suo fine;
l] Promuove lo sviluppo dell’azione in favore della sanità e del
benessere della madre e del bambino, come pure la loro attitudine a vivere in
armonia con un ambiente in piena trasformazione;
m] Favorisce ogni attività nel campo dell’igiene mentale,
specialmente le attività che si riferiscono allo stabilimento di relazioni
armoniose tra gli uomini;
n] Stimola e guida le ricerche nel campo della sanità;
o] Favorisce il miglioramento delle norme d’insegnamento e della
formazione nelle professioni sanitarie, mediche e affini;
p] Studia e diffonde, se necessario, facendo capo ad altre
istituzioni speciali, la tecnica amministrativa e sociale concernente l’igiene
pubblica e le cure mediche preventive e terapeutiche, inclusi i servizi ospitalieri
e la sicurezza sociale;
q] Fornisce qualsiasi informazione, parere e soccorso
concernenti la sanità;
r] Favorisce la formazione, tra i popoli, di un’opinione
pubblica illuminata su tutti i problemi della sanità;
s] Stabilisce e rivede, secondo i bisogni, la nomenclatura
internazionale delle malattie, delle cause di morte e dei metodi d’igiene
pubblica;
t] Uniforma, per quanto necessario, i metodi di diagnosi;
u] Sviluppa, stabilisce e incoraggia l’adozione di norme
internazionali concernenti gli alimenti, i prodotti biologici, farmaceutici e
simili;
v] In generale, prende tutte le misure necessarie per il
raggiungimento del fine assegnato all’Organizzazione.
Avallo, che non è, di fatto,
MAI, dato.
Nell’accordo, all’articolo III,
si evince la possibilità di poter assumere, sia da parte dell’AIEA sia da parte dell’OMS, misure restrittive per
salvaguardare il carattere confidenziale di certe informazioni e dell’obbligatorietà
delle due agenzie di rapportarsi, direttamente, per tutti i progetti o i
programmi che possano coinvolgere una delle due parti. I
termini di questo articolo III, che impongono la segretezza, in altri termini il
silenzio, sono contrari alla Costituzione dell’OMS, il cui scopo è espresso nel Capitolo I della stessa
Costituzione:
“Il
fine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità [qui di seguito chiamata
Organizzazione] è quello di portare tutti i popoli al più alto grado possibile
di sanità.”
Questo
accordo è stato, scrupolosamente, rispettato, anche dopo l’incidente di
Chernobyl e i guasti delle guerre in Bosnia, in Somalia, in Kosovo, in Afghanistan e in Iraq, dove le
truppe statunitensi hanno impiegato munizioni radioattive all’uranio
impoverito. Ne consegue che l’OMS ha
censurato tutti gli studi sulle malattie legate all’industria nucleare, civile
o militare che sia, da più di mezzo secolo.
Ha,
anche, attribuito numerosi problemi di salute pubblica a fattori minori.
Nel
1957, l’AIEA è creata, non unicamente
per impedire o limitare lo sviluppo delle armi di distruzione di massa come
molti credono, ma per incoraggiare l’utilizzo dell’energia nucleare a fini
pacifici!
“Ho appena firmato una lettera dell’Associazione Galileo 2001
destinata al presidente Napolitano con
la quale una parte della comunità scientifica italiana si dichiara preoccupata
per la decisione del Parlamento di ratificare il protocollo di Kyoto
assumendosi impegni – come quello di ridurre entro il 2012 le emissioni di gas
serra del 6,5 per cento – che siamo nell’impossibilità pratica di onorare e che
ci costeranno una sanzione di oltre quaranta miliardi di euro. Credo che sia il
momento di mettere da parte le posizioni preconcette, le paure e le emozioni.
Dobbiamo aprire gli occhi. È vero, la fonte ottimale di energia in termini di
produzione, efficienza, sostenibilità per l’ambiente e per l’uomo, non l’abbiamo
ancora trovata, ma oggi il nucleare va considerato concretamente e subito. In
Francia ci sono 58 centrali, in Germania 17, in Spagna 9. È una fonte potente
per la quale già disponiamo della tecnologia di sfruttamento e che non comporta
rischi per la salute e l’ambiente. Purtroppo la parola nucleare spaventa più
degli incidenti che potrebbe causare. Fobie popolari, timori irrazionali e
retaggi storici fanno ancora di più dell’allarme cancro e i suoi morti causati
dai derivati del petrolio. Allora io dico: basta con il panico da primitivi
spaventati dal fuoco.”
Ma in
che Mondo viviamo?
Sono
gli stessi che, allo scoppiare di un conflitto, barattano armi, organi, droghe,
esseri umani con soldi…
Dalla bomba atomica alle
centrali nucleari, l’uranio accompagna la Storia del XX secolo.
Con il riscaldamento climatico,
questa materia prima graverà, egualmente, sul XXI secolo.
Voi saprete tutto della sua
estrazione, del ciclo del combustibile e dei Paesi produttori da questo dossier.
II.
I TESTS NUCLEARI NEI
POLIGONI
INGLESI E FRANCESI
“Since
Auschwitz, we know what man is capable of. And since Hiroshima, we know what is
at stake.”
Viktor E. Frankl
Albert Einstein e
Leo Szilard
“Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche
sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche
sulle città come un crimine di guerra e avremmo condannato a morte i tedeschi
colpevoli di questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati.”
Leo Szilard
Alamogordo, New Mexico.
Alba del 16 luglio
1945.
Nel deserto
di Alamogordo, esplode la prima bomba atomica della Storia.
Lo scienziato
Robert J. Oppenheimer ricorderà con queste parole l’attimo in cui l’immensa, spaventosa
luce dilagò nel Cielo e sulla Terra:
“Capimmo che la Vita non sarebbe stata più la stessa.”
Gli eventi legati
alla nascita dell’atomica sono destinati a restare, nei secoli futuri, come uno
dei momenti più decisivi e sconvolgenti dell’intera Storia dell’Umanità.
Ma quando si parla
di questa arma terribile, il discorso viene pressoché ritretto ai nomi di
Alamogordo, di Hiroshima e di Nagasaki; invece, la Storia delle ricerche
atomiche inizia dalla fine dell’Ottocento e continua, oltre le tragiche macerie
delle due città giapponesi, colpite nell’agosto del 1945, fino agli esperimenti
sovietici, inglesi e francesi, alla prima bomba all’idrogeno, al capitolo
misterioso dello spionaggio e ai tests
nucleari della Cina e della Corea del Nord.
Questo è stato il
mio proposito: concentrare in un articolo di 133 pagine, che ha le dimensioni
di un vero e proprio libro, l’intera vicenda.
I protagonisti
hanno nomi noti: Curie ed Einstein, Fermi e Oppenheimer, Hitler e Roosevelt,
Truman e Stalin, Mao e de Gaulle.
Ma la vera
protagonista è l’Umanità stessa con la sua paura e la sua speranza: paura per l’indelebile
ricordo delle migliaia di morti di Hiroshima e Nagasaki: speranza nella saggezza
di chi, attraverso il possesso di queste armi, potrebbe, veramente, distruggere
il Mondo in cui viviamo.
Daniela
Zini
Little Boy e Fat Man
Si chiamavano Little Boy [Ragazzino] e Fat Man [Grassone] le due bombe che, settantadue
anni fa, il 6 e il 9 agosto 1945, distrussero Hiroshima e Nagasaki. Erano due
modi diversi di concepire l’arma totale, l’una all’uranio 235, l’altra al plutonio
239, sostanzialmente uguale a The Gadget,
la prima bomba atomica, esplosa, ad Alamogordo, tre settimane prima dell’olocausto
di Hiroshima.
Le forze armate
americane decisero di testare due armi profondamente diverse per muovere i
primi tragici e inumani passi nell’Era Atomica.
Little Boy funzionava in base al principio gun-type, per cui una sorta di cannone spara un proiettile di
uranio di massa sub-critica contro un altro elemento di uranio, egualmente
sub-critico, fino a costituire una massa critica che dà inizio a una reazione a
catena. Uno schema costruttivo mai sperimentato, che fa sorgere il dubbio se l’ordigno
sganciato dal B29 Enola Gay,
comandato dal colonnello Paul W. Tibbets, fosse un vero e proprio test.
La bomba che
distrusse Hiroshima aveva una potenza stimata in 15 kiloton, ovvero 15mila
tonnellate di tritolo, era lunga 3 metri, larga 71 centimetri e pesava 4,4
tonnellate.
Del tutto diversa,
e più potente, Fat Man, che
sfruttava, invece, l’energia prodotta dalla fissione di nuclei di plutonio. Le
masse subcritiche erano disposte – secondo una configurazione ideata dallo
scienziato di Los Alamos, Seth Neddermeyer – sulla superficie di una sfera.
Queste masse erano spinte le une contro le altre a formare una massa
ipercritica da alti esplosivi accuratamente disposti. Questa configurazione,
chiamata a implosione, era – ed è – più efficiente di quella rudimentale usata
per Little Boy. Permetteva di usare
meno combustibile nucleare e di aumentare lo yield, ovvero la potenza distruttiva. Questo schema dava agli Stati
Uniti la possibilità di costruire più bombe con la stessa quantità di materiale
fissile. Fat Man aveva uno yield di 21 kiloton, era lunga 3,25
metri e larga 1,5 metri: in pratica, una sfera di 4,65 tonnellate con un gruppo
di alettoni stabilizzatori.
Entrambe erano,
dunque, enormi e costituirono le armi totali per costringere alla resa il
Giappone, peraltro già stremato e con città e fabbriche distrutte dai bombardamenti
a tappeto con il napalm e dalle bombe
dirompenti sgangiate dai B29, agli
ordini del discusso generale Curtis Emerson LeMay [https://www.youtube.com/watch?v=L2NUV7Lf2yY].
Con il secondo
bombardamento, gli Stati Uniti volevano far credere di essere in possesso di un
arsenale più ampio, che venne costruito solo in seguito, con una proliferazione
di armi nucleari, sia strategiche sia tattiche, con potenza variabile da meno
di un kiloton a più megaton, sviluppati dalle bombe H, vere e proprie doomsday machines, macchine del giudizio
universale di enorme potenza, che sfruttano l’energia liberata dalla fusione di
atomi di deuterio, indotta, a sua volta, da una esplosione atomica da fissione
di plutonio, secondo uno schema ideato da Edward Teller e Stanislav Ulam, sulla
base di concetti sviluppati da Enrico Fermi e convalidati dai calcoli di John
von Neumann, che realizzò il calcolatore Edvac, padre di tutti i computers attuali, e ispirò il
personaggio del Dottor Stranamore.
Il
Quotidiano Eritreo,
8 agosto 1945.
L’equipaggio dell’Enola Gay [da sinistra]: il maggiore
Thomas W. Ferebee, il colonnello Paul W. Tibbets., il capitano Theodore J. Van
Kirk e il capitano Robert Lewis.
Il
fungo atomico, sprigionatosi su Hiroshima, il 6 agosto 1945, dà l’avvio alla
gara per assicurarsi un posto tra i Paesi possessori della bomba atomica.
Il
3 ottobre 1952, con il primo esperimento di esplosione di una bomba A al
plutonio nelle Isole Montebello, la Gran Bretagna si assicura il posto di terza
potenza atomica, sebbene il primo esperimento con una bomba termonucleare, vale
a dire una bomba H, effettuato dagli Stati Uniti, il 31 dello stesso mese, nell’Atollo
di Eniwetok e, dieci mesi dopo l’esplosione della bomba H sovietica, dimostrassero
quanto in ritardo fosse la Gran Bretagna nella gara intrapresa.
Il Gembaku Domu o A-Bomb Dome o Cupola della Bomba Atomica,
ossia quello che resta dell’edificio che ospitava l’Industrial Promotion Hall, è divenuto il simbolo della distruzione subita da Hiroshima ed è stato dichiarato, nel 1996, Patrimonio
dell’Umanità dall’UNESCO.
Tra il 1953 e il 1956, gli scienziati dell’Atomic Weapons Research Establishment [AWRE],
diretto da Sir William George Penney, si limitano, ancora, a far esplodere
altri dieci ordigni A nei poligoni di Woomera, Montebello, Maralinga.
Sopravvissuto al
disastro di Hiroshima.
Solo il 15 maggio 1957, quattro anni e mezzo dopo
la bomba H americana, gli inglesi saranno
in grado di fare esplodere la prima bomba H nelle Isole Christmas. L’ordigno,
innescato con una bomba al plutonio – mentre gli Stati Uniti usano, già, per l’innesco
una bomba all’uranio – è sperimentale, vale a dire tale per dimensioni e peso
da non potere essere usato per scopi bellici. Sia la bomba esplosa, il 15
maggio 1957, sia la succesiva del 31 maggio dello stesso anno, sono sferiche,
con un diametro di 3 metri e un peso di 4 tonnellate. Sono state portate sull’obiettivo
da un bombardiere Valiant, ma non possono costituire armamento degli aerei.
Seguiranno altri esperimenti: cinque bombe A tra
il giugno e il novembre del 1957; una bomba H, il 28 aprile 1958 e due bombe A
e due bombe H, nell’agosto e nel settembre del 1958.
Dal 31 ottobre 1958, con l’inizio dei negoziati
per la tregua nucleare, la Gran Bretagna sospende gli esperimenti nella
atmosfera, limitandosi a effettuare due esplosioni sotterranee, nel poligono
americano del Nevada, nel marzo e nel dicembre del 1962.
La
Francia, invece, che persegue un obiettivo ambizioso: divenire una potenza
atomica, al pari della Cina, non aderisce al trattato.
Dal
1954, la Francia ha iniziato la corsa all’armamento atomico con la creazione di
un ufficio speciale in seno al Commissariat à l’Energie Atomique [CEA], e, quattro anni dopo, nel
gennaio del 1958, ha, anche, varato un decreto per l’organizzazione della prima
serie di esplosioni sperimentali. Con l’ascesa, poi, al potere di Charles de
Gaulle, l’11 aprile 1958, lo sviluppo del programma viene accelerato, sotto la
direzione del generale Charles Ailleret.
Il fungo atomico, causato dalla
bomba atomica Fat Man su Nagasaki,
raggiunse i 18 chilometri di altezza.
Mururoa
La Francia è, indubitabilmente, uno
dei Paesi che più ha investito sul nucleare.
Tra
il 1960 e il 1996, la Francia realizza 210 tests
nucleari: 17 nel Sahara algerino e 193 nella Polinesia francese, finché, il 29
gennaio 1996, conclusi sei degli otto esperimenti previsti, Jacques Chirac
annuncia la fine della campagna e appone la sua firma al trattato
internazionale che vieta i tests
nucleari.
Nel
2006, emergerà da documenti declassificati del Ministero della Difesa che
Tahiti, l’isola più estesa e più popolata della Polinesia francee [178mila
abitanti] è stata esposta a livelli di radioattività 500 volte superiori a
quelli massimi consentiti ed è stata colpita 37 volte dal fallout.
Appariranno,
anche, i primi dati ufficiali sulle conseguenze di quelle esplosioni sulla
salute della popolazione locale: una équipe
dell’Institut
National de la Santé et de la Recherche Médicale [INSERM] divulgherà
i risultati di una ricerca su 239 casi di tumore, che prova il collegamento tra
i tests e il rischio di cancro alla
tiroide.
“L’Oceano Pacifico è stato teatro di numerose eplosioni
nucleari. In effetti è proprio da questa regione che tutto ebbe inizio: gli
attacchi a Hiroshima e Nagasaki nel 1945, unici casi di utilizzo ostile di armi
nucleari nella Storia, furono sferrati dalle Marianne settentrionali, nel
Pacifico Nord-Occidentale. In seguito gli Stati Uniti, il Regno Unito e la
Francia hanno condotto tests nucleari in questa regione.
La questione degli esperimenti atomici fu uno degli argomenti
principali nel corso del primo incontro del South Pacific Forum [SPF, ora PIF
del South Island Forum] nel 1971. Nel 1986 il Trattato di Rarotonga, elaborato
dall’SPF, sancì la creazione della Zona Denuclearizzata del Sud Pacifico,
vietando le armi atomiche e lo smaltimento delle scorie nucleari. Il trattato
fu ratificato 10 anni dopo da Francia, Stati Uniti e Regno Unito.
Il programma francese di tests nucleari nel Pacifico iniziò nel
1966 con alcuni eperimenti condotti nell’atmosfera a Mururoa e Fangataufa,
nella Polinesia francese. Questi primi tests provocarono un aumento sensibile
del tasso di radioattività in diversi Paesi del Pacifico, riscontrabile
addirittura in Nazioni come le Fiji, situate a ben 4 500 km di distanza verso
Ovest. I tests atmosferici furono abbandonati nel 1974 in seguito alle forti
pressioni internazionali, ma gli esperimenti sotterranei [in tutto 127 a Mururoa e 10 a Fangataufa] proseguirono
fino al 1996.
I tests nucleari nell’atmosfera condotti dagli Stati Uniti, che
cessarono nel 1970, hanno reso inabitabili le Isole di Rongelap e Bikini [tuttavia
i due atolli si possono visitare per brevi periodi]: i loro abitanti vivono ora
nell’infelice condizione di esiliati nelle isole vicine.
Non meno gravi sono i tests sotterranei sui fragili atolli
corallini: i tecnici francesi hanno infatti rilevato la comparsa di fratture
nella fragile struttura corallina degli Atolli di Mururoa e Fangataufa, nonché
tracce di plutonio nella Laguna di Mururoa. Se dovesse verificarsi una
massiccia perdita di materiale radioattivo nell’Oceano Pacifico, le conseguenze
sarebbero disastrose e si estenderebbero a una zona molto vasta.”
Charles Rawlings, Sud Pacifico
Da sinistra a destra: Ernest O.
Lawrence, Arthur H. Compton, Vannevar Bush, James B. Conant, Karl T. Compton, e
Alfred Loomis [marzo del 1940, University
of California, Berkeley].
100mila
militari e civili hanno partecipato ai 210 tests
nucleari, dal 1960 al 1996, nel Sahara e in Polinesia.
Ogni
anno, si registrano 540 nuovi casi di cancro tra i 260mila polinesiani.
In-Ecker
Gli scienziati di Los Alamos che giocavano con le bombe atomiche,
negli Anni Quaranta, avevano ideato una simpatica espressione per definire il
loro lavoro: stuzzicare la coda del dragone.
Incidente di Béryl
Béryl, 1 Maggio 1962. La Francia
effettua il suo secondo test nucleare
sotterraneo, ma la montagna Taourirt che doveva contenere l’esplosione, si
fessura e libera una nuvola radioattiva che contamina diversi militari e ufficiali.
Sono presenti, al momento dell’eplosione, due ministri francesi, Pierre
Messmer, ministre des Armées, e
Gaston Palewski, ministre de la recherche
scientifique et des affaires atomiques, che
morirà di leucemia.
Erano consapevoli del mostruoso potere distruttivo che
manipolavano, ma non ne erano atterriti, erano sicuri che la loro scienza
avrebbe tenuto a bada ogni dragone.
I risultati di questa superbia sono gli orrori nucleari, con cui
tutti noi dobbiamo convivere da decenni e per chissà quanto tempo ancora.
Le armi tossiche, batteriologiche o chimiche sono state oggetto di
più trattati, a partire dal Protocollo concernente la proibizione di usare in guerra gas
asfissianti, tossici o simili e mezzi batteriologici del 17 giugno 1925 [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19250020/index.html], che sostituiva, avendo contenuto più ampio, la precedente Dichiarazione
circa l’uso di proiettili che spandono gas asfissianti o deleteri del 29 luglio
1899 [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/18990008/index.html].
La
Convenzione che vieta la messa a punto, la fabbricazione
e lo stoccaggio delle armi batteriologiche [biologiche] o a base di tossine e che disciplina la loro distruzione
del 10 aprile 1972
[https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19720074/index.html], pur non riguardando direttamente la guerra, ha, comunque,
influenza sul diritto umanitario. Sarebbe, infatti, illogico considerare lecito
l’utilizzo durante una guerra, di armi la cui produzione e il cui stoccaggio è
vietato e per le quali è previto l’obbligo di distruzione di quelle esistenti.
La Convenzione, inoltre, prevede che le sue diposizioni non possano essere
considerate come recanti pregiudizio agli obblighi previsti dal Protocollo del
1925.
Il divieto di
utilizzo è, invece, espressamente, previsto da un altro trattato sul disarmo,
la Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione,
immagazzinaggio e uso di armi chimiche e sulla loro distruzione del 13 gennaio 1993 [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19980132/index.html]. La
Convenzione, oltre a vietare lo sviluppo, la produzione, lo toccaggio e
l’impiego di armi chimiche, impone agli Stati parte di distruggere le armi
chimiche in loro possesso e gli impianti di produzione di queste armi. La Convenzione
prevede,
altresì, che le sue disposizioni non potranno essere
intrerpretate al fine di limitare gli obblighi assunti in base al Protocollo
del 1925 o alla Convenzione del 1972. Questa norma di coordinamento insieme
alla analoga norma contenuta nella Convenzione del 1972, rende applicabili le
norme più rigorose tra quelle previste nei tre trattati.
Un divieto particolare è previsto dalla Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente
a fini militari e a ogni altro scopo ostile del 10 dicembre 1976 [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19760318/200402200000/0.515.06.pdf]. Questo trattato proibisce l’utilizzo di tecniche di modifica dell’ambiente
che producano effetti diffusi, di lunga durata o particolarmente gravi – tali
da comportare, a esempio, terremoti, maremoti, scompensi nell’equilibrio
ecologico di una regione, cambiamenti del clima, delle correnti oceaniche,
della ionofera –.
Tuttavia, non vennero inclusi i progetti “pacifici”, la “pura
ricerca”, i progetti per l’energia solare o i progetti di sviluppo industriale.
Nessun cenno al consenso informato della popolazione.
I Governi, molto semplicemente, modificarono la loro posizione
nelle pubbliche relazioni.
Gli Stati Uniti, a esempio, avviarono ricerche sul clima,
finalizzate ad aumentare la produzione di cibo nelle pianure nord-americane.
che
non è, ancora, potuto entrare in vigore, di modo che la proibizione non è
operativa e qualunque Stato – a oggi – potrebbe lecitamente riprendere o
iniziare un programma di tests nucleari esplosivi sotterranei, senza incorrere
in un illecito sulla base del diritto internazionale. Quanto manca è il numero
minimo di ratifiche che lo stesso Trattato prescrive: in particolare, è
indispensabile la ratifica di tutti i 44 Stati nominalmente indicati
nell’allegato 2. Mancando anche solo una tra queste, il Trattato resterà privo
di effetti giuridici. È lo stesso che dire che ognuno dei 44 Stati
dell’allegato 2 ha una sorta di potere di veto, tale che senza il suo specifico
consenso tutti gli sforzi compiuti verso il bando totale degli esperimenti
nucleari saranno inutili. Le potenze nucleari parti del TICE hanno tutte firmato l’accordo e si è avuta, in tempi rapidi,
la ratifica di Francia, Regno Unito e anche della Russia: ma manca, a oggi la
ratifica di Cina e Stati Uniti, che si sono impegnati a partecipare
all’attuazione del sistema di sorveglianza internazionale, senza, tuttavia,
accettare di cessare ogni test nucleare.
Altri Stati nucleari, compresi anch’essi nella lista dei 44, non hanno nemmeno
firmato l’accordo: si tratta degli stessi che rifiutano di aderire al TICE,
vale a dire Corea del Nord, Egitto, India, Iran, Israele e Pakistan.
Le guerre toccano sempre più i civili e sempre
meno i militari.
Tra
i 35 e i 40 milioni di soldati sono stati uccisi nel XX secolo.
Ma
quanti civili?
Daniela Zini
Copyright © 23 settembre 2017 ADZ
Conosciuto anche come Cimitero Protestante
o Cimitero degli
Inglesi, il Cimitero
Acattolico di Roma,
situato nel quartiere Testaccio,
nei pressi della Porta
San Paolo e della Piramide
Cestia, fu istituito in seguito alla emanazione di una Legge
Pontificia, che proibiva a tutti i non-cattolici,
ma anche ai suicidi,
di essere sepolti in terra
consacrata.
Tutte gli eccidi hanno avuto o
la matrice della criminalità mafiosa oppure la presenza tra gli imputati di
esponenti della destra eversiva fascista e di ufficiali dei servizi segreti.
La Strage di Piazza Fontana fu
un evento che sconvolse il Paese, perché non era semplice individuare i
responsabili e, soprattutto, i mandanti. Le indagini condotte da magistrati di
straordinario valore professionale ed etico condussero all’accertamento di gran
parte della verità, nonostante le resistenze e i depistaggi operati da uomini
dello Stato. Il pubblico ministero Pietro Calogero, allora ventottenne, al suo
primo incarico, e il giudice istruttore Giancarlo Stiz scoprirono, avvalendosi
di un testimone inconfutabile le responsabilità di esponenti di Ordine Nuovo.
E non solo!
Anni dopo, Calogero dichiarava:
“Manca
un’assunzione di responsabilità della Repubblica, anzi di colpa, perché si deve
riconoscere che organi dello Stato ostacolarono, depistarono, coprirono: una
manovra orchestrata.”
I Nuclei Armati Rivoluzionari
[NAR] furono una
organizzazione terroristica italiana di ispirazione neofascista, nata a Roma e
attiva dal 1977 al 1981. Durante i quattro anni di attività i NAR furono ritenuti responsabili di 33
omicidi nonché della morte di 85 persone nella Strage di Bologna, per la quale
furono condannati come esecutori materiali, con sentenza definitiva, Giuseppe
Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini.
Terza Posizione è
stato un movimento neofascista eversivo italiano fondato a Roma, nel 1978, da
Giuseppe Dimitri, Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi e rimasto attivo fino al
1982. Organizzata in modo verticistico, con a capo i tre fondatori, Adinolfi,
Fiore e Dimitri e caratterizzata da un’impostazione militaristica, la struttura
romana di TP era divisa per zone di
competenza e ogni zona faceva riferimento a uno o più quartieri della città e
veniva presidiata attraverso i Cuib [nido, in rumeno. Termine che
identificava la Guardia di Ferro di Cornelio Codreanu]: gruppi di militanti
composti da tre o quattro attivisti, cui veniva affidata, anche, la formazione
politico-militare dei ragazzi più giovani. Oltre ai Cuib, vennero creati
altri due organi interni per la cura dell’aspetto militare: il Nucleo Operativo e la Legione.
Costruiamo l’Azione
[CLA] fu un movimento politico italiano di estrema destra, nato, alla fine
del 1977, parallelamente alla pubblicazione dell’omonima rivista, su iniziativa
di Paolo Signorelli e Sergio Calore.
Diversamente dai movimenti della
destra radicale, attivi negli Anni Settanta, l’esperienza movimentista di CLA trovò la sua specificità sul piano
politico e strategico, nel tentativo di superamento dei cosiddetti opposti
estremismi, in previsione di una possibile convergenza operativa con gli
omologhi gruppi della sinistra extraparlamentare, volta a colpire i simboli del
potere statale.
L’arresto di Calore e di Fabio
de Felice, due dei leaders dell’organizzazione,
contribuirono, in concorso con altre ragioni convergenti, al progressivo
dissolvimento del movimento che terminò, quindi, la sua esperienza, nel 1980.
Il 2 agosto 1980, alle ore 10:25, una bomba esplode nella sala d’aspetto
di seconda classe della Stazione di Bologna. Lo scoppio è violentissimo,
provoca il crollo delle strutture sovrastanti le sale d’aspetto di prima e di seconda
classe, dove si trovano gli uffici dell’azienda di ristorazione Cigar, e di
circa 30 metri di pensilina. L’esplosione investe anche il treno Ancona-Chiasso
in sosta al primo binario.
Il
bilancio finale sarà di 85 morti e 200 feriti.
La Strage di Bologna è il più grave atto terroristico avvenuto in
Italia, nel Secondo Dopoguerra, da molti indicato come uno degli ultimi atti
della Strategia della Tensione.
Come esecutori materiali furono
individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra, appartenenti
ai Nuclei Armati Rivoluzionari, tra
cui Valerio Fioravanti. Gli ipotetici mandanti sono rimasti sconosciuti, ma
furono rilevati collegamenti con la criminalità organizzata e i servizi
segreti.
Nell’attentato rimasero uccise
85 persone e oltre 200 ferite. Le indagini si indirizzarono da subito sulla
pista neofascista, ma solo dopo un lungo iter
giudiziario e numerosi depistaggi [per cui furono condannati Licio Gelli,
Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza], la sentenza finale
del 1995 condannò Valerio Fioravanti e Francesca Mambro “come appartenenti alla banda armata che ha organizzato e realizzato l’attentato
di Bologna” e per aver “fatto parte
del gruppo che sicuramente quell’atto aveva organizzato”, mentre, nel 2007,
si aggiunse, anche, la condanna di Luigi Ciavardini, minorenne all’epoca dei
fatti.
Dal 3 al 5 maggio del 1965 si
svolge a Roma il primo convegno di studi politici e militari indetto dall’Istituto
Alberto Pollio, organismo privato da poco costituito negli ambienti vicini allo
Stato Maggiore della Difesa per iniziativa di due giornalisti di estrema
destra, Enrico De Boccard e Gianfranco Finaldi, subito affiancati da un terzo,
Edgardo Beltrametti [stretto collaboratore del Capo di Stato Maggiore della
Difesa], che curerà la pubblicazione degli atti del convegno.
Il convegno è presieduto da un
magistrato e da due alti ufficiali dell’esercito. tra i relatori figurano i
nomi di Guido Giannettini e Pino Rauti. Vi partecipano personalità del mondo
imprenditoriale e, come risulta dalla relazione introduttiva, “venti studenti universitari che l’istituto
ha pregato – dopo una selezione di merito – di prendere parte ai lavori appunto
come gruppo”. Tra questi è stata accertata la presenza di Stefano Delle
Chiaie e Mario Merlino, noti protagonisti di eventi successivi. Il convegno
aveva a oggetto “La guerra rivoluzionaria.
Assunto fondativo era che una Terza Guerra Mondiale fosse, già, in atto, non nelle
forme tradizionali del conflitto dichiarato, ma condotta “secondo dottrine, tecniche, procedimenti, formule e concetti
totalmente inediti... elaborati adottati e sperimentati dai comunisti in
termini globali e su scala planetaria” ai cui “principi è ispirata comunque e dovunque la condotta non soltanto degli
Stati comunisti ma anche dei partiti comunisti che operano nei Paesi del mondo
libero” e per i quali “la
competizione politica è in ultima analisi un fatto bellico avente come
obiettivo la sconfitta totale dell’avversario”. Da qui, la necessità per la
parte avvertita del mondo occidentale di una risposta adeguata ed efficace
sullo stesso terreno e cioè mediante tecniche appropriate, che il convegno,
appunto in tale prospettiva di studio, si poneva il compito di individuare.
Particolarmente interessante
appare la proposta avanzata dal professor Filippani Ronconi di opporre “un piano di difesa e contrattacco rispetto
alle forze di sovversione”, predisponendo uno “schieramento differenziato su tre piani complementari, ma tatticamente
impermeabili l’uno rispetto all’altro”, utilizzando “le tre categorie di persone sulle quali si può in diversa misura
contare”.
Più in analisi:
“a]
Su un piano più elementare disponiamo di individui i quali, seppure ben orientati...
nei riguardi di un’ipotetica controrivoluzione, sono capaci di compiere un’azione
puramente passiva... Questa prima, rudimentale rete, potrà servire per una
prima “conta” delle persone delle quali si potrà disporre...
b]
Il secondo livello potrà essere costituito da quelle altre persone naturalmente
inclini o adatte a compiti che impegnino “azioni di pressione”, come
manifestazioni sul piano ufficiale, nell’ambito della legalità, anzi in difesa
dello Stato e della legge conculcati dagli avversari. Queste persone, ...
potrebbero provenire da associazioni d’arma, nazionalistiche, irredentistiche,
ginnastiche, di militari in congedo [e] dovrebbero essere pronte ad affiancare
come difesa civile le forze dell’ordine nel caso che fossero costrette ad intervenire
per stroncare una rivolta di piazza.
c]
A un terzo livello, molto più qualificato e professionalmente specializzato,
dovrebbero costituirsi - in pieno anonimato sin da adesso - nuclei scelti di
pochissime unità, addestrati a compiti di controterrore e di “rotture”
eventuali dei punti di precario equilibrio, in modo da determinare una diversa
costellazione di forze al potere. Questi nuclei, possibilmente l’un l’altro
ignoti, ma ben coordinati da un comitato direttivo, potrebbero essere composti
in parte da questi giovani che attualmente esauriscono sterilmente le loro
energie, il loro tempo e, peggio ancora, il loro anonimato in nobili imprese
dimostrative che non riescono a scuotere l’indifferenza della massa di fronte
al deteriorarsi della situazione nazionale.”
WikiLeaks ha pubblicato, l’8 aprile 2013, 1.707.499 documenti della
diplomazia statunitense che vanno dal 1973 al 1976 e riguardano le
comunicazioni tra Henry Kissinger, prima consigliere per la sicurezza nazionale
e poi segretario di Stato, e le ambasciate di tutto il mondo. A differenza dei
cablogrammi pubblicati, per la prima volta, da WikiLeaks nel 2010, questi documenti sono stati desecretati dallo
stesso governo americano: il gruppo di Julian Assange si è limitato ad
assemblarli in un database, chiamato PlusD [Public Library of the United States
Diplomacy] e a renderli reperibili per parole chiave. WikiLeaks ha fornito accesso esclusivo a questi documenti a un
gruppo di 19 media internazionali, tra cui l’Espresso in Italia, Pagina
12 in Argentina, l’Hindu in India e The Age in Australia.
Dal
database, messo a punto dall’organizzazione di Julian Assange, emerge, poi, un
dettaglio inquietante: le comunicazioni diplomatiche, riguardanti il potente
servizio segreto di Vito Miceli, al centro di mille scandali e disegni
eversivi, vengono inviate dall’Ambasciata di Roma al Dipartimento di Stato a
Washington, ma non sempre vi si fermano, in alcuni casi, vengono inoltrate a Ho
Chi Minh City.
Perché?
Chi
poteva essere interessato alle trame del SID, nel Vietnam, devastato dalla
guerra?
I nomi, Pier Paolo Pasolini li
sapeva. Le prove le stava raccogliendo, per scrivere un libro dirompente: Petrolio. Duemila pagine che avrebbero
raccontato all’Italia, al mondo, le trame oscure del Potere, la verità sul
delitto di Enrico Mattei, presidente dell’ENI,
e del giornalista Mauro De Mauro, l’avvento di un regime dominato dalla finanza
e dalle multinazionali. Ma quel romanzo, il poeta di Casarsa non è riuscito a
finirlo. La sua vita si è spezzata nel brutale pestaggio della notte del 2
novembre del1975 all’Idroscalo di Ostia.
Il libro avrebbe dovuto inchiodare Eugenio Cefis, presidente dell’ENI, prima, e della Montedison, poi.
Grande Burattinaio nell’Italia delle Stragi, sospettato di essere il vero capo
della potente Loggia Massonica P2. Come fonte Pier Paolo Pasolini usava il
libro Questo è Cefis di Giorgio
Steimetz [http://www.ilgiornale.it/news/cefis-pasolini-e-litalia-dei-misteri-torna-libro-scomparso.html],
pseudonimo di Corrado Ragozzino, titolare dell’Agenzia Milano Informazioni, ora scomparso.
Ma Ragozzino non sarebbe il vero
autore del libro.
Si suppone che abbia dato l’incarico
di scriverlo a qualche personaggio addentro alle vicende dell’ENI. Pubblicato, nel 1972, dalla
suddetta agenzia, il libro fu ritirato subito dopo la pubblicazione. Ed è
strano che ne siano scomparse tutte le copie dalle librerie, anche quelle d’obbligo
dalle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze.
Eugenio Cefis è stato dirigente
di azienda e imprenditore. È stato consigliere dell’AGIP, e, per qualche tempo, anche braccio destro di Enrico Mattei
all’ENI. Poi, il sodalizio si è rotto
e Cefis ha lasciato l’ENI; ma,
provvisoriamente, perché ne diviene presidente dopo la morte di Mattei [1967].
Pasolini era convinto che il
mandante fosse Cefis e si serviva della Letteratura per fare questa denuncia.
Cefis non fu mai stato accusato.
Cefis aveva sollevato molte
polemiche, quando aveva acquistato, segretamente, azioni della Montedison [il colosso chimico nato, nel
1966, dalla fusione della Montecatini
con l’ex-azienda elettrica Edison] con i soldi dell’ENI, divenendo, nel 1971, presidente della stessa Montedison, una società privata,
servendosi del denaro dell’ENI, vale
a dire di denaro pubblico.
Nel momento in cui Pasolini scriveva Petrolio, Cefis era, ancora, vivo. Più tardi, si ritirò dalla scena
pubblica e quando scomparve, nel 2004, la sua morte passò quasi inosservata e
sotto silenzio.
Nel 1975, Roberto Calvi viene
eletto presidente del consiglio di amministrazione del Banco Ambrosiano. Lo
stesso anno, diviene membro della Loggia P2, che era stata creata da Licio
Gelli e di cui faceva parte, anche, Michele Sindona. Nel Lussemburgo ritroviamo
Calvi non solo nelle holdings del
gruppo Ambrosiano, ma anche come membro del consiglio di amministrazione della Kreclietbank Luxembourg [che occupa, in
Cedel, un posto di primo piano]. D’altra parte, la principale Loggia Massonica
lussemburghese lo accetta tra le sue fila, mentre rifiuta l’ammissione a
Michele Sindona, sapendo che questi era stato condannato, in Italia, nel 1976,
ed era stato arrestato negli Stati Uniti.
Dopo la sentenza di fallimento,
della Banca Privata Italiana, i magistrati Guido Viola e Ovilio Urbisci
emettono due mandati di cattura contro i latitanti Michele Sindona e Carlo
Bordoni con una imputazione pesantissima: bancarotta fraudolenta.
È pubblico il primo rapporto
alla Procura di Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana,
fatto uccidere da Michele Sindona, nel 1979.
“Il
22.10.1974 il sottoscritto ha reso alla S.V. deposizione sui fatti emersi da un
primo esame [...] ed ora è in grado di offrire una prima relazione...”
Così Giorgio Ambrosoli, che ha
assunto, il 29 settembre 1974, le funzioni di unico commissario liquidatore
della Banca Privata Italiana, il cuore dell’impero in dissesto di Michele
Sindona, scrive in apertura delle 14 pagine che compongono la prima relazione
al procuratore della Repubblica [il pm che segue la bancarotta è Guido Viola, e
Ovidio Urbisci è giudice istruttore], datata 21 marzo 1975.
Il documento, inedito e che
precede il primo rapporto inviato alla Banca
d’Italia, il 26 giugno, [Governatore è Guido Carli fino all’agosto 1975,
poi gli succede Paolo Baffi], fa parte dell’archivio della Banca Privata
Italiana riordinato, reso, ora, consultabile e conservato dalla Camera di
Commercio di Milano, per conto dell’Archivio di Stato. Un tesoro composto da 8
944 fascicoli, dei quali 6 300 riguardano l’attività degli istituti che, nel
1974, sono divenuti la Banca Privata Italiana, mentre gli altri sono relativi
all’attività liquidatoria di Ambrosoli e di chi ne proseguirà il lavoro – dopo
che l’11 luglio, l’“eroe borghese” verrà ucciso dal killer William Arico, su mandato di Michele Sindona – agli
interrogatori e agli atti delle “scatole” societarie costruite dal
bancarottiere.
Colpiscono nella relazione le
righe che definiscono tratti caratteriali e professionali di Ambrosoli come il
senso del dovere e di responsabilità. “Per
quanto dal 27.9 siano decorsi quasi sei mesi, il sottoscritto ha potuto
dedicare poco tempo alle indagini ai fini della relazione, occupato dalla
gestione quotidiana dell’azienda: se invero chiudere un’azienda è relativamente
facile, assai più complessa e lunga è la liquidazione di un’azienda di credito
la cui “vita” continua anche dopo la messa di liquidazione per i molteplici
rapporti in essere soprattutto con l’estero.”
Il commissario sottolinea la
convinzione che la Procura, disponendo delle relazioni degli ispettori di
Bankitalia, abbia già elementi “per
procedere nei confronti dei responsabili”. Pertanto, ha dedicato l’attenzione
“ai problemi più urgenti per svolgere le
operazioni di liquidazione”: dalla formazione dello stato passivo alla “sistemazione presso altri istituti del
personale dell’azienda”. L’entità del dissesto che emerge dalla contabilità
raggiunge 531 miliardi di lire, ma Ambrosoli spiega di aver “contenuto” il
passivo in 417 miliardi “contestando
crediti ed effettuando compensazioni”. Nella relazione il commissario già
traccia i meccanismi fraudolenti messi in atto dal bancarottiere:
“Operazioni
di affidamento a società estere per il tramite di poche banche straniere tutte
o quasi strettamente collegate al gruppo Sindona.” Così “enormi masse di denaro sono trasmesse all’estero e buona parte di tali
importi è stata trasferita a beneficiari sconosciuti”.
Dai primi mesi del 1974 il
gruppo ha “operato nella prospettiva del
dissesto”. Ambrosoli descrive, poi, perdite da prestiti “diretti” a società estere “non previste dal consiglio”, “distorsioni contabili di gravità tale da
alterare la veridicità dei bilanci”. E si sofferma sulle operazioni in
cambi non contabilizzate che portano alla “falsificazione
di documenti contabili, all’occultamento di costi e ricavi”: sono pervenute
“domande di tre creditori” tra cui lo
IOR, l’Istituto del Vaticano, per “ingenti depositi in dollari”,
contabilizzati “invece come depositi di
una banca estera presso la Privata”.
Le responsabilità?
Fanno carico “a chi amministrava la banca, o meglio,
disponendo della maggioranza azionaria, era l’ispiratore di ogni attività”.
A Sindona, dunque.
Sebbene “non meno gravi” sono quelle di “amministratori,
sindaci, dirigenti che hanno passivamente ordinato, disposto ed eseguito”.
Nelle quattordici pagine vi è,
già, tutto ciò che porterà al sacrificio di Ambrosoli, il quale, pochi giorni
prima, aveva scritto alla moglie Annalori:
“Pagherò
a molto caro prezzo l’incarico. Qualunque cosa succeda tu sai che cosa devi
fare e sono certo saprai fare benissimo.”
“Tanto
doverosamente premesso ed anticipando le conclusioni dell’analisi che ci si
appresta a svolgere, si può affermare che gli accertamenti compiuti dai giudici
bolognesi, così come sono stati base per una sentenza assolutoria per non
sufficientemente provate responsabilità personali degli imputati, costituiscono
altresì base quanto mai solida, quando vengano integrati con ulteriori elementi
in possesso della Commissione, per affermare: che la strage dell’Italicus è
ascrivibile ad una organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o
neonazista operante in Toscana; che la Loggia P2 svolse opera di istigazione
agli attentati e di finanziamento nei confronti dei gruppi della destra
extraparlamentare toscana; che la Loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella
strage dell’Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale
essenziale retroterra economico, organizzativo e morale.”
Vi sono episodi della Storia
della nostra Italia talmente grotteschi, da rendere indistinguibile dove
finisca la farsa e inizi la tragedia. Uno di questi è il Golpe Bianco. Tutto inizia, nel 1974, con il tenente colonnello
Giuseppe Condò, militare del SIOS
Esercito, che ha una missione di massima rilevanza da svolgere: si
deve infiltrare all’interno di un ambiente eversivo, i salotti nobiliari della
contessa Maria Antonietta Nicastro. Nei ricevimenti aristocratici di Torino,
tra una nota di valzer e una coppa di champagne, si parla anche di politica e
della situazione italiana: i comunisti, sembra, possano andare al Governo, gli
operai e gli studenti sono in protesta perenne, cosa potrà accadere dopo?
Vi è preoccupazione e fermento.
Condò, fingendosi interessato ai
programmi che hanno nobili e notabili per evitare l’infausta prospettiva di
essere spazzati via, raccoglie le dirette confidenze del conte Edgardo Sogno
Rata del Vallino di Ponzone. Il conte spiega a Condò il “piano di emergenza”,
che ricalca il piano di Rinascita della Loggia
P2, dove risulterà iscritto.
Il tenente Condò prende nota e
manda le sue relazioni ai superiori. Il “piano di emergenza” è un colpo di
Stato vero e proprio, che si può concretizzare anche susseguentemente a tumulti
o attentati, una situazione dove verrebbe meno qualunque diritto
costituzionale. Il svizio segreto, con le informazioni in mano, si adopera
perché il Golpe non possa attuarsi. Ovviamente, non per fedeltà alla
democrazia, ma solo per mere questioni di sopravvivenza al Potere.
Il dossier arriva al generale Vito Miceli, capo del SID
e piduista.
È stato lo stesso Licio Gelli a
porlo al vertice del servizio segreto nel 1969, tramite il ministro Tanassi.
Il materiale raccolto da Condò
serve a Miceli perché, in seno al SID
è in atto una rivoluzione, lo vogliono far fuori, facendo leva proprio sui
fatti della notte dell’Immacolata.
È una lotta intestina, dentro e
fuori la P2, dove i nuovi tecnocrati [i “bianchi”] vogliono imporre un
rinnovamento politico [liberale di destra] tagliando al contempo i vecchi
rami compromessi con il principe Borghese [che sono i “neri”].
Nel luglio sono arrivate sul
tavolo di Andreotti, Ministro della Difesa, due relazioni: una è quella che
aveva promosso lui, attinente al Golpe Borghese, fatta dal generale Gianadelio
Maletti e dal capitano Antonio Labruna. Vi è il coinvolgimento dimostrato del
generale Miceli nei fatti del 1970. Miceli però, da par suo, in quel mese ha
già dato ad Andreotti la relazione sul Golpe Bianco. Anche lì ci sono diversi
nomi, soprattutto militari, ma anche politici. Andreotti fa diramare strette
misure anti-golpe, silura Miceli e sostituisce diversi generali. Poi deve far
sparire tutte le tracce della battaglia e limitare i danni. Dato che congiurati
e anti-congiurati sono quasi tutti della P2, fa snellire i dossier del SID,
dove vengono tolti i riferimenti su Gelli e sulla sua loggia, prima che li
vedano i magistrati [e ai quali saranno passate solo una parte delle
trascrizioni]. Il rischio di finire nel pantano tutti insieme sarebbe alto. Il
lavoro di censura non salva però il Ministro dal ricatto, anzi. Il giornalista
anarco-piduista Carmine Pecorelli, tramite la sua agenzia di stampa OP,
conosce i retroscena e li usa per attaccare “il Divo Giulio” con la storia del “malloppone”
che è diventato “malloppino” [e col fatto che abbia scompigliato la nostra
intelligence per machiavellismo politico].
Junio Valerio Borghese,
latitante in Spagna [ospite del dittatore Francisco Franco] invece vede finire
la sua epoca in ogni senso, perché il 26 agosto muore improvvisamente, forse
per pancreatite, forse perché avvelenato. A settembre Miceli finisce sotto
accusa da parte di giornali e magistrati. Scrive ad Andreotti direttamente. O
lo si aiuta o parla, perché alla gogna solitaria non ci sta proprio:
“In
tale situazione, Le chiedo, signor ministro, di attuare quanto riterrà
opportuno per un chiarimento ufficiale, oppure di sciogliermi dal vincolo del
segreto [previa autorizzazione del signor Presidente del Consiglio], affinché
io abbia la possibilità di far conoscere l’attività svolta nei delicati
incarichi ricoperti, i procedimenti tecnici seguiti ed i risultati.”
In ottobre il generale è
arrestato per cospirazione: uno scandalo enorme. Andreotti lo salva poi in
inverno, grazie alle manovre dei suoi fedeli giudici romani, che riescono a
prendere in mano l’inchiesta.
Pasolini, tu hai dato nei tuoi articoli e nei tuoi scritti, molte
versioni di ciò che detesti. Hai aperto una lotta, da solo, contro tante cose,
istituzioni, persuasioni, persone, poteri. Per rendere meno complicato il discorso
io dirò “la situazione”, e tu sai che intendo parlare della scena contro cui,
in generale ti batti. Ora ti faccio questa obiezione. La “situazione” con tutti
i mali che tu dici, contiene tutto ciò che ti consente di essere Pasolini.
Voglio dire: tuo è il merito e il talento. Ma gli strumenti? Gli strumenti sono
della “situazione”. Editoria, cinema, organizzazione, persino gli oggetti.
Mettiamo che il tuo sia un pensiero magico. Fai un gesto e tutto scompare.
Tutto ciò che detesti. E tu? Tu non resteresti solo e senza mezzi? Intendo
mezzi espressivi, intendo…
Sì,
ho capito. Ma io non solo lo tento, quel pensiero magico, ma ci credo. Non in
senso medianico. Ma perché so che battendo sempre sullo stesso chiodo può
persino crollare una casa. In piccolo un buon esempio ce lo danno i radicali,
quattro gatti che arrivano a smuovere la coscienza di un Paese [e tu sai che
non sono sempre d’accordo con loro, ma proprio adesso sto per partire, per
andare al loro congresso]. In grande l’esempio ce lo dà la storia. Il rifiuto è
sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli
intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di
no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare
deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”,
non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che
cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando
quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà
anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà
mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno
e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno
si fermava una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati
quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha
mai inceppato la macchina. Allora i discorsi sono tre. Qual è, come tu dici, “la
situazione”, e perché si dovrebbe fermarla o distruggerla. E in che modo.
Ecco,
descrivi allora la “situazione”. Tu sai benissimo che i tuoi interventi e il
tuo linguaggio hanno un po’ l’effetto del sole che attraversa la polvere. È un’immagine
bella ma si può anche vedere [o capire] poco.
Grazie
per l’immagine del sole, ma io pretendo molto di meno. Pretendo che tu ti
guardi intorno e ti accorga della tragedia. Qual è la tragedia? La tragedia è
che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una
contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno
scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non
passano di lì, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il
macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto.
Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di
confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare
qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E facile, è semplice,
è la resistenza. Noi perderemo alcuni compagni e poi ci organizzeremo e faremo
fuori loro, o un po’ per uno, ti pare? Eh lo so che quando trasmettono in
televisione Parigi brucia tutti
sono lì con le lacrime agli occhi e una voglia matta che la storia si ripeta,
bella, pulita [un frutto del tempo è che “lava” le cose, come la facciata delle
case]. Semplice, io di qua, tu di là. Non scherziamo sul sangue, il dolore, la
fatica che anche allora la gente ha pagato per “scegliere”. Quando stai con la
faccia schiacciata contro quell’ora, quel minuto della storia, scegliere è
sempre una tragedia. Però, ammettiamolo, era più semplice. Il fascista di Salò,
il nazista delle SS, l’uomo normale, con l’aiuto del coraggio e della
coscienza, riesce a respingerlo, anche dalla sua vita interiore [dove la
rivoluzione sempre comincia].
Ma adesso no. Uno ti viene incontro vestito da amico, è gentile, garbato, e
«collabora» [mettiamo alla televisione] sia per campare sia perché non è mica
un delitto. L’altro – o gli altri, i gruppi – ti vengono incontro o addosso –
con i loro ricatti ideologici, con le loro ammonizioni, le loro prediche, i
loro anatemi e tu senti che sono anche minacce. Sfilano con bandiere e con slogan, ma che cosa li separa dal “potere”?
Che
cos’è il potere, secondo te, dove è, dove sta, come lo stani?
Il
potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori.
Ma attento. Uno stesso sistema educativo che ci forma tutti, dalle cosiddette
classi dirigenti, giù fino ai poveri. Ecco perché tutti vogliono le stesse cose
e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di
amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E
quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio.
Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il
mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono.
Ti
hanno accusato di non distinguere politicamente e ideologicamente, di avere
perso il segno della differenza profonda che deve pur esserci fra fascisti e
non fascisti, per esempio fra i giovani.
Per
questo ti parlavo dell’orario ferroviario dell’anno prima. Hai mai visto quelle
marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da
una parte e la testa dalla parte opposta’ Mi pare che Totò riuscisse in un
trucco del genere. Ecco io vedo così la bella truppa di intellettuali,
sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono
qui e la testa guarda di là. Non dico che non c’è il fascismo. Dico: smettete
di parlarmi del mare mentre siamo in montagna. Questo è un paesaggio diverso.
Qui c’è la voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri
di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale. Piacerebbe anche a me
se tutto si risolvesse nell’isolare la pecora nera. Le vedo anch’io le pecore
nere. Ne vedo tante. Le vedo tutte. Ecco il guaio, ho già detto a Moravia: con
la vita che faccio io pago un prezzo. È come uno che scende all’inferno. Ma
quando torno – se torno – ho visto altre cose, più cose. Non dico che dovete
credermi. Dico che dovete sempre cambiare discorso per non affrontare la
verità.
E
qual è la verità?
Mi
dispiace avere usato questa parola. Volevo dire “evidenza”. Fammi rimettere le
cose in ordine. Prima tragedia: una educazione comune, obbligatoria e sbagliata
che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa
arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e
qualcuno ha le spranghe. Allora una prima divisione, classica, è “stare con i
deboli”. Ma io dico che, in un certo senso tutti sono i deboli, perché tutti
sono vittime. E tutti sono i colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del
massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere,
distruggere.
Allora
fammi tornare alla domanda iniziale. Tu, magicamente abolisci tutto. Ma tu vivi
di libri, e hai bisogno di intelligenze che leggono. Dunque, consumatori
educati del prodotto intellettuale. Tu fai del cinema e hai bisogno non solo di
grandi platee disponibili [infatti hai in genere molto successo popolare, cioè
sei “consumato” avidamente dal tuo pubblico] ma anche di una grande macchina
tecnica, organizzativa, industriale, che sta in mezzo. Se togli tutto questo,
con una specie di magico monachesimo di tipo paleo-cattolico e neo-cinese, che
cosa ti resta?
A me resta tutto, cioè me stesso, essere
vivo, essere al mondo, vedere, lavorare, capire. Ci sono cento modi di
raccontare le storie, di ascoltare le lingue, di riprodurre i dialetti, di fare
il teatro dei burattini. Agli altri resta molto di più. Possono tenermi testa,
colti come me o ignoranti come me. Il mondo diventa grande, tutto diventa
nostro e non dobbiamo usare né la Borsa, né il consiglio di amministrazione, né
la spranga, per depredarci. Vedi, nel mondo che molti di noi sognavano [ripeto:
leggere l’orario ferroviario dell’anno prima, ma in questo caso diciamo pure di
tanti anni prima] c’era il padrone turpe con il cilindro e i dollari che gli
colavano dalle tasche e la vedova emaciata che chiedeva giustizia con i suoi
pargoli. Il bel mondo di Brecht, insomma.
Come
dire che hai nostalgia di quel mondo.
No!
Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel
padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto nessuno li
aveva colonizzati. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone,
altrettanti predoni, che vogliono tutto a qualunque costo. Questa cupa
ostinazione alla violenza totale non lascia più vedere “di che segno sei”.
Chiunque sia portato in fin di vita all’ospedale ha più interesse – se ha
ancora un soffio di vita – in quel che gli diranno i dottori sulla sua
possibilità di vivere che in quel che gli diranno i poliziotti sulla meccanica
del delitto. Bada bene che io non faccio né un processo alle intenzioni né mi
interessa ormai la catena causa-effetto, prima loro, prima lui, o chi è il
capo-colpevole. Mi sembra che abbiamo definito quella che tu chiami la “situazione”.
È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è
un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria
delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale.
È la stessa acqua piovana di tante poesiole infantili e delle musichette del “cantando
sotto la pioggia”. Ma sale e ti annega. Se siamo a questo punto io dico: non
perdiamo tutto il tempo a mettere una etichetta qui e una là. Vediamo dove si
sgorga questa maledetta vasca, prima che restiamo tutti annegati.
E
tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti
e felici.
Detta
così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica
per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione,
come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade [eppure non credo] Ditemi voi una altra cosa. S’intende
che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo
scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che
possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del
mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie
prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire fuori dai
denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma
state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che viene con maschere e
con bandiere diverse. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione
[qualche volta]. Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la
sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per
tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato “la
vita violenta”. Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la
pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine
orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che
siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella
etichetta. A me questa sembra un’altra delle tante operazioni della cultura di
massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando
scaffali.
Ma
abolire deve per forza dire creare, se non sei un distruttore anche tu. I libri,
per esempio, che fine fanno? Non voglio fare la parte di chi si angoscia più
per la cultura che per la gente. Ma questa gente, salvata, nella tua visione di
un mondo diverso, non può essere più primitiva [questa è un’accusa frequente
che ti viene rivolta] e se non vogliamo usare la repressione “più avanzata”…
Che
mi fa rabbrividire.
Se
non vogliamo usare frasi fatte, una indicazione ci deve pur essere. Per
esempio, nella fantascienza, come nel nazismo, si bruciano sempre i libri come
gesto iniziale di sterminio. Chiuse le scuole, chiusa la televisione, come
animi il tuo presepio?
Credo
di essermi già spiegato con Moravia. Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire
cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e
disperata è la situazione. Quello che impedisce un vero dibattito con Moravia
ma soprattutto con Firpo, per esempio, è che sembriamo persone che non vedono
la stessa scena, che non conoscono la stessa gente, che non ascoltavano le
stesse voci. Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta,
impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che
ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non
è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa
crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un
nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era
uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco prima di tutto bisognerà
fare non so quale sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici
con le loro formulette, tutti i politici e divento pazzo. Non sanno di che
Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna. E i letterati. E i sociologi.
E gli esperti di tutti i generi.
Perché
pensi che per te certe cose siano talmente più chiare?
Non vorrei parlare più di me, forse ho
detto fin troppo. Lo sanno tutti che io le mie esperienze le pago di persona.
Ma ci sono anche i miei libri e i miei film. Forse sono io che sbaglio. Ma io
continuo a dire che siamo tutti in pericolo.
Pasolini,
se tu vedi la vita così – non so se accetti questa domanda – come pensi di
evitare il pericolo e il rischio?
È
diventato tardi, Pasolini non ha acceso la luce e diventa difficile prendere appunti.
Rivediamo insieme i miei. Poi lui mi chiede di lasciargli le domande.
Ci
sono punti che mi sembrano un po’ troppo assoluti. Fammi pensare, fammeli
rivedere. E poi dammi il tempo di trovare una conclusione. Ho una cosa in mente
per rispondere alla tua domanda. Per me è più facile scrivere che parlare. Ti
lascio le note che aggiungo per domani mattina.
Nella notte tra il primo e il 2
novembre 1975, Pasolini viene ucciso in maniera brutale: percosso e travolto
dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia. Il cadavere
massacrato viene ritrovato da una donna, alle 6:30 circa. Sarà l’amico Ninetto
Davoli a riconoscerlo. Dell’omicidio viene accusato il diciassettenne Pino
Pelosi di Guidonia, già noto alla polizia come ladro di auto e “ragazzo di vita”,
fermato, la notte stessa, alla guida dell’auto di Pasolini.
Pelosi affermò di essere stato
avvicinato da Pasolini, nelle vicinanze della Stazione Termini, presso il Bar
Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura,
un’Alfa Romeo GT Veloce, dietro la
promessa di un compenso in denaro.
Dopo una cena offerta dallo
scrittore, nella trattoria Biondo Tevere, nei pressi della Basilica di San Paolo, i due si sarebbero
diretti alla periferia di Ostia. La tragedia, secondo la sentenza, sarebbe
scaturita a seguito di una lite per le pretese sessuali di Pasolini, cui Pelosi
sarebbe stato riluttante. Il giovane sarebbe stato, poi, minacciato con un
bastone, del quale si sarebbe impadronito per percuotere Pasolini fino a farlo
stramazzare al suolo, gravemente ferito, ma ancora vivo. Quindi, Pelosi, a
bordo dell’auto, avrebbe travolto, più volte, con le ruote il corpo dello
scrittore, sfondandogli la cassa toracica e provocandone la morte.
Gli abiti di Pelosi non
mostravano tracce di sangue.
Secondo Gianni d’Elia Petrolio come lo conosciamo e come è stato pubblicato non è “veramente tutto quello che
Pasolini ha scritto, fino all’ultima virgola”, come sostiene invece la nipote di Pasolini,
Graziella Chiarcossi in una intervista. D’Elia è convinto che manchino alcune
pagine che erano state scritte.
In primo luogo, vi è il fatto che, secondo lo
stesso Pasolini la stesura del romanzo
fosse arrivata a 600 pagine, alla fine del1974, ma dopo la sua morte ce ne sono
pervenute solo 522.
Gianni d’Elia produce, anche, una prova
filologica “interna”
della mancanza di parti, già, composte da
Pasolini: nell’appunto 22a di Petrolio, Pasolini
dice:
“... ne ho già fatto cenno nel
paragrafo intitolato “Lampi sull’ENI”, e ad esso rimando chi volesse
rinfrescarsi la memoria.”
Il problema è che il suddetto appunto intitolato
Lampi sull’ENI non contiene che il
titolo. È strano che manchi proprio
quell’appunto che avrebbe dovuto “rinfrescare la memoria”,
sicuramente a quelli che facevano finta di non sapere.
Lampi sull’ENI significava luci sul buio nero; l’appunto
doveva parlare [e probabilmente parlava] di Aldo Troya ed Enrico Bonocore [cioè
di Cefis e Mattei] e Gianni d’Elia è convinto che ci fosse ancora molto di più:
“Non c’è solo Mattei, nelle
pagine sparite, ma l’accumulazione originaria del deuteragonista Cefis
[forzieri americani, servizi segreti, uccisione del comandante partigiano
Alfredo Di Dio, in Ossola, e soprattutto il palinsesto delle stragi].”
Il caso Mattei inquietava non
solo Pasolini, ma anche tutta l’Italia. Enrico
Mattei era presidente dell’ENI e, in
questa veste, non era soltanto un alto dirigente dello Stato, ma anche uno dei
più potenti italiani del suo tempo, perché dirigeva un impero che controllava
giacimenti di metano e pozzi petroliferi, oleodotti e contratti miliardari in
tutto il mondo. Mattei muore nel 1962, quando il suo piccolo aereo cade a
Bascapé, un paesino in provincia di Pavia. All’inizio non si sa se sia stato un
incidente oppure un complotto omicida, ma, quando muoiono altre persone
connesse al caso Mattei e alle indagini, si inizia a intuire che si tratti,
probabilmente, di un crimine.
Molti si sono chiesti chi abbia assassinato
Enrico Mattei ed esistono alcune risposte possibili.
La Mafia era la sola in grado di ucciderlo, ma è
stata solo l’esecutore materiale dell’assassinio, perché Enrico Mattei non dava
fastidio alla Mafia, almeno non direttamente.
Cosa Nostra ha agito dietro l’ordine di un
mandante e, quindi, bisogna chiedersi chi fosse il mandante.
Sapeva Pasolini la risposta?
Sicuramente si interessava molto al caso Mattei,
chiuso velocemente nel 1963, senza chiarire nulla. In Petrolio parla di Mattei, per la prima volta, nello schema
riassuntivo degli appunti 20-40:
“A questo punto proprio [Carlo]
come uomo di sinistra viene scelto [è una contropartita per avere poi ciò che
egli vuole] per una operazione di destra, estrema destra: la complicità in un
delitto [l’uccisione di Mattei datata alla fine degli Anni Cinquanta?] che lo
mette in contatto con la CIA e con la Mafia. Ma egli vive tutto questo come in
un sogno. Da complice ideale, non capisce e non vede niente.”
Si tratta di una pagina scritta nel giugno del
1973, quindi, undici anni dopo l’attentato all’aereo di Mattei, ma la presenza
del materiale esplosivo sull’aereo non è stata accertata fino al 1997.
Nel 1973, se ne parlava, ufficialmente, come di
un incidente, ma Pasolini era già di diverso parere, perché utilizza la parola “uccisione”.
Inoltre, suggerisce che l’assassino [nel libro rappresentato da Carlo] è stato
guidato dalla CIA e dalla Mafia, come
indica anche una delle possibilità proposte nella nota. Sapendo che Pasolini
riceveva notizie da fonti molto pericolose, è sicuro che di queste cose sapesse
molto più degli altri e di quello che è stato ufficialmente detto, e non
soltanto per intuizione o deduzione. “L’uccisione” di Enrico Mattei per lui era
un fatto certo, e crediamo che, con il legame proposto tra Carlo e la CIA e la Mafia, Pasolini cercasse di
spiegarci come fosse avvenuta.
In seguito, Pasolini torna al caso Mattei a
pagina 127, dove lo mette in relazione con Eugenio Cefis, l’uomo che succederà
a Mattei alla presidenza dell’ENI e
diverrà, nel 1974, presidente della Montedison.
In Petrolio,
a Cefis corrisponde il personaggio di Aldo Troya e di lui si legge:
“In questo preciso momento
storico Troya [!] sta per essere fatto presidente dell’ENI: e ciò implica la
soppressione del suo predecessore [caso Mattei, cronologicamente spostato in
avanti].”
A Mattei, invece, corrisponde il personaggio di
Enrico Bonocore [nel romanzo si dice che sua madre proveniva da Bescapé, in
provincia di Pavia, dove è caduto l’aereo su cui viaggiava Mattei].
Il 31 ottobre 1974, il generale
Vito Miceli – tessera P2 n.1605 –, capo dei servizi segreti della difesa
militare [SID], è arrestato nel
quadro dell’inchiesta sulla Rosa dei
Venti.
Il 2 novembre 1974, in
conseguenza di questo arresto eclatante, si moltiplicano le voci di un
imminente colpo di Stato.
Nel giugno del 1974, si era
scoperto un ennesimo progetto di golpe, il golpe bianco, organizzato da Edgardo
Sogno, e il 15 settembre 1974, Giulio Andreotti, ministro della difesa, aveva
reso pubblico un dossier del SID, fino ad allora rimasto segreto, sul
tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese, l’8 dicembre 1970.
Lo scorso anno, la famiglia
Nenni ha donato all’Archivio Storico del Senato i diari completi di Pietro
Nenni, ora a disposizione di studiosi e di ricercatori.
“Questi
Diari”,
scrive Paolo Franchi nell’introduzione del
libro Socialista libertario giacobino,
dedicato agli scritti del leader del
Partito Socialista Italiano,
“sono
una miniera ricchissima di riflessioni; di giudizi storici e politici che
tengono insieme, in forme oggi letteralmente impensabili, passato e presente;
di ricordi di donne e di uomini della politica italiana e internazionale, della
letteratura e dell’arte. Testimoniano, pagina dopo pagina, la straordinaria
umanità che rese Nenni così diverso dagli altri leader politici del tempo.”
Desert solitaire di Edward Abbey è il grido angosciato di un uomo pronto a
sfidare il crescente sfruttamento operato dall’industria petrolifera, mineraria
e turistica.
È trascorso mezzo secolo, ma le
osservazioni di Abbey, le sue battaglie, non hanno perso nulla della loro
rilevanza.
Più che mai, oggi, Desert solitaire
ci chiama a combattere, mettendoci di fronte a un’ultima domanda fondamentale:
“Riusciremo
a salvare ciò che resta dei nostri Tesori Naturali prima che i bulldozers
manovrati dal profitto colpiscano ancora?”
L’articolo 11 della
Costituzione recita:
“L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo.” [https://www.senato.it/documenti/repository/istituzione/costituzione.pdf]
La sera del 25 giugno 1991,
viene convocato, in seduta plenaria, il Parlamento sloveno per discutere e
votare l’indipendenza; tutti sono favorevoli, tranne il comandante delle truppe
jugoslave.
Nel corso della seduta, poco
prima della votazione definitiva, il presidente del parlamento dà lettura di un
telegramma appena pervenuto dal Sabor
di Zagabria, il Parlamento croato, nel quale si comunica che la Croazia è
divenuta indipendente.
Ad avvenuta votazione, nella
piazza centrale di Lubiana il presidente Milan Kucan proclama dinanzi al popolo
l’indipendenza slovena.
La conclusione del discorso di
Kucan lascia intendere una immediata risposta delle truppe federali:
“Nocoj so dovoljene sanje, jutri je nov dan.”
[Questa
sera i sogni sono permessi, domani è un nuovo giorno.”]
Il 26 giugno 1991, il giornale
sloveno Delo di Lubiana pubblica un
titolo a nove colonne, traducibile in:
“Dopo
più di mille anni di dominazione austriaca e più di settanta anni di convivenza
con la Jugoslavia, la Slovenia è indipendente.”
L’attacco al
Kosovo sarà il capitolo finale della devastazione che la Jugoslavia subiva dall’inizio
degli anni 1990.
La destabilizzazione aveva preso inizio
quando, nel corso degli Anni Ottanta, la Repubblica Socialista Federale di
Jugoslavia aveva subito fortissime pressioni dal Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Dividere la Jugoslavia risultava l’unico
modo per controllarla.
La Croazia e la Slovenia, regioni industrializzate e con un tenore di vita più
alto, credevano che l’autonomia li avrebbe rese più ricche, m, in realtà, la
guerra preparata da Washington aveva lo scopo di distruggere economicamente e
politicamente tutte le regioni della ex-Jugoslavia. LO aveva dichiarato lo
stesso Vicepresidente della Banca
Mondiale, Willi Wapenhans:
“Secondo la
nostra opinione non sussiste alcun dubbio sul fatto che nessuna delle parti
componenti la Jugoslavia trarrà profitto dallo sfascio della Jugoslavia o della
sua economia nel breve e medio periodo.”
Il 25 giugno 1991, la Slovenia
dichiara la sua indipendenza. Ma la Slovenia non è sola, al suo fianco, muta e
invisibile, è la Serbia.
Quando, il 21 giugno 1991, il
segretario di Stato americano, James Baker, in visita a Belgrado dichiarava che
gli Stati Uniti “non avrebbero incoraggiato né premiato la secessione” era
evidente a Kucan che il suo Paese si trovava solo. Anzi, Kucan comprese come il
messaggio di Baker fosse un invito, forse involontario, a opporsi all’autodeterminazione
slovena e croata. Poco dopo la visita a Belgrado di Baker, l’allora presidente
federale della Jugoslavia, Ante
Markovic, dichiarò in Parlamento che “l’Armata
popolare era pronta a prendere le misure adatte” in caso di secessione.
La tensione era altissima.
Il 30 giugno 1991, viene l’ordine da Milosevic di non invadere la
Slovenia. I generali dell’esercito jugoslavo sono costretti a ripiegare
sulla Croazia, che ha dichiarato l’indipendenza in concomitanza con la Slovenia.
Lo stupore generale è grande.
La tesi di un accordo sottobanco
tra serbi e sloveni trova una conferma storica nell’incontro segreto tra Milosevic e Kucan nel gennaio 1991
[documentato nel noto “The death of Yugoslavia” prodotto dalla Bbc e
nelle memorie di Zimmermann, ex-ambasciatore USA], dove il primo garantisce al
secondo che la Serbia non muoverà un dito per tenere dentro la Slovenia.
Ma a tutti sfuggì che la trappola era scattata: Tudjman, che seppe
solo seguire la Slovenia nella dichiarazione di indipendenza ma non
organizzare la difesa, si trovò con i separatisti serbi [da mesi armati da
Belgrado] che sparavano sui croati disarmati. La guerra, quella vera, quella
per la Grande Serbia, quella voluta e preordinata da mesi se non anni, quella vagheggiata
dall’Accademia delle Scienze di Belgrado, si poteva finalmente combattere.
Grazie alla Slovenia [che fece,
forse inconsapevolmente, il gioco serbo] la Jugoslavia collassò. Finalmente
anche l’ultimo residuo di Stato federale, rappresentanto dal primo ministro
federale Ante Markovic, si dissolse. La
strada per Milosevic era spianata. Un decennio di sangue era inaugurato.
Nel febbraio del 1992, la Bosnia ottiene l’indipendenza,
dopo un Referendum popolare.
Il 7 e l’8 aprile 1992, i serbi formano la
Repubblica Serba di Bosnia, che comprende i territori a maggioranza serba [il
65% del territorio].
Il 27 aprile 1992, Serbia e Montenegro
costituicono la nuova Federazione Jugoslava.
Nel 1995, arrivano, in Jugoslavia, 60mila
uomini delle truppe di terra della NATO,
con carri armati e artiglieria, che si aggiungono agli altri già impegnati nei
Paesi limitrofi, per un totale di 200mila uomini.
Mentre quella che un tempo si chiamava Jugoslavia
veniva risucchiata in una spirale di morte, il mondo intero rimase in silenzio
di fronte ad atrocità inconcepibili: omicidi di massa su base etnica, campi di
concentramento e stupri. Il senso comune ha condannato le nazioni balcaniche
per la sanguinosa disintegrazione, che provocò più di 130mila vittime. La
principale presa di posizione contro gli orrori perpetrati nella regione fu
assunta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che mise al bando il
traffico di armi nell’area. A distanza di quasi vent’anni, tuttavia, emergono
nuovi particolari destinati a mutare la prospettiva su queste vicende. Molti
altri Paesi sembrano essere responsabili per avere alimentato le carneficine
che hanno devastato i Balcani.
Un’indagine durata tre anni, condotta da un’equipe
di giornalisti sloveni e sostenuta da reporter di sei differenti Paesi, ha
analizzato migliaia di documenti arrivando a concludere che molti Stati, tra i
quali la Russia, che aveva votato a favore dell’embargo delle armi, hanno
aggirato il divieto da loro stessi imposto. Molte persone, in questi Paesi,
sono riuscite a guadagnare milioni di dollari vendendo armi e munizioni alle
fazioni impegnate nel conflitto.
Bulgaria, Polonia, Ucraina, Romania e Russia
esportavano armi destinate all’ex-Jugoslavia. Il quartier generale di questa
operazione logistica di dimensioni enormi si trovava a Vienna, mentre le transazioni
finanziare erano eseguite da una banca ungherese. I trafficanti di armi
utilizzavano compagnie registrate nei paradisi offshore panamensi. Il Regno Unito spedì equipaggiamenti militari
alle ex-Repubbliche jugoslave e concesse loro prestiti per l’acquisto di armi,
e lo stesso fece la Germania.
“Questo
tipo di commercio illegale ha permesso ad alcuni individui di accumulare una
ricchezza immensa.”,
afferma Zdenko Cepic, ricercatore dell’Istituto
di Storia Contemporanea di Lubiana ed esperto dei conflitti balcanici.
Ma, se da un lato, vi è, sempre, stata una diffusa
consapevolezza rispetto alle spedizioni illegali di armi durante il conflitto,
i dettagli sono sempre rimasti un mistero. Mercanti di armi, rappresentanti di
Governi e altri ancora hanno sempre negato le loro colpe, e nessuno è stato
ritenuto responsabile da un sistema giudiziario post-bellico che si è, spesso,
piegato alle pressioni politiche.
L’inchiesta rivela che grandi quantità di armi
russe venivano vendute tramite anonimi intermediari durante l’embargo delle
armi voluto dalle Nazioni Unite. La persona che probabilmente svolgeva il ruolo
principale era un cittadino greco, Konstantin Dafermos, che in quegli anni
operava a Vienna.
Tra il 1991 e il 1992, quando i traffici fiorivano,
circa 20 navi cariche di armi approdarono in gran segreto al porto sloveno di
Koper, violando l’embargo dell’ONU.
Le navi furono scaricate e il carico rapidamente inviato ai campi di battaglia
in Croazia e Bosnia Erzegovina.
Queste operazioni logistiche, secondo i documenti,
furono condotte dai servizi segreti sia civili sia militari di tutti i tre
Paesi coinvolti. Anche le Mafie italiana, albanese e russa parteciparono ad
alcune operazioni.
“Il
porto di Koper costituiva un’ottima opportunità per aggirare l’embargo,”,
sostiene Cepic,
“perché non era controllato dagli ispettori internazionali. La supervisione
sulle spedizioni veniva eseguita dalla stessa Slovenia, che permetteva l’importazione di armi da altri Paesi europei.”
L’embargo dell’ONU
era diretto a evitare che le armi arrivassero nei Balcani, ma fu, duramente,
criticato, perché rafforzava la supremazia della Serbia, ostacolando la
possibilità di Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina di difendersi dalla
minaccia che giungeva da Belgrado.
Senza alcun alleato cui rivolgersi, questi Paesi
hanno, pertanto, acquistato armi attraverso una oscura rete di commercianti,
legati al crimine organizzato e da Stati che, come la Russia, avevano votato a
favore dell’embargo.
Le armi acquistate, che avrebbero dovuto essere necessarie
per difendere le repubbliche dell’ex-Jugoslavia, favorirono a loro volta
aggressioni e atrocità. Le armi comprate dalla Croazia, per esempio, hanno
permesso la difesa dall’offensiva dell’Esercito Popolare Jugoslavo e la
conquista, nel 1995, dei territori che erano controllati dai ribelli serbi. Ma
i leaders militari croati sono,
anche, stati condannati per gli omicidi commessi nei confronti dei serbi e per
avere deportato migliaia di loro dalla Croazia, mentre sia i serbi sia i croati
sono stati coinvolti in atrocità commesse contro i musulmani bosniaci.
“Questo
commercio illegale di armi”,
spiega Cepic,
“ha
in parte influenzato gli esiti delle guerre nell’ex-Jugoslavia.”
Il commercio di armi ha inoltre condizionato a
lungo questi Paesi dopo la fine delle guerre. I legami criminali hanno spinto i
rappresentanti dei servizi segreti dalla parte sbagliata della legge. Sono
arrivati a concludere negoziazioni intascando valigie cariche di denaro,
facendo lievitare i prezzi delle armi e ponendo le basi per un clima di
corruzione tra i funzionari pubblici che persiste, ancora, oggi.
Il traffico di armi nella guerra jugoslava ha
inizio nel 1991, il 20 giugno per l’esattezza, quando il primo carico di armi
strategicamente importante giunse in Slovenia dal porto bulgaro di Burgas, la
settimana precedente l’inizio dei primi scontri armati in ex Jugoslavia. La
nave danese Herman C. Boye arrivò con a bordo 5mila fucili d’assalto, milioni
di cartucce e, soprattutto, missili anti-aerei e anti-carro per un valore equivalente
a 7,8 milioni dei marchi tedeschi di allora, pari a 4,3 milioni di dollari
americani.
A incaricarsi della spedizione di queste armi fu
una compagnia statale bulgara, la Kintex, con sede a Sofia, mentre l’intermediario
era una società austriaca, la Stalleker GmbH, con sede a Vienna.
Contemporaneamente, la compagnia inglese Racal inviò modernissime stazioni
radio militari in Slovenia, capaci di criptare i messaggi, in un affare che
fruttò 5 milioni di sterline.
L’operazione, andata a buon fine, attrasse l’attenzione
del trafficante d’armi Konstantin Dafermos. L’uomo d’affari greco lavorava al
tempo con la Scorpion International
Services S.A., una società militare russa registrata a Panama e con uffici
presso l’aeroporto di Vienna. La Scorpion
presto divenne uno dei principali canali per il traffico di armi verso le
frontiere jugoslave. I movimenti del conto bancario aperto presso la Banca Internazionale Centro-Europea di
Budapest rivelano che Scorpion ha
ricevuto più di 80 milioni di dollari da clienti sloveni, croati e bosniaci.
Bollettini provenienti dalla stessa banca
testimoniano che almeno 9,4 milioni di dollari, ma forse addirittura 19, furono
trasferiti dal conto di Dafermos a quello di una compagnia statale polacca di
nome Cenrex. Il direttore di Cenrex, Jerzy Dembowski, era un tenente-colonnello
nel servizio di intelligence militare polacca, che si nascondeva sotto il nome
in codice di Wirakocza. Dal porto polacco di Gdynia, navi cariche di armi e
contenenti scorte di munizioni sovietiche attraversarono il mare Adriatico per
poi arrivare in terra balcanica.
Altre registrazioni mostrano che 3 navi partite dal
porto romeno di Costanza trasportarono 200 container, contenenti 3.500
tonnellate di armi, nel dicembre del 1991 e nel gennaio dell’anno seguente. Il
cargo, che giunse nel porto di Koper, fu poi inviato in Croazia.
Un canale ancora più importante per il contrabbando
fu inaugurato nel 1992, con i carichi che partivano dal porto ucraino di
Mykolaiv. Questa via di traffico era controllata dalla Mafia di Odessa, che
spedì 8 navi contenenti più di 12mila tonnellate di armi verso la Croazia.
Dai documenti in possesso della Slovenia si viene a
scoprire che i due primi carichi transitarono presso il porto sloveno di Koper.
Una nave, l’Island, compì il viaggio portando 96 container di armi tra l’ottobre
e il novembre del 1992. Da Koper, le armi giunsero in Croazia via terra. I
bollettini di pagamento e di credito confermano che 60 milioni di dollari
andarono sul conto di Dafermos grazie a dei compratori croati che avevano
acquistato le armi proprio attraverso questo canale. Da questo ammontare di
denaro, 40 milioni furono a loro volta trasferiti ad altri venditori di armi.
Una di queste compagnie, la Global
Technologies International Inc., era intestata a Dmitri Streshinsky a
Panama.
Questi traffici di armi proseguirono senza dare
troppo nell’occhio. Ma nel 1994 l’ultima di otto navi, la Jadran Express, venne
intercettata e bloccata dalla flotta NATO
presente nell’Adriatico.
Questa intercettazione portò a un processo che si
svolse a Torino.
Tra gli imputati figuravano molti di questi
trafficanti, tra cui Dafermos, Streshinsky, gli oligarchi russi Alexander
Zhukov e Leonid Lebedev, il banchiere britannico Mark Garber e Yevgeny Marchuk,
ex-primo ministro ucraino ed ex-capo della polizia segreta di quel Paese.
Furono coinvolti nel processo anche degli ex-ufficiali del KGB. La procura di Torino descrisse Konstantin Dafermos come la
mente dell’organizzazione. Documenti falsi indicavano che le armi erano dirette
in Africa anziché verso i Balcani.
Tutti gli accusati sono stati scagionati.
Secondo documenti più recenti, Dafermos ha venduto
centinaia di missili anti-aereo e anti-carro alla Slovenia. In tre navi che
giunsero dalla Polonia e dall’Ucraina, tra il 1991 e il 1992, furono rinvenuti
52 lanciatori anti-aereo SA-16 Igla con 400 missili, 50 lanciatori anti-carro
AT-4 Fagot con 500 missili e 20 lanciatori anti-carro AT-7 Metis con 200
missili. L’affare aveva un valore complessivo di 33,3 milioni di dollari. Un agente
sloveno affermò, in un’intervista rilasciata nel 2010 al quotidiano sloveno Dnevnik,
che questo commercio di armi era una sorta di affare intra-statale, con una
compagnia ad agire come intermediaria.
Alcuni di questi missili russi vennero pagati con
un prestito tedesco, concordato attraverso una compagnia delegata, Unimercat,
con sede a Monaco di Baviera. Gli allora ministri della difesa e delle finanze
sloveni spiegarono in un’intervista concessa al giornale sloveno Delo che
“un Paese occidentale”, che non identificarono, prestò più di 60 milioni di
marchi tedeschi, vale a dire 37 milioni di dollari, di cui 46 milioni di
marchi, cioè 28 milioni di dollari, erano destinati all’acquisto di armi nel
periodo dell’embargo decretato dall’ONU.
Da parte sua, Dafermos arrivò addirittura ad
offrire alla Slovenia, nel 1992, uno dei complessi mobili anti-aerei
maggiormente all’avanguardia, l’SA-8
Gecko. Questo accordo poi non ebbe seguito, sebbene gli esperti russi e
sloveni tennero un incontro svoltosi segretamente a Vienna per discuterne i
termini.
Nella primavera del 1994 il presidente del partito
liberal-democratico russo Vladimir Zhirinovsky, durante una visita in Slovenia,
pretese il pagamento di 9 milioni di dollari per la spedizione di maschere
anti-gas all’allora ministro della difesa Janez Jansa, che era a capo del
traffico di armi nel suo Paese. L’invio delle maschere anti-gas fu organizzato
dall’allora intermediario di Dafermos, Nicholas Oman.
I partners
delle altre compagnie panamensi di Dafermos, tutte operanti sotto il nome di Scorpion, avevano legami con la Russia.
Il partner di Dafermos in una
compagnia denominata Scorpion Navigation
era Vladimir I. Ryashentsev, un funzionario del KGB. Oggi, la Scorpion International Services è la rappresentante
esclusiva di Rosoboronexport, la
compagnia statale russa che esporta armi.
Nel febbraio del 1995 le autorità slovene
condannarono Dafermos, assieme al ministro della difesa Janez Jansa e al
ministro degli interni Igor Bavčar, per la spedizione illegale di 13mila fucili d’assalto
e munizioni durante la guerra in Croazia.
Durante l’interrogatorio sostenuto davanti alla
polizia austriaca nel 1995, Dafermos negò ogni coinvolgimento nel traffico di
armi e di equipaggiamento militare. Sostenne di aver importato solamente “giubbotti
protettivi, uniformi e stivali militari” dalla Russia.
In Slovenia, il caso non venne, mai, portato in
tribunale. Entrambi gli ex ministri sloveni sono però oggi imputati per crimini
diversi. L’ex-premier sloveno, Jansa, è attualmente sotto processo per
corruzione in un traffico di armi del valore di 278 milioni di euro [364
milioni di dollari], mentre Bavcar, l’ex-ministro degli interni, è
accusato di riciclaggio di denaro.
L’Italia è un Paese di scandali
politico-finanziari e spionistici continui, analizzati in
innumerevoli indagini giudiziarie e giornalistiche. Alcune
coinvolgono anche la Slovenia e la Croazia, e sono menzionate, a esempio, nel
libro-inchiesta Traffico d’armi, il crocevia jugoslavo [M. Gambino e L.
Grimaldi, Editori Riuniti, Roma 1995]. Altre informazioni utili si
trovano nel precedente libro Da Gladio a Cosa Nostra, [L.
Grimaldi, ed. Kappavu, Udine 1993] con prefazione del magistrato veneziano
Felice Casson che ha condotto alcune celebri inchieste su questi problemi.
I due libri meritano dunque
molta attenzione, se non per tutte le tesi certamente per molte notizie. Tra
quelle che toccano la Slovenia, e in misura minore la Croazia, si possono
ritenere fondate le informazioni ricavate dagli atti di indagini giudiziarie e
parlamentari italiane su scandali che hanno coinvolto alti esponenti
politici, massonerie deviate, settori dei servizi segreti ed i loro contatti e
traffici internazionali. E sono scandali che riguardano in particolare il
traffico di titoli obbligazionari di provenienza illecita.
Il traffico internazionale di
titoli bancari o di Stato di provenienza illecita è uno dei sistemi con cui i
servizi segreti, o gruppi criminali che riciclano anche capitali non propri, finanziano
operazioni politico-economiche e traffici speciali. I titoli vengono depositati
come garanzia presso banche e società finanziarie per ottenere forti somme di
denaro liquido.
Vengono usati sia titoli
autentici che duplicati o falsi. Quelli autentici vengono prelevati
illegalmente nei depositi fiduciari dei clienti presso le banche, usati e
rimessi a posto, oppure vengono rubati, anche in bianco. Quelli rubati sono
utilizzabili finchè il furto non viene denunciato e vengono inseriti sull’apposita
Black List internazionale. I titoli duplicati provengono invece direttamente
dalle banche o dalle tipografie di Stato, che ne stampano illegalmente due
copie autentiche con lo stesso numero: una va sul mercato normale, la seconda
su quello illegale.
L’uso di titoli rubati in
bianco, duplicati o falsi è preferito perché rappresentano denaro inesistente,
che non ha quindi padroni. Ma in ogni caso queste truffe richiedono un
altissimo livello di copertura ed organizzazione politico-finanziaria.
Le indagini sinora note che
riguardano anche la Slovenia sono due, con un movimento di denaro complessivo
di oltre 1 500 miliardi di lire. Ambedue coinvolgono assieme a mafiosi,
pseudomassoni, partiti di governo e servizi segreti italiani, anche diplomatici
sloveni.
La più recente è stata aperta
nel 1994 su un traffico di certificati di credito [Cct] e buoni [Bot] del
Tesoro italiano, in parte duplicati ed in parte rubati. Vi risultano connessi
anche traffici internazionali di armi verso più teatri di guerra [inclusi quelli
ex-jugoslavo e somalo] e di materiale nucleare, e secondo i magistrati queste
operazioni avevano “alte coperture politiche ed istituzionali “. Cioè nello
Stato e nel Governo italiani.
L’altra indagine riguarda un
traffico scoperto nel 1992 di titoli rubati di una banca di Stato italiana.
Alla fine degli anni `80 una grande banca romana controllata dallo Stato, il Banco di Santo Spirito, subisce una
serie di furti di titoli in bianco, prevalentemente certificati di deposito
[Cd]. Ma non si sa esattamente quanti, perché stranamente la banca non ne tiene
registri regolari.
Si sa soltanto che nell’agosto
del 1990 viene rubato a Roma un furgone con un forte quantitativo di titoli, ed
il 2 novembre un altro con 6.000 assegni bancari e circolari e 294 certificati
di deposito, di cui 68 utilizzabili fino ad un miliardo di lire e 229
utilizzabili fino a 95 milioni; i certificati valevano dunque quasi 90
miliardi. Ed a questo punto il valore complessivo dei titoli rubati circolanti
risulterà di circa 800 miliardi di lire [valore 1992]. Sono titoli al
portatore, e quindi facilmente negoziabili.
Ma la banca denuncia il primo di
questi due furti soltanto dopo dieci mesi [giugno1991]. Per il secondo denuncia
subito il furto degli assegni, ma per quello dei certificati aspetta 18 mesi
[maggio 1992]. E questo consente ai rapinatori ed ai ricettatori di
utilizzarli.
Nell’agosto del 1992, il Banco di Santo Spirito viene fuso
nella Banca di Roma, e i
nuovi dirigenti scoprono e denunciano la strana vicenda. Alcuni magistrati italiani
capaci e coraggiosi indagano ed individuano sia i rapinatori – che sembra
appartengano alla potente banda della
Magliana, connessa a Mafia e servizi segreti – sia la rete che sta
negoziando in Italia e all’estero i titoli rubati.
È una rete internazionale di
alta finanza, soprattutto svizzera, collegata anche al corrotto Partito
Socialista Italiano [PSI],
di Craxi, Martelli e De Michelis, in quel momento ancora al Governo. La rete
utilizza agenti dei servizi segreti militari italiani [principalmente
il SISMI, servizio
informazioni militare, con competenza estera] e ambienti della massoneria.
L’8 e il 9 novembre 1987, in
Italia, si votò per 5 Referenda
Popolari, 3 di questi riguardavano l’energia nucleare. Nessuno dei tre quesiti
chiedeva l’abolizione o la chiusura delle centrali nucleari. I votanti furono
il 65,1%, con un’altissima percentuale di schede nulle o bianche che andarono
dal 12,4% al 13,4%.
REFERENDUM
NUCLEARE 1
- Veniva chiesta l’abolizione dell’intervento statale nel caso in cui un Comune
non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo
territorio. I sì vinsero con l’80,6%.
REFERENDUM
NUCLEARE 2
- Veniva chiesta l’abrogazione dei contributi statali per gli enti locali per
la presenza sui loro territori di centrali nucleari. I sì s’imposero con il
79,7%.
REFERENDUM
NUCLEARE 3
- Veniva chiesta l’abrogazione della possibilità per l’ENEL di partecipare all’estero
alla costruzione di centrali nucleari. I sì ottennero il 71,9%.
Il Viminale certificava che ai Referenda popolari del 12 e 13 giugno aveva votato il 57% degli
aventi diritto. Dato che scendeva al 54,8%, considerando i votanti all’estero.
Il successo dei “Sì” toccava il 95%, un successo travolgente, sperato e
ricercato, ma sorprendente anche nel momento della rivelazione. E l’entusiasmo
esplodeva ovunque, nelle piazze e su internet,
dai comitati promotori e dagli elettori, per i risultati e anche per il vento
nuovo di partecipazione. Quelle che arrivano dal Ministero dell’Interno erano
percentuali di rilevanza assoluta, con il quorum
raggiunto e superato, per la prima volta, dal 1995.
L’AIEA
[Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica] e l’OMS [Organizzazione Mondiale
della Sanità] sono due agenzie dell’ONU.
L’OMS, come tutte le altre agenzie
specializzate, dipende dal Consiglio dello Sviluppo Economico e Sociale, mentre
l’AIEA dipende dal Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite.
LETTERA APERTA al Presidente della Repubblica
On.
Giorgio NAPOLITANO
e,
p.c., a:
Presidente
del Consiglio - On. Romano PRODI
Ministro
dell’Economia e delle Finanze - Prof. Tommaso PADOA SCHIOPPA
Ministro
dello Sviluppo Economico - On. Perluigi BERSANI
Ministro
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - On. Alfonso PECORARO
SCANIO
Ministro
per le Politiche Europee - On. Emma BONINO
Presidente
del Senato - Sen. Franco MARINI
Presidente
della Camera dei Deputati - On. Fausto BERTINOTTI
Presidente
V Commissione Bilancio Senato - Sen. Enrico MORANDO
Presidente
VI Commissione Finanze Senato - Sen. Giorgio BENVENUTO
Presidente
X Commissione Industria Senato - Sen. Aldo SCARABOSIO
Presidente
XIII Commissione Ambiente Senato - Sen. Tommaso SODANO
Presidente
XIV Commissione Politiche UE Senato - Sen. Andrea MANZELLA
Presidente V Commissione Bilancio Camera - On. Lino DUILIO
Presidente
VI Commissione Finanze Camera - On. Paolo DEL MESE
Presidente
X Commissione Attività Produttive Camera - On. Daniele CAPEZZONE
Presidente
VIII Commissione Ambiente Camera - On. Ermete REALACCI
Presidente
XIV Commissione UE Camera - On. Franca BIMBI
Illustre
Signor Presidente,
è
da tempo che l’Associazione Galileo 2001 vede con preoccupazione le decisioni
assunte dai Governi e dal Parlamento italiano di ratificare il Protocollo di
Kyoto. Maggiore preoccupazione manifestiamo oggi per l’ipotesi di assunzione di
impegni ancora più gravosi in sede europea e nazionale relativi alla politica
ambientale ed energetica.
Come
cittadini e uomini di scienza, avvertiamo il dovere di rilevare che la tesi
sottesa al Protocollo, cioè che sia in atto un processo di variazione del clima
globale causato quasi esclusivamente dalle emissioni antropiche, è a nostro
avviso non dimostrata, essendo l’entità del contributo antropico una questione
ancora oggetto di studio.
In
ogni caso, anche ammettendo la validità dell’intera teoria dell’effetto serra
antropogenico, gli obiettivi proposti dal Protocollo di Kyoto sono inadeguati,
poiché inciderebbero solo in modo irrilevante sulla quantità totale di gas
serra. Totalmente inadeguati rispetto al loro effetto sul clima ma
potenzialmente disastrosi per l’economia del Paese. Dal punto di vista degli
impegni assunti con la sottoscrizione del Protocollo rileviamo che:
-
l’Italia si è impegnata a ridurre entro il 2012 le proprie emissioni di
gas-serra del 6.5% rispetto alle emissioni del 1990;
-
poiché da allora le emissioni italiane di gas-serra sono aumentate, per onorare
l’impegno assunto dovremmo ridurre quelle odierne del 17%, cioè di circa 1/6;
-
in considerazione dell’attuale assetto e delle prospettive di evoluzione a
breve-medio termine del sistema energetico italiano, il suddetto obiettivo è
tecnicamente irraggiungibile nei tempi imposti.
All’impossibilità
pratica di rispettare gli impegni assunti fanno riscontro le pesanti sanzioni
previste dal Protocollo per i Paesi inadempienti, che rischiano di costare all’Italia
oltre 40 miliardi di euro per ciò che avverrà nel solo periodo 2008-2012.
Al
fine di indirizzare correttamente le azioni volte al conseguimento degli
obiettivi di riduzione, occorre tenere presente che i settori dei trasporti e
della produzione elettrica contribuiscono, ciascuno, per circa 1/3 alle
emissioni di gas serra [il restante terzo è dovuto all’uso d’energia non
elettrica del settore civile/industriale]. Giova allora valutare cosa
significherebbe tentare di conseguire gli obiettivi del Protocollo in uno dei
seguenti modi:
-
sostituire il 50% del carburante per autotrazione con biocarburante;
-
sostituire il 50% della produzione elettrica da fonti fossili con tecnologie
prive di emissioni.
1.
Biocarburanti. Per sostituire il 50% del carburante per autotrazione con
bioetanolo, tenendo conto dell’energia netta del suo processo di produzione,
sarebbe necessario coltivare a mais 500.000 kmq di territorio, di cui
ovviamente non disponiamo. Anche coltivando a mais tutta la superficie agricola
attualmente non utilizzata [meno di 10.000 kmq], l’uso dei biocarburanti ci
consentirebbe di raggiungere meno del 2% degli obiettivi del Protocollo di
Kyoto.
2.
Eolico. Sostituire con l’eolico il 50% della produzione elettrica nazionale da
fonti fossili significherebbe installare 80 GW di turbine eoliche, ovvero
80.000 turbine [una ogni 4 kmq del territorio nazionale]. Appare evidente il
carattere utopico di questa soluzione [che, ad ogni modo, richiederebbe un
investimento non inferiore a 80 miliardi di euro]. In Germania, il paese che
più di tutti al mondo ha scommesso nell’eolico, i 18 GW eolici - oltre il 15%
della potenza elettrica installata - producono meno del 5% del fabbisogno
elettrico tedesco.
3.
Fotovoltaico. Per sostituire con il fotovoltaico il 50% della produzione
elettrica nazionale da fonti fossili sarebbe necessario installare 120 GW
fotovoltaici [con un impegno economico non inferiore a 700 miliardi di euro], a
fronte di una potenza fotovoltaica attualmente installata nel mondo inferiore a
5 GW. Installando in Italia una potenza fotovoltaica pari a quella installata
in tutto il mondo, non conseguiremmo neanche il 4% degli obiettivi del
Protocollo di Kyoto.
4.
Nucleare. Per sostituire il 50% della produzione elettrica nazionale da fonti
fossili basterebbe installare 10 reattori nucleari del tipo di quelli
attualmente in costruzione in Francia o in Finlandia, con un investimento
complessivo inferiore a 35 miliardi di euro. Avere 10 reattori nucleari ci
metterebbe in linea con gli altri Paesi in Europa [la Svizzera ne ha 5, la
Spagna 9, la Svezia 11, la Germania 17, la Gran Bretagna 27, la Francia 58] e consentirebbe
all’Italia di produrre da fonte nucleare una quota del proprio fabbisogno
elettrico pari alla media europea [circa 30%].
Come
si vede, nessuna realistica combinazione tra le prime tre opzioni [attualmente
eccessivamente incentivate dallo Stato] può raggiungere neanche il 5% degli
obiettivi del Protocollo di Kyoto. Agli impegni economici corrispondenti si
dovrebbe poi sommare l’onere conseguente all’acquisto delle quote di emissioni
o alle sanzioni per il restante 95% non soddisfatto.
Esprimiamo
quindi viva preoccupazione per gli indirizzi che il Governo e il Parlamento
stanno adottando in tema di politica energetica e ambientale, e chiediamo
pertanto:
-
che si promuova la definizione di un piano energetico nazionale [PEN], anche
con la partecipazione di esperti europei, che includa la fonte nucleare - che è
sicura e rispettosa dell’ambiente e l’unica, come visto, in grado di affrontare
responsabilmente gli obiettivi del Protocollo di Kyoto
-
e che dia alle fonti rinnovabili la dignità che esse meritano ma entro i limiti
tecnici ed economici di ciò che possono realisticamente offrire;
-
che la comunità scientifica sia interpellata e coinvolta nella definizione del
PEN e che si proceda alla costituzione di una task force qualificata per
definire le azioni necessarie a rendere praticabile l’opzione nucleare;
-
che si interrompa la proliferazione di scoordinati piani energetici comunali,
provinciali o regionali e che non siano disposte incentivazioni a favore dell’una
o dell’altra tecnologia di produzione energetica al di fuori del quadro
programmatico di un PEN trasparente e motivato sul piano scientifico e
tecnico-economico.
Restiamo
a Sua disposizione, Signor Presidente, per documentarLa puntualmente su quanto
affermiamo.
Presidente:
Renato Angelo Ricci
Consiglio
di Presidenza: Franco Battaglia, Carlo Bernadini, Tullio Regge, Giorgio
Salvini, Umberto Tirelli, Umberto Veronesi.
Consiglio
Direttivo: Cinzia Caporale, Giovanni Carboni, Maurizio Di Paola. Guido Fano,
Silvio Garattini, Roberto Habel, Corrado Kropp, Giovanni Vittorio Pallottino,
Ernesto Pedrocchi, Francesco Sala, Gian Tommaso Scarascia Mugnozza, Paolo
Sequi, Ugo Spezia, Giorgio Trent, Giulio Valli, Paolo Vecchia.
Altri
firmatari: Claudia Baldini, Argeo Benco, Ugo Bilardo, Giuseppe Blasi
Paolo Borrione, Cristiano Bucaioni, Luigi Chilin, Raffaele Conversano, Carlo
Cosmelli, Riccardo De Salvo, Silvano Fuso, Oliviero Fuzzi, Giorgio Giacomelli,
Renato Giussani, Luciano Lepori, Carlo Lombardi, Alessandro Longo, Stefano
Monti, Antonio Paoletti, Salvatore Raimondi, Marco Ricci, Roberto Rosa, Angela
Rosati, Massimo Sepielli, Elena Soetje Baldini, Roberto Vacca, Giuseppe
Zollino.
Gary T. Whiteford, docente di
geografia all’Università di Brunswick in Canada, ha scoperto che i terremoti
con magnitudine da 6 a 6,5 Richter sono più che raddoppiati da quando hanno
avuto inizio i test nucleari sotterranei. Infatti, tali sismi sono stati 1 164,
tra il 1900 ed il 1949 e sono saliti a 2 844, tra il 1950 ed il 1988. Un
significativo aumento è registrato anche per i sommovimenti tellurici di
magnitudine compresa tra 6,5 e 7 Richter: 1 110 nel periodo 1900-1949, 1 465
tra il 1950 e il 1988. Tali incrementi si sono verificati in tutte le zone
particolarmente sismiche del globo. A esempio, la percentuale di tutti i
terremoti [superiori o pari a 5,8 Richter] nelle Isole Aleutine era di 3,31 nel
tempo precedente gli esperimenti nucleari americani nel Nevada. Tale
percentuale è alita fino al valore di 12,57 nel periodo dei tests. Le isole Salomone e Nuova
Bretagna [Oceano Pacifico] erano sismicamente tranquille nella prima metà del
nostro secolo: la percentuale dei terremoti era di 2,98. Nell’epoca delle bombe
nucleari francesi a Mururoa questo valore è quasi quintuplicato: 10,08. Anche l’isola
di Vanuatu ha pagato un pesante tributo alla grandeur nucleare francese. La sua percentuale di terremoti era di
3,36 nell’arco di tempo 1900-1949; nel periodo seguente contrassegnato dai tests, tale cifra è balzata a 9,30.
Nell’isola Novaya Zemlya non
sono, mai avvenuti violenti terremoti nel primo cinquantennio del secolo; da
quando vi è stata costruita una base per esperimenti nucleari sovietici, si
sono avute sei scosse telluriche di grandezza pari o superiore a 5,8 Richter.
In una visione globale si può
rilevare che, nei primi cinquanta anni del ecolo scorso, sono stati registrati
3 419 terremoti di magnitudine uguale o superiore a 6 Richter, con una media di
68 all’anno. Dal 1950 al 1989, i terremoti in questione sono stati 4 963, con
una media di 127 all’anno: il valore è quasi raddoppiato.
Whiteford ha compiuto
inquietanti scoperte a proposito dei cosiddetti killer quakes [terremoti assassini], vale a dire sismi che
provocano almeno 1 000 vittime.
“Nel
corso di 37 anni di sperimentazione nucleare, venti dei trentadue terremoti
assassini, ovvero il 62,5%, avvennero lo stesso giorno o entro quattro giorni
dal test.”
Dati allarmanti provengono,
anche, da uno studio di due scienziati giapponesi, Shigeyoshi Matsumae e Yoshio
Kato, della Tokai University di Tokio:
“Fenomeni
anomali meteorologici, terremoti e la variazione dell’asse terrestre sono
notevolmente correlati ai tests atmosferici e sotterranei. Essi hanno causato
un aumento della temperatura dell’esosfera terrestre da 100 a 150 gradi, che
cresce in modo abnorme immediatamente dopo un test nucleare. A esempio, è stato
scoperto che la temperatura assoluta salì da 70 ad 80 gradi dopo un test
sovietico che fu rilevato dalla stazione d’osservazione da Uppsala, il 23
agosto 1975. Similmente, un continuo e drastico rialzo della temperatura fu
osservato in occasione di una fitta serie di sei esplosioni sperimentali
avvenute tra il 18 ed il 29 ottobre 1975.”
E concludono:
“La
temperatura dell’atmosfera è cambiata dai tests nucleari, un cambiamento che
neppure il sole potrebbe produrre. Si può facilmente immaginare quali effetti
abbia tutto ciò sulle condizioni meteorologiche della Terra.”
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