“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 14 agosto 2016

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 6. MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!” a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono sacrificati alla Ragione di Stato? di Daniela Zini






“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984

SOCIETA’ SEGRETE



“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


Da sinistra a destra: Beppe Alfano, don Pino Puglisi mano nella mano con il piccolo Giuseppe Di MatteoPeppino Impastato, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Graziella Campagna, Libero Grassi, Carlo Alberto dalla Chiesa, Adolfo Parmaliana. Il disegno è stato realizzato da Lelio Bonaccorso in occasione della manifestazione Profumo di Libertà, tenutasi a Messina, il 23 maggio 2010.

“La Mafia quando diventa un fatto di infrastrutture, cessa di allarmare e di indignare.”
Ferdinando Imposimato

al Presidente Ferdinando Imposimato
Finché vi sarà anche solo un Uomo che terrà viva la Memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vi sarà Speranza.
Grazie, Presidente.
Daniela
“Chi possiede coraggio e carattere, è sempre molto inquietante per chi gli sta vicino.”
Hermann Hesse

In Democrazia bisogna rinunciare alla Verità pur di garantire la Pace Civile?
La tesi dello Scrittore è che la Verità sia indispensabile in Politica, poiché senza la Verità la Democrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
Non vi è più grande forza che dire la Verità.
Ma che cos’è la Verità?
Negli ultimi anni, la Democrazia come forma politica e sociale, ma, anche, come forma di Vita, è venuta a trovarsi chiusa tra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato, ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro, ha dovuto misurarsi con modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di una economia mondiale dominata dai colossi di Internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale.
Vi sono, dunque, soprattutto, ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della Verità nella Democrazia.
Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono, pertanto, sempre rivedibili, che cosa ci rimane, allora?
Altro non resta nella forma di Vita eminentemente umana [Lebenswelt], se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni – empiriche e normative – che sono, certamente, permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti.
Dire la Verità può essere scomodo, a volte, ma è l’unico modo per cambiare il Mondo.
A distanza di 24 anni, le Stragi di Capaci e di via D’Amelio sono un “Mistero Italiano”, rimasto senza spiegazioni: NESSUNA VERITA'!
Una mancanza di trasparenza che mina la fiducia nello Stato.
Io credo che uno Scrittore abbia l’Imperativo Morale di dire e di dirsi la Verità. E credo, anche, che, per uno scrittore, l’Onestà Intellettuale sia il tesoro più inestimabile.
Fa scattare la scintilla...
Fa pensare: io debbo fare qualcosa...
E dentro di me è scattata quella scintilla, che mi fa pensare:
IO DEBBO FARE QUALCOSA!

L’Onorata Società, primo nome della Mafia e prodotto delle tradizioni locali, fu, innanzitutto, un mezzo per gli isolani per resistere ai diversi invasori, succedutisi nella sua storia, e per protestare contro la disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale. Tuttavia, il contropotere iniziale divenne un sistema parallelo di autorità, che si sostituì al potere locale fino a costituire uno Stato nello Stato.
La lotta contro la Mafia, nonostante le rappresaglie sanguinose di cui sono oggetto magistrati, forze dell’ordine e giornalisti, continua in Italia.



“Crea di te con pazienza o impazienza
il più insostituibile e prezioso degli Esseri.”
André Gide

Tutto è pronto per la morte,
Ciò che resiste meglio sulla terra è la tristezza,
E ciò che resterà è la Parola sovrana.

Queste belle parole sono della grande Poetessa russa Anna Akhmatova [1889-1966].
Nella breve introduzione al ciclo di poesie, raccolte sotto il titolo di Requiem [1935-1940], Anna Akhmatova racconta come queste siano nate:

“Negli anni terribili della Ezovscina[1]io trascorsi diciassette mesi in code di attesa fuori del carcere, a Leningrado. Un giorno, qualcuno mi riconobbe. Allora una donna dietro di me, con le labbra livide, che, certamente, in vita sua, mai, aveva sentito il mio nome, riprendendosi dal torpore mentale, che ci accomunava, mi domandò all’orecchio [là comunicavamo tutti sottovoce]:
“Ma lei questo può descriverlo?”
E io dissi:
“Io posso.”
Allora una specie di sorriso scorse per quello che una volta era il suo viso.”
Leningrado, 1 aprile 1957
Anna Akhmatova [1889-1966] attribuisce al Poeta il compito di essere Voce e Coscienza del Popolo

Io sono la vostra Voce, il calore del vostro fiato,
Il riflesso del vostro volto,
I vani palpiti di vane ali...
Fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi.

In certi periodi della Storia vi è solo la Poesia che sia capace di guardare la realtà, condensandola in qualcosa di afferrabile, qualcosa che, in nessun altro modo, la mente riuscirebbe a trattenere.
In questo senso, tutto un Popolo prese il nom de plume di Anna Akhmatova: ciò che spiega la sua popolarità e, fatto più importante, le permise di parlare per il Popolo e di dire al Popolo cose che il Popolo non sapeva.
Requiem è il risultato della grande e dolorosa prova di una madre, alla quale hanno strappato il proprio figlio, ma Anna Akhmatova, al di là del lirismo puramente personale, ingloba in questa raccolta la sofferenza di tutto un Popolo.
Composto, alla fine degli anni 1930 per testimoniare, con milioni di persone, la scomparsa di Esseri cari, Requiem passa, clandestinamente, di mano in mano, e sarà il conforto di una popolazione sottomessa a un folle sanguinario.
Sarà pubblicato, in Russia, soltanto nel 1980, ma questa vittoria postuma è meno importante della battaglia vinta durante la sua vita.
Nessuno aveva potuto condannarla al silenzio o sopprimere la sua Memoria.
Come un sasso posato sul greto di un fiume ne modifica il corso, così Anna Akhmatova, aggrappata al suo piccolo territorio, aveva costretto il regime a scavalcarla, aggirarla, tenere conto della sua presenza.

Bevevo le mie proprie lacrime
Nelle mani degli altri.

Anna Akhmatova dedica questa raccolta a tutte le donne che, come lei, avevano passato ore davanti alla prigione, per avere notizie del proprio figlio o del proprio marito.
Questa figlia dell’alta borghesia sarà etichettata “rinnegata”, nociva per la gioventù, reazionaria e del tutto squilibrata da Stalin.
Solo la sua fama la salverà dal gulag.
Come diceva il potere sovietico:
“Noi non possiamo conciliarci con una donna che non ha saputo morire in tempo.”
E, seppure morta, il suo Fantasma continua a terrorizzare Putin e altri…
Anna Akhmatova è stata per me un cartello indicatore.
La Poesia, per quanto intellettualizzata poteva esserne l’espressione, era sempre diretta: grido, sospiro, effusione sensuale, affermazione spontanea che nasceva sulle labbra dell’Amante in presenza dell’Amato.
Mescolava raramente il patetico da un lato, l’elaborazione realistica dall’altro, al suo lirismo o alla sua oscenità quasi puri. Il sentimento di una costrizione morale, il rigore o l’ipocrisia dei costumi non avevano influito sui Poeti antichi come su questa donna del suo tempo.
Il gioco delle reticenze e degli schermi letterari, la mescolanza curiosa di rigore e di eccessi, perfino nello stile, e, soprattutto, la segreta amarezza che permeava certi componimenti ne erano una ulteriore testimonianza.
La vergogna e la paura inseparabili da ogni esperienza clandestina conferivano alla Poesia la bellezza di un’acquaforte incisa con il più corrosivo degli acidi.
La posizione del Poeta restava quella tipica delle grandi epoche, quella di un Artigiano squisito.
La sua funzione si limitava a dare alla più scottante e alla più caotica delle materie la più precisa e la più levigata delle forme.
I suoi versi migliori non ci davano delle esperienze o delle idee del Poeta che il punto di partenza o quello di arrivo; tralasciavano tutto quello che, anche nei più raffinati, si rivolgeva visibilmente al lettore, tutto quello che rientrava nell’ordine della eloquenza o della spiegazione. Così avvezzi a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, da non riconoscere in essa la forma più forte e più condensata dell’ardore, la particella d’oro nata dal fuoco e non la cenere.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono allontanata dalla Poesia, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle mani rattrappite e aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad andarmene a fondo.
Confesso che, di quando in quando, l’aria intorno a me perdeva l’umidità e la permeabilità al suono; il secchio, calato nel pozzo, non produceva un piacevole spruzzo, ma un colpo secco contro la pietra e aveva inizio, in genere, una asfissia che durava anni.
Presentare le parole tra loro, far scontrare le parole tra loro è divenuto usuale.
Ciò che era arditezza, oggi, suona come una banalità!
Ma vi è un altro percorso, anche più importante: l’esattezza, in modo che ciascuna parola, nel verso, stia al proprio posto, come se vi fosse, già, da mille anni, ma il lettore la sentisse, per la prima volta, nella vita.
È un percorso molto difficile, ma quando riesce le persone dicono:
“Mi riguarda; è come se fosse scritto da me.”
Io stessa, molto raramente, provo questo sentimento nella lettura o nell’ascolto di versi altrui.
È qualcosa tipo invidia, ma un pò più nobile.
Scrissi la prima poesia all’età di otto anni, era orribile, ma, già, prima, mio Padre mi chiamava, chissà perché, poetessa decadente. Persistei nello scrivere versi, apponendovi sopra dei numeri, cosa di cui si ignora il fine.
Viene per ciascuno di noi il momento in cui dobbiamo pronunciare questo:
“Io posso.”,
che non si riferisce a una certezza né a una capacità specifica, e che, tuttavia, ci impegna e ci mette in gioco interamente. 
In un momento culturale, politico e sociale, così carico di tensioni, ho deciso, dunque, di porre un accento di riflessione sulla tormentata Storia del secondo dopoguerra italiano.
Far conoscere il significato universale degli eventi disastrosi della nostra Storia è un debito verso le generazioni future e verso il proprio Paese.
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
E, il tentativo evoca profondi strati di Passato: voci, suoni, odori, persone e così via, senza fine.
Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità, l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un comportamento armonico per la vita di questi Esseri.
Intimamente mi sorge una intuizione:
“La forza, la posizione privilegiata, i mezzi, di cui dispongo, mi sono stati donati in fiducia dagli Altri, affinché siano potenza di redenzione dei deboli?”
Mantenere viva la Memoria di tutte le Vittime, civili o in divisa, cadute sotto il fuoco nemico o amico, aggiornandone l’elenco e ricostruendone la storia è, dunque, l’impegno che prendo con:

A
Nicolò ALONGI
Nicolò AZOTI
Carmelo AGNONE
Giovan Battista ALCE
Vito ALLOTTA
Eugenio ALTOMARE
Giorgio AMBROSOLI
Carmine APUZZO
Pasquale ALMERICO
Filadelfio APARO
Vincenzo ABATE
Marcello ANGELINI
Giovanbattista ALTOBELLI
Ottavio ANDRIOLI
Cristiano ANTONIO
Giuseppe ASTA
Salvatore ASTA
Roberto ANTIOCHIA
Morello ALCAMO
Francesco ALFANO
Salvatore AVERSA
Cosimo ALEO
Antonino AGOSTINO
Alfredo AGOSTA
Antonio AMMATURO
Graziano ANTIMO
Sebastiano ALONGHI
Mariangela ANZALONE
Giovanni ATTARDO
Paolino AVELLA
Michele AMICO
Raffaele ARNESANO
Vincenzo ARATO
Agata AZZOLINA
Ilaria ALPI
Rita ATRIA
Beppe ALFANO
Fortunato ARENA
Giuseppe ALIOTTO
Carlo ALA
Alfredo ALBANES
Filippo ALBERGHINA
Emilio ALESSANDRINI
Luigi ALLEGRETTI
Antonio ANNARUMMA
Mario AMATO
Mauro AMATO
Pino AMATO
Antonio AMMATURO
Maurizio ARNESANO
Benito ATZEI
Giovanni ARNOLDI
Mauro ALGANON
Vito ALES
GIovanbattista ALTOBELLI

B
Mariano BARBATO
Fiorentino BONFIGLIO
Mario BOSCONE
Sebastiano BONFIGLIO
Antonio BUBUSA
Emanuele BUSELLINI
Giuseppe BIONDO
Salvatore BUSCEMI
Giovanni BELLISSIMA
Salvatore BOLOGNA
Attilio BONINCONTRO
Francesco BUTIFAR
Carmelo BATTAGLIA
Giuseppe BURGIO
Paolo BONGIORNO
Rocco Giuseppe BARILLA’
Domenico BENEVENTANO
Emanuele BASILE
Sebastiano BOSIO
Lorenzo BRUNETTI
Rodolfo BUSCEMI
Anna Maria BRANDI
Antonino BURRAFATO
Giuseppe BOMMARITO
Salvatore BARTOLOTTA
Michele BRESCIA
Pietro BUSETTA
Salvatore BENIGNO
Paolo BOTTONE
Donato BOSCIA
Giovanni BONSIGNORE
Andrea BONFORTE
Filippo BASILE
Angelo BRUNO
Gioacchino BISCEGLIA
Antonino BUSCEMI
Francesco BRUGNANO
Luigi BODENZA
Salvatore BENNICI
Paolo BORSELLINO
Francesco BUZZITI
Paolo BORSELLINO
Giuseppe BORSELLINO
Antonio BRANDI
Stefano BIONDI
Salvatore BOTTA
Carmelo BENVEGNA
Vittorio BACHELET
Antonio BANDIERA
Franco BATTAGLINI
Vittorio BATTAGLINI
Sergio BAZZEGA
Rosario BERARDI
Marco BIAGI
Franco BIGONZETTI
Carlo BONANTUONO
Domenico BORNAZZINI
Renato BRIANO
Gabriella BORTOLON
Felicia BARTOLOZZI SAIA
Nicola BUFFI
Giulietta BANZI BAZOLI
Sonia BURRI
Katia BERTASI
Euridia BERGIANTI
Nazzareno BASSO
Paolino BIANCHI
Irene BRETON BOUDOUBAN
Anna Maria BRANDI
Argeo BONORA
Francesco BETTI
Verdiana BIVONA
Silvana SERRAVALLI BARBERA

C
Nicola CALIPARI
Giuseppe CASSARA’
Vito CASSARA’
Giuseppe COMPAGNA
Calcedonio CATALANO
Calogero CICERO
Pino CAMILLERI
Giovanni CASTIGLIONE
Giuseppe CASARRUBEA
Alfonso CANZIO
Stefano CARONIA
Antonino CIOLINO
Vitangelo CINQUEPALMI
Margherita CLESCERI
Giorgio CUSENZA
Calogero COMAIANNI
Stefano CONDELLO
Vincenzo CARUSO
Calogero CAJOLA
Candeloro CATANESE
Giovanni CALABRESE
Calogero CANGELOSI
Salvatore CARNEVALE
Cosimo CRISTINA
Gaetano CAPPIELLO
Giorgio CIACCI
Filippo COSTA
Silvio CORRAO
Orazio COSTANTINO
Pasquale CAPPUCCIO
Pietro CERULLI
Gaetano COSTA
Susanna CAVALLI
Angela CALVANESE
Paolo CANALE
Antioco COCCO
Lucia CERRATO
Santo CALABRESE
Sergio COSMAI
Giovanni CARBONE
Graziella CAMPAGNA
Antonino CASSARÀ
Giuseppe CUTRONEO
Giulio CAPILLI
Bruno CACCIA
Rocco CHINNICI
Carmelo CERRUTO
Luigi CAFIERO
Giangiacomo CIACCIO MONTALTO
Domenico CELIENTO
Giovanni CATALANOTTI
Ida CASTELLUCCI
Donato CAPPETTA
Domenico CALVIELLO
Anna Maria CAMBRIA
Angelo CARBOTTI
Domenico CATALANO
Pietro CARUSO
Salvatore CASTELBUONO
Fabio CORTESE
Antonio CIVININI
Aniello CORDASCO
Francesco CRISOPULLI
Giuseppe CARUSO
Saverio CIRRINCIONE
Leonardo CANCIARI
Liliana CARUSO
Gioacchino COSTANZO
Giuseppe CILIA
Giovanni CARBONE
Fortunato CORREALE
Adolfo CARTISANO
Pasquale CAMPANELLO
Dario CAPOLICCHIO
Andrea CASTELLI
Angelo CARLISI
Giulio CASTELLINO
Antonio CONDELLO
Arturo CAPUTO
Antonio Carlo CORDOPATRI
Pasquale CRISTIANO
Agostino CATALANO
Walter Eddie COSINA
Ferdinando CHIAROTTI
Enrico CHIARENZA
Maria COLANGIULI
Saverio CATALDO
Paolo CASTALDI
Stefano CIARAMELLA
Torquato CIRIACO
Massimo CARBONE
Gianluca CONGIUSTA
Luigi CALABRESI
Fedele CALVOSA
Andrea CAMPAGNA
Mario CANCIELLO
Ciro CAPOBIANCO
Luigi CARBONE
Luigi CARLUCCIO
Giuseppe CARRETTA
Carlo CASALEGNO
Antonio CASU
Giovanni CERAVOLO
Antonio CESTARI
Antonio CHIONNA
Raffaele CINOTTI
Francesco CIAVATTA
Giuseppe CIOTTA
Carmine CIVITATE
Francesco COCO
Enea CODOTTO
Piero COGGIOLA
Ottavio CONTE
Lando CONTI
Giorgio CORBELLI
Ippolito CORTELLESSA
Martino COSSU
Roberto CRESCENZIO
Fulvio CROCE
Francesco CUSANO
Antonio CUSTRA
Lorenzo CUTUGNO
Pietro CUZZOLI
Rita CACICIA
Mirco CASTELLARO
Antonella CECI
Giulio CHINA
Eugenio CORSINI
Elena CELLI
Davide CAPRIOLI
Susanna CAVALLI
Lucia CERRATO
Dario Capolicchio
Flavia CASADEI

D
Croce DI GANGI
Giuseppe DI MAGGIO
Filippo DI SALVO
Agostino D’ALESSANDRO
Fedele DE FRANCISCA
Michele DI MICELI
Vincenzo DI SALVO
Antonino DAMANTI
Antonio DI SALVO
Mauro DE MAURO
Rosario DI SALVO
Carlo Alberto DALLA CHIESA
Emanuela SETTI CARRARO DALLA CHIESA
Luigi D’ALESSIO
Gennaro DE ANGELIS
Calogero DI BONA
Gerardo D’ARMINIO
Mario D’ALEO
Anna DE SIMONE
Giovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Luigi DI BARCA
Claudio DOMINO
Nicola D’ANTRASSI
Giovanni DI BENEDETTO
Cataldo D’IPPOLITO
Fabio DE PANDI
Cosimo DURANTE
Salvatore D’ADDARIO
Felice DARA
Giuseppe DI LAVORE
Rocco DI CILLO
Salvatore DI FALCO
Raffaele DI MERCURIO
Maurizio D’ELIA
Gaetano DE ROSA
Marco DE FRANCHIS
Alberto DE FALCO
Giuseppe DI MATTEO
Moussafir DRISS
Don Giuseppe DIANA
Pasquale DI LORENZO
Andrea DI MARCO
Agatino DIOLOSA’
Matteo DI CANDIA
Federico DEL PRETE
Annalisa DURANTE
Giovanni D’ALFONSO
Sebastiano D’ALLEO
Massimo D’ANTONA
Fanny DALLARI
Antioco DEIANA
Raffaele DELCOGLIANO
Bianca DELLER
Mario DE MARCO
Carmine DE ROSA
Francesco DI CATALDO
Giovanni DI LEONARDO
Fausto DIONISI
Ciriaco DI ROMA
Franco DONGIOVANNI
Pietro DENDENA
Elena DONATINI
Roberto DE MARCHI
Elisabetta MANEA DE MARCHI
Franca DALL’OLIO
Mauro DI VITTORIO
Antonio DI PAOLA
Angela CALVESE DE SIMONE
Anna DE SIMONE
GIovanni DE SIMONE
Nicola DE SIMONE
Brigitte DROUHARD

E
Vittorio EPIFANI
Francesco ESTATICO
Maurizio ESTATE
Vittorio ESPOSITO
Antonio ESPOSITO
Francesco EVANGELISTA
Berta EBNER

F
Paolo FARINA
Domenico FRANCAVILLA
Salvatore FALCETTA
Marino FARDELLI
Francesco FERLAINO
Giuseppe FIORENZA
Mario FRANCESE
Antonio FONTANA
Antonio ESPOSITO FERRAIOLI
Silvano FRANZOLIN
Antonio FEDERICO
Giuseppe FAVA
Renata FONTE
Giovanni FILIANO
Giovanni FALCONE
Francesca MORVILLO FALCONE
Francesco FORTUGNO
Michele FAZIO
Rosario FLAMINIO
Salvatore FRAZZETTO
Giacomo FRAZZETTO
Serafino FAMÀ
Alessandro FERRARI
Antonino FAVA
Angela FIUME
Paolo FICALORA
Silvana FOGLIETTA
Giuseppe FALANGA
Antonio FERRARA
Leonardo FALCO
Graziella FAVA
Armando FEMIANO
Giuseppe FILIPPO 
Lorenzo FORLEO
Filippo FOTI
Alessandro FLORIS 
Antonio FRASCA
Antonio FERRARO
Tsugufumi FUKUDA
Angela FRESU
Maria FRESU
Rosa FASSARI
Mirella FORNASARI
Errica FRIGERIO DIOMEDE FRESA
Vito DIOMEDE FRESA
Cesare Francesco DIOMEDE FRESA
Alessandro Ferrari

G
Antonino GUARISCO
Gaetano GUARINO
Marcantonio GIACALONE
Antonio GIACALONE
Carlo GULINO
Francesco GULINO
Emanuele GRECO
Giorgio GENNARO
Giovanni GRIFO’
Luigi GERONAZZO
Paolo GIACCONE
Leopoldo GASSANI
Giuseppe GRIMALDI
Provvidenza GRECO
Rocco GATTO
Boris GIULIANO
Giuliano GIORGIO
Carmelo GANCI
Giovanni GIORDANO
Filippo GEBBIA
Alberto GIACOMELLI
Vincenzo GRASSO
Pietro GIRO
Elisabetta GAGLIARDI
Mario GRECO
Valentina GUARINO
Libero GRASSI
Nicola GUERRIERO
Giuliano GUAZZELLI
Gaetano GIORDANO
Giuseppe GRIMALDI
Vincenzo GAROFALO
Nicholas GREEN
Melchiorre GALLO
Giuseppina GUERRIERO
Giovanni GARGIULO
Loris GIAZZON
Giuseppe GIAMMONE
Domenico GULLACI
Giuseppe GRANDOLFO
Domenico GERACI
Nicola GIOITTA IACHINO
Guido GALLI
Enrico GALVALIGI
Antonio GALLUZZO
Lino GHEDINI
Carlo GHIGLIENO
Nicola GIACUMBI
Licio GIORGIERI
Graziano GIRALUCCI
Sergio GORI
Michele GRANAIO
Claudio GRAZIOSI
Giuseppe GURRIERI
Carlo GAIANI
Calogero GALATIOTO
Carlo GARAVAGLIA
Paolo GERLI
Manuela GALLON
Natalia AGOSTINI GALLON
Carla GOZZI
Pietro GALASSI
Andrea GANGEMI
Roberto GAIOLA
Raffaella GAROSI
Francesco GOMEZ MARTINEZ

H
Miran HROVATIN
Wilhelmus J. HANEMA

I
Castrenze INTRAVAIA
Giuseppe IMPASTATO
Filippo INTILE
Rosario IOZIA
Carmelo IANNÒ
Giuseppe INSALACO
Francesco IMPOSIMATO
Nicandro IZZO
Saverio IERACI
Giuseppe IACONA
Enrico INCOGNITO
Salvatore INCARDONA
Raffaele IORIO
Luigi IOCULANO
Raffaele IOZZINO
Emanuele IURILLI
Maria IDRIA AVATI

J
Carmelo JANNI’
Vito JEVOLELLA

K
 John Andrei KOLPINSKI
Herbert KONTRINER

L
Paolo LI PUMA
Vincenzina LA FATA
Serafino LASCARI
Giovanni LA BROCCA
Vittorio LEVICO
Epifanio LI PUMA
Giuseppe LETIZIA
Angelo LOMBARDI
Vincenzo LA ROCCA
Vincenzo LO IACONO
Carmelo LENTINI
Armando LODDO
Caterina LIBERTI
Salvatore LONGO
Giannino LOSARDO
Pio LA TORRE
Giuseppe LALA
Antonino LORUSSO
Simonetta LAMBERTI
Renato LIO
Giuseppe LEONE
Calogero LORIA
Rosario LIVATINO
Pier Francesco LEONI
Stefano LI SACCHI
Vincenzo LEONARDI
Carlo LA CATENA
Giuseppe LA FRANCA
Raffaella LUPOLI
Antonio LIPPIELLO
Davide LADINI
Ferdinando LIQUORI
Fortunato LAROSA
Velia CARLI LAURO
Salvatore LAURO
Umberto LUGLI
Pier Francesco LAURENTI
Vincenzo LANCONELLI
Pier Francesco LEONI
Carlo La Catena
Emanuela LOI
Vincenzo LI MULI
Angelo Raffaele LONGO
Hamdi LALA
Rolando LANARI
Salvatore LANZA
Santo LANZAFAME
Giuseppe LOMBARDI
Oreste LEONARDI
Andrea LOMBARDINI
Giuseppe LORUSSO
Ezio LUCARELLI
Antonio Francesco LASCALA

M
Giuseppe MISURACA
Mario MISURACA
Accursio MIRAGLIA
Pietro MACCHIARELLA
Paolo MIRMINA
Giuseppe MONTICCIOLO
Santi MILISENNA
Enrico MATTEI
Giovanni MEGNA
Nicola MESSINA
Michele MARINAR
Giuseppe MANIACI
Salvatore MESSINA
Pasquale MARCONE
Sergio MANCINI
Lenin MANCUSO
Domenico MARRARA
Piersanti MATTARELLA
Giuseppe MARTURANO
Domenico MARTURANO
Mario MALAUSA
Calogero MORREALE
Giuseppe MUSCARELLI
Nicola MIGNOGNA
Rosario MONTALTO
Sebastiano MORABITO
Giuseppe MONTALBANO
Natale MONDO
Maria MARCELLA
Vincenzo MICELI
Pietro MORICI
Andrea MORMILE
Pasquale MANDATO
Salvatore MUSARO’
Luisella MATARAZZO
Maria Luigia MORINI
Gennaro MUSELLA
Vincenzo MULE’
Valeria MORATELLO
Giuseppe MANGANO
Antonio MARINO
Beppe MONTANA
Giuditta MILELLA
Carmine MOCCIA
Giuseppe MACHEDA
Antonio MORREALE
Girolamo MARINO
Antonio MONTALT
Antonino MONTELEONE
Pasquale Salvatore MAGRI’
Claudio MANCO
Giuseppe MONTALTO
Cosimo Fabio MAZZOLA
Rosario MINISTERI
Francesco MARZANO
Giuseppe MESSINA
Graziano MUNTONI
Francesco MANISCALCO
Salvatore MINEO
Antonino MONTINARO
Mauro MANIGLIO
Tonino MAIORANO
Tina MOTOC
Gaetano MARCHITELLI
Giuseppe MARNALO
Francesco MARCONE
Giuseppe MANFREDA
Gianfranco MADIA
Bartolomeo MANA
Angelo MANCIA
Mikaeli MANTAKAS
Luigi MARANGONI
Antonio MARINO
Felice MARITANO
Luigi MARONESE
Edoardo MARTINI
Federico MASARIN
Giorgina MASI
Manfredo MAZZANTI
Giuseppe MAZZOLA
Stefano MATTEI
Virgilio MATTEI
Antonio MEA
Girolamo MINERVINI
Aldo MORO
Gianni MUSSI
Anna Maria BOSIO MAURI
Carlo MAURI
Luca MAURI
Angela MARINO
Leo Luca MARINO
Domenica MARINO
Eckhardt MADER
Patrizia MESSINEO
Catherine Helen MITCHELL
Antonio MONTANARI
Rosina BARBARO MONTANI
Lina FERRETTI MANNOCCI
Rossella MARCEDDU
Margret ROHRS MADER
Kai MADER
Luigi MELONI
Vittorio MOCCHI
Antidio MEDAGLIA
Amorveno MARZAGALLI
Luisella MATARAZZO
Carmine MOCCIA
Valeria MORATELLO
Maria Luigia MORINI
Nicoletta MAZZOCCHIO
Driss Moussafir
Maria Angela MARANGON
Livia BOTTARDI MILANI

N
Emanuele NOTARBARTOLO
Pasquale NUCCIO
Luciano NICOLETTI
Nadia NENCIONI
Caterina NENCIONI
Fabrizio NENCIONI
Francesco NAZZARO
Emanuele NOBILE
Fabio NUNNERI
Salvatore NUVOLETTA
Antonio NIEDDA
Angelamaria Fiume Nencioni
Fabrizio Nencioni
Ceterina Nencioni
Nadia Nencioni
Nilla NATALI
Euplo NATALI

O
Lidia OLLA CARDILLO
Giovanni ORCEL
Andrea ORLANDO
Peter IWULE ONJEDEKE
Salvatore OTTONE
Giuseppe ORLANDO
Francesco OLIVIERO
Serafino OGLIASTRO
Vittorio OCCORSIO
Pierino OLLANU

P
Lorenzo PANEPINTO
Giorgio PECORARO
Vincenzo PECORARO
Antonino PECORARO
Mario PAOLETTI
Rosario PAGANO
Giuseppe PUNTARELLO
Pietro PONZO
Nunzio PASSAFIUME
Imerio PICCINI
Vito PIPITONE
Francesco PIGNATARO
Antonino POLLARI
Gabriele PALANDRANI
Anna PRESTIGIACOMO
Joe PETROSÌNO
Giuliano PENNACCHIO
Giacinto PULEO
Giuseppe PIANI
Nicolò PIOMBINO
Salvatore POLLARA
Pasquale PAOLA
Luciano PIGNATELLI
Antonio PIANESE
Pietro PATTI
Franco PUZZO
Roberto PARISI
Giuseppe PILLARI
Carmela PANNONE
Emanuele PIAZZA
Saverio PURITA
Nunzio PANDOLFI
Angelica PIRTOLI
Ignazio PANEPINTO
Maria Teresa PUGLIESE
Girolamo PALAZZOLO
Santa PUGLISI
Giuseppe PUGLISI
Stefano PICERNO
Sergio PASOTTO
don Giuseppe PUGLISI
Anna PACE
Luigi PULLI
Stefano POMPEO
Giovanni PANUNZIO
Claudio PEZZUTO
Francesco PEPI
Lucia PRECENZANO
Vito PROVENZANO
Calogero PANEPINTO
Domenico Nicolò PANDOLFO
Domenico PACILIO
Rodolfo PATERA
Ennio PETROSINO
Vittorio PADOVANI
Riccardo PALMA
Antonio PALUMBO
Prisco PALUMBO
Pasquale PAOLA
Alfredo PAOLELLA
Paolo PAOLETTI
Settimio PASSAMONTI
Enrico PEDENOVI
Antonio PEDIO
Giuseppe PEGLIEI
Giovanni PERSOGLIO GALAMERO
Emanuele PETRI
Franco PETRUCCI
Giuseppe PISCIUNERI
Salvatore PORCEDDU
Sergio Pasotto
Stefano Picerno
Giuseppe PANZINO
Donato POVEROMO
Gerolamo PAPETTI
Mario PASI
Carlo PEREGO
Luigi PINTO
Giuseppe PATRUNO
Roberto PROCELLI
Angelo PRIORE
Vincenzo PETTENI
Letizia Concetta PALUMBO

Q
Cosimo QUATTROCCHI
Francesco QUATTROCCHI

R
Giuseppe RECHICHI
Giuseppe RUMORE
Placido RIZZOTTO
Andrea RAJA
Vincenzo RICCARDELLI
Emanuele RIBOLI
Quinto REDA
Ilario RUSSO
Paolino RICCOBONO
Matteo RIZZUTO
Salvatore  RAITI
Domenico RUSSO
Vincenzo RUSSO
Giuseppe RUSSO
Mauro ROSTAGNO
Luigi RANIERI
Michele REINA
Pietro RAGNO
Massimo RIZZI
Alessandro ROVETTA
Barbara RIZZO ASTA
Angelo RICCARDO
Domenico RANDÒ
Antonio RAMPINO
Antonio RUSSO
Francesco ROSSI
Attilio ROMANO’
Maria Incoronata RAMELLA
Silvia RUOTOLO
Giuseppe RUSSO
Nicola REMONDINO
Paolo RODA’
Giuseppe RADICIA
Salvatore ROSA
Romano RADICI
Giuseppe RAPESTA
Sergio RAMELLI
Stefano RECCHIONI
Valeria RENZI
Domenico RICCI
Giulio RIVERA
Mariano ROMITI
Guido ROSSA
Luciano ROSSI
Walter ROSSI
Francesco RUCCI
Roberto RUFFILI
Maria Santina CARRARO RUSSO
Marco RUSSO
Nunzio RUSSO
Pio Carmine REMOLLINO
Gaetano ROD
Romeo RUOZI

S
Costantino STELLA
Domenico SPATOLA
Mario SPATOLA
Pietro SPATOLA
Paolo SPATOLA
Antonino SCUDERI
Vito STASSI
Giovanni SANTANGELO
Vincenzo SANTANGELO
Giuseppe SANTANGELO
Giovanni SEVERINO
Marina SPINELLI
Francesco SASSANO
Giuseppe SPAGNUOLO
Filippo SCIMONE
Giuseppe SCALIA
Emanuela SANSONE
Nunzio SANSONE
Girolamo SCACCIA
Vincenza SPINA
Giovanni SPAMPINATO
Angelo SORINO
Michelangelo SALVIA
Vincenzo SAVOCA
Giuseppina SAVOCA
Vincenzo SPINELLI
Nunziata SPINA
Filippo SALSONE
Antonio SABIA
Antonino SAETTA
Stefano SAETTA
Giuseppe SALVIA
Rosario SCIACCA
Giuseppe SCEUSA
Salvatore SCEUSA
Grazia SCIME’
Andrea SAVOCA
Sandra STRANIERI
Antonino SCOPELLITI
Salvatore SCHIMMENTI
Giuseppe SPADA
Giancarlo SIANI
Biagio SICILIANO
Salvatore SQUILLACE
Incoronata SOLLAZZO
Maria Antonietta SAVONA
Riccardo SALERNO
Davide SANNINO
Rosario SALERNO
Antonio SOTTILE
Vincenzo SALVATORI
Stefano SIRAGUSA
Antonio SPARTÀ
Salvatore SPARTÀ
Vincenzo SPARTÀ
Giovanni SIMONETTI
Emanuele SAUNA
Antonino SIRAGUSA
Lucio STIFANI
Leonardo SANTORO
Dario SCHERILLO
Matilde SORRENTINO
Fedele SCARCELLA
Domenico STANISCI
Sandro SCARPATO
Luigi SEQUINO
Orazio SCIASCIO
Vito SCHIFANI
Francesco SCERBO
Lino SABBADIN
Franco SAMMARCO
Antonio SANTORO
Rocco SANTORO
Giovanni SAPONARA
Carlo SARONIO
Giuseppe SAVASTANO
Rosario SCALIA
Italo SCHETTINI
Roberto SCIALABBA
Giuseppe SCRAVAGLIERI
Gianfranco SPIGHI
Franco STRAULLU
Oreste SANGALLI
Angelo SCAGLIA
Carlo SILVA
Salvatore SEMINARA
Mario SICA
Iwao SEKIGUCHI
Silver SIROTTI
Loredana MOLINA SACRATI
Sergio SECCI

T
Giuseppe TESAURO
Giovanni TASQUIER
Antonino TRIPODO
Ugo TRIOLO
Mario TRAPASSI
Giuseppe TRAGNA
Michele Arcangelo TRIPODI
Carmine TRIPODI
Federica TAGLIALATELA
Gioacchino TAGLIALATELA
Roberto TICLI
Marcella TASSONE
Antonio TAMBORINO
Cesare TERRANOVA
Marcello TORRE
Claudio TAGLIATATELA
Hiso TELARAY
Francesco TAMMONE
Calogero TRAMUTA
Anna Maria TORNO
Claudio TRAINA
Giovanni TRECROCI
Francesco TRAMONTE
Valentina TERRACCIANO
Salvatore TIENI
Bonifacio TILOCCA
Ezio TARANTELLI
Giuseppe TALIERCIO
Girolamo TARTAGLIONE
Michele TATULLI
Domenico TAVERNA
Lucio TERMINIELLO
Euro TERSILLI
Walter TOBAGI
Pierluigi TORREGGIANI
Mario TOSA
Vincenzo TUMMIELLO
Emanuele TUTTOBENE
Bartolomeo TALENTI
Clementina CALZARI TREBESCHI
Maria Antonella TROLESE
Anna Maria SALVAGNINI TROLESE
Angelica TARSI
Federica TAGLIALATELA
Gioachino TAGLIALATELA
Alberto TREBESCHI

V
Bernardo VERRO
Francesco VICARI
Calogero VACCARO
Onofrio VALVOLA
Mariano VIRONE
Giuseppe VALARIOTI
Domenico VECCHIO
Antonio VALENTI
Leonardo VITALE
Abramo VASTARELLA
Vincenzo VENTO
Francesco VECCHIO
Paolo VINCI
Alberto VALLEFUOCO
Riccardo VOLPE
Antonino VASSALLO
Raffaele VITIELLO
Alberto VARONE
Gelsomina VERDE
Vincenzo VACCARO NOTTE
Salvatore VACCARO NOTTE
Giovanni VOLPE
Antonio VARISCO
Sebastiano VINCI
Eleno VISCARDI
Eliberto VOLGGER
Attilio VALÈ
Eleonora GERACI VACCARO
Vittorio VACCARO
Rita VERDE
Adriana Maria VASSALLO
Abramo VASTARELLA
Fausto VENTURI

Z
Giovanni ZANGARA
Celestino ZAPPONI
Calogero ZUCCHETTO
Carmelo ZACCARELLO
Daniele ZOCCOLA
Erilda ZTAUSCI
Ciro ZIRPOLI
Rosa ZAZA
Giuseppe ZIZOLFI
Agata ZUCCHERO
Alfio ZAPPALA’
Mario ZICCHIERI
Francesco ZIZZI
Vincenzina SALA ZANETTI
Paolo ZECCHI
Viviana BUGAMELLI ZECCHI
Onofrio ZAPPALÀ
Vittorio ZAMBARDA
 

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][2], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!
  
 
SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
2. L’ANNORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
3. SI UCCIDE UN MINISTRO CAMORRA SOTTO ACCUSA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
I. LA CAMORRA
4. I RIFIUTI TOSSICI IN CAMPANIA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Prima -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Seconda -
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
A. La Banca Romana
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano Massoneria - Parte Terza -
Roma Caput Immondum
B. Il banchiere di Dio
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
4. MAMMA COMANDA PICCIOTTO VA E FA’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
II. LA MAFIA
5. TURIDDU 65 ANNI DOPO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
1. LA SPADA E IL CILIEGIO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
2. IL LEGGENDARIO SACRIFICIO DEI 47 RONIN IN ONORE DEL DAIMYO DI AKO, ASANO TAKUMI NO KAMI NAGANORI
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
III. I SAMURAI
3. CHANOYU, L’ARTE DEL TE’
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE
IV. L’ORDINE SOVRANO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
1. IL PROCESSO DEI CAVALIERI DEL TEMPIO
di Daniela Zini


II. LA MAFIA

“Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto dalla Chiesa

di
Daniela Zini
 


“Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della Mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenariosinto ttera  più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi.”
Giovanni Falcone



“Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della Mafia, la Mafia non si vendica. Forse, saranno mafiosi quelli che, materialmente, mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.”
Paolo Borsellino
6.           MAFIA: “UN MUOITTU SULU ‘UN BAISTA, NI SIEBBONO CHIOSSAI!”

“La Mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa.”
Giovanni Falcone

Il 27 maggio 2013 [http://www.antimafiaduemila.com/home/primo-piano/43124-trattativa-stato-mafia-la-diretta-dal-processo.html, http://www.ipezzimancanti.it/, https://www.youtube.com/watch?v=su4PreRS0oM ], si apre, a Palermo, un processo storico per l’Italia: il processo dell’indicibile, che tenterà di fare luce, venti anni dopo, sul patto suggellato tra Stato e Cosa Nostra, nella Sicilia degli inizi degli anni 1990, con il sangue dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati nel 1992.
Per la prima volta, esponenti politici: l’ex-ministro dell’interno Nicola Mancino, il senatore del PDL Marcello Dell’Utri e l’ex-ministro Calogero Mannino; alti ufficiali del ROS: l’ex-generale Antonio Subranni, l’ex-generale del ROS, Mario Mori, l’ex-colonnello del ROS Giuseppe De Donno; e… bosses di Cosa Nostra: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Nino Cinà, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca si trovano, fianco a fianco, alla sbarra. Il processo verrà richiesto anche per il figlio dell’ex-sindaco Vito Ciancimino, Massimo.
“Questa richiesta di rinvio a giudizio è un capriccio di Ingroia. Capovolge la mia posizione: da minacciato prolungatamente dall’incombenza di un attentato mafioso, ad accusato. Insomma, da vittima vengo trasformato da Ingroia in ben altro.”,
è il commento di Calogero Mannino.
“Il vero problema della Giustizia a Palermo è proprio Ingroia. Da 21 anni vado e vengo dal Palazzo di Giustizia di Palermo, risultando alla fine innocente. Ma affronterò anche questa storia e affronterò Ingroia che, invece di cercare la verità, l’affossa con questo processo.”[http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/stato-mafia-rinvio.aspx]
La richiesta di rinvio a giudizio è firmata, il 24 luglio 2012, dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia[3] e dai pm Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene e vistata ma non firmata, dal procuratore Francesco Messineo[4] [http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-07-24/trattativa-statomafia-firmata-richiesta-150354.shtml?uuid=Ab5lnBDG].
Sono 12 gli indagati nella trattativa segreta, che sarebbe stata avviata tra la primavera del 1992 e l’inverno del 1994. Per tutti il reato ipotizzato è quello di attentato a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, a eccezione di Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, dopo la sua audizione al processo  Mori-Obinu del 24 febbraio 2012.
“Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato.”,
si legge nel provvedimento dei magistrati palermitani.
Dietro questa formula alquanto oscura si nasconde il sospetto che, alla fine dell’era democristiana degli anni 1990, caratterizzata in Sicilia da una collusione, almeno elettorale, tra politici e “ommini d’onore”, nuovi equilibri si siano relalizzati tra mafiosi ed eletti locali o nazionali di origine siciliana.
Come si sarebbe sostanziata questa nuova collusione?
Con una lista di rivendicazioni, stilata dal Gotha di Cosa Nostra, sulla quale figurava essenzialmente “l’attenuazione del 41 bis”, vale a dire del regime del carcere duro per i mafiosi detenuti.
In cambio, Cosa Nostra offriva la fine degli attentati.
Secondo la stessa richiesta di rinvio a giudizio, tutti coloro che avrebbero partecipato alla trattativa avrebbero agito “in concorso con l’allora capo della polizia Parisi e il vice direttore del DAP Di Maggio, deceduti” e avrebbero ammorbidito la linea dello Stato contro la Mafia, revocando centinaia di 41 bis [http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/24/trattativa-stato-mafia-procura-chiede-processo-per-mori-dellutri-e-provenzano/304029/].
All’epoca, i grandi partiti politici si erano spaccati e Forza Italia, la creatura di Silvio Berlusconi, vedeva il giorno.
Da più di dieci anni, i padrini di Cosa Nostra conducevano una guerra senza precedenti contro lo Stato, eliminando i suoi rappresentanti, in Sicilia, gli uni dopo gli altri.
Sotto questo tappeto di bombe, uomini, in seno alle istituzioni, avrebbero negoziato l’arresto degli attentati e la pelle di politici allora minacciati, cedendo al ricatto della Mafia…
In base alla ricostruzione dei pm di Palermo, il primo contatto con Cosa Nostra sarebbe stato cercato da Calogero Mannino, che, dopo l’omicidio di Salvo Lima, paventava l’offensiva mafiosa nei confronti dei politici, rei di non aver saputo bloccare le sentenze del Maxiprocesso. La trattativa sarebbe stata, poi, avviata da Mori e De Donno, che incontrarono, più volte, don Vito Ciancimino per arrivare a Riina. Il dialogo tra Mafia e Stato sarebbe proseguito fino al novembre del 1993,  quando l’allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò oltre 300 provvedimenti di 41 bis per detenuti mafiosi [http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/12/cottone-stragi-bozza/170026/, http://palermo.blogsicilia.it/trattativa-lex-ministro-conso-sulla-revoca-del-41-bis-non-decise-da-solo/288770/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/11/conso-nel-93-non-rinnovai-il-41-bis-per-lucciardone-e-evitai-altre-stragi/76421/].  L’apice dei contatti tra Stato e Mafia sarebbe stato, invece, raggiunto nel 1994, quando Bagarella e Brusca, luogotenenti di Riina, arrestato un anno prima, avrebbero manifestato al nuovo premier Silvio Berlusconi, “per il tramite di Vittorio Mangano e Dell’Utri”, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura.
Ma perché sarebbe illegittimo, riprovevole e passibile di azioni penali, che alcuni rappresentanti dello Stato abbiano cercato di evitare attentati sanguinosi, che avrebbero costato la vita a politici, magistrati e ad agenti di scorta e che avrebbero destabilizzato, profondamente, la coscienza civica degli Italiani?
Non è ciò che fanno tutti gli Stati democratici attraverso i loro servizi segreti, quando si tratta di contrastare il crimine organizzato?
Negoziano!
Cedono informazioni per ottenerne altre.
Fanno concessioni che reputano irrilevanti in rapporto al fine che intendono raggiungere.
In tutto il mondo!


19 maggio 1949, la seconda guerra mondiale si è appena conclusa e un giovane Salvatore Riina, appena diciannovenne, detto Totò u curtu esce per la consueta partita di bocce al campo di via Giovanbattista Scarlata. Scoppia una lite e partono le revolverate. Riina, appena diciannovenne, uccide una persona e ne ferisce un’altra. È lo stesso Navarra che lo obbliga a costituirsi: Riina entra per la prima volta all’interno degli archivi di un tribunale della neonata Repubblica. La Corte di Assise di Palermo lo condanna a sedici anni e cinque mesi. La prima puntata della carriera criminale di Riina contrapposta a quella dello Stato italiano è andata in scena. Cinque anni dopo u curtu è già fuori grazie a sconti e condoni e cresce nella nuova classe dirigente di Cosa Nostra, nonostante il suo livello di istruzione si fermi alla terza elementare, conseguita in carcere a 22 anni.
 

Al grido di “Fuori la Mafia dallo Stato” e “Vergogna”, il popolo delle Agende Rosse contesta l’ex-ministro Nicola Mancino, che sta lasciando l’aula bunker del Carcere Pagliarelli di Palermo.

Palermo, 27 maggio, dunque.
Sono le 8.55, nel Carcere Pagliarelli.
Sotto i flashes, un uomo, seguito dalla sua scorta, si precipita nel bunker dove sta per tenersi il processo. È Nicola Mancino l’ex-ministro dell’interno, accusato di falsa testimonianza. Alla sbarra, si lagna:
“Non posso stare nello stesso processo in cui c’è la Mafia.”
 
L’ex-generale Antonio Subranni nell’aula bunker del carcere Pagliarelli.

Alle 8.58, lo segue il generale Antonio Subranni[5], comandante del ROS, nel 1992.
Alle 9.02, arriva Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, ex-sindaco di Palermo .
“Milano... Milano.”,
gracchia, alle 9.26, una voce in un altoparlante.
L’aula si connette in videoconferenza con un detenuto del Carcere di Opera, a Milano.
Il volto crepucolare di Totò Riina invade lo schermo. Il capo dei capi di Cosa Nostra, il despota sanguinario, che ha ordinato la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è vestito di grigio, statico.
Poi, appare un altro detenuto, Leoluca Bagarella, uno dei killers più spietati di Cosa Nostra.
Infine, in diretta, da un altro carcere tenuto segreto, Giovanni Brusca.
I più bei fleurons della Mafia di fronte agli uomini dello Stato!
Mancano in questo casting eccezionale, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Marcello Dell’Utri, l’architetto di Forza Italia e l’eminenza nera di Silvio Berlusconi.
176 testimoni dovranno sfilare alla sbarra.
Il sessantatreesimo della lista è l’ex-presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano [http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/17/trattativa-stato-mafia-napolitano-chiamato-a-testimoniare-nel-processo/597264/].
Se la corte lo giudicherà necessario, potrebbe essere pregato di spiegarsi su una lettera, che gli aveva inviato, il 18 giugno 2012 [http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=7581:napolitano-e-il-processo-sulla-trattativa-se-questo-e-un-presidente&catid=20:altri-documenti&Itemid=43, http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/17/trattativa-stato-mafia-napolitano-chiamato-a-testimoniare-nel-processo/597264/, http://www.giornalettismo.com/archives/1566409/stato-mafia-la-procura-insiste-per-deposizione-di-napolitano/], il suo ex-consigliere giuridico Loris D’Ambrosio – deceduto il 26 luglio 2012 –, in cui lo stesso D’Ambrosio esternava il “vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”, nel periodo tra il 1989 e il 1993, ovvero, quando ricopriva incarichi prima all’Alto commissariato per la lotta a Cosa Nostra e, poi, al Ministero della Giustizia. Lo stesso periodo in cui per l’accusa si sviluppava l’accordo tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato...
Vi sono anche altri testimoni eccellenti: l’ex-presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, l’ex-procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, oggi, presidente del Senato. 
Nessuno sa quanto durerà il processo…
Le sue udienze contribuiranno, forse, a scrivere il libro dei defunti ideali che l’Italia ha festeggiato in quelle nozze di sangue e faranno, forse, luce sul presente.
Ma tutto resta da provare in questa storia, dove uomini chiave sono morti, e dove tanti altri hanno perso la memoria… 
L’ex-capitano De Donno, interrogato sulla presunta trattativa, come il suo capo Mori, sostiene che loro hanno, sempre e solo, voluto indurre a collaborare Vito Ciancimino, passando sopra la Direzione Investigativa Antimafia [DIA], uno sgambetto investigativo e istituzionale contro l’organo che era, all’epoca, competente di ogni azione di contrasto alla Mafia.
Sentito come testimone al processo, che vedeva Mori, imputato a Firenze per favoreggiamento alla Mafia, De Donno aveva raccontato degli incontri con Vito Ciancimino dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone.
“Decidemmo di contattare in qualche modo la Mafia attraverso Vito Ciancimino per fermare le stragi, ma non ci fu nessuna trattativa, non c’è mai stato nulla da trattare. Non ho mai visto il “papello”. Anche il contropapello l’ho visto solo sui giornali. In ogni caso, quello che è scritto sul contropapello era quello che era scritto nel libro Le Mafie. Si possono confrontare.”,
così De Donno, aveva risposto alle domande dell’avvocato Basilio Milio, legale di Mori.
Interrogato dal pm Nino Di Matteo, l’ex-ufficiale aveva puntualizzato il concetto di trattativa, di cui lui stesso aveva parlato, come gli aveva ricordato il pm, durante una deposizione, nel 1997, a Firenze, nel processo sulle stragi. In quell’occasione, De Donno aveva asserito che, durante i colloqui con Vito Ciancimino, “gli proponemmo di farsi tramite con Cosa Nostra, al fine di trovare un punto d’incontro finalizzato alla cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato”, e che in quella trattativa, i “carabinieri rappresentavano lo Stato”.
De Donno aveva ammesso la circostanza:
“Sì è vero. Confermo di avere detto questo. Ma non parlo della trattativa come viene intesa adesso. Con Ciancimino noi non volevamo trattare nulla, volevamo la fine delle stragi. Non c’è stata nessuna trattativa. Noi cercammo un approccio con Ciancimino su questo punto.”
De Donno aveva precisato che i suoi rapporti con don Vito Ciancimino “nascono nel giugno del 1992 dopo la morte di Falcone. Prima avevo avuto solo qualche incontro con il figlio Massimo nelle aule del Tribunale. In quel periodo, il generale Mori decise una serie di attività investigative per capire cosa stava succedendo. Valutammo di contattare Vito Ciancimino attraverso Massimo. L’idea fu mia e il colonnello Mori mi autorizzò”.
Sempre in quella occasione De Donno aveva negato che lui e Mori avessero ricevuto il “papello” da Ciancimino e aveva puntualizzato:
“Vito Ciancimino non ha portato elementi utili alla cattura di Riina. Del resto lui era stato arrestato a dicembre. Le indagini che portarono alla cattura di Riina non furono in nessuna maniera aiutate da Ciancimino.”
A fare da tramite tra De Donno e il sindaco, il figlio Massimo:
“Inizialmente Massimo Ciancimino mi disse “ti faccio sapere” e poi mi comunicò dopo qualche giorno la disponibilità del padre a incontrarmi. Mi recai nell’abitazione di Vito Ciancimino a Roma e da lì iniziò il nostro rapporto. Nonostante l’avessi arrestato in precedenza e fossi una delle cause dei suoi problemi giudiziari, Vito Ciancimino non nutriva rancore per me. Mi riconosceva il fatto di avere sempre agito con correttezza.”
E ancora:
“Le prime tre volte, tutte tra le due stragi, furono molto pesanti, complesse e formative. Dovevo farmi accettare da Ciancimino, instaurare con lui un dialogo e fare in modo che si fidasse. Già incontrarlo era stato un enorme successo. Inoltre avevamo scelto Ciancimino anche perché in quel periodo era ancora in grado di gestire alcuni appalti. È chiaro che dietro questo c’era anche l’intento di giungere all’apoteosi di questo rapporto che sarebbe stata la collaborazione giudiziaria di Ciancimino. Ovviamente gli chiesi di avere elementi utili per capire quello che stava succedendo. Era l’esigenza di tutti decifrare gli accadimenti per indirizzare le indagini.”
Secondo De Donno gli incontri tra Ciancimino e Mori erano iniziati dopo la Strage di via D’Amelio:
“Volevo che Ciancimino parlasse con Mori. Era un capo e doveva parlare con un capo. Tra Mori e Ciancimino ci furono quattro incontri.” [http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2011/8-marzo-2011/processo-mori-de-donno-non-ci-fu-nessuna-trattativa-papello-mai-visto-190179212147.shtml]

Il presidente della Corte di Assise Alfredo Montalto nell’aula bunker.

Il pm Nino Di Matteo con la sua scorta.

Nicola Mancino saluta il procuratore della Repubblica Francesco Massineo.

Massimo Ciancimino sostiene che suo padre sarebbe stato l’intermediario tra gli ufficiali dell’Arma e i bosses dei bosses di Cosa Nostra. Per gli inquirenti di Palermo, il “papello” sarebbe stato consegnato da Totò Riina a Vito Ciancimino, tramite l’altro imputato Antonino Cinà.
“Mio padre, quando fu arrestato, sentì di essere stato venduto. Era stato messo da parte perché sarebbe stato sostituito, nel suo ruolo di mediatore tra lo Stato e la Mafia, da qualcun altro. Infatti mio padre è morto da carcerato. A sostituire mio padre fu Marcello Dell’Utri.”,
racconta Massimo Ciancimino. Suo padre fu “posato” dopo l’arresto di Totò Riina, cui don Vito, secondo il racconto del figlio, contribuì in modo decisivo. Da Ciancimino il “papello” sarebbe, poi, arrivato ai carabinieri, i quali negano la circostanza di avere mai ricevuto un documento con richieste messe per iscritto.
Secondo il pentito Giovanni Brusca, qualche settimana dopo la Strage di Capaci, Riina voleva che la trattativa fosse “incoraggiata”.
Si doveva dare un “colpetto”…
Da lì a poco, il 19 luglio, nella Strage di via D’Amelio, morivano con un’autobomba parcheggiata sotto casa della madre il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta[6].
Nel 2008, un boss della ‘Ndrangheta, la potente Mafia calabrese, ormai presente sui cinque continenti, ricordava questa regola d’oro a un affiliato:
“Caro amico, lei deve armarsi di coraggio e guardare all’avvenire, senza dimenticare il passato.”

a. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
furono sacrificati alla Ragione di Stato?
“Quando c’è un delitto di Mafia,
la prima corona che arriva è quella del mandante.”
Carlo Alberto dalla Chiesa 

Vi sarebbero uomini dello Stato tra i mandanti dell’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
In verità, tutti coloro che si sono interessati a quegli anni sanguinosi [1991-1994] di opposizione frontale tra la Mafia e lo Stato, tutti hanno sospettato che vi dovessero essere appoggi ai livelli istituzionali più alti per permettere questi attentati.
Il primo a parlare di “trattativa” è Giovanni Brusca, nel 1996, che asserisce di averne sentito parlare da Totò Riina, tra la Strage di Capaci e la Strage di via D’Amelio. Su queste dichiarazioni si sono basati i pm di Palermo e di Caltanissetta, nel 2009, dopo avere raccolto le parole di Massimo Ciancimino.
Apriamo il dibattito con un rapido zoom sugli eventi.
Il 23 maggio 1992, alle ore 17.58, sull’autostrada A29 Palermo-Trapani, nei pressi dello svincolo di Capaci, una carica di 500 chilogrammi di tritolo fa saltare in aria le tre Fiat Croma di scorta a Giovanni Falcone. Nella esplosione perdono la vita il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo[7]. Gli unici sopravvissuti sono gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.
Qualche giorno prima dell’attentato, Falcone aveva confidato:
“Mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano.”[8]
Due giorni dopo, mentre a Roma viene eletto presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si svolgono i funerali delle vittime. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono, duramente, contestati dalla cittadinanza e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della giovane vedova dell’agente Schifani, Rosaria, susciteranno particolare emozione nella opinione pubblica:
“Io vi perdono, ma voi vi dovete mettere in ginocchio.” [https://www.youtube.com/watch?v=onKkygs9QIg,   https://www.youtube.com/watch?v=rPyBoiDQYKI,
Il magistrato Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia, rivolgendosi ai colleghi nell’Aula Magna del Tribunale di Milano:
“Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali.”
Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorda anche il linciaggio subito da Falcone da parte dei colleghi della sua stessa corrente:
“Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’ANM. Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da Magistratura Democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la Superprocura. Un’altra, come hanno fatto il Consiglio Superiore della Magistratura, gli intellettuali[9] e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di Mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il Ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la Mafia. Ed è stata una rivoluzione.”
Ilda Boccassini criticherà anche l’atteggiamento dei magistrati milanesi del pool di Mani Pulite:
“Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di Giovanni, perché sei andato al suo funerale? Giovanni è morto con l’amarezza di sapere che i suoi colleghi lo consideravano un traditore. E l’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da quelli di Milano, che gli hanno mandato una richiesta di rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi ha telefonato e mi ha detto: “Non si fidano neppure del direttore degli affari penali.”
Ilda Boccassini, confermerà le critiche in una intervista di Giuseppe D’Avanzo, apparsa su La Repubblica, il 21 maggio 2002, in occasione dell’affissione di una targa in memoria di Giovanni Falcone al Ministero della Giustizia.

D’Avanzo: Dottoressa Boccassini, oggi al Ministero della Giustizia sarà scoperta una targa in memoria di Giovanni Falcone, a dieci anni dalla morte...
Bocassini: Non lo sapevo.
D’Avanzo: È la prima volta che un magistrato ha quest’onore anche se è vero che solo Giovanni Falcone, direttore degli affari penali in quella primavera del 1992, è morto ammazzato quando era al vertice del Ministero di Giustizia.
Bocassini: Non è del tutto vero, Girolamo Minervini quando fu ucciso, il 18 marzo del 1980, si preparava a diventare direttore dell’amministrazione penitenziaria: dunque, un alto dirigente del ministero.
D’Avanzo: E allora?
Bocassini: Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche.
D’Avanzo: Buona domanda, qual è la sua risposta?
Bocassini: Credo che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. È soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi... Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. È stato sempre “trombatissimo”. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al CSM, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un personaggio letterario, l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non c’è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute “trombature”, ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito.
D’Avanzo: Polemiche, ancora polemiche, venti lustri dopo? Non le sembra una maledizione di cui conviene, una buona volta, liberarsi?
Bocassini: Non voglio risse né polemiche. Voglio ricordare, ragionare e capire perché - credo - così si rispetta il sacrificio di questo strano tipo di italiano, grande e scomodo, che è stato Giovanni. Voglio ricordare che la magistratura italiana addirittura scioperò contro Falcone nel 1991. Scioperò contro la legge che creava la Procura Nazionale Antimafia a lui destinata. Per bloccarne la candidatura, ricordo, un togato del CSM, Gianfranco Viglietta, di Magistratura Democratica, esaltò in una lettera al presidente Cossiga l’”assoluta indipendenza” dell’antagonista di Falcone, Agostino Cordova, osservando che “i criteri per la nomina a importantissimi incarichi direttivi non prevedono notorietà o popolarità”. Dunque, Falcone non era indipendente, ma solo “popolare” per Viglietta. Più esplicito in quell’accusa fu Alfonso Amatucci, anch’egli togato al CSM, per la corrente dei Verdi [cui pure Falcone aderiva]. Scrisse al Sole-24 ore che Giovanni “in caso di designazione, avrebbe fatto bene ad apparire libero da ogni vincolo di gratitudine politica”. Falcone era più o meno un “venduto” per Amatucci. Ancora un ricordo. Leoluca Orlando Cascio, nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra - che “dentro i cassetti della procura di Palermo ce n’è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici”. Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l’accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un “venduto”. Delle due l’una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda. In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica. Fin quando ciò non accadrà, io sentirò il dovere di ricordare. Perché solo ricordare le umiliazioni subite da Giovanni Falcone permette di comprendere il significato del suo sacrificio, il suo indistruttibile senso del dovere e delle istituzioni; di afferrare l’eccentricità “rivoluzionaria” del suo riformismo rispetto a un modo di essere magistrato in Italia o a fronte dell’idea subalterna della funzione giudiziaria coltivata dalla politica. Era questa sua diversità a renderlo inviso a una parte della magistratura e a rendergli diffidente e nemica la politica, tutta la politica, se si esclude la parentesi al Ministero dove gli fu possibile sperimentare qualche sua innovativa idea.
D’Avanzo: Qual era, secondo lei, la “diversità” di Falcone?
Bocassini: Una parte della magistratura italiana è stata sempre “sensibile” agli interessi della politica e la politica ha sempre desiderato la magistratura “sensibile” alla Ragion di Stato, agli equilibri di governo, alla difesa dello status quo, alle convenienze dei più forti. Era vero venti anni fa quando i procuratori generali mai pronunciavano la parola “Mafia” nei discorsi inaugurali dell’anno giudiziario, è vero oggi. Anche ora alcuni magistrati tra i migliori della nostra Repubblica, conservatori o riformisti che siano, sono attenti al gioco e agli interessi della politica. Magari questa attenzione è meno esplicita, più laterale e mediata, diciamo più scolorita e indiretta, ma è ancora presente. Bene, Giovanni Falcone è stato sempre sensibile soltanto all’indipendenza e all’autonomia della sua funzione: erano, per lui, valori ineliminabili. Non equivalevano a un privilegio di casta, come appare ad alcuni miei colleghi, né un riconoscimento che declina una sostanziale irresponsabilità, come credono altri. Al contrario, pensava che autonomia e indipendenza fossero le gravose responsabilità che la Costituzione ha affidato al magistrato per garantire l’imparzialità del giudizio, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della macchina giudiziaria. Giovanni sentiva l’indipendenza del magistrato come missione e risorsa; come il segno stesso, costitutivo, della sua identità di servitore dello Stato. Chiunque lo abbia incontrato, magistrato o politico che fosse, ha avvertito questa sua ostinazione, e la sua ostinazione lo ha reso “straniero” tra i magistrati “sensibili” e tra i politici innamorati dei magistrati “sensibili”: così è diventato un “corpo estraneo” da bocciare, distruggere, calunniare. È questa la ragione di fondo per cui non mi stancherò mai di chiedere alla magistratura una severa autocritica. Solo facendo i conti con la storia di Giovanni Falcone, la magistratura potrà trovare la forza e le ragioni per fronteggiare chi oggi vuole manipolare, con l’ordinamento giudiziario, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura anche strumentalizzando le riflessioni di Giovanni.
D’Avanzo: Da lassù Falcone mi perdonerà, ma ho sempre avuto l’impressione di un fondo ambiguo [ambiguo per necessità] nelle sue riflessioni. Come se, da tutti osteggiato, dovesse farsi accorto, fare il suo pensiero prudente e mai esplicito, esponendolo a letture contraddittorie e tuttavia non infondate. Da “destra” come da “sinistra”, per così dire. Ora è il Governo a “leggere” Falcone in modo da rafforzare l’impianto della riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario.
Bocassini: Basta fare i nomi di chi oggi spende il nome di Giovanni per toccare con mano la strumentalità e la malafede... .
D’Avanzo: A chi pensa?
Bocassini: Lascio cadere i nomi di tutti coloro che hanno ruolo istituzionale per evitare altre polemiche. Forse il nome del senatore Lino Jannuzzi posso, tuttavia, farlo. Jannuzzi, quando Falcone si trasferì al Ministero, consigliò agli italiani di tenere a portata di mano il passaporto perché stava nascendo, dopo la “cupola” mafiosa di Palermo, un’altra pericolosa “cupola” a Roma.
D’Avanzo: Passi, e tuttavia quando nel Governo e nella maggioranza si ragiona su separazione delle funzioni, terzietà del giudice, pubblico ministero si ascolta l’eco delle riflessioni di Giovanni Falcone. Non le pare? Per dirne una, è stato Falcone a scrivere che “il pubblico ministero deve avere un tipo di regolamentazione ordinamentale differente rispetto a quella del giudice”.
Bocassini: Se si è in buona fede, si deve ragionare sulle condizioni che hanno sollecitato quegli scritti e, in premessa, riconoscere che Giovanni non è stato soltanto “simbolo della lotta alla Mafia”, come riduttivamente qualcuno o troppi si accingono a fare in questo decennale. Falcone, quando scrive, ha in mente il rito accusatorio introdotto dalla riforma del processo del 1989. Ne intravede le grandi possibilità di repressione del crimine e di contrasto alla criminalità organizzata. Tiene a conservare il pubblico ministero come il dominus dell’indagine, il regista e lo stratega del lavoro della polizia giudiziaria. Si rende conto del potere di quell’ufficio nella raccolta delle prove e avverte la necessità di un contrappeso nella terzietà del giudice che deve valutarle. È consapevole che quel potere impone al magistrato un’autonomia cristallina e una forte ed equilibrata professionalità, un lavoro ancora più rigoroso nelle fonti di prova che dovranno essere “blindate”, per così dire, se si vuole affrontare il dibattimento: se non lo sono, meglio lasciar perdere... Voglio dire che Falcone vede, nel nuovo processo, la possibilità di garantire allo Stato maggiore forza nel difendere la cittadinanza dalla criminalità senza mutilare le garanzie dell’imputato. Non mi sembra questo, oggi, il centro del dibattito. L’ipertrofia legislativa ha deturpato il processo rendendolo un ibrido osceno dove lo Stato non difende più se stesso e le regole che si è dato e un imputato, se ha buone risorse, può difendersene con cavilli ed escamotage addirittura impedendone la celebrazione. Ecco, se si vogliono utilizzare le riflessioni di Falcone e questo vale sia per la politica che per la magistratura - siano ripristinate le condizioni che erano alla radice dei suoi ragionamenti: rito accusatorio, volontà dello Stato di potenziare il controllo della legalità, garanzie per l’imputato nel processo e non dal processo. Si mettano da parte le tentazioni di rendere subalterna ad altri poteri l’attività giudiziaria. In caso contrario, si lasci in pace nella sua tomba Giovanni Falcone.
D’Avanzo: Tra le “fissazioni” di Falcone, non è soltanto il rito accusatorio a segnare il passo. La legge per i “collaboratori di giustizia” è un arnese inutile ormai. L’unicità di comando di Cosa Nostra appare un residuo culturale. La centralità delle investigazioni, un’opzione non necessaria. L’intero “quadro” legislativo e di metodo nato dall’esperienza di Falcone appare in crisi. Le chiedo: è vero? E, se è vero, chi o che cosa ne porta la responsabilità?
Bocassini: Anche a rischio di apparire provocatoria, le rispondo che quel “quadro” legislativo e di metodo, come lo chiama lei, è in crisi perché chi lo ha utilizzato, in alcuni casi, lo ha fatto senza la necessaria professionalità e rigore. Mai Falcone avrebbe interrogato un mafioso di Cosa Nostra, come Giovanni Brusca, alla presenza di dieci pubblici ministeri venuti a Roma da procure diverse, come è purtroppo accaduto. Mai credo avrebbe accettato una convivenza tra Stato e Mafia, il “quieto vivere” che abbiamo sotto gli occhi. Si dice addirittura che siano in corso trattative con i capi di Cosa Nostra!
D’Avanzo: Si riferisce alla lettera che Pietro Aglieri ha inviato al procuratore Vigna?
Bocassini: Sì, a quei brani pubblicati dai giornali. Quella lettera, e lo dico per la mia esperienza, non mi sembra possibile che sia stata scritta da Pietro Aglieri: è un italiano troppo corretto ed efficace. Chi gliel’ha scritta? Mi auguro, anzi sono sicura, che non si è aperta nessuna trattativa. Ma non mi spiego perché quelle lettere non finiscano nel cestino della carta straccia. Questi signori sono i responsabili dei più efferati delitti. Hanno ucciso bambini innocenti, sciolto cadaveri nell’acido, massacrato servitori dello Stato. Sono stati giudicati responsabili, con sentenze passate in giudicato, di migliaia di omicidi commessi negli Anni Novanta, un eccidio degno di una guerra civile.
Ora si fanno avanti annunciando di volersi dissociare. Che poi vuol dire ammettere l’esistenza di Cosa Nostra senza accusare nessuno. Non capisco che cosa ci possa guadagnare lo Stato da una trattativa come questa. Sappiamo già che Cosa Nostra esiste, senza che ce lo dicano loro, e sappiamo che loro sono i capi e gli assassini di Cosa Nostra. Non c’è nulla da trattare.
D’Avanzo: Da quel che si è capito, il motivo ufficiale è l’abolizione del cosiddetto 41 bis, vogliono un carcere meno severo.
Bocassini: Meno severo del 41 bis di oggi, annacquato come un vino di quart’ordine, c’è soltanto il carcere-grand hotel di una volta. Il 41 bis in origine prevedeva isolamento pieno in un’isola, un colloquio al mese e nessun contatto tra detenuti. Ora i mafiosi hanno anche l’ora di socialità. Potrebbero accontentarsi, ma non si accontentano. Vogliono riunirsi, organizzare un tavolo di trattative. Chiedono di ricostruire il loro potere e c’è chi gli dà spago, a quanto pare.
D’Avanzo: Che cosa bisogna fare, secondo lei?
Bocassini: Il loro potere criminale deve essere distrutto. Hanno avuto un giusto processo. Sono stati condannati. Che il carcere per loro sia severo, come accade negli Stati Uniti, dove per assassini come Aglieri la tolleranza è zero. Vogliono un carcere meno duro? Dicano quello che sanno. A cominciare da collaboratori come Brusca che non hanno detto tutto.
D’Avanzo: Giovanni Brusca, che a Capaci attivò l’innesco del tritolo, ha confessato. Che cosa doveva dire che non ha detto?
Bocassini: Le sue dichiarazioni, per le stragi del 1992 e ‘93, mi sono sempre apparse insufficienti. È stato latitante fino al 1996, era in grado di conoscere ben altro che non l’operazione militare che portò alla morte di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
D’Avanzo: Sta dicendo che Brusca conosce i mandanti non mafiosi della strage, ammesso che ce ne siano?
Bocassini: Nel 1993 ho scritto che, delle stragi, abbiamo soltanto una parziale ricostruzione e che la verità non c’è ancora. Di questo sono tuttora convinta.
D’Avanzo: Ritornerà ad occuparsene?
Bocassini: L’attività giudiziaria ha le sue regole e le sue competenze. Se mi dovesse capitare, non mi tirerò certo indietro. Spero di poter fare il mio lavoro con un ordinamento giudiziario che sappia ancora garantire alla magistratura quell’autonomia e indipendenza che, per Falcone, erano alimento essenziale del principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
D’Avanzo: Nutre qualche dubbio?
Bocassini: Quale magistrato non coltiva oggi qualche dubbio con i progetti di riforma presentati dal Governo? Io credo che in questa battaglia, che vede in gioco il destino stesso di una funzione giudiziaria indipendente e quindi il futuro dello Stato di diritto, la magistratura debba saper vedere meglio, più acutamente - e finalmente, aggiungo - nell’esempio di Giovanni Falcone un modo di essere un magistrato che umilmente, senza arroganza e tentazioni di potere, serve il compito che la Costituzione gli ha assegnato. È un compito terribile, essere autonomi; ma è il nostro compito. È il compito che Giovanni svolse fino all’ultimo minuto della sua vita. È il “testimone” che ci ha consegnato. Noi magistrati dobbiamo raccoglierlo e difenderlo senza le divisioni, il risentimento e l’invidia che gli resero la vita breve e infelicissima.”
[http://www.repubblica.it/online/politica/falcone/falcone/falcone.html]
 

E Leoluca Orlando, così, commenta l’ostracismo che Giovanni Falcone aveva subito da parte di alcuni colleghi, negli ultimi mesi di vita:
“L’isolamento era quello che Giovanni si era scelto entrando nel Palazzo dove le diverse fazioni del regime stavano combattendo la battaglia finale.”


Due mesi dopo la Strage di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, un altro attentato colpisce al cuore Palermo: Paolo Borsellino è ucciso in quella che viene ricordata come la Strage di via D’Amelio. Il 19 luglio[10], alle ore 16.58, una Fiat 126 rubata, contenente circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H [miscela di PETN, tritolo e T4], telecomandati a distanza, esplode in via Mariano D’Amelio 21, sotto il palazzo dove vive la madre di Borsellino, presso la quale il giudice, quella domenica, si è recato in visita, con la scorta, dopo aver pranzato con la moglie e i figli. Nell’attentato, oltre a Borsellino, muoiono i cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto, Antonino Vullo, che stava parcheggiando una delle auto della scorta e si trova più lontano dal punto dello scoppio, così, descrive l’esplosione:
Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto.”
Lo scenario descritto dagli operatori della locale Squadra Mobile giunti sul posto è di decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati”. Sul luogo della strage, pochi minuti dopo il fatto, giunge il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che abita nelle vicinanze.

Il 24 giugno 1992, Paolo Borsellino in una intervista a Lamberto Sposini per il TG5, citando Ninni Cassarà, aveva dichiarato:

Sposini: Dopo la morte di Falcone come è cambiata la vita di Borsellino?
Borsellino: [lungo sospiro] La mia vita è cambiata innanzitutto perché… dalla morte… di questo mio vecchio amico e compagno di lavoro è chiaro che io sono rimasto particolarmente scosso e sono ancora impegnato, ad un mese di distanza, a recuperare e…, vorrei dire, tutte le mie possibilità operative sulle quali il dolore ha inciso in modo enorme. È cambiata anche perché sia per la morte di Falcone, sia per taluni altri fatti, mi riferisco alle dichiarazioni ormai pubbliche di quel collaboratore che ha parlato e ha detto di essere stato incaricato di uccidermi e la notizia è arrivata alla stampa in concomitanza con la notizia della Strage di Capaci. Le mie condizioni…, sono state estremamente appesantite le misure di protezione nei miei confronti e nei confronti dei miei familiari. È chiaro che in questo momento io ho visto comple…, quasi del tutto, anzi, vorrei dire del tutto, pressoché abolita la mia vita privata. Ho temuto nell’immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare.
Sposini: Posso chiederle se lei si sente un sopravvissuto?
Borsellino: Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. La… l’espressione di Ninnì Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto la… ho sempre accettato il… più che il rischio, la… condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. Il… la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in… in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare e… alla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro.”

Cinque giorni dopo, il 24 luglio, circa 10mila persone partecipano alle esequie di Paolo Borsellino per essere vicini alla famiglia, che ha rifiutato i funerali di Stato e accusa il Governo di non aver saputo proteggere Borsellino dopo la morte di Falcone. Alcuni giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino aveva, infatti, chiesto alla Questura di far rimuovere le auto nella zona intorno alla casa della madre. Ma la sua richiesta non era stata accettata.
Dopo l’omicidio di Borsellino, all’uscita della camera ardente, Antonino Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall’emozione:
Quella che segue è una sintesi della toccante intervista realizzata nel maggio del 1996 da Gianni Minà: Chi ci tradì?” l’ultimo dubbio di Caponnetto:

Minà: Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese?
Caponnetto: Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole di sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.
Minà: Caponnetto, lei non era nato eroe, ma uomo mite, e invece si è trovato, di colpo, a dover essere coraggioso.
Caponnetto: Sì, con quel tanto di paura che accompagna gli uomini in questo tipo di avventure. Ricordo ancora la risposta che diede Paolo quando gli chiesero se non avesse paura. “ Certo – disse – non sarei un essere umano se non avessi paura, però mi sforzo di avere quel tanto di coraggio che serve per superarla, per andare avanti”. Che risposta meravigliosa!
Minà: Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo?
Caponnetto: Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent’anni a Pistoia e poi a Firenze.
Minà: E perché invia la domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttorio, dopo l’assassinio di Chinnici?
Caponnetto: Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c’è un cordone ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall’oppressione della Mafia, per restituire dignità e libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché non pensavo di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il tempo mi ha perdonato… […]
Minà: Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo?
Caponnetto: Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano, per loro ero comunque uno “straniero”che veniva a togliere lavoro ai siciliani, e ai palermitani… […]
Minà: Sicuramente c’erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C’è la certezza che qualcuno ha tradito. Ma appena la Giustizia si avvicina a questo sottobosco politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, e tuttora, a “coperture” anche se si sta cercando di far luce su tutto questo.
Minà: Lei ha mai conosciuto Contrada?
Caponnetto: Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983.
Minà: Come seppe dell’attentato a Falcone?
Caponnetto: Dalla televisione, e mi sentii morire.
Minà: Parlò con Borsellino quel giorno?
Caponnetto: Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento.
Minà: Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli?
Caponnetto: Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo.
Minà: Lei mi ha detto “Borsellino sapeva di morire”; in che senso sapeva di morire?
Caponnetto: Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell’attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento.
Minà: Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo per farlo saltare in aria?
Caponnetto: Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili.
Minà: Ma non c’era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno che lo potesse aiutare in qualche modo?
Caponnetto: Sì, Paolo aveva chiesto alla Questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze… […]
Minà: Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta?
Caponnetto: Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un’associazione così ben organizzata come la Mafia, se non coordinandosi. C’era bisogno di riunire le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di Mafia. Avevo già coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di un’esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la stessa esperienza l’aveva vissuta a Roma.
Minà: Come scelse i suoi collaboratori?
Caponnetto: Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già li e aveva istruito il processo Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell’omicidio del commissario Basile…
Minà: Parliamo dell’Operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la Mafia. Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre 120 omicidi. La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò per la prima volta i nome di Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Leggio, dei Greco, dell’omicidio Scaglione, rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”. Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise – aprendo la porta dall’interno – di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l’unico modo per entrare in una struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai progrediti […]
Minà: Chi decise di smantellare il pool antimafia?
Caponnetto: Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come affrontare la lotta alla Mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per lasciare il posto a Giovanni che era l’unico per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose andarono diversamente.
Minà: Chi bocciò Falcone?
Caponnetto: Il CSM.
Minà: Nelle persone di?
Caponnetto: Mi porto sempre dietro l’appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi dei presunti favorevoli, dall’altra quella dei quali dava per scontata l’opposizione. Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all’ultimo momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella colonna a lui contraria.
Minà: Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a Palermo.
Caponnetto: Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri, in tanti documenti. Borsellino li definì Giuda”[https://www.youtube.com/watch?v=dqUSYwhmKCw], quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del 1993, dopo l’eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere a Caponnetto, il CSM con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest’uomo rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.”
Minà: Non so se - come disse Borsellino – siano stati dei Giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco?
Caponnetto: Ognuno ha fatto la sua parte. Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell’Ufficio Istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di Mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la Procura della Repubblica, e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la Procura della Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue […]
Minà: In un’intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato.”
Caponnetto: Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il Parlamento non avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari. È, quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti decisivi per la lotta alla Mafia.
Minà: Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria?
Caponnetto: Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che non lo saprò mai.

 

Il film documentario In un altro Paese di Marco Turco, tratto dal libro del giornalista americano Alexander Stille, Excellent cadavers. The Mafia and the Death of the First Italian Republic, racconta la clamorosa vittoria dei due giudici palermitani nella lotta contro la Mafia, ma anche di come lo Stato non abbia fatto nulla per proseguire nel lavoro avviato da Falcone e Borsellino.
“In un altro Paese”,
osserva Stille,
“gli artefici di una tale vittoria sarebbero stati considerati un patrimonio nazionale. Dopo aver vinto la prima battaglia a Palermo, ci si sarebbe aspettato che Falcone e i suoi colleghi fossero messi nella condizione di vincere la guerra. Invece in Italia avvenne proprio il contrario.”
 

Voi direte:
“Questi due uomini sono Eroi!”
“Sì!”
“No!”
“Sono dei Martiri!”
Perché la loro opera per la legalità ha trovato poco terreno fertile presso l’opinione pubblica e ancora meno presso gli uomini politici dell’epoca.

L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto.
E NO!
Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati.
Paolo Borsellino, Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa, 26 gennaio 1989

Venivano accusati di essere dei “rossi”, giudici comunisti – argomento riutilizzato da Berlusconi, all’epoca delle sue disavventure giudiziarie. Sono stati intralciati, calunniati, minacciati nel loro lavoro da pezzi dello Stato!
Intoccabili per la facciata, dalla loro morte, nessuno osa criticarli pubblicamente: tuttavia, non mancano tentativi di delegittimazione da parte di alcuni politici, sempre gli stessi.
Esempio emblematico di questi tentativi di delegittimazione è la polemica lanciata nei confronti di Roberto Saviano da Emilio Fede, quando era direttore del TG4 e fedele cane  - sì, si può dire! – di Silvio Berlusconi.
Ma torniamo ai fatti!
Quali pezzi dello Stato avrebbero potuto patteggiare con Satana?
Capo di governo?
Ministri?
Servizi segreti?
Ancora oggi, non è dato sapere!
Di certo, i servizi segreti e alcuni personaggi della gerarchia delle forze dell’ordine hanno manomesso prove e rallentato le inchieste.
Alcuni pentiti mettono in causa Silvio Berlusconi e il suo braccio destro, Marcello Dell’Utri, che, all’epoca, non erano, ancora, entrati in politica.
Per chi non ricorda o finge di non ricordare, una cronologia sintetica degli eventi può aiutare ad analizzare la situazione e a proiettarci in ciò che è accaduto, in Italia dal 1992 al 1994.

1992

30 Gennaio: prima condanna storica di tutto il Gotha mafioso, sotto l’impulso determinante dei giudici Falcone e Borsellino, nel Maxiprocesso di Palermo, che si svolge in un bunker costruito per l’occasione: 338 condanne [74 in contumacia], 114 assoluzioni, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere,11.5 miliardi di multe.

17 Febbraio: arresto di Mario Chiesa.
Scoppia Tangentopoli!
È l’implosione della classe politica italiana.
È la fine della Democrazia Cristiana.
È la caduta di Giulio Andreotti al potere da 40 anni.
Ma chi era Andreotti[11]?
Chi ha voluto delegittimare i magistrati di Palermo, guidati dal procuratore Gian Carlo Caselli, e osannare Giulio Andreotti, ha, sempre, detto che il sette volte presidente del Consiglio dei Ministri è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa[12].
Ma non è così!
I giudici di Corte di Appello e di Corte di Cassazione distinguono i fatti che vanno fino al 1980 da quelli successivi [http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/06/andreotti-morto-tribunale-disse-ebbe-rapporti-organici-con-mafia/584807/]. Fino alla primavera del 1980, Andreotti è, infatti, stato riconosciuto responsabile del reato di associazione a delinquere [il reato di associazione mafiosa, il 416 bis, è stato introdotto solo dopo i fatti contestati]. Questo crimine si è estinto per prescrizione. Per tutti i fatti successivi al 1980, Andreotti è assolto.
Il 2 maggio 2003, la Corte di Appello confermava l’assoluzione ai sensi dell’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale, che ricalca la vecchia insufficienza di prove. La Corte di Appello riteneva che fosse “ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’isola: a] chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione, interventi para-egali, ancorché per finalità non riprovevoli; b] incontri ripetutamente con esponenti di vertice della stessa associazione; c] intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d] appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e] indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f] ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g] dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici­ e non meramente fittizi­ di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale”.
Secondo la Corte di Appello Andreotti, “con la sua condotta [non meramente fittizia] ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”.
Il giudizio della Corte di Appello sarà confermato, in via definitiva e irrevocabile, dalla Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, nella sentenza n. 49691. La Seconda Sezione Penale della Suprema Corte, in 215 pagine depositate, spiega per quali motivi abbia deciso di confermare in pieno la sentenza di appello sul processo di Palermo, rendendo noto che il collegio “ha dovuto limitare le sue valutazioni a verificare se le prove acquisite presentino una evidenza tale da conclamare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza in ordine all’insussistenza del fatto o all’estraneità allo stesso da parte dell’imputato”. E, “mancando tali estremi”, sia il ricorso della Procura di Palermo, che chiedeva la la condanna per il senatore a vita, sia il ricorso di Giulio Andreotti, che avrebbe voluto la piena assoluzione “vanno rigettati”.
In termini più comprensibili, Giulio Andreotti era il referente politico della Mafia in seno allo Stato.
Con Tangentopoli e la fine della Democrazia Cristiana, si crea, dunque,  un vuoto politico: la Mafia cerca un nuovo interlocutore.

1993

8 gennaio: arresto di Balduccio Di Maggio a Borgomanero [Novara]. Alcuni, incluso Giovanni Brusca, ammisero che Di Maggio era uno specchietto per coprire il tradimento di Bernardo Provenzano, strettissimo collaboratore di Riina. 
Lo stesso giorno, viene assassinato, a Barcellona, il giornalista Beppe Alfano.

15 gennaio: arresto di Salvatore Riina, capo di Cosa Nostra dopo 23 anni di latitanza. Scoppiano le polemiche per la mancata perquisizione del rifugio del capo dei capi.

27 marzo: Giulio Andreotti riceve la notizia della richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti dall’allora Presidente del Senato, Giovanni Spadolini. La Procura di Palermo lo vuole processare. Il capo di accusa è pesante come un macigno: concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, verrà commutato, semplicemente, in “associazione mafiosa”. Le accuse sono contenute in un corposo dossier, 246 pagine in tutto, a firma dell’uomo che, a quel tempo, guidava la Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli, e dei tre suoi sostituti Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nella documentazione si sostiene che Andreotti avrebbe “contribuito, non occasionalmente, alla tutela degli interessi e al raggiungimento degli scopi dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra”. [http://www.repubblica.it/online/politica/giuliopalermo/storia/storia.html, http://www.repubblica.it/online/politica/giuliopalermo/caselli/caselli.html]

13 aprile: arresto di Francesco Barbaccia, medico del Carcere dell’Ucciardone di Palermo, accusato di aver operato alle corde vocali il boss Mario Martello.

20 aprile: viene estradato dall’Argentina il boss Gaetano Fidanzati.
Lo stesso giorno, viene arrestato, in Brasile, Antonio Salomone, accusato di avere organizzato insieme a Luciano Leggio, Michele Greco e Totò Riina, l’omicidio del giudice Cesare Terranova.

1° maggio: arresto di Antonio Ammaturo, in Perù, camorrista e trafficante di droga.

9 maggio: ad Agrigento, nella Valle dei Templi, Giovanni Paolo II pronuncia una dura omelia contro la Mafia, invitando i mafiosi a pentirsi e a cessare ogni violenza:
“Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!” [https://www.youtube.com/watch?v=R2kzS2grRp4]

14 maggio: attentato, a Roma, in via Ruggero Fauro, presso il Teatro Parioli, che “non aveva l’obiettivo di uccidere il giornalista [Maurizio Costanzo[13], n.d.r.], ma di dargli un avvertimento” [https://www.youtube.com/watch?v=zl_zYsqdnpA].
A rivelarlo, a distanza di 21 anni dall’agguato di Cosa Nostra, è il pentito Tullio Cannella, nella deposizione al processo per la trattativa tra Stato e Mafia, collegato in videoconferenza con la Corte di Assise di Palermo. Cannella racconta di avere saputo i retroscena dell’attentato a Maurizio Costanzo dal boss mafioso Leoluca Bagarella, con il quale era in buoni rapporti.
“Nel ‘93 vi fu un attentato e Bagarella stava andando al mare”,
spiega Cannella rispondendo alle domande del pm Francesco Del Bene, “e mi fece una battuta sarcastica: “Tutti questi attentati in Italia… Secondo me sono i terroristi, saranno quelli della Falange Armata.” Ma era stata una battuta. Bagarella disse in dialetto: “Cu sta bummideddra, u Costanzo s’assistimò.”
Bagarella mi fece capire che questo episodio intimidatorio induceva il giornalista a evitare di fare programmi dove primeggiava l’attacco nei confronti della Mafia. Mi disse anche che non si voleva uccidere Costanzo ma che si voleva dargli un avvertimento. Perché lui girava in un ambiente vicino a Cosa Nostra, lui lavorava per Mediaset, il cui proprietario era all’epoca Berlusconi.”
Alla domanda del pm Del Bene sul perché si volesse intimidire il giornalista e non ucciderlo, Cannella risponde:
“Costanzo era vicino a degli amici, lavorava con personaggi che avevano un rapporto buono con Cosa nostra.” [http://www.ammazzatecitutti.it/primo-piano/2014/12/mafia-pentito-cannella-attentato-costanzo-era-per-avvertirlo-non-per-ucciderlo/]

18 maggio: arresto di Nitto Santapaola, nelle campagne di Mazzarrone a Catania, nell’ambito dell’Operazione Luna Piena. A tradirlo erano state le intercettazioni delle conversazioni con i suoi figli.

26/27 maggio: strage di via dei Georgofili, a Firenze, nella notte tra il 26 e il 27 maggio1993. Una Fiat Fiorino imbottita di esplosivo, fatta esplodere nei pressi della Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, provoca la morte di cinque persone, di cui 2 bambini.

2 giugno: il giorno della Festa della Repubblica, una pattuglia di carabinieri scopre una carica di esplosivo sui sedili di una Fiat Cinquecento parcheggiata in via dei Sabini, a Roma, a cento metri da Palazzo Chigi, dove è in corso una riunione del Consiglio dei Ministri.
Lo stesso giorno, viene catturato Salvatore Pulvirenti, detto “u malpassotu”, 60 anni, latitante da 11. Il cosiddetto Leone di Belpasso, uno degli ultimi grandi latitanti di Cosa Nostra, considerato il braccio armato del clan di Santapaola. La sua cattura era nell’aria da mesi. Le forze dell’ordine gli avevano fatto terra bruciata e nella notte tra l’1 e il 2, con la collaborazione del SISMI, entrarono in azione in un modesto casolare in contrada Treare, nelle campagne di Belpasso. Giuseppe Pulvirenti era nel suo regno, ma viveva miseramente in un covo sotterraneo di 2 metri per 4, accanto a una casetta, metà in pietra lavica, metà in muratura. Nelle ultime settimane si spostava continuamente utilizzando almeno quattro diversi rifugi. I carabinieri lo presero nel sonno, senza dargli il tempo di impugnare la pistola calibro 38. Era in compagnia di un muratore, Giuseppe Pappalardo, che gli faceva da vivandiere e da autista.

22 luglio: il boss Salvatore Cancemi, capofamiglia, reggente del mandamento di Porta Nuova, si consegna, spontaneamente, ai carabinieri di Palermo per collaborare con la Giustizia, dichiarando che la mattina successiva dovrebbe incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri, capo del mandamento di Santa Maria di Gesù, per poi raggiungere Provenzano in una località segreta e si offre di aiutarli a organizzare una trappola. L’informazione viene considerata non veritiera dai carabinieri, i quali, convinti che Provenzano sia morto perché dopo un decennio la moglie e i figli sono tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidono di non sfruttare l’occasione.

27 luglio: attentato di via Palestro a Milano, nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea. Cinque vittime innocenti nell’esplosione. Una donna bella, bionda, magra, probabilmente sotto i trent’anni, parcheggia la Fiat Uno in via Palestro e, poi, si dilegua su un’altra autovettura con due uomini a bordo. L’identikit è lo stesso fornito da altri testimoni sull’attentato di via Fauro a Roma. A Milano sono in due ad averla vista parcheggiare l’auto verso le 22.30. Di quella bionda, tuttavia, non vi è traccia in nessuna sentenza, e, mai, è stata identificata.

27/28 luglio: autobombe esplodono a Roma davanti al Vicariato, in piazza San Giovanni, e di fronte alla Chiesa di San Giorgio al Velabro.

Mentre si consumano gli attentati dinamitardi a Milano e Roma, Matteo Messina Denaro, nei cui confronti è stato emesso un mandato di cattura, va in vacanza a Forte dei Marmi insieme ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e, da allora, si rende irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

30 luglio: Antonino “Nino” Gioè, uomo d’onore di Altofonte, detenuto nel carcere di Rebibbia in quanto uno dei responsabili della Strage di Capaci si suicida. Gioè si suicida, probabilmente, perché ha scoperto di essere stato intercettato mentre parlava dell’attentato di Capaci e di alcuni bosses e, quindi, teme una vendetta trasversale; o, forse, perché si sente inchiodato a un ergastolo sicuro. Forse, avrebbe parlato ancora, forse, avrebbe scelto la via di fuga di Gioacchino La Barbera che inizia a collaborare con la Giustizia. In ogni caso quel 30 luglio del 1993 Nino Gioè è trovato impiccato alle sbarre della sua cella. Ha usato i lacci delle scarpe. Lasciò un biglietto con scritto:
“Io rappresento la fine di tutto.”
Gioacchino La Barbera, invece, parla, conferma il contenuto dei dialoghi e aggiunge altre e più preziose informazioni che accompagnano in galera l’intero commando di Capaci, lasciando dubbi solo sulla regia della intera operazione. Parla anche Di Matteo. Per costringere Di Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro decidono di rapire il figlio Giuseppe.

15 settembre: assassinio, a Palermo, di don Pino Puglisi, che sottrae alla Mafia i giovani di Brancaccio, impiegati in spaccio e piccole rapine e affronta i mafiosi con una serie di omelie sul sagrato della chiesa. Per il suo assassinio i fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe, vengono condannati all’ergastolo, quali mandanti di Salvatore Grigoli.

31 ottobre: fallito attentato, al termine della partita Lazio-Udinese, allo Stadio Olimpico di Roma[14], in viale dei Gladiatori, dove si trova un presidio dei carabinieri, che svolgono funzioni di ordine pubblico durante le partite di calcio. L’esplosione dell’autobomba fortunatamente non avviene per un malfunzionamento del telecomando che avrebbe dovuto innescare l’ordigno.
Carlo Azeglio Ciampi, nel suo Da Livorno al Quirinale scrive:
“Una caratteristica del mio Governo[15] è stata quella di essere contrassegnato dalle bombe. Non faccio in tempo a formare il Governo che la prima bomba scoppia in via Fauro. Subito dopo, il 27 maggio, le bombe di Firenze in via dei Georgofili. Poi, nella notte tra il 27 e il 28 luglio, le due bombe di Roma a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni, e contemporaneamente a Milano, dove ci furono dei morti. Poi c’è stato l’attentato all’Olimpico, fallito solo perchè non scattò l’innesco dell’esplosivo. Si scoprì poi il progetto di fare un attentato alla torre di Pisa, per il quale avevano già procurato l’esplosivo.”

15 novembre: Luciano Leggio muore di infarto, nel Carcere di Badu ‘e Carros a Nuoro. Viene sepolto a Corleone, dopo una cerimonia svolta senza coinvolgimento pubblico, per divieto della Questura.

23 novembre: i bosses Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca e Matteo Messina Denaro rapiscono Giuseppe Di Matteo, 11 anni, per costringere il padre Santino, che sta collaborando con la Giustizia, a ritrattare le sue dichiarazioni, nel quadro di una strategia di ritorsioni verso i collaboratori di giustizia. Dopo 779 giorni di prigionia, Giuseppe è strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido nitrico. Ad ordinare l’esecuzione, avvenuta l’11 gennaio 1996, è Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato. 


1994

26 gennaio: nascita ufficiale di Forza Italia, vale a dire la famosa “iniziativa politica legata a Fininvest”, voluta da Marcello Dell’Utri, poi, Bettino Craxi e altri.

27 gennaio: un secondo attentato allo Stadio Olimpico di Roma è annullato all’ultimo momento dai mandanti con una telefonata agli esecutori [http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-gennaio-94-perche-strage-stadio-olimpico-fu-progettata-poi-40797.htm]. Così il magistrato romano Giancarlo De Cataldo, nel suo romanzo Nelle mani giuste racconta:
“Pino Marino parcheggiò l’autobomba fra una vecchia Uno e il furgone di un panettiere. Dal vicino stadio Olimpico esplodevano, a tratti, gli scoppi d’ira o di entusiasmo dei tifosi. Angelino, dal sedile di guida della sua Saab, vide che il picciotto armeggiava nel vano motore. Starà controllando il contatto, si disse. Erano nei pressi del cancello G-8. La partita era appena iniziata. Fra un’ora e mezzo o poco più, i tifosi avrrebbero preso a defluire. Invadendo le strade circostanti.
L’autobomba era piazzata proprio lungo una di queste strade. Appostati in una piazzola a cento metri, Pino e Angelino avrebbero dato il via alle danze al passaggio della colonna di automezzi dei Carabinieri che smontavano dal servizio di ordine pubblico. Doveva essere una carneficina. Duecento, cinquecento, forse mille tra militi e tifosi.”
Lo stesso giorno, Filippo e Giuseppe Graviano vengono arrestati a Milano. Tra i vari capi d’accusa: la partecipazione agli attentati dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

19 marzo: a Casal di Principe, viene ucciso don Giuseppe Diana, sacerdote impegnato nella lotta contro la Camorra.

27 marzo: Forza Italia, il partito-impresa di Berlusconi, vince le Elezioni Politiche. Riscuote il 21% dei consensi, divenendo, in pochi mesi, il primo partito italiano, il Partito Democratico della Sinistra con il 20,4%,  il secondo.

scampa a un altro attentato dei nemici corleonesi Matteo Messina Denaro e Giovanni Brusca. Tuttavia, l’esplosivo, collocato in una cunetta ai lati di una strada nei pressi di Formello, dove Contorno passa abitualmente, viene scoperto dai carabinieri, avvertiti dalla telefonata di un cittadino insospettito da alcuni movimenti strani.

30 giugno: il Parlamento approva la Legge n. 430 [http://www.parlamento.it/604], che istituisce la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Mafia e sulle altre Associazioni Criminali Similari [XII legislatura].

24 novembre: sono uccisi Francesco Montalto, il figlio Salvatore, e Vito Basile.


Voi mi scuserete per questa cronologia, lunga, ma indispensabile per comprendere il ragionamento che mi appresto a fare. Perché si deve avere questo quadro ben presente nella mente, per meglio cogliere come si inscrive sullo sfondo della tempesta giudiziaria forza 10, Tangentopoli, che ha visto decimare e scomparire a velocità supersonica la classe economica e politica del Paese, dopo mezzo secolo di Democrazia Cristiana e, soprattutto, sullo sfondo della nascita, nel più grande segreto, del partito politico di Silvio Berlusconi, voluto da Dell’Utri dal… l’estate del 1992!
In concreto, simultaneamente agli assassinii di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
E senza che lo stesso Berlusconi lo sappia… fino all’autunno.
Federico Orlando, co-direttore de Il Giornale, fondato da Indro Montanelli, ha pubblicato un libro intitolato Il sabato andavamo ad Arcore, in cui racconta le riunioni in casa di Silvio Berlusconi con la partecipazione delle colombe [Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo], che frenavano l’iniziativa, temendo che fosse contro-produttiva per Berlusconi], e dei falchi [Ennio Doris, Marcello Dell’Utri, Cesare Previti]. Una testimonianza che si unisce a quella resa da Ezio Cartotto nel suo libro Operazione Botticelli...
Ma ascoltiamo Marco Travaglio:

“Poi ci sono altre discussioni, ci sono ancora i frenatori come Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo che sono piuttosto ostili al progetto, o meglio temono che per Berlusconi sia un autogol.
 Sarà un caso, ma proprio il 14 maggio del 1993 la Mafia fa un attentato a Roma, il primo attentato a Roma nella storia della Mafia, il primo attentato fuori dalla Sicilia nella storia della Mafia viene fatto a Roma nel quartiere dei Parioli. Contro chi? Ma guarda un po’: Maurizio Costanzo che sfugge poi, fortunatamente, per un centesimo di secondo.
Quel Costanzo che stava nella P2: evidentemente qualche ambientino non si aspettava che fosse ostile alla discesa in campo. Perché lo dico? Perché in quello stesso periodo in Sicilia e in tutto il Sud Ovest, anche Calabria, si muovevano delle strane leghe meridionali che, in sintonia con la Lega Nord – c’era stato addirittura a Lamezia Terme con un rappresentante della Lega Nord – si proponevano di secedere, di staccare Sicilia, Calabra... infatti si chiamavano “Sicilia libera”, “Calabria libera”. Era tutto un fronte di leghe molto strano: invece di esserci i padani inferociti lì c’erano strani personaggi legati un po’ alla Mafia, un po’ alla ‘ndragheta e un po’ alla P2 e uno di questi, il principe Orsini che aveva legami con questi personaggi, aveva legami anche con Marcello Dell’Utri.
 Quindi noi sappiamo che Dell’Utri – lo ha dimostrato Gioacchino Genchi, ma guarda un po’, andando a incrociare i telefoni e i tabulati di questi personaggi – aveva contatti diretti con questo Principe Orsini. Dell’Utri inizialmente tiene d’occhio questi ambienti, perché sono le organizzazioni mafiose, legate a personaggi della P2 e dell’eversione nera, che si stanno mettendo insieme perché sentono odore di colpo di Stato, sentono odore di nuova Repubblica e vogliono far pesare, ancora una volta, la loro ipoteca con un partito o una serie di partiti nuovi.
Come Sicilia Libera, della quale si interessano direttamente boss come Tullio Cannella, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.
Dopodiché succede qualcosa, succede che dopo l’attentato a Costanzo e dopo gli attentati che seguono – alla fine di maggio c’è l’attentato a Firenze, ci sono addirittura cinque morti e diversi feriti; poi alla fine di luglio ci sono gli attentati di Milano e Roma con altri cinque morti e diversi feriti – questa strategia terroristica ad ampio raggio, della Mafia, sortisce i risultati sperati: Riina non stava sparando all’impazzata, stava facendo la guerra per fare la pace con lo Stato, così disse ai suoi uomini.
 Una nuova pace con nuovi soggetti e referenti politici che però, a differenza di quelli vecchi che ormai erano agonizzanti, fossero vivi, vegeti, reattivi e in grado, fatto un accordo, di rispettarlo.
È l’estate del 1993 quando Forza Italia è ormai decisa: Berlusconi nell’aprile-maggio ha comunicato a Montanelli che entrerà in politica e che quindi il Giornale dovrà seguirlo nella battaglia politica. Montanelli gli ha detto che se lo può scordare: tra l’estate e l’autunno sono mesi in cui si consuma la rottura tra Montanelli e Berlusconi perché Montanelli continua a scrivere che Berlusconi non deve entrare in politica perché c’è un conflitto di interessi, perché non si può fare due mestieri insieme.
Dall’altra parte, ci sono le reti Fininvest che bombardano Montanelli per indurlo alle dimissioni, perché era diventato un inciampo: il giornalista più famoso dell’ambito conservatore che si scatenava contro quello che doveva diventare, secondo i desideri di Berlusconi, un partito moderato, liberale, insomma il partito che avrebbe dovuto incarnare gli ideali di cui Montanelli era sempre stato l’alfiere e che invece Montanelli sapeva benissimo non avrebbe potuto incarnare perché Berlusconi è tutto fuorché un moderato e un liberale: è un estremista autoritario.
In quei mesi la Mafia decide di abbandonare il progetto di Sicilia Libera che essa stessa aveva patrocinato e fondato e tutto ciò avviene in seguito a una serie di riunioni, nell’ultima delle quali Bernardo Provenzano – ce lo racconta il suo braccio destro, Nino Giuffré che ora collabora con la Giustizia e che è stato ritenuto attendibile in decine e decine di processi compreso quello Dell’Utri – convoca le famiglie mafiose, la cupola, per sapere che cosa scelgono: se preferiscono andare avanti col progetto del partitino regionale Sicilia Libera o se invece non preferiscano una soluzione più tradizionale come quella che sta affacciandosi a Milano grazie all’opera di un loro vecchio amico: Marcello Dell’Utri che conoscevano fin dai primi anni Settanta come minimo, cioè da quando Dell’Utri, in rapporto con un mafioso come Cinà e un mafioso come Mangano, aveva portato quest’ultimo dentro la casa di Berlusconi.
Si potrà discutere se l’ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente, ma il fatto c’è: ha dato a Cosa Nostra la possibilità di entrare dentro la casa privata e di stazionare con un proprio rappresentante dentro la casa privata di uno dei più importanti e promettenti finanzieri e imprenditori dell’epoca. Berlusconi era costruttore, in quel periodo, poi sarebbe diventato editore e poi politico.”
La Mafia e la nuova Repubblica, Marco Travaglio

“È strano che non si trovi più nessuno, ma nemmeno all’estrema sinistra, che ricordi questi fatti documentati. Ancora nel novembre del 1993 quando ormai per Forza Italia si tratta proprio di stabilire i colori delle coccarde e delle bandierine, c’erano i kit del candidato, stavano facendo i provini nel parco della villa di Arcore per vedere i candidati più telegenici; in quel periodo, a tre mesi dalle elezioni del marzo del 1994, Mangano incontra due volte Dell’Utri a Milano. E questa non è una diceria, c’è nelle agende della segretaria di Dell’Utri: Palazzo Cellini, sede di Publitalia, Milano 2, i magistrati arrivano e prendono le agende e nell’agenda del mese di novembre del 1993 si trovano due appuntamenti fra Dell’Utri e Mangano, il 2 novembre e il 30 novembre.
E Mangano chi era, in quel periodo? Non era più il giovane disinvolto del ‘73-’74 quando fu ingaggiato e portato ad Arcore come stalliere: qui siamo vent’anni dopo.
Mangano era stato in galera undici anni a scontare una parte della pena complessiva di 13 anni che aveva subito al processo Spatola per Mafia e al Maxiprocesso per droga, due processi istruiti da Falcone e Borsellino insieme.
È stato definitivamente condannato per Mafia e droga a 13 anni, ne aveva scontati 11, uscito dal carcere nel 1991 era diventato il capo reggente della famiglia mafiosa di Portanuova e grazie al suo silenzio in quella lunga carcerazione aveva fatto carriera e partecipato alle decisioni del vertice della Mafia di fare le stragi.
E poche settimane dopo le ultime stragi di Milano e Roma, Dell’Utri incontra un soggetto del genere a Milano negli uffici dove sta lavorando alla nascita di Forza Italia.
Io non so se tutto questo sia penalmente rilevante, lo decideranno i magistrati: penso che sia politicamente e storicamente fondamentale saperlo, mentre si vede Gianfranco Fini che cita Paolo Borsellino al congresso che sta incoronando il responsabile di tutto questo, cioè Berlusconi.
Verrebbe da dire “pulisciti la bocca”.
Possibile che invece di abboccare a tutti i suoi doppi giochi, quelli del centrosinistra non – ma dico uno, non dico tutti, li conosciamo, fanno inciuci dalla mattina alla sera e sono pronti a ricominciare con la Costituente come se non gli fosse bastata la Bicamerale – uno, di quelli anche più informati, che dica “ma come ti permetti di parlare di Borsellino? Leggiti quello che diceva, Borsellino, di questi signori in quella famosa intervista prima di morire[16]“.
Leggiti quello che c’è scritto nella sentenza Dell’Utri e poi vergognati, perché quel partito lì non l’ha fondato lo Spirito Santo, l’hanno fondato Berlusconi, Dell’Utri, Craxi con l’aiuto di Mangano che faceva la spola fra Palermo e Milano, infatti le famiglie mafiose decidono di votare per Forza Italia e di abbandonare Sicilia Libera – che viene sciolta nell’acido probabilmente – quando Mangano arriva giù a portare le garanzie.
Marco Travaglio, Gli incontri tra Mangano e Dell’Utri

Il dibattimento di primo grado del processo Dell’Utri[17] prende avvio, davanti al Tribunale di Palermo, nel novembre del 1997 e si conclude l’11 dicembre 2004, con la condanna a nove anni di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici in primo grado dell’ex-senatore di Forza Italia, riconosciuto colpevole dei delitti di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa, legati dal vincolo della continuazione ai sensi del capoverso dell’articolo 81 del codice penale [http://www.penalecontemporaneo.it/area/3-/17-/-/3216-la_corte_di_cassazione_scrive_la_parola_fine_sul_processo_dell_utri/]. In motivazione, i giudici palermitani scrivono che l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l’imputato ha intrattenuto, a partire dalla metà degli anni 1970 fino alla fine degli anni 1990, rapporti diretti e personali con esponenti di spicco di Cosa nostra, e ha, altresì, svolto, nello stesso periodo, una intensa e costante attività di mediazione tra questi e Silvio Berlusconi; attività di mediazione volta, in un primo momento, a garantire all’ex-premier protezione per sé e per la propria famiglia, e, successivamente, a sostenerne l’attività imprenditoriale e politica, in cambio di cospicue somme di denaro, che lo stesso Dell’Utri provvedeva a versare nelle casse di Cosa Nostra, così contribuendo a consolidare il potere del sodalizio criminale. Nella sentenza, i magistrati di Palermo scrivono: i rapporti tra Cosa Nostra e Dell’Utri “sopravvivono alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla vendetta di Cosa Nostra – i vecchi politici: Lima, Salvo… – e ciononostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso”. In altre parole, nonostante la gente inizi veramente ad appassionarsi all’antimafia dopo la morte di Falcone e Borsellino, Dell’Utri non cambia. Esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell’imputato Dell’Utri anche relativamente alla sua stagione politica – quella di cui abbiamo parlato –. Forza Italia nasce nel 1993 da un’idea di Dell’Utri il quale non ha potuto negare che ancora nel novembre del 1993 incontrava Mangano a Milano mentre era in corso l’organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica.
Dell’Utri incontrava Mangano nel 1993 e, poi, anche nel 1994 “promettendo alla Mafia precisi vantaggi politici e la Mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”.
Ciò detto, molti interrogativi restano.
1.   Perché la Mafia ha commesso questa serie di stragi e fuori del suo territorio siciliano, cosa che non si era mai verificata né prima né dopo l’anno tragico del 1993?
2.   Perché il secondo attentato fallito allo Stadio Olimpico del 27 gennaio 1994, che sarebbe stato, senza dubbio alcuno, il più violento di tutti, è stato annullato, all’ultimo momento dai mandanti con una telefonata agli esecutori?
Non è, certo, facile rispondere!
E, tuttavia, del mancato attentato, ricostruito nei dettagli dagli inquirenti, sulla base delle testimonianze incrociate e delle investigazioni condotte, colpisce l’epoca in cui si situa. I sei precedenti attentati si sono concentrati da marzo [due mesi dopo la cattura di Riina] a luglio del 1993, dunque, avrebbe dovuto avere luogo, sei mesi più tardi, tra gli incontri di Dell’Utri e Mangano e la nascita di Forza Italia, nel novembre del 1993, e le elezioni politiche, vinte da Forza Italia, nel marzo del 1994.
Nel quadro di insieme sembrerebbe che la Mafia abbia finito con l’ottenere ciò che voleva, se tutta questa campagna di attentati non aveva altro scopo, secondo i giudici, che “negoziare” una pax mafiosa con lo Stato.
Una trattativa il cui contenuto prendeva un solo foglio di carta, il famoso “papello”, che Riina avrebbe rimesso – o fatto rimettere – ai suoi interlocutori, che rappresentavano lo Stato italiano e sul quale era annotata la lista delle pretese della Mafia nei confronti dello Stato: allentare la repressione contro Cosa Nostra e promulgare una legislazione ad hoc per arginare il fenomeno dei pentiti e ammorbidire le condizioni di detenzione fissate dall’articolo 41 bis. 
Un compromesso Stato-Mafia totalmente inaccettabile per Paolo Borsellino, il cui migliore amico era stato assassinato due mesi prima.     
Rieccoci, dunque, al punto di partenza: la Strage di via D’Amelio e i numerosi misteri che vi aleggiano, ancora, d’intorno.
Secondo una mia “visione” alquanto fantasiosa e fantastica, Berlusconi non sarebbe, direttamente, legato agli attentati di Falcone e Borsellino; ma la sua entrata improvvisa in politica, nel 1994, la sua amicizia con Dell’Utri, la prensenza in casa sua di un mafioso notorio, Vittorio Mangano[18], per 2 anni, mi fanno pensare che abbia potuto profittare dei voti della Mafia, almeno nel 1994.
E si può, anche, pensare che alcuni pentiti abbiano avuto voglia di raccontare delle cose su Berlusconi, in particolare sull’origine della sua fortuna, per vendicarsi dello Stato e forzarlo a “cooperare”.
Un articolo dell’Express [http://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/un-accord-entre-l-etat-et-cosa-nostra_886019.html] permette di approfondire l’argomento.
https://x.ligatus.com/77181-5895/153-3121/852237-557879-108_848643-555836-108_849881-554413-/24/751156/1/1/1467353856549/0/V/Lo Stato può processare se stesso?
Non tarderemo a vederlo!
Vi sono tutte le condizioni perché la società italiana possa regolare i suoi conti con se stessa.
L’esigenza di verità è forte, forte più che mai, ma sarà abbastanza forte per avere gli effetti auspicati?
Questa è la domanda!
Se la risposta sarà sì, questo Paese avrà un Avvenire.
Se la risposta sarà no, allora l’occasione unica da afferrare oggi, con le unghie e con i denti, non si ripresenterà più.
Vi sono appuntamenti con la Storia che un Paese degno di questo nome non può mancare!
I misteri che avvolgono, ancora oggi, via D’Amelio sono tre: 

1.    la trattativa tra lo Stato e la Mafia dopo l’assassinio di Giovanni Falcone;
2.    l’incontro tra Paolo Borsellino e Nicola Mancino [1° luglio 1992];
3.    la scomparsa dell’agenda rossa da cui Paolo Borsellino non si separava mai [19 luglio 1992].

1.    La trattativa tra lo Stato e la Mafia dopo l’assassinio di Giovanni Falcone
Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza confermano che la trattativa, avviata da Totò Riina e proseguita da Bernardo Provenzano, sarebbe iniziata dopo l’attentato a Giovanni Falcone e prima dell’assassinio di Paolo Borsellino.  
E secondo Giovanni Brusca:
“Borsellino muore per la trattativa che era stata avviata tra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato, dopo la strage di Capaci, ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene zitto ma lui si era rifiutato. A Borsellino era stato proposto di non opporsi alla revisione del Maxiprocesso e di chiudere un occhio su altre vicende.”
Un coinvolgimento dei servizi segreti nell’attentato non sembra lasciare dubbio alcuno, anche se, come osserva Salvatore Borsellino, tutte le inchieste dirette in questo senso si sono bloccate.
Gaspare Spatuzza fornisce un dettaglio. Dichiara, infatti, di avere rubato la vettura servita per l’attentato, prima di consegnarla a un “elemento esterno a Cosa Nostra, perché fosse imbottita di un ordigno esplosivo.
E Gioacchino Genchi rivela molti alri fatti veramente inquietanti: numeri di cellulari clonati; reti di comunicazione operative, lungo tutto il percorso di via D’Amelio. Genchi è il primo a intuire che il detonatore è stato azionato dal Castello Utveggio, sulla cima del Monte Pellegrino, da dove la vista spiovente sul luogo dell’attentato appare evidente [https://www.youtube.com/watch?v=fXn_kB2DBEs, https://www.youtube.com/watch?v=2qPp5RsJk_c, https://www.youtube.com/watch?v=_2BxnfemHa8].
Infine, tutto ciò resta un “affare di famiglia”…
Vi assicuro che la storia dei servizi segreti in questo Paese, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino ai nostri giorni, vale un approfondimento.
Ma sarà per un’altra volta…

 




 
 

Erano le tre di notte ai primi di marzo di quest’anno, a Palermo. Mi sono svegliato di soprassalto, mi sono alzato e sono andato a guardare, dal balcone al nono piano della casa dove dormivo, il monte che sovrasta Palermo.
Non c’era la luna, non c’erano le stelle, il cielo era nero, ma sulla cima del monte si stagliava un castello.
Emanava un lieve chiarore, come se fosse fosforescente, dotato di una luce propria, forse perché lo ho guardato a lungo tante volte illuminato dal sole, e quell’immagine si è ormai stampata nella mia memoria.
Ogni volta che vado in Via D’Amelio vado vicino all’olivo che mia madre ha fatto piantare nel punto in cui era stata piazzata la macchina piena di esplosivo, nel punto dove sono stati massacrati Paolo e i suoi ragazzi, alzo gli occhi, lo vedo e sto a lungo a guardarlo.
Chissà se Paolo prima di alzare il braccio per suonare il campanello del citofono della casa di nostra madre ha alzato gli occhi e lo ha visto per l’ultima volta, chissà se anche i suoi ragazzi prima di essere fatti a pezzi lo hanno guardato.
Di certo qualcuno da una finestra di quel castello li stava osservando e aspettava il momento migliore per azionare il detonatore.
Di certo Gioacchino Genchi arrivando in via D’Amelio due ore dopo la strage ha distolto gli occhi dal tronco di Paolo in mezzo alle macerie del numero 19 di via D’Amelio, ha distolto gli occhi dai pezzi di Emanuela Loi che ancora si staccavano dall’intonaco del palazzo dove abitava la mamma di Paolo e ha visto quel castello.
Quel castello, l’unico punto, come subito capì, da dove poteva essere stato azionato il comando che aveva causato quella strage.
E allora prese l’auto, fece quei pochi chilometri in salita che separano via D’Amelio da quello sperone del Monte Pellegrino, andò davanti al cancello di quel castello e suonò un altro campanello, lo suonò a lungo ma nessuno gli aprì nonostante là dentro ci fossero tante persone come poté stabilire qualche tempo dopo elaborando, come solo lui è in grado di fare, i tabulati telefonici dove sono riportati le posizioni e le chiamate dei telefoni cellulari e dei telefoni fissi.
Incrociando quelle telefonate si riescono a stabilire delle verità che nemmeno le intercettazioni sono in grado di fare.
Si riesce a sapere che da un certo numero di ville situate sulla strada tra Villagrazia di Carini e Palermo una serie di telefonate partì per segnalare che Paolo stava arrivando al suo appuntamento con la morte.
Si riesce a stabilire che nei 140 secondi intorno alle ore sedici cinquantotto minuti e venti secondi dell’esplosione che causò la strage, delle telefonate partirono e arrivarono da una barca ormeggiata nel golfo di Palermo per segnalare che Paolo era arrivato al suo ultimo appuntamento e che l’esplosione era stata perfettamente sincronizzata con il suo arrivo.
Su quella barca c’era Bruno Contrada ed altri componenti dei servizi segreti civili, dentro quel castello, insieme a persone che Genchi, con le sue tecniche è in grado di individuare e avrebbe già individuato se non lo avessero subito fermato, c’era Musco, una lugubre figura appartenente e animatore di logge massoniche deviate che dovrebbe essere inquisito per tanti elementi che invece oggi si trovano solo come spunto nelle sentenze di archiviazione di processi che non hanno potuto svolgersi.
Che forse non si svolgeranno mai, protetti come sono da un segreto di Stato non dichiarato ma non per questo meno forte perché retto dai ricatti incrociati basati sul contenuto di una Agenda Rossa.
Perché invece di portare avanti quei processi si emanano sentenze assurde e vergognose come quella che ha mandato assolto il cap. Arcangioli, l’uomo fotografato e ripreso subito dopo l’esplosione in via D’Amelio, con in mano la borsa di cuoio di Paolo che sicuramente conteneva l’agenda rossa.
Perché invece si svolgere altri processi che vanno a toccare i fili scoperti delle consorterie di magistrati, uomini di governo, massoni e servizi deviati, si massacrano altri giudici, non più con il tritolo, ma con metodi nuovi che non fanno rumore, non fanno indignare l’opinione pubblica, come le bombe che in Palestina amputano gli arti di civili palestinesi senza che venga versato del sangue.
Massacri, vere e proprie esecuzioni davanti a plotoni di esecuzione composti da altri magistrati, come la decimazione della Procura di Salerno, che vengono presentate da una stampa ormai asservita e pavida di fronte al sistema di potere con un’ottica completamente distorta e fuorviante.
Perché il pericolo rappresentato da Genchi e dalle sue consulenze in un eventuale processo agli esecutori occulti di questa strage, anche se forse non si svolgerà mai, viene eliminato preventivamentre eliminando la possibilità di un utilizzo delle sue raffinate tecniche di indagine in grado di inchiodare i responsabili materiali di quella strage.


“L´attacco che viene fatto nei miei confronti parte esattamente dagli stessi soggetti che io avevo identificato la sera del diciannove luglio del 1992 dopo la strage di via D’Amelio, mentre vedevo ancora il cadavere di Paolo Borsellino che bruciava e la povera Emanuela Loi che cadeva a pezzi dalle mura di via D’Amelio numero diciannove dov’è scoppiata la bomba, le stesse persone, gli stessi soggetti, la stessa vicenda che io trovai allora la trovo adesso!”
Gioacchino Genchi, 27 febbraio 2009

Almeno fino a quando, e non è impossibile che accada, qualcuno non deciderà che sia necessaria la sua eliminazione anche fisica sfidando le reazioni che questa potrebbe provocare nell’opinione pubblica.
Alla stessa maniera in cui fu sfidata questa reazione quando fu necessario eliminare in fretta Paolo per potere rimuovere del tutto l’unico ostacolo che si frapponeva al portare avanti una ignobile trattativa tra Mafia e Stato, portata avanti, in prima persona, dai più alti gradi del ROS. Quella trattativa della quale oggi, punto per punto e in mezzo all’indifferenza e all’assuefazione dell’opinione pubblica, vengono realizzati quei punti contenuti nel “papello” e che sanciscono la definitiva sconfitta dello Stato di diritto.
Vogliamo anche noi dichiararci sconfitti, vogliamo anche noi chinare il capo e dichiararci servi, vogliamo anche noi rinunciare alla nostra libertà?
Il 19 luglio non è lontano. Prepariamoci.
Quest’anno da quella via in cui tutto è cominciato alle 5 del pomeriggio di 17 anni fa, dovrà nascere e non dovrà più fermarsi la nostra RESISTENZA.
Non dovrà più fermarsi fino a quando non sarà fatta Giustizia, fino a quando quei criminali che, anche dentro le istituzioni, stanno oggi godendo i frutti di quella strage non saranno spazzati via per sempre.

Salvatore Borsellino


2.    L’incontro tra Paolo Borsellino e Nicola Mancino [1° luglio 1992]
Il primo luglio del 1992, 18 giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino è a Roma, negli uffici della Direzione Investigativa Antimafia [DIA], per interrogare un pentito, Gaspare Mutolo, uno dei primi a fare rivelazioni sui rapporti tra Mafia e Politica, parlando di Salvo Lima, Giulio Andreotti, Domenico Signorino e Bruno Contrada, tra gli altri.
Quello stesso giorno, Nicola Mancino[19] si è insediato come nuovo ministro dell’interno. L’interrogatorio inizia alle 15.00, ma Borsellino deve interromperlo e e riprenderlo più tardi, perché il neo-ministro lo ha chiamato per un incontro.
Mutolo dichiara che, al ritorno dal Viminale, Borsellino fosse talmente nervoso da accendere due sigarette contemporaneamente e avesse raccontato di avere incontrato Vincenzo Parisi, Bruno Contrada e il neo-ministro dell’interno Nicola Mancino. Mancino lo ha negato, a più riprese, fino al gennaio del 2012, durante un’udienza del processo a carico dell’ex-generale Mario Mori, arrivando a sostenere di non ricordare di aver stretto o meno la mano al giudice, ma al tempo stesso di non escluderlo categoricamente [http://www.antimafiaduemila.com/home/mafie-news/253-sistemi-criminali/37686-trattativa-stato-mafia-anche-mancino-tra-gli-indagati.html].
Una dichiarazione alquanto strana, per almeno due ragioni:
1. nel 1992, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i giudici più noti d’Italia. Dunque, che il ministro dell’interno, già in politica da una ventina di anni, gli abbia stretto la mano senza rendersene conto, sembra poco probabile;
2. e, anche prendendo per oro colato la versione di Nicola Mancino, il giudice Borsellino non era certo uomo da stringere la mano a qualcuno senza presentarsi, nel caso in specie il neo-ministro dell’interno nel giorno del suo insediamento.
Abbiamo, dunque, la parola di un vivo contro quella di un morto, che ha, tuttavia, lasciato, dietro di sé, una traccia molto imbarazzante, sulla sua agenda grigia:
19.30 – Mancino!


In merito alle inaccettabili lezioni di moralità che Nicola Mancino pretenderebbe di impartire a Sonia Alfano, alla quale va tutta la mia solidarietà, devo purtroppo constatare che lo stesso Mancino, non pago di avere finora occultato la verità riguardo all’incontro avuto con Paolo Borsellino alle ore 19 e 30 del 1° Luglio 1992, nascondendosi dietro una pretesa e persistente amnesia, comincia adesso a riferire, estraendole dalla nebbia della sua memoria, circostanze che, guarda caso, riguardano persone morte e quindi non più in grado di smentirlo.
Non mi resta quindi che ribadire ancora una volta allo stesso Mancino come Paolo Borsellino, piuttosto che smentire il colloquio avuto con Mancino, annotò di suo pugno nell’agenda che è ancora in possesso della famiglia e dove segnava ora per ora i suoi incontri e i suoi spostamenti, prima, alle ore 18.30 il nome di Parisi e poi, alle ore 19.30, il nome di Mancino.
Allora o Mancino deve accusare apertamente Paolo Borsellino di avere registrato, a futura memoria, una annotazione falsa o deve confessare di avere avuto questo incontro con Paolo e in conseguenza raccontare che cosa avvenne in quel colloquio e perché Paolo ne uscì sconvolto.
Ci dovrebbe anche dire lo stesso Mancino quale fosse il motivo della presenza di Bruno Contrada presso lo stesso Minsitero proprio mentre Gaspare Mutolo stava raccontando a Paolo che Contrada non fosse altro che un traditore dello Stato.
Se poi non può farlo perché dovrebbe allora ammettere di avere prospettato a Paolo la trattativa in corso tra Mafia e Stato, tra Stato e Antistato, e non può farlo perché quella trattativa è proprio il motivo scatenante che rese necessaria l’eliminazione di Paolo Borsellino, si ricordi che, oltre alla Giustizia terrena, alla quale si può anche riuscire a sottrarsi, esiste anche una Giustizia superiore alla quale è difficile, molto più difficile sottrarsi.
Salvatore Borsellino, Mancino e le nebbie della memoria

Racconta Gioacchino Natoli:
“Mentre aspetta di essere ricevuto dal ministro appena eletto, Borsellino sta fumando nervosamente, allorché vede aprirsi la porta del salotto dove sarebbe stato ricevuto e gli appare Bruno Contrada, l’allora numero tre del Sisde. Questo fatto lo meravigliò non poco. Dietro Contrada c’era l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi.”
E ancora:
“Borsellino e Contrada si scambiarono un veloce saluto e nell’allontanarsi Contrada gli disse: – So che ha incontrato Mutolo. Si ricordi che in passato mi sono occupato di lui. Se ha bisogno, può rivolgersi a me –.”
Dall’incontro al Viminale, ricorda Natoli, “Borsellino tornò parecchio adirato. La collaborazione di Mutolo era appena iniziata e sarebbe dovuta essere coperta da misure di cautela logiche e immaginabili. Anzi, nel caso specifico, sarebbero dovute essere ulteriormente rafforzate, visto il clima che si respirava dopo la strage di Capaci. Invece cautela e riservatezza erano venute meno e questo lo fece andare su tutte le furie. Tanto che la sera di quel 1° luglio mi chiamò ancora molto agitato, chiedendomi come avesse fatto Contrada a sapere dell’interrogatorio di Mutolo.”[http://100passijournal.info/borsellino-incontro-mancino-due-settimane-prima-di-essere-ucciso/]
Dopo la morte di Falcone, Borsellino sa che, presto, sarà il suo turno. Mette, dunque, tutto nero su bianco: il programma delle sue giornate nella agenda grigia e le sue riflessioni nella agenda rossa, da cui non si separa mai.
Ma vi ritornerò!

3.    La scomparsa dell’agenda rossa, da cui Paolo Borsellino non si separava mai [19 luglio 1992]
 
 
Una persona in giacca, che si muoveva vicino all’auto blindata del giudice Paolo Borsellino pochi minuti dopo la strage di via d’Amelio, facendo domande sulla valigetta del magistrato appena assassinato. Continua a rimanere senza volto il misterioso personaggio che 22 anni fa si muoveva nell’inferno di via d’Amelio, qualificandosi come agente dei servizi, mentre si dimostrava interessato alla borsa che conteneva l’agenda rossa, il diario dove Borsellino appuntava ogni sua riflessione nei mesi precedenti al suo assassinio: dopo la strage l’agenda che potrebbe rappresentare la “scatola nera” della Seconda Repubblica sparì senza lasciare traccia.
A raccontare la presenza di quell’uomo è stato Giuseppe Garofalo, poliziotto in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo, tra i primi ad arrivare sul luogo della strage, il 19 luglio del 1992, testimoniando davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta, che sta celebrando il processo Borsellino quater. “Ricordo di avere notato una persona, in abiti civili, alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell’auto.” ha detto Garofalo. L’ennesimo procedimento penale sull’assassinio del giudice Borsellino è nato dopo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che hanno riscritto la modalità operativa della strage, smentendo definitivamente il racconto del falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo della Guadagna che si era auto accusato dell’eccidio. “Non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell’auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi.” ha spiegato Garofalo, che aveva messo a verbale i suoi ricordi per la prima volta solo nel 2005. “Sul soggetto – ha continuato – posso dire che era vestito in maniera elegante, con la giacca, di cui non ricordo i colori”.
Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Pipitone, Borsellino Quater, poliziotto: “Un agente dei Sercizi cerca la valigetta del giudice”

19 luglio 1992: in primo piano il capitano dei Carabinieri Giovanni Arcangioli.

Sono giunta all’ultima parte di questo articolo: la sottrazione – non si può definire altrimenti – dell’agenda rossa. In breve, subito dopo l’attentato, la presenza delle televisioni sul luogo della strage permette di riprendere il colonnello, allora capitano, dei carabinieri, Giovanni Arcangioli [http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=8522:19-luglio-1992-una-borsa-che-cammina-da-sola&catid=42:documenti, https://www.youtube.com/watch?v=6olJCgwSnW4], allontanarsi, tranquillamente, con la cartella del magistrato dove si trovava l’agenda rossa.
Ora che la cartella sia stata ritrovata, qualche ora più tardi, sul sedile posteriore della vettura – ma senza l’agenda – suscita non pochi interrogativi.
Tanto più che nessuno ne avrebbe, mai, saputo nulla, se le televisioni non ne avessero catturato l’immagine.
Il 18 marzo 2009, sono state depositate le motivazioni della sentenza della VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, che pone, così, una pietra tombale sulle speranze di fare luce su uno degli episodi più inquietanti della Storia della Repubblica.
E, tuttavia, una domanda torna continuamente, martellante, sempre la stessa.
“Perché prendere la cartella con l’agenda, per poi rimetterla al suo posto senza l’agenda?”
Una domanda che non ha ancora ricevuto una risposta plausibile.
Una domanda nata morta.
Destinata a cadere nel vuoto, con buona pace di chi cerca, con tenacia, Verità e Giustizia per il giudice e gli agenti di scorta.
Una domanda che non ha alcun senso porre.
Una domanda che non si potrà mai più fare.
Per Antonio Ingroia in quell’agenda “c’è la chiave della strage di via D’Amelio. È improbabile che sia andata distrutta, più logico pensare che sia in mano a qualcuno che la possa usare come arma di ricatto”.
Secondo Sergio Lari “non è una possibilità fantascientifica che dentro quell’agenda ci fossero degli appunti di Borsellino su un possibile negoziato tra lo Stato e le cosche, perchè si ponesse fine alle stragi”.
Luogo e data reali dell’assassinio di Paolo Borsellino, luogo e data simbolici del passaggio dalla Prima Repubblica [nata formalmente con il referendum costituzionale del 2 giugno 1946 e iniziata con la Costituzione del 1948] alla Seconda Repubblica.
Una molto lunga, molto difficile, molto dolorosa e molto complessa evoluzione della Repubblica, simbolizzata da un duopolio:

1.    Democrazia Cristiana dal 1946 al 1993;
2.    Silvio Berlusconi dal 1994 ai nostri giorni.

Ma perché dire che la Strage di via D’Amelio, commissionata in pieno periodo di Mani Pulite, segna la nascita della Seconda Repubblica?
Perché io sono di quelli che credono che questa Seconda Repubblica è nata dal sangue dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assassinati dalla Mafia a 57 giorni di distanza l’uno dall’altro.
 
Giovanni Falcone e sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo
Al processo Capaci bis per l’uccisione del giudice Giovanni Falcone l’ex-presidente della Prima Sezione Penale della Cassazione, Corrado Carnevale compare come teste davanti alla Corte di Assise di Caltanissetta.
“Non ho mai parlato di Falcone, non avevo motivo per farlo.”
sostiene, nonostante esista l’intercettazione di una conversazione dello stesso Carnevale con l’avvocato Giovanni Aricò dell’8 marzo 1994:
“I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone... perché i morti li rispetto, ... ma certi morti no.”
E non risparmia neppure la moglie di Falcone, Francesca Morvillo:
“… Io sono convinto che la Mafia abbia voluto uccidere anche la moglie di Falcone che stava alla Prima Sezione Penale della Corte d’Appello di Palermo per farle fare i processi che gli interessavano per fregare qualche mafioso.” [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/01/21/falcone-un-cretino.html]

Due delitti, intorno ai quali aleggia un mistero profondo sui veri mandanti, vale a dire coloro che si nascondono dietro i mandanti mafiosi, in parte identificati.
Due capri espiatori, perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno osato istruire il Maxiprocesso, il più spettacolare processo intentato contro la Mafia, iniziato il 10 febbraio1986 e, definitivamente, conclusosi in Corte di Cassazione, il 30 gennaio 1992, con una sentenza che si può riassumere in due numeri: 19 ergastoli, 2665 anni di carcere.
Si deve avere ben presente che, fino ad allora, in Italia, nessun boss mafioso era stato condannato all’ergastolo e tutti erano convinti, dallo stesso Riina, che ne sarebbero usciti ancora una volta, grazie al giudice Corrado Carnevale, “l’ammazzasentenze”, conosciuto per “aggiustare” le condanne di appello, il più sovente per dettagli di procedura.
Falcone aveva scoperto la cosa e aveva, dunque, introdotto una rotazione dei giudici, escludendo, così, dal Maxiprocesso Carnevale, che, in una conversazione con l’avvocato Giovanni Aricò dell’8 marzo 1994, confessa:
“I motivi per cui me ne sono andato non sono quelli di pressione di quel cretino di Falcone... perché i morti li rispetto, ... ma certi morti no.”[http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1995/01/21/falcone-un-cretino.html]
Leale servitore dello Stato, il 21 giugno 2007, veniva reintegrato – grazie a una legge scritta appositamente per lui! – alla Prima Sezione Civile della Cassazione.
Così va l’Italia!

Daniela Zini
Copyright © 13 agosto 2016 ADZ


Lettera di Giovanni Falce a Gheraldina Piazza
La lettera inviata da Giovanni Falcone, l’11 febbraio 1983, alla signora Gheraldina Piazza, nipote del giudice Terranova, in risposta a una lettera inviatagli all’indomani dell’omicidio del prefetto dalla Chiesa.

Palermo, 11 febbraio 1983

Gentilissima signora,
La prego di scusarmi se rispondo con ritardo alla sua graditissima lettera, inviatami all’indomani dell’omicidio del prefetto Dalla Chiesa.
Le sue parole mi hanno realmente commosso e Le sono grato per le espressioni di stima e di considerazione, certamente superiori ai miei meriti.
Adesso, dopo qualche mese dal barbaro eccidio, è forse lecito sperare che qualcosa stia lentamente cambiando e che la società cominci a comprendere l’estrema gravità del fenomeno mafioso e ciò costituisce presupposto indispensabile per sconfiggere la Mafia.
Naturalmente, non ci si deve illudere: la lotta sarà lunga e difficile ed è probabile che sarà versato il sangue di altri servitori dello Stato, colpevoli solo di avere compiuto il proprio dovere in un momento in cui non tutti si comportano allo stesso modo.
In questa difficilissima situazione le espressioni di solidarietà e di adesione che lei ha sentito di rivolgermi, non soltanto costituiscono un conforto ed uno stimolo, ma costituiscono la migliore conferma dell’esigenza di una forte zona della società che respinge con sdegno qualsiasi tipo di convivenza con la Mafia, autentica vergogna nazionale.
Con viva cordialità
Giovanni Falcone

L’ultima lettera di Paolo Borsellino
Questa è l’ultima lettera di Paolo Borsellino, scritta alle 5.00 della mattina del 19 Luglio 1992, dodici ore prima che l’esplosione di un’auto carica di tritolo, alle 17 dello stesso giorno, davanti al n. 19 di Via D’Amelio, facesse a pezzi lui e i ragazzi della sua scorta. Con questa lettera, rivolta alla preside di un liceo di Padova, presso il quale avrebbe dovuto recarsi, nel mese di gennaio, per un incontro, Borsellino, che, ormai, sapeva bene che il tritolo era arrivato anche per lui, a Palermo, spiegava le ragioni per cui aveva dovuto rinunciare a incontrarli e raccontare, in poche parole, la sua crescita, le sue scelte e le sue speranze.

“Gentilissima” professoressa,
uso le virgolette perché le ha usate Lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa, e “pentito” mi dichiaro e dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del Suo Liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarle che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico [suppongo quello della Procura di Marsala] non foss’altro perché a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le Sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero telefonico presso la Procura di Palermo è [...], utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dott. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della Vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 Gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stata “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda, non ebbi proprio il tempo di dolermene perché i miei impegni di lavoro sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi a intermediari di sorta o telefoni sbagliati.
Oggi non è per certo il giorno più adatto per risponderLe perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho più tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente poiché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle sue domande.
 1] Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalla necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dare sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea [1964] e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975, per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle [...] legali, delle divisioni ereditarie ecc.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Cons. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal Civile, il mio amico d’infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro. Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso.
I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma, se amavo questa terra, di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista poiché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.


Lettera di Agnese Borsellino a suo marito Paolo

Caro Paolo,
da venti lunghi anni hai lasciato questa terra per raggiungere il Regno dei cieli, un periodo in cui ho versato lacrime amare; mentre la bocca sorrideva, il cuore piangeva, senza capire, stupita, smarrita, cercando di sapere. Mi conforta oggi possedere tre preziosi gioielli: Lucia, Manfredi, Fiammetta; simboli di saggezza, purezza, amore, posseggono quell’amore che tu hai saputo spargere attorno a te, caro Paolo, diventando immortale. Hai lasciato una bella eredità, oggi raccolta dai ragazzi di tutta Italia; ho idealmente adottato tanti altri figli, uniti nel tuo ricordo dal nord al sud - non siamo soli. Desidero ricordare: sei stato un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, resti per noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, “la vita”, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze. Quanta gente hai convertito!!! Non dimentico: hai chiesto la comunione presso il palazzo di giustizia la vigilia del viaggio verso l’eternità, viaggio intrapreso con celestiale serenità, portando con te gli occhi intrisi di limpidezza, uno sguardo col sorriso da fanciullo che noi non dimenticheremo mai. In questo ventesimo anniversario ti prego di proteggere ed aiutare tutti i giovani sui quali hai sempre riversato tutte le tue speranze e meritevoli di trovare una degna collocazione nel mondo del lavoro. Dicevi: ‘Siete il nostro futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle difficoltà’. Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre il meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo “grazie Paolo”.
  

Intervento di Paolo Borsellino
Biblioteca Comunale di Palermo, 25 giugno 1992
[http://www.19luglio1992.com/index.php?option=com_content&view=article&id=194:ultimo-intervento-di-paolo-borsellino&catid=18:i-video&Itemid=18]

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
 Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La Mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri [perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la Mafia non esiste] continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma [in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo], una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
 Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di Mafia e soltanto di Mafia, ma di Mafia si è trattato comunque - e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

 
La testimonianza del figlio del giudice chiude il libro Era d’estate, curato dai giornalisti Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi [http://www.restoalsud.it/2013/07/la-lettera-del-figlio-di-borsellino/].

Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima.
Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo [e giustificavo] al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni.
Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno [compresa la domenica] alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo.
In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo [cosa che fece!] a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.
Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava.
Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti.
Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno [restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio] e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa.
Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.
Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della Mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra.
E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. […]
Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.

Lettera di Salvatore Borsellino
19 Luglio 1992: Una strage di stato
[https://rivistapaginazero.wordpress.com/2007/07/20/lettera-di-salvatore-borsellino-una-strage-di-stato/]

Milano, 15 Luglio 2007

Per anni, dopo l’estate del 1992 sono stato in tante scuole d’Italia a parlare del sogno di Paolo e Giovanni, a parlare di speranza, di volontà di lottare, di quell’alba che vedevo vicina grazie alla rinascita della coscienza civile dopo il loro sacrificio, dopo la lunga notte di stragi senza colpevoli e della interminabile serie di assassini di magistrati, poliziotti e giornalisti indegna di un paese cosiddetto civile.
Poi quell’alba si è rivelata solo un miraggio, la coscienza civile che purtroppo in Italia deve sempre essere svegliata da tragedie come quella di Capaci o di Via D’Amelio, si è di nuovo assopita sotto il peso dell’indifferenza e quella che sembrava essere la volontà di riscatto dello Stato nella lotta alla Mafia si è di nuovo spenta, sepolta dalla volontà di normalizzazione e compromesso e contro i giudici, almeno contro quelli onesti e ancora vivi, è iniziata un altro tipo di lotta, non più con il tritolo ma con armi più subdole, come la delegittimazione della stessa funzione del magistrato, e di quelli morti si è cercato da ogni parte di appropriarsene mistificandone il messaggio.
Per anni allora ho sentito crescere in me, giorno per giorno, sentimenti di disillusione, di rabbia e a poco a poco la speranza veniva sostituita dalla sfiducia nello Stato, nelle Istituzioni che non avevano saputo raccogliere il frutto del sacrificio di quegli uomini, e allora ho smesso di parlare ai giovani convinto che non era mio diritto comunicare loro questi sentimenti, soprattutto che non era mio diritto di farlo come fratello di Paolo che, sino all’ultimo momento della sua vita, aveva sempre tenuto accesa dentro di sé, e in quelli che gli stavano vicino, la speranza, anzi la certezza, di un domani diverso per la sua Sicilia e per il suo Paese.
Per anni allora non sono neanche più tornato in Sicilia, rifiutandomi di vedere, almeno con gli occhi, l’abisso in cui questa terra era ancora sprofondata, di vedere, almeno con gli occhi, come tutto quello contro cui Paolo aveva lottato, la corruzione, il clientelismo, la contiguità fossero di nuovo imperanti, come nella politica, nel governo della cosa pubblica, fossero riemersi tutti i vecchi personaggi più ambigui, spesso dallo stesso Paolo inquisiti quando ancora in vita, e nuovi personaggi ancora peggiori dato che ormai oggi essere inquisiti sembra conferire un’aureola di persecuzione e quasi costituire un titolo di merito.
Da questa mia apatia, da questo rinchiudermi in una torre d’avorio limitandomi a giudicare ma senza più volere agire, sono stato di recente scosso da un incontro illuminante con Gioacchino Basile, un uomo che ha pagato sempre di persona le sue scelte, che, all’interno dei Cantieri Navali di Palermo e della Fincantrieri, ha sempre condotto, praticamente da solo e avendo contro lo stesso sindacato, quella lotta contro la Mafia che sarebbe stata compito degli organismi dello Stato, Stato che invece, secondo le sue circostanziate denunce, intesseva accordi con la Mafia trasformando le Partecipazioni Statali in un organismo di partecipazione al finanziamento e al potere della Mafia in Sicilia.
I fatti riferiti in queste denunce, di cui Paolo Borsellino si era occupato nei giorni immediatamente precedenti il suo assassinio, sono state oggetto di una “Relazione sull’infiltrazione mafiosa nei Cantieri Navali di Palermo” da parte della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della Mafia [relatore on. Mantovano] ma come purtroppo troppo spesso succede in Italia con gli atti delle commissioni parlamentari, non hanno poi avuto sviluppi sul piano parlamentare mentre su quello giudiziario, come sempre succede quando si passa dalle indagini sulla Mafia a quello sui livelli “superiori”, hanno subito la consueta sorte dell’archiviazione.
Gioacchino Basile è convinto che l’interesse personale che Paolo gli aveva assicurato nell’approfondimento di questo filone di indagine e l’averne riferito in uno dei suoi incontri a Roma nei giorni immediatamente precedenti la sua morte, sia il motivo principale della “necessità” di eliminarlo con una rapidità definita “anomala” dalla stessa Procura di Caltanissetta e che la sparizione di questo dossier dalla borsa di Paolo sia stata contestuale alla sottrazione dell’agenda rossa.
Per parte mia io credo che questo possa essere stato soltanto uno dei motivi, all’interno del più ampio filone “Mafia-appalti” che lo stesso Paolo aveva fatto intuire fosse il motivo principale dell’eliminazione di Giovanni Falcone insieme alla sua ormai certa nomina a Procuratore Nazionale Antimafia.
Il motivo principale credo invece sia stato quell’accordo di non belligeranza tra lo Stato e il potere mafioso che deve essergli stato prospettato nello studio di un ministro negli incontri di Paolo a Roma nei giorni immediatamente precedenti la strage, accordo al quale Paolo deve di sicuro essersi sdegnosamente opposto.
Su questi incontri, che Paolo deve sicuramente aver annotato nella sua agenda scomparsa, pesa un silenzio inquietante e l’epidemia di amnesie che ha colpito dopo la morte di Paolo tutti i presunti partecipanti lo ha fatto diventare l’ultimo, inquietante, segreto di Stato, come inquietanti sono i segreti di Stato e gli “omissis” che riempiono le inchieste su tutte le altre stragi di Stato in Italia.
Ma il vero segreto di Stato, anche se segreto credo non sia più per nessuno, è lo scellerato accordo di mutuo soccorso stabilito negli anni tra lo Stato e la Mafia.
A partire da quando i voti assicurati dalla Mafia in Sicilia consentivano alla Democrazia Cristiana di governare nel resto dell’Italia anche se questo aveva come conseguenza l’abbandono della Sicilia, così come di tutto il Sud al potere mafioso, la rinuncia al controllo del territorio, l’accettazione della coesistenza, insieme alle tasse dello Stato, delle tasse imposte dalla Mafia, il pizzo e il taglieggiamento.
E, conseguenza ancora più grave, la rinunzia, da parte dei giovani del Sud, alla speranza di un lavoro se non ottenuto, da pochi, a prezzo di favori e clientelismo e negato, a molti, per il mancato sviluppo dell’industrializzazione rispetto al resto del Paese.
A seguire con il “papello” contrattato da Riina con lo Stato con la minaccia di portare la guerra anche nel resto del Paese [vedi via dei Georgofili e via Palestro], contrattazione che è stata a mio avviso la causa principale della necessità di eliminare Paolo Borsellino, e di eliminarlo in fretta.
A seguire, infine, con l’individuazione di nuovi referenti politici dopo che le vicende di Tangentopoli aveva fatto piazza pulita di buona parte della precedente classe politica e dei referenti “storici”.
Accordi questi che costituiscono la causa del degrado civile di oggi dove si consente che indagati per associazione mafiosa governino la Sicilia e dove, a livello nazionale, cresce, almeno nei sondaggi, il consenso popolare verso chi ha probabilmente adoperato capitali di provenienza mafiosa per creare il proprio impero industriale con annesso partito politico.
Come possono allora chiamarsi “deviati” e non consoni all’essenza stesso di questo Stato quei “Servizi” che, per “silenzio-assenso” del capo del Governo o su sua esplicita richiesta, hanno spiato magistrati ritenuti e definiti “nemici” nei relativi dossier e addirittura convinto altri magistati a spiare quei loro colleghi che, sempre negli stessi dossier, venivano definiti come “nemici”, “comunisti” e “braccio armato” della magistratura, con un linguaggio che non è difficile ritrovare negli articoli di certi giornali e nelle dichiarazioni di certi poltici.
Giaocchino Basile mi dice che sarebbe mio diritto “pretendere” dallo Stato di conoscere la verità sull’assassinio di Paolo, ma da “questo” Stato, dal quale ho respinto “l’indennizzo” che pretendeva di offrirmi quale fratello di Paolo, indennizzo che andrebbe semmai offerto a tutti i giovani siciliani e italiani per quello che gli è stato tolto, sono sicuro che non otterrò altro che silenzi.
Gli stessi silenzi, lo stesso “muro di gomma”, che hanno dovuto subire i figli del Generale Dalla Chiesa, i parenti dei morti in quella interminabile serie di stragi, la Strage di Portella della Ginestra, la Strage di Piazza Fontana, la Strage di Piazza della Loggia, la Strage del Treno Italicus, la Strage di Ustica, la Strage di Natale del rapido 904, la Strage di Pizzolungo, le Stragi di Via dei Georgofili e di Via Palestro, delle quali oggi si conoscono raramente gli esecutori, mai i mandanti e spesso neanche il movente, susseguitesi mentre nel nostro Sud, grazie alla latitanza delle altre istituzioni dello Stato, uno dopo l’altro venivano uccisi tutti i magistrati e i rappresentanti delle forze dell’ordine che della lotta alla Mafia avevano fatto la propria ragione di vita, in una tragica sequenza che non ha eguali in nessuno degli altri paesi del mondo cosiddetto civile.
Io mi chiedo invece, con amarezza, di quante altre stragi, di quanti altri morti avremo ancora bisogno perché da parte dello Stato ci sia finalmente quella reazione decisa e soprattutto duratura, come finora non è mai stata, che porti alla sconfitta delle criminalità mafiosa e soprattutto dei poteri, sempre meno occulti, ad essa legati, perché venga finalmente rotto quel patto scellerato di non belligeranza che, come disse il giudice Di Lello il 20 Luglio del 1992, pezzi dello Stato hanno da decenni stretto con la Mafia e che ha permesso e continua a permettere non solo la passata decennale latitanza di boss famosi come Riina e Provenzano ma la latitanza e l’impunità di decine di “capi mandamento” che sono i veri padroni sia di Palermo che delle altre città della Sicilia.
Da parte mia sono certo che non riuscirò a conoscere la verità in quel poco che mi resta da vivere dato che, a 65 anni, sono solo un sopravvissuto in una famiglia in cui mio padre, il fratello di mio padre, mio fratello, sono tutti morti a 52 anni, i primi per cause naturali, l’ultimo perché era diventato un corpo estraneo allo Stato le cui Istituzioni egli invece profondamente rispettava [sempre le Istituzioni, non sempre invece quelli che le rappresentavano].
Spero soltanto che, in questo anniversario, mi siano risparmiate la vista e le parole dei tanti ipocriti che oggi piangono su Paolo e Giovanni quando, se fossero ancora in vita, li osteggerebbero accusandoli, nella migiore della ipotesi, di essere dei “professionisti dell’antimafia” o li farebbero addirittura spiare da squallidi personaggi come Pio Pompa come “nemici” o come “braccio armato della magistratura” .
Chiedo solo, in questa occasione, di avere delle risposte ad almeno alcune delle tante domande, dei tanti dubbi che non mi lasciano pace.
Chiedo al Proc. Pietro Giammanco, allontanato da Palermo dopo l’assassinio di Paolo, ma promosso ad un incarico più alto piuttosto che rimosso come avrebbe meritato, perché non abbia disposto la bonifica e la zona di rimozione per via D’Amelio.
Eppure nella stessa via, al n. 68 era stato da poco scoperto un covo dei Madonia e, a parte il pericolo oggettivo per l’incolumità di Paolo Borsellino, le segnalazioni di pericolo reale che pervenivano i quei giorni erano tali da da far confidare da Paolo a Pippo Tricoli lo stesso 19 Luglio: “è arrivato in città il carico di tritolo per me”.
A meno che, come affermato dal Sen. Mancino in un suo intervento del 20 Luglio alla Camera, anche lui credesse che “Borsellino non era un frequentatore abituale della casa della madre”: infatti vi si recava appena almeno tre volte alla settimana!
La stessa domanda inoltro all’allora prefetto di Palermo Mario Jovine anche se la risposta ritiene di averla già data con l’affermazione fatta in quei giorni: “Nessuno segnalò la pericolosità di Via D’Amelio.”
Affermazione palesemente risibile: in quei giorni si erano susseguite le segnalazioni di possibili attentati a Paolo Borsellino e bastava interrogare gli stessi agenti della scorta, cinque dei quali morti insieme a lui, per sapere quali erano i punti più a rischio.
Chiedo alla Procura di Caltanissetta, e in particolare al gip Giovanbattista Tona, il motivo dell’archiviazione delle indagini relative alla pista del Castello Utveggio: eppure proprio da questo luogo partirono, subito dopo l’attentato, delle telefonate dal cellulare clonato di Borsellino a quello del dott. Contrada, oggi finalmente condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione per collusione e favoreggiamento.
Chiedo alla stessa Procura di Caltanissetta, e sempre allo stesso gip Giovanbattista Tona, i motivi dell’archiviazione dell’inchiesta relativa ai mandanti occulti delle stragi.
Per un’altra archivazione, quella relativa alle vicissitudini del fascicolo Fincantieri ho già inoltrato richiesta di chiarimenti in via ufficiale.
Chiedo alla Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte.
Chiedo soprattutto al sen. Nicola Mancino, del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni immediatamente precedenti alla sua morte.
O spiegarci perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Poliza dott. Parisi e il dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente.
Altrimenti, grazie alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo.
E in quel colloquio si trova sicuramente la chiave dalla sua morte e della Strage di Via D’Amelio. 


Lettera di Roberto Scarpinato a Paolo Borsellino
L’intervento del pg della Corte di Appello di Caltanissetta per i 20 anni dell’attentato a Paolo Borsellino [https://www.youtube.com/watch?v=5btnBb51gS4].

Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la Mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla Mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla Mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della Mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.
Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla Mafia da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la Mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la Mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la Mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la Mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.


Paolo Borsellino, lettera di un maestro
di Alex Corlazzoli
[http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/19/lettera-di-maestro-a-paolo-borsellino/660441]

19 luglio 2013

Caro Paolo,
quando sono arrivato la prima volta in via D’Amelio ero un ragazzo che aveva da poco compiuto i 18 anni. Nella mia città, nella mia scuola, in casa mia, nessuno mi aveva parlato di Mafia. Non mi avevano mai raccontato di Placido Rizzotto, di Peppino Impastato, di Portella della Ginestra.
La Mafia e la lotta alla Mafia non facevano parte del dizionario con il quale ero cresciuto in un piccolo paese della Lombardia. Mentre nella tua Palermo la gente veniva uccisa per strada, qualcuno al Nord diceva “si ammazzano tra loro. Non ci riguarda”, come se fossimo due Paesi diversi.
In via D’Amelio mi ritrovai a suonare a quel citofono al civico 19, a fare quello che probabilmente fu il tuo ultimo gesto. Tua sorella Rita, che si era spesa instancabilmente per tutt’Italia, per portare il tuo nome in ogni scuola, parrocchia, associazione o comune, mi accolse nella tua città, mi prese per mano accompagnandomi da giovane giornalista a conoscere la tua storia, raccontandomi del “suo” Paolo.
Sono tornato tante volte in via D’Amelio, accompagnando scolaresche e amici arrivati dal Nord. Sono tornato ogni 19 luglio. Ho visto troppe corone d’alloro, troppi minuti di silenzio.
In quella strada, dove tu sei passato per l’ultima volta, ho visto Salvatore Cuffaro renderti omaggio. A quel citofono nel 1994 Sivio Berlusconi, chiese a tua sorella che aveva con coraggio scelto di non farlo salire in casa: “Cosa possiamo fare per sconfiggere la Mafia?”
Ventuno anni dopo, caro Paolo, in questo Paese che tu hai servito senza essere un eroe ma svolgendo il tuo mestiere con dedizione e passione, il tuo nome rischia di essere impresso solo nei libri di storia o sulle lapidi di qualche strada o piazza.
Quando chiedo ai miei ragazzi nelle classi quinte delle scuole primarie del Nord: “Chi sono Paolo Borsellino e Giovanni Falcone?”, spesso non sanno rispondermi. Magari hanno scuole intitolate a te e al tuo fraterno amico, ma nessun insegnante si è fermato con questi ragazzi a parlare di te, a leggere con loro le parole che ci hai lasciato. Ecco perché nelle mie classi, il primo giorno di scuola, appendo accanto alle cartine e al crocifisso la tua fotografia con Giovanni.
Tua sorella Rita, 18 anni fa mi passò il testimone e ora da maestro ho il dovere di passarlo ai miei bambini. E’ il compito di ogni insegnante perché il 19 luglio, il 23 maggio non restino delle date che consentano ai politici di centrodestra e di centrosinistra, di fare passerella.
Stamattina li rivedremo: per un giorno la lotta alla Mafia sarà lo slogan di turno. Mi tornano alla mente le parole che il magistrato Franca Imbergsmo mi ha insegnato:
“A volte l’Antimafia non fa meno schifo della Mafia.”
Oggi caro Paolo, in questa Italia non ci serve a nulla avere politici che si fregiano di essere onesti, di portare sulle spalle le vostre idee. Li abbiamo già visti. Abbiamo bisogno di bambini che un giorno, molto presto, potranno essere magistrati, sindaci, parlamentari, ingegneri, operai che conosceranno la storia di questo paese, vivendo ogni giorno la vostra battaglia e non solo il 19 luglio.


Lettera aperta a Salvatore Borsellino
di Associazione Rai Bene Comune – Indignerai
[http://www.antimafiaduemila.com/home/opinioni/235-politica/59764-lettera-aperta-a-salvatore-borsellino-e-alle-vittime-di-mafia.html]

8 aprile 2016

Gentilissimo dott. Salvatore Borsellino,
ci presentiamo: siamo un numeroso gruppo di dipendenti RAI che circa cinque anni fa, di fronte al progressivo abbandono e smantellamento della nostra azienda RAI, hanno deciso di associarsi nel gruppo Rai Bene Comune - Indignerai.
Nella nostra comunità trovano casa anime politicamente e sindacalmente tra le più diverse. Il nostro obiettivo quotidiano è denunciare tutti i giochi potere, interessi e ingiustizie che gravitano intorno alla nostra azienda con lo scopo di valorizzare il naturale ruolo di servizio pubblico per tutti i cittadini e gli utenti che pagano il canone.
Nello specifico ci riferiamo a concetti come qualità, intrattenimento non becero e servo dello share, divulgazione scientifica e soprattutto, dott. Borsellino, libera informazione.
A tal proposito dott. Salvatore Borsellino, ci permettiamo di scriverLe soltanto per chiederle umilmente SCUSA.
Come dipendenti, come cittadini, come contribuenti, come strenui difensori della lotta alla Mafia siamo indignati per l’intervista che ieri il giornalista RAI Bruno Vespa, nell’ambito della sua nota trasmissione “Porta a Porta”, ha concesso al figlio del boss Totò Riina.
Chiediamo scusa a lei e a tutti coloro i quali sono stati colpiti dalla crudeltà dell’infame fenomeno mafioso, chiediamo scusa al pubblico italiano, chiediamo scusa a chi ogni giorno si impegna nelle istituzioni e nella società civile per contrastare persone come Totò Riina e ciò che rappresentano.
Ci creda dott. Borsellino, se avessimo potuto avremmo fatto molto di più per far sentire la nostra voce contro l’ennesimo scempio televisivo ma chi le scrive sono solo dei semplici dipendenti che ancora credono in una RAI Bene Pubblico al servizio della parte migliore di questo schizofrenico paese.
Noi vorremmo essere al servizio soprattutto di persone come Lei, Pino Maniaci, Maria Falcone o Tina Montinari.
Al servizio della memoria di tutti quanti sono caduti per mano delle mafie siciliane, calabresi, campane o di qualsiasi altra natura o radicalizzazione geografica.
Quanto andato in onda ieri non ha aggiunto niente alla cronaca, non ha alcuna rilevanza giornalistica se non l’unico obiettivo di trarre profitto dal caos mediatico che si è venuto a creare.
Nella logica dell’audience, ogni mezzo è buono pur di aggiuntare un punto in più di maledetto e venefico SHARE.
In questi anni abbiamo visto dietro le nostre telecamere, regie e apparecchiature i più svariati inchini e riverenze al potente di turno: destra o sinistra poco conta, purché sia potente.
Ma questo, ci creda, è il più riprovevole degli ossequi.
Non potevamo stare zitti stavolta, non potevamo non fare sentire il nostro disprezzo, non potevamo far passare il messaggio che la RAI e i suoi dipendenti possano accettare passivamente tutto questo.
La Rai che noi abbiamo a cuore è quella che produce il meraviglioso film di PIF “La Mafia uccide solo d’estate”,  la Rai che realizza fiction come “Il sindaco pescatore”, la Rai che trasmette e informa il pubblico con lunghi speciali sul maxi processo dall’ aula bunker dell’ Ucciardone a Palermo, la Rai che in prima serata permette a Roberto Saviano di parlare di Camorra, la Rai dei mai dimenticati Ilaria Alpi, Miran Hrovatin.
Dott. Borsellino, ci scusi ancora se crede e se può.
Se possibile, speriamo che questa lettera possa in parte lenire un rinnovato dolore che lei e tutte le persone coinvolte nei fatti tragici di Mafia hanno ingiustamente rivissuto in queste patetiche ore.
Speriamo passi chiaro il messaggio che quella lì non è la RAI.
La Rai NON è [e mai lo sarà] Cosa Loro.
Con rinnovata stima
Associazione Rai Bene Comune - Indignerai




[1] L’era di Nikolaj Ezov [1895-1940], capo del Narodnyj Komissariat Vnutrennich Del [NKVD], dal 1936 al 1938, è stato il periodo più sanguinoso del Terrore staliniano. Nessuno, tranne Stalin, era al di sopra dei sospetti dei funzionari del NKVD. Alla fine del 1938, Stalin proclamò la fine delle “purghe” ed Ezov scomparve misteriosamente.

[2] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
[http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik]

[3] Il 26 luglio 2012, il Consiglio Superiore della Magistratura dà il via libera al collocamento fuori ruolo del procuratore aggiunto di Palermo antonio Ingroia, che smetterà le vesti di pm per un anno per andare a dirigere in Guatemala una unità di investigazione per la lotta al narcotraffico, su incarico dell’ONU.

[4] Nell’indagine sono finiti anche l’ex-ministro della Giustizia Giovanni Conso, l’ex-capo del DAP Adalberto Capriotti e l’europarlamentare dell’UDC Giuseppe Gargani, per i quali l’accusa è di false informazioni al pubblico ministero. Ma la legge prevede che l’inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino alla definizione in primo grado del processo principale, quello, appunto, sulla trattativa; l’avviso di chiusura indagine, dunque, ai tre indagati non è stato notificato.

[6] Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica, in un film documentario, Uomini soli [https://www.youtube.com/watch?v=LqrJXUn_GgE],  racconta gli anni delle stragi trent’anni dopo. Torna a Palermo e ripercorre le strade dove furono uccisi Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricostruendo attraverso i propri ricordi personali e le testimonianze di poliziotti, magistrati, giornalisti e familiari delle vittime le storie di quattro uomini che hanno combattuto la Mafia. Tutti uccisi.
Troppo soli per avere un altro destino!

[7] La strage di Capaci, festeggiata dai mafiosi nel Carcere dell’Ucciardone, provocò una reazione di sdegno nell’opinione pubblica. Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l’attentato di Capaci fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti. La strage, infatti, avvenne nei giorni in cui il Parlamento era riunito in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e Andreotti era considerato uno dei candidati più accreditati per la carica, ma l’attentato orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro, che venne eletto il 25 maggio, ovvero due giorni dopo la Strage di Capaci.
Nel 2013, la Procura di Caltanissetta ha archiviato, definitivamente, l’inchiesta sui “mandanti occulti”:
“Da questa indagine non emerge la partecipazione alla strage di Capaci di soggetti esterni a Cosa nostra. La mafia non prende ordini e dall’inchiesta non vengono fuori mandanti esterni. Possono esserci soggetti che hanno stretto alleanze con Cosa nostra ed alcune presenze inquietanti sono emersenell’inchiesta sull’eccidio di Via D’Amelio: ma in questa indagine non posso parlare di mandanti esterni.” [Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, in un’intervista al Giornale di Sicilia, aprile 2013]

[10] 2 mesi prima dell’attentato, il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell’XI scrutinio delle elezioni del presidente della Repubblica, Gianfranco Fini [MSI] aveva dato indicazione ai suoi parlamentari di votare per Paolo Borsellino, che ottenne in quello scrutinio 47 preferenze, al sedicesimo scrutinio fu eletto Oscar Luigi Scalfaro.

[11] Il primo giugno 1991, Cossiga nomina Giulio Andreotti senatore a vita.

[14] Nel 2002, durante una audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, il procuratore Pier Luigi Vigna dichiarò che le sue indagini avevano accertato che il fallito attentato all’Olimpico poteva collocarsi, temporalmente, durante la giornata del 31 ottobre 1993, mentre allo Stadio si giocava la partita di calcio Lazio-Udinese. Tuttavia, nel 2008, Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la Giustizia e fornì una nuova ricostruzione sui tempi e l’esecuzione del fallito attentato: in particolare, Spatuzza dichiarò che, nell’ottobre del 1993, incontrò Giuseppe Graviano in un bar di via Veneto, a Roma, per ricevere direttive sull’attentato all’Olimpico e questi gli confidò anche che stavano ottenendo tutto quello che volevano grazie ai contatti con Marcello Dell’Utri e, tramite lui, con Silvio Berlusconi. Secondo Spatuzza, lui e Salvatore Benigno rubarono alcune targhe da apporre sull’autobomba per evitarne l’identificazione e sempre loro si appostarono su una collinetta che sovrastava lo Stadio per premere il telecomando che avrebbe provocato l’esplosione al termine dell’incontro di calcio, ma il congegno non funzionò e, quindi, l’attentato venne sospeso.
Nel 2011, nelle motivazioni della sentenza che condannava il boss Francesco Tagliavia per le stragi del 1993, in seguito alle accuse di Spatuzza, si leggeva:
“Dagli esposti rilievi discende un secondo profilo di divergenza attinente alla presumibile data in cui il fallito attentato si sarebbe verificato, collocata nella motivazione della sentenza del ‘98 [senza ricevere smentite in appello] tra il 4 e il 9 gennaio ‘94, [...] in coincidenza con la partita di calcio Roma-Genoa [...]. Ma tale data, tenendo conto del furto delle targhe che vennero apposte sulla Lancia Thema rivelato da Spatuzza [...], è da rettificare in quella del 23 gennaio ‘94, quando si svolse l’altra partita di campionato tra le squadre della Roma e dell’Udinese.”

[15] Carlo Azeglio Ciampi giura davanti al Presidente della Repubblica, il 29 aprile 1993.

[16] Berlusconi e la mafia. Paolo Borsellino, la sua ultima intervista censurata dalle tv [integrale] [https://www.youtube.com/watch?v=NDyfC3Z_d5A].

[17] Il 1° luglio 2014, con il deposito delle motivazioni della sentenza n. 28225, pronunciata dalla Sezione I della Corte di Cassazione, si è chiuso, dopo 17 anni, il processo penale a carico dell’ex-senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva alla pena di sette anni di reclusione per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa.

[18] “Spiega Fede a Ferri: “C’è stato un momento in cui c’era timore e loro avevano messo Mangano attraverso Marcello.” spiega Fede al suo interlocutore. Che ribatte: “Però era tutto Dell’Utri che faceva girare”. “Sì, sì era tutto Dell’Utri, era Dell’Utri che investiva.” risponde Fede. Poi il giornalista si pone una domanda retorica con risposta annessa: “Chi può parlare? Solo Dell’Utri. E devo dire che in questo Mangano è stato un eroe: è morto per non parlare.” Aggiunge Fede: “Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l’unico che sa. Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell’Utri?” Quindi il giornalista fornisce al suo personal trainer la sua estrema sintesi di quarant’anni di potere economico e politico: “La vera storia della vicenda Berlusconi? Mafia, Mafia, Mafia, soldi, Mafia.”
Giuseppe Pipitone, Fede: “La storia di Berlusconi? Mafia, Mafia, Mafia. Sosteneva famiglia Mangano”, Il Fatto quotidiano, 22 luglio 2014
[http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/22/fede-la-storia-di-berlusconi-mafia-mafia-mafia-sosteneva-famiglia-mangano/1068423/]

[19] Nicola Mancino è stato vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui un buon numero di decisioni concernenti i giudici più “molesti”, Clementina Forleo [http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/politica/caso-forleo1/forleo-trasferita/forleo-trasferita.html], Luigi De Magistris  [http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/politica/elezioni-2009/mancino-su-candidature/mancino-su-candidature.html, http://www.imolaoggi.it/2014/09/26/de-magistris-condannato-non-mi-dimetto-e-accusa-mancino-stato-corrotto/], i procuratori di Salerno, etc. suscitano, giustamente, una marea di critiche.

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