D
Se un
fiore è la Primavera, un Amico è la fine della separazione.
Questo reportage sulla mafia, risultato di
circa 5 mesi di intensa ricerca, non esisterebbe senza l’incontro con Lazzaro
DIA, cui desidero esprimere tutta la mia riconoscenza.
In
verità, Lazzaro DIA non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi
servisse per convincermi a portare a termine la stesura del reportage.
L’Italia
è uno strano Paese.
È un
Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È un
Paese in crisi.
È il
riflesso e, perfino, il quadrante di tutto un mondo in crisi.
I suoi
peccati smisuratamente grandi quanto le sue virtù, sono i peccati dell’Idealismo
e della Democrazia; ma sono anche i peccati di un sistema
economico-politico-tecnologico che investe responsabilità extra-umane,
astratte, mondiali, senza via di uscita, apparentemente.
La
prima chiarezza, che viene da questo studio, è che la corruzione ha, sempre,
avuto un posto a sé tra legge formale, legge morale e opinione pubblica
corrente. La legge formale ha potuto, sovente, mandarla sul banco degli
accusati; quella morale ne ha fatto, molto sovente, oggetto dei suoi strali e
delle sue invettive; ma, sempre, per la opinione pubblica corrente, la
corruzione non è, mai, stata un vero reato, un vero peccato, non ha, mai, avuto
l’impatto duro del furto, non è mai stata un tabù – come le trasgressioni
sessuali – è, sempre, stata qualcosa di congenito, di naturale.
I padri
fondatori della potenza inglese, Francis Bacon, Padre della Scienza, Samuel
Pepys, organizzatore della marina militare e Warren Hasting, creatore dell’India
inglese, incassavano, tranquillamente, tangenti e, nell’intimo, non se ne
vergognavano affatto; lo annotavano sui loro diari. Seconda osservazione di chi
sta allo specchio e, per una volta, si guarda come è, in quanto uomo
immutabile: la corruzione non è, di per sé, quella decadenza delle buone
società, di cui parlano i padri pellegrini e altri moralisti o puritani.
La
corruzione è come un propellente: manda giù i deboli, gli stupidi; ma può,
anche, accompagnarsi a grandi disegni, a grandi avventure di gruppo o di
Nazione.
Intendiamoci
bene: non sto facendo una apologia della corruzione!
Chi non
ha letto in tutta la letteratura romana imperiale la nostalgia, il rimpianto
per la buona severa Repubblica dai costumi spartani, dal profondo senso dello
Stato?
Eppure
basta grattare un po’ nella Storia morale del ceto dirigente repubblicano per
scoprire non solo casi incredibili di corruzione, ma la naturalezza, direi il
diritto alla corruzione diffusissimo nell’aristocrazia senatoriale.
Vi sono
molti tipi di corruzione. La corruzione come arte di governo, a esempio.
Praticata, sempre, dai dittatori o dai governi autoritari. Nel Drittes Reich, in cui un suddito poteva
venire fucilato alla minima violazione della disciplina militare o burocratica,
il maresciallo Hermann Wilhelm Göring aveva accumulato
una ricchezza enorme, facendo man bassa dei quadri e delle opere d’arte
razziati nei Paesi occupati. Erano, rapidamente, arricchiti Joseph
Paul Goebbels, Walter Richard Rudolf Heß, Joachim von Ribbentrop
e Heinrich Luitpold Himmler, ma il severissimo Führer
chiudeva un occhio: rubassero pure, ma gli restassero sottomessi e fedeli.
La
corruzione che si autodistrugge, autolesionista. A esempio, la corruzione
mafiosa che tende a uccidere la gallina dalle uova d’oro, a strangolare
industrie e negozi e ridurre regioni, quali la Sicilia e la Calabria a deserti
industriali. Una corruzione che si traduce, sempre, in vita grama, di chi la
pratica, densa di paura. Gente che deve vivere nascosta, in un continuo
conflitto con gli amici e i nemici.
Vi è la
corruzione a pioggia, la redistribuzione del reddito che partiti, enti
pubblici, ministeri, aziende di Stato compiono per tenere buoni i clienti.
Vi è la
corruzione partitica, in cui neppure i protagonisti riescono più a distinguere
la corruzione per il partito o per la corrente da quella per se stessi.
Il
potere economico è così forte, così ricco che non sente bisogno alcuno di
donazioni da parte dei sudditi: è lui a corrompere i sudditi che possono
servirgli, lui a seppellire la critica giornalistica, l’informazione pericolosa
sotto una pioggia di regali. Case di moda, agenzie di pubblicità, aziende,
banche, assicurazioni praticano la corruzione diffusa, coprendola con nomi
professionali, quali pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, marketing, interventi promozionali.
Nella
nostra cultura – la cultura occidentale, quella che, ancora, domina la cultura
mondiale – la differenza tra tangente e dono si è sviluppata, soprattutto,
riflettendo, dal punto di vista teologico-letterario, sulla Redenzione!
A
volte, l’uomo onesto, il non corrotto viene colto dal dubbio che la sua
moralità sia una invenzione, una copertura di altro e meno nobile sentimento:
la voglia di stare fuori dal gioco defatigante della corruzione, di non avere a
che fare con ricattatori e venditori di fumo.
A
volte, l’uomo onesto, che non ha, mai, toccato danaro sporco, si interroga su
tutte le corruzioni intellettuali, culturali, cortigiane che ha praticato,
monetizzabili nel futuro prossimo e si ricorda delle parole evangeliche:
“Chi di
voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
Questo reportage è un invito alla riflessione
per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri imbiancati che sulla corruzione
hanno la ricetta pronta. È difficile che la Democrazia possa sopravvivere in
una società organizzata sul principio della terapia anziché su quello del
giudizio, sull’errore anziché sul misfatto. Se gli uomini sono liberi ed
eguali, allora, debbono essere giudicati anziché ospitalizzati.
Essendo
un concetto legale, sono le leggi a determinare ciò che è corruzione, in una
particolare società. La definizione legale non si dimostra, tuttavia, di alcuna
utilità che non sia superficiale.
La
legge è l’editto promulgato da un principe, lo statuto scritto sui libri o è,
invece, ciò che viene realmente fatto rispettare?
Se ci
si attiene alla norma proclamata, si rischia di scegliere un criterio di misura
che, spesso, si dimostra non reale.
Alla
risposta che è legge quella che viene applicata, segue la domanda: quanti
processi occorrono perché una legge sia fatta rispettare?
È
sufficiente il processo o è necessaria anche una condanna?
È
sufficiente una dichiarazione di colpevolezza o deve esservi anche una grave
punizione?
La
legge è applicata anche se a essere puniti sono soltanto i piccoli trasgressori
e non i grandi?
Quello
dell’applicazione reale non è un criterio semplice e chiaro.
Come
diverrà chiaro al lettore, l’assassinio si accompagna, frequentemente, agli
avvenimenti ricordati in questo reportage.
Molti di questi delitti rimangono, ufficialmente, insoluti e nessuno dubita che
i responsabili di quelle morti abbiano la capacità di uccidere ancora.
In me
resta, come in molti Italiani, un profondo senso di gratitudine per i tanti
Lazzaro DIA, Uomini, di cui
non conosciamo il nome e non vediamo il volto, ma che scelgono di sacrificare
la propria vita per garantire la nostra. E speranza non effimera che,
risolti gli aggrovigliati fatti politici del momento, guarite le piaghe
interne, lenito il dolore per quelle guerre senza scopo e senza gloria, l’Italia
possa tornare a simboleggiare per gli stranieri e, soprattutto, per gli
Italiani migliori, il suolo sacro di una civiltà che non è fallita.
Posso
assicurare il lettore che tutte le informazioni, tutti i dettagli, tutti i fatti
sono stati, da me, controllati e ricontrollati, per verificare la credibilità
delle diverse fonti.
Come
sempre, me ne assumo la responsabilità, in
toto.
La
Verità deve essere rivelata, quando uno scrittore è pronto a raccontarla.
Allora,
così sia!
Roma,
20 ottobre 2014
Daniela
Zini
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Moi
Daniela Zini
J’ai dû naître plus loin, dans un passé plus vieux,
Sur les eaux écumeuses et blanches,
Quand l’Univers était un volcan en fusion,
A l’aube incertaine d’un jour
Tout ruisselant de flamme, cendre et lapilli.
Telle une rivière printanière en crue,
Ma vie a répandu des fleurs et des parfums.
De moi je laisse, dans les remous des vers,
La chaleur des larmes qui les a vu fleurir,
La marque d’une lame insinuante et dure.
Mes vers,
Soyez des fleuves!
Allez-en vous élargissant!
Qu’on sache combien j’ai aimé!
Je ne souhaite pas d’éternité plus douce.
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due poli
della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie ad apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini
3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria
- Parte Prima -
“Quando
avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo
bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter
mangiare il denaro accumulato nelle loro banche.”
Toro
Seduto
Senza
dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri.
Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel
che si poteva fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne
infischia delle cautele…
Ve ne
accorgerete subito!
Io
avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei
documenti che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne
sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho
attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Verso,
dunque, queste pagine nel dossier
della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di
stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in
particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non
sono niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore
esclusivo di una verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni
cognizione storica.
Sono
una inchiesta su una Chiesa che dal Concilio Vaticano II è alla ricerca di se
stessa.
Sono
una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono nati cattolici
romani, ma che non sono mai divenuti cristiani.
E,
poiché nessuno di noi ha la verità assoluta, ma tante piccole verità unite
portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche
crudele, diversa.
Gliene
sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La
ricerca della verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono
precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti
i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi verità.
Esistono
persone molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima
nell’interesse della Giustizia degli uomini. Queste persone molto potenti
vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e i codici degli altri
uomini. Le comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per queste
persone e non si applicano nei loro confronti.
papa
Francesco I e Giorgio Napolitano
“Forse oggi farà bene a tutti noi pregare per tanti bambini e
ragazzi che ricevono dai loro genitori pane sporco: anche questi sono affamati,
sono affamati di dignità! Pregare perché il Signore cambi il cuore di questi
devoti della dea tangente e se ne accorgano che la dignità viene dal lavoro
degno, dal lavoro onesto, dal lavoro di ogni giorno e non da queste strade più
facili che alla fine ti tolgono tutto.”
8 novembre 2013
papa Francesco I
“Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei
mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una
sentenza o la parola della Cassazione o un’inchiesta giudiziaria perché penso
che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una
responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere
regionale, l’assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in
giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si
baciano quando s’incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di
una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una
testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio
impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare.”
Lirio Abbate
Giovanni
Francesco Barbieri, il Guercino [1591-1666]
Cacciata
dei mercanti dal tempio, Galleria di Palazzo Rosso, Genova
1Alzàti gli occhi, vide i ricchi che
gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. 2Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, 3e disse: “In verità vi dico:
questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti,
hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua
miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere.”
5Mentre alcuni parlavano del tempio, che
era ornato di belle pietre e di doni votivi, disse:
6
“Verranno
giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che
non sarà distrutta». 7Gli
domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il
segno, quando esse staranno per accadere?” 8Rispose: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti
verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate
dietro a loro! 9Quando
sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono
avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
10Poi diceva loro: “Si solleverà nazione
contro nazione e regno contro regno, 11e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e
pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
12Ma prima di tutto questo metteranno le
mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle
prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13Avrete allora occasione di
dare testimonianza. 14Mettetevi
dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15io vi darò parola e sapienza,
cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16Sarete traditi perfino dai
genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi;
17sarete odiati da
tutti a causa del mio nome. 18Ma
nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita.
20Quando vedrete Gerusalemme circondata da
eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. 21Allora coloro che si trovano
nella Giudea fuggano verso i monti, coloro che sono dentro la città se ne
allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; 22quelli infatti saranno giorni
di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia. 23In quei giorni guai alle donne
che sono incinte e a quelle che allattano, perché vi sarà grande calamità nel
paese e ira contro questo popolo. 24Cadranno
a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme
sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti.
25Vi saranno segni nel sole, nella luna e
nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare
e dei flutti, 26mentre
gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere
sulla terra. Le potenze dei cieli
infatti saranno sconvolte. 27Allora
vedranno il Figlio dell’uomo venire su
una nube con grande potenza e gloria. 28Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi
e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.”
29E disse loro una parabola: “Osservate la
pianta di fico e tutti gli alberi: 30quando
già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina. 31Così anche voi: quando vedrete
accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32In verità io vi dico: non
passerà questa generazione prima che tutto avvenga. 33Il cielo e la terra
passeranno, ma le mie parole non passeranno.
34State attenti a voi stessi, che i vostri
cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e
che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; 35come un laccio infatti esso si
abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. 36Vegliate in ogni momento
pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere
e di comparire davanti al Figlio dell’uomo.”
37Durante il giorno insegnava nel tempio;
la notte, usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. 38E tutto il popolo di buon
mattino andava da lui nel tempio per ascoltarlo.
Vangelo secondo Luca, Capitolo 21
SOCIETA’
SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di
Daniela Zini
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di
Daniela Zini
Quando Il Codice da Vinci uscì, nel 2003, senza
dubbio alcuno, Dan Brown sperava che il suo romanzo riscuotesse un qualche
successo. Nel 1996, Brown si era buttato nell’impresa più rischiosa della sua
vita: aveva lasciato il posto di professore di inglese alla prestigiosa Phillips Exeter Academy per fare lo
scrittore a tempo pieno.
Il
desiderio di scoprire segreti è, profondamente, radicato nell’uomo. Anche la
mente meno curiosa è stimolata dalla prospettiva di pervenire a conoscenze che
agli altri sono inaccessibili, ma la maggior parte di noi è indotta a
soddisfare questo desiderio mediante la soluzione di enigmi artificiali ideati
per nostro diletto.
La
combinazione che Dan Brown crea tra il genere del giallo investigativo, il tema
delle società segrete e le storie alternative si è rivelata una ispirazione per
il famoso romanzo. Attraverso i riferimenti al mistero storico della società
conosciuta come Priorato di Sion e l’inserimento di leggende tratte dalla
storia dell’arte negli enigmi crittografici, Brown ha realizzato il sogno di
scrivere un best-seller di portata
gigantesca.
Sono
pochi i casi in cui un romanzo ha stabilito un tale primato.
Il Codice da Vinci ha
avuto un enorme effetto a livello sociologico. Il ricorso da parte dell’autore
a temi eretici, come il matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, ha fomentato
accesi e controversi dibattiti sulla vera storia del cristianesimo e,
soprattutto, del cattolicesimo.
Il 15 marzo
2005, il Vaticano lanciò, perfino, una offensiva contro il best-seller di Dan Brown, che si è rivelata un attacco senza
precedenti contro un’opera narrativa. Il cardinale Tarcisio Pietro Evasio Bertone
[http://www.sueddeutsche.de/panorama/kardinalstaatssekretaer-bertone-maechtig-umstritten-1.1600868],
accusò il romanzo di essere “un castello di
menzogne”, definì la sua trama deplorabile e si appellò alle librerie
cattoliche affinché ritirassero, immediatamente, il libro dai loro scaffali [http://www.theguardian.com/books/2005/mar/15/catholicism.religion,
http://www.fedeecultura.it/davinci0.html,
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-18/bertone-tentativo-ripetuto-creare-123736.shtml?uuid=Ab2mDLuF].
“Se fosse stato scritto un libro pieno di menzogne su Buddha o su
Maometto, o se fosse uscito un romanzo che avesse manipolato la storia dell’Olocausto
o della Shoah, che cosa sarebbe accaduto? Questo libro è un castello di
menzogne.”
Tra il
1971 e il 1973, un miliardo e mezzo di dollari circa, in titoli e valori, invase
il mercato monetario internazionale. Schiaccianti testimonianze provarono che
almeno 14 milioni di dollari di questo stock
fossero fluite nelle casse del Vaticano
di Paolo VI.
Conigliette
di Playboy, un agente immobiliare
ucciso, due funzionari tedeschi, il segretario al tesoro degli Stati Uniti John
Bowden Connally Jr.,
il cardinale Paul Casimir Marcinkus, il banchiere italiano Michele Sindona, il
procuratore generale degli Stati Uniti Richard Gordon Kleindienst,
il boss mafioso Vincent Rizzo erano
alcuni dei personaggi della sconvolgente storia dei 14 milioni di dollari
finiti nelle casse del Vaticano.
Nel
1982, un nuovo scandalo coinvolse il Vaticano e questa volta il ruolo di Paul
Casimir Marcinkus non poté essere ignorato.
Personaggi
dei più svariati rackets
internazionali, falsari, capi mafiosi, contrabbandieri di droga, finanzieri e
uomini di successo, dignitari vaticani sono al centro dell’audace operazione
finanziaria, cui si rifa il reportage.
Lo
scandalo riguardava il Banco Ambrosiano di Milano, la banca privata più
importante d’Italia, sull’orlo del collasso per prestiti non garantiti per un ammontare
di 1250 milioni di dollari.
Michele Sindona
Ricorse
il nome di Michele Sindona, mentre il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto
Calvi,
scomparve, all’improvviso, da Milano e fu trovato morto, il 18 giugno 1982, a Londra, sotto il Blackfriars Bridge [Ponte dei Frati Neri],
le mani legate dietro la schiena e indosso alcuni mattoni [nelle tasche, uno
anche nelle mutande], 15mila dollari e un orologio Phatek Philippe fermo all’1 e 52. Vennero rinvenuti anche un
passaporto con le generalità modificate in Gian Roberto Calvini e un biglietto
aereo per Rio de Janeiro.
Papa Paolo VI e Roberto Calvi
Licio
Gelli e Roberto Calvi avevano investito danaro sporco nello IOR e nel Banco
Ambrosiano per conto del boss mafioso Giuseppe Calò, che curava gli
interessi finanziari del clan dei Corleonesi. A tale proposito, il
collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia dichiara:
“Calvi si era impadronito di una
grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare
fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e,
quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era
dimostrato inaffidabile.”
Il
Banco Ambrosiano era passato, da poco, sotto il controllo di quattro società
panamensi, tramite la Cisalpine Overseas
Bank di Nassau [http://www.philipwillan.com/portale/sites/default/files/Consulenza%20Calvi.pdf],
nel cui consiglio di amministrazione figurava il cardinale Paul Casimir Marcinkus.
Lo IOR stesso aveva garantito presso il Banco Ambrosiano dei dubbi prestiti
latino-americani con lettere di patronage.
Queste lettere garantivano la copertura del debito estero delle suddette
società offshore per un altro anno a
partire da quel momento. In cambio Calvi aveva firmato una manleva, con la
quale si assumeva la responsabilità di tutte le conseguenze patrimoniali
dannose relative al Banco Ambrosiano.
“È la galassia
delle società panamensi – Astolfine, Bellatrix, Belrosa, Erin, Laramie,
Starfiled –, registrate nel più accogliente dei paradisi fiscali mondiali e
gestite dagli uomini di fiducia di Pierre Siegenthaler. Lo scopo era quello di
riempire le scatole vuote di Panamá con i soldi
scippati al Banco Ambrosiano. Costituire una società a Panamá era ancora più semplice che a Nassau. Il costo da
sostenere era di soli 285 dollari. Con un capitale minimo queste società
potevano indebitarsi per milioni di dollari.”
Marcinkus
si rese introvabile e i suoi collaboratori mostrarono agli investigatori
italiani la lettera di Roberto Calvi, che sollevava da qualunque responsabilità
la banca vaticana.
Il
potere di Paul Casimir Marcinkus fu, fortemente, scosso.
Dopo
dieci anni, era stato smascherato!
Qui non
si assolve né si giustifica Paul Casimir Marcinkus perché mancherebbero molti
elementi necessari per darne un giudizio complessivo.
Qui si
vuole rileggere alcuni fatti noti con una ottica diversa da quella abituale e
questa nuova lettura permette di constatare due cose abbastanza rilevanti.
La
prima è che lo IOR è stato comodo per molta gente, non escluse diverse banche
italiane e una parte della classe politica di questo Paese e di altri.
La
seconda è che il cardinale Marcinkus avrebbe potuto, tranquillamente, replicare
di aver obbedito, sempre, ai suoi superiori, ma resta il fatto che ha goduto,
almeno fino al 1980, di una libertà totale. Ha fatto ciò che ha voluto,
credendo, probabilmente e temerariamente, di essere lui a muovere i fili del gameplay.
La vita
di Paul Casimir Marcinkus non è né più né meno scandalosa di molte altre. A ben
guardare, il problema non è neppure Marcinkus, ma lo IOR, la banca vaticana che
non è riuscita a conciliare i principi necessariamente commerciali di una banca
con quelle verità, cui la Chiesa si ispira. Il vero scandalo non è tanto Paul
Casimir Marcinkus e la gestione che lui ha fatto della banca, ma la visione di
quella parte allegra e spregiudicata delle finanze del Vaticano, che ha
esultato perché il presidente della sua banca e i suoi più stretti collaboratori,
Luigi Mennini e Pellegrino de Stroebel, l’avevano fatta franca con la Giustizia
italiana. L’avevano fatta franca per questioni formali, non perché fossero
innocenti.
E, per
me, cristiana seppure non osservante, quella esultanza è una vergogna!
Per i
giudici di Milano, i 44
ettari della Città del Vaticano furono territorio
inviolabile. Si guardò il cardinale Marcinkus dall’accettare i loro inviti, le
loro convocazioni. Si degnò appena di rispondere con due memorie:
-
La prima, inviata alla commissione mista
italo-vaticana, istituita, alla fine del 1982, per accertare le colpe del
fallimento;
-
La seconda, spedita ai giudici, due anni dopo.
I soldi
e il patrimonio del Vaticano sono, sempre, stati oggetto di curiosità più o
meno interessate, talvolta, morbose, che non avrebbero oltrepassato un certo
limite se si fosse amministrato quel patrimonio in modo discreto.
Non fu così!
Il
presidente della banca vaticana attirò l’interesse del mondo intero sulla sua
persona: i dettagli, le minuzie, i fatti apparentemente insignificanti divennero
interessanti, oggetto di indagine, secondo il principio che la vita privata di
un uomo pubblico è anch’essa pubblica.
Marcinkus
non ha inventato nessun nuovo sistema di gestione economica, ma è stato
inserito in una logica antecedente, nella quale, già, si muovevano le finanze
vaticane: la logica del profitto con relativi vantaggi e inconvenienti. Tutt’al
più Marcinkus esagerò ed esasperò quella logica. Oppure, forse, non dipese
neppure da lui, ma dal fatto che il mondo era cambiato.
Se lo avesse
fatto, cento anni prima, probabilmente, non vi sarebbe stato scandalo alcuno e
lo avrebbero lasciato tranquillo. Credo, pertanto, che dovremmo essergli grati:
con le sue avventatezze e le illegalità della banca che ha diretto, ci ha
permesso, infine, di vedere, di scoprire ciò che, già, i suoi predecessori, con
grande discrezione, facevano.
Ricordo
quanta importanza assegnasse papa Giovanni Paolo II al danaro per le
inesauribili necessità finanziarie del Vaticano. Ripeteva quando si offriva l’occasione,
che, solo con grandi risorse economiche, la Chiesa poteva consolidare il suo
primato e continuare la sua opera di evangelizzazione. Non a caso amava citare
la parabola dei talenti:
“Beato
l’uomo che teme il Signore.” [Salmo 127,
4]. Nella liturgia dell’odierna XXXIII domenica “per annum”, che ci prepara all’Avvento,
ormai vicino, la Chiesa ci richiama a un vigile e dinamico impiego dei talenti
che il Signore ha affidato a ciascuno di noi e ad essere generosi nella
corrispondenza alle grazie e ai doni che Egli ci destina. Non sono degni del
Signore, perciò, quella comunità o quel singolo individuo che, per paura di
compromettersi, si rinchiudono in se stessi e si alienano dalla realtà di
questo mondo. Nel Vangelo di oggi, abbiamo il tipico atteggiamento di colui che
non mette a frutto i doni ricevuti: “Signore, so che sei un uomo duro, che
mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a
nascondere il tuo talento sotterra.” [Vangelo secondo Matteo, 25, 24-25].” [http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1981/documents/hf_jp-ii_hom_19811115_visita-parrocchia_it.html].
Quanta
parte ha avuto lo IOR nella genesi del movimento sindacale polacco Solidarnosc?
Quali
finanziamenti Marcinkus aveva indirizzato a Danzica e a Varsavia?
Il
silenzio è un’arte, secondo il rivalutato insegnamento dell’abate Joseph
Antoine Toussaint Dinouart,
che morì alla vigilia della Rivoluzione Francese.
“Si
deve smettere di tacere solo quando si abbia qualcosa da dire che valga più del
silenzio.”
papa Giovanni Paolo II e il cardinale Paul Casimir
Marcinkus
Il
silenzio ha concesso al cardinale Marcinkus di non soccombere e alla Chiesa di
non ammetterne le scelleratezze finanziarie. Sotto il mirino di tutti, dentro e
fuori il Vaticano, era riuscito a ritagliarsi uno spicchio di autonomia,
guadagnandosi la riconoscenza di papa Giovanni Paolo II con i fondi inviati in
Polonia. Sapeva di essere in tal modo sacrificabile, ma fino a un certo punto.
Gli
aiuti alla Polonia sarebbero iniziati a metà degli anni 1970 e si sarebbero
intensificati sempre più. Il cardinale Marcinkus, naturalmente, negava di aver
partecipato non solo alle razzie di Roberto Calvi, ma anche agli interventi a
favore della Polonia cattolica. Ma, era la stessa cronaca dell’epocale 1989 a smentirlo. Fu,
infatti, in quel memorabile 1989 che il generale polacco Wojciech Jaruzelski si
decise a concedere il pluralismo sindacale, che spianò la strada a Solidarnosc e alla sua plebiscitaria
vittoria nelle elezioni politiche del 4 giugno. Gli aiuti vaticani
determinarono il successo travolgente degli amici del papa, quali il
devotissimo Tadeusz Mazowiecki, che divenne, in agosto, addirittura presidente
del consiglio e scelse per la prima significativa uscita pubblica la parrocchia
di Santa Brigida, a Danzica, culla spirituale di Solidarnosc, terminale polacco delle iniziative finanziarie di papa
Woitila.
Dieci
anni prima, Solidarnosc non esisteva.
In una
Polonia stremata e poverissima, chi l’aveva sostenuto, nei momenti più
terribili, se non la Roma di San Pietro?
E chi
era riuscito a divenire il presidente della Nazione, la domenica del 9 dicembre
1990, dopo aver sconfitto l’intelletttuale laico Mazowiecki e il chiacchierato
uomo di affari Stan Tyminski, se non il devoto suddito di Woitila,
l’elettricista Lech Walesa, Premio Nobel per la Pace 1983?
In
Polonia, la situazione politica, agli inizi degli anni 1980, si faceva, di mese
in mese, sempre più precaria, dopo la lunga esaltante estate dei cantieri Lenin
di Danzica, quando 17mila operai osarono sfidare il regime per strappare le
prime significative conquiste democratiche.
Lech
Walesa, leader degli operai polacchi,
era consapevole dell’irrepetibilità di tale esperienza: il movimento operaio
libero doveva gestire saggiamente l’incredibile, imprevista vittoria. Un
patrimonio sindacale e politico unico, prezioso.
Tutto
il mondo guardava preoccupato a Danzica: quei 18 giorni di scioperi e
occupazioni dei cantieri e delle fabbriche, iniziato il 14 agosto 1980, fecero
pensare al peggio.
L’allarme
cresceva, di ora in ora, si temeva una pesante reazione sovietica, l’ombra
della normalizzazione praghese e la paura dei carri armati russi mise in piedi
una strana consorteria internazionale, che invitava tutti, gli operai del
cattolico Walesa e i burocrati del regime di Edward Gierek, a mantenere la
calma e ad applicare la ragione.
Dalla
cancelleria di Bonn, dal quartiere generale della NATO, dalla Casa Bianca,
dalla Santa Sede, il coro fu più o meno unanime: moderazione. Il peso e gli sforzi della Chiesa furono
fondamentali nello scontro con il regime filosovietico di Varsavia.
Ben lo
sapeva Marcinkus, al quale i genitori avevano imposto, quale secondo nome, quello
del Santo Patrono della Polonia e della Lituania, Casimiro di Cracovia [la
città di papa Giovanni Paolo II], terzogenito di Casimiro IV, re di Polonia e
di Lituania, e della regina Elisabetta d’Austria, canonizzato, nel 1521 da papa
Leone X.
Il 1981
e il 1982 furono due anni memorabili.
L’assedio
di Calvi da parte della magistratura, della banca centrale e della borsa valori
durava da tempo e divenne frenetico nella primavera del 1981. Michele Sindona
era, già, stato condannato negli Stati Uniti e, proprio in quella stagione,
ebbe una condanna a sette anni di prigione per l’autosequestro. In quel periodo
divenne particolarmente acceso anche lo scontro tra opposte fazioni per
consegnare Sindona all’Italia.
La P2 o
una parte di essa stava affondando miseramente e la lotta nella massoneria
nazionale e internazionale per scaricarla o difenderla divenne selvaggia.
Licio
Gelli, che, soltanto un anno prima, dalle pagine del Corriere della Sera, somministrava ricette per guarire il grande
malato, l’Italia, era scappato come un qualsiasi delinquente.
Alla
data, in cui uscì questo articolo – otto settimane dopo la strage alla stazione
ferroviaria di Bologna, la mattina di sabato 2 agosto 1980
– mancavano ancora cinque mesi alle perquisizioni a Castiglion Fibocchi e a
Villa Wanda. Perquisizioni che portarono alla scoperta della lista degli
iscritti alla Loggia P2, da cui emergerà che intervistatore e intervistato
erano “fratelli” di tessera.
“La
sinistra di oggi non farebbe paura alla P2. La P2 non sarebbe nemmeno nata per
difendersi dall’attuale Partito Comunista. Con la P2 avevamo l’Italia in mano.
Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente
comandate da appartenenti alla Loggia. Noi non abbiamo mai voluto attaccare,
eravamo invece una sentinella, attenta a controllare che non emergesse il
Partito Comunista.”
Lo scompiglio
scatenatosi, in Polonia, dal risveglio che seguì la elezione di Wojtila al
pontificato non poteva essere più grande.
Sette
giorni prima dell’arresto di Calvi, venti prima della pubblicazione della lista
degli appartenenti alla Loggia P2, ventiquattro dopo l’ultima condanna inflitta
a Michele Sindona e cinquantasei dopo la fuga di Licio Gelli da Arezzo, il ventitreenne
turco Mehmet Ali Agca, sparò a Karol Wojtila in piazza San Pietro. Fu
condannato all’ergastolo, ma il processo non produsse nessuna prova definitiva
che confermasse la tesi che il reato di Agca fosse il frutto di un complotto
internazionale.
Il processo
lasciò solo dubbi.
Probabilmente,
non si saprà mai se i tre scenari – Polonia, P2, disputa per il Banco Ambrosiano
– fossero in rapporto tra loro.
L’ambiguità
e la bipolarità dottrinali del cattolicesimo sulla questione del danaro non è
altro che la proiezione dell’ambiguità costitutiva del messaggio cristiano in
quanto ideologia e simbolismo del potere. La formula topica che meglio esprime
la natura ibrida del cristianesimo ecclesiale è ben nota, anche se, forse, poco
meditata: la Chiesa di Cristo sta nel mondo, con il mondo, ma non è di questo
mondo. Questa è la cerniera di ambiguità, matrice di tutta la sua versatilità
operativa, oltre che rappresentazione della grande trovata metodologica della
dogmatica cattolica, vale a dire l’unità dei contrari, la coincidentia oppositorum, anche se si tratta di una dialettica
elementare e povera di mediazioni.
La
perdita degli Stati Pontifici costituisce il capovolgimento economico più
importante della Chiesa negli ultimi secoli. Da un punto di vista storico, tutti
riconoscono che fu un disastro inevitabile quanto favorevole, perché la Chiesa
avrebbe smesso di essere una potenza politica e i suoi scopi spirituali
sarebbero passati in primo piano. Ma, dal punto di vista economico, venne tutto
capovolto. Non vi erano più regioni da amministrare e neppure entrate
provenienti dagli Stati Pontifici. Ma anche se il patrimonio materiale ed
economico si era ridotto a ben poca cosa, tuttavia, era costoso fare funzionare
ciò che restava…
Dal
1870 al 1929, anno in cui l’Italia e il Vaticano firmarono la pace, la Santa
Sede visse ossessionata dall’idea di ricostruirsi un patrimonio, di trovare una
nuova fonte di entrate che le consentisse di sopravvivere. Sui 44 ettari, cui si era
ridotto lo Stato Pontificio, in buona parte occupati da immobili, si poteva
produrre ben poco. Inoltre, il nuovo Governo, insediatosi a Roma, non solo
aveva espropriato la maggioranza dei beni della Chiesa, ma le aveva proibito
ogni attività economica in Italia. La mancanza di identità non poteva essere
più grande: il Vaticano somigliava ancora a uno Stato, ma non ne aveva nessuno
dei vantaggi, come, a esempio, i sistemi di produzione, le imposte, i
meccanismi finanziari per regolare i redditi. Fu, dunque, logico e naturale
che, durante quegli anni, vivesse di elemosina, di quell’Obolo di San Pietro,
che alcuni Paesi cattolici avevano reintrodotto con la progressiva perdita
degli Stati Pontifici. Vivere di elemosina è assai meritevole, ma non ha, mai,
consentito di fare progetti stabili e, ancora meno, di amministrare uno Stato,
per piccolo che sia e il governo centrale di una comunità di fedeli così larga.
Forse, quello era il momento in cui la Chiesa avrebbe potuto trasformarsi
interamente per privilegiare la sua realtà spirituale. Ma non lo fece e si
limitò a cercare nuove strade per risolvere soltanto i problemi economici. L’acquisto
di titoli, azioni e obbligazioni, divenne l’unico sbocco: forse, era l’unica
strada che sembrava possibile a una Chiesa abituata a vivere da potenza.
Si
intraprese, così, la strada della borsa valori.
Sei
anni dopo l’entrata degli italiani a Roma, il cardinale Giacomo Antonelli aveva
ricostruito un patrimonio di 30 milioni di lire, una fortuna per l’epoca. È la
somma, che, morendo, nel 1876, lasciò in beni mobili, conti correnti e titoli.
Tutto era stato accumulato con donazioni ed eredità fittizie, attraverso
prestanome e investimenti all’estero, per barcamenarsi tra le leggi italiane. Per
sopravvivere la Chiesa era ricorsa alla speculazione finanziaria, entrando nella
logica del profitto, fatta di alti e bassi e anche degli inevitabili scandali e
durata fino a oggi.
Papa
Leone XIII distinse e separò l’amministrazione del patrimonio – i 30 milioni
del cardinale Antonelli – da quella dell’Obolo di San Pietro. Quando morì, Pio
X riunificò il due capitoli di entrata e tutti i papi successivi sarebbero
intervenuti per riformare le amministrazioni, crearne di nuove, sopprimere le
vecchie, per centralizzare o decentrare la chiave della cassaforte. Ma non si
riuscì a evitare che l’instabilità della finanza internazionale di quello
scorcio di secolo riducesse, a poco a poco, il patrimonio del Vaticano fino al
punto di dovere ricorrere ai crediti bancari per poter sopravvivere.
“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse
di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato
nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.”
[Vangelo secondo Giovanni 18, 36]
Ma Pio
XI affermava altresì:
“D’altra
parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le
cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su
tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia,
finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e
come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e
permette che i possessori debitamente se ne servano.”
“Noi
scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla
pubblica potestà: “Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle
leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma
dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta
la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire.
Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia
più sui suoi cardini naturali.”,
infine,
concludeva:
“È
necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta
sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e
alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle
leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli
affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che
regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo
Paolo, come “armi di giustizia” [Lettera ai Romani 6, 13] offerte a Dio devono
servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla
considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la
perfezione.”
I Patti
Lateranensi maturarono in questo contesto. L’11 febbraio 1929, cinquantanove
anni dopo la caduta di Roma, l’Italia e il Vaticano mettevano fine a tutte le
controversie sul potere temporale dei papi e sui beni ecclesiastici persi con
Roma. Per compensare la Santa Sede delle perdite subite, lo Stato italiano le
accordava un miliardo in buoni del tesoro pubblico al 5% di interesse annuo e
750 milioni di lire in contanti.
Pio XI spese
una parte di questo danaro per costruire seminari e parrocchie in Italia e per
restaurare e riorganizzare alcune istituzioni del Vaticano. Tuttavia, la parte
più consistente di quel capitale fu affidata a una commissione di tre persone,
chiamata Amministrazione Speciale della Santa Sede. Bernardino Nogara, uno dei
tre membri, investì la somma per un primo terzo in azioni industriali italiane
– Bastogi, Beni Stabili, Sip, Immobiliare, ecc. –, per un secondo terzo in
immobili e per il restante terzo in valuta e oro. In confronto a Nogara, i
finanzieri vaticani, che a lui sono succeduti, sono stati dei nanetti, perché
fu grazie a lui che la finanza papale si lanciò in pieno nella logica del
profitto.
Oltre
all’amministrazione diretta da Bernardino Nogara e a un’altra che curava il
patrimonio ricostituito dal cardinale Antonelli, vi era un piccolo organismo o
istituzione, che amministrava un fondo segreto creato da Leone XIII, l’11
febbraio 1887, affidato a una Commissione ad
pias causas, con il compito di “serbare e amministrare i capitali delle
fondazioni pie”. Nel 1904, Pio X modificò il regolamento dell’organismo
e lo chiamò Commissione Cardinalizia per le Opere di Religione, estendendone l’attività
da Roma a tutta l’Italia. Quattro anni più tardi, la Congregazione del
Concilio, da cui dipendeva l’amministrazione del fondo segreto stabilì che le
donazioni fatte al papa potessero essere amministrate direttamente dai vescovi
locali. Sarebbe stato logico, a questo punto, sopprimere la commissione che
amministrava il fondo segreto, poiché ne veniva cancellata la funzione.
Ma non
fu così!
La
situazione europea, sempre più instabile, la Prima Guerra Mondiale e il
Nazionalsocialismo tedesco convinsero il papa che un fondo segreto poteva
tornare utile per aiutare in modo diretto ed efficace i cattolici dei Paesi in
difficoltà. Così, il 10 febbraio 1934, nasceva una commissione di prelati per
amministrare le Opere di Religione, la quale fu chiamata Amministrazione delle
Opere di Religione e ricevette un nuovo regolamento da Pio XII, nel 1941.
Il 27
giugno 1942, Pio XII dava vita all’Istituto per le Opere di Religione [IOR],
così com’e oggi.
L’Antico
Testamento condannava senza mezze misure l’usura, vale a dire qualsiasi eccesso
nella restituzione di quanto prestato, fossero cose o soldi.
“Se tu
presti del danaro a qualcuno del mio popolo, al povero ch’è teco, non lo
tratterai da usuraio; non gl’imporrai interesse.”
[Esodo
22, 25]
“35 Se
il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi,
aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. 36
Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo
fratello presso di te. 37 Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai
il vitto a usura. 38 Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal
paese d’Egitto, per darvi il paese di Cànaan, per essere il vostro Dio.”
[Levitico
25, 35-38]
“19 Non farai al tuo prossimo
prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualsiasi cosa che si
presta a interesse. 20 Allo
straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo prossimo, affinché il
Signore, il tuo Dio, ti benedica in tutto ciò cui metterai mano nel paese dove
stai per entrare per prenderne possesso.
21 Quando avrai fatto un
voto al Signore tuo Dio, non tarderai ad adempierlo poiché il Signore, il tuo
Dio, te ne domanderebbe certamente conto e tu saresti colpevole; 22 ma se ti astieni
dal fare voti, non commetti peccato.”
[Deutoronomio
23, 19-21]
L’usura
è peccato.
Eppure,
la Storia della Chiesa è tutta una sfida pratica di questa condanna.
Parallelamente alla proibizione radicale del prestito con interesse assimilato
all’usura, la Chiesa e i suoi fedeli trasgrediscono, quotidianamente, con la
più grande disinvoltura, il tabù ereditato.
Ricordiamo
la storia di Callisto,
il quale, aperto, presso la piscina
publica, un banco di depositi e cambio con il finanziamento del suo
padrone, un ricchissimo cristiano di nome Carpoforo, imparentato con la
famiglia dell’imperatore Comodo, vide, progressivamente, aumentare la propria
clientela, costituita, essenzialmente, da cristiani.
È la
prima “banca” dei cristiani.
Come
ricordava Domenico del Rio,
da papa Callisto fino ai Rothschild, il pontificato romano ha agito, in
efficace simbiosi, con gli usurai, soprattutto con gli usurai ebrei. Al
contempo, le norme canoniche della Chiesa continuavano a rifiutare il prestito
con interesse in quanto peccato. Un grande canonista del secolo XI, Pedro Damián, proclamava, come portavoce
autorizzato della Chiesa:
“Prima
di ogni altra cosa liberatevi dai soldi, perché Cristo e il danaro non possono
stare insieme in nessun posto!”
Alzava
la voce anche contro la simonia, l’orribile peccato di introdurre la corruzione
del danaro nel cuore della successione apostolica. La dottrina ecclesiastica
avrebbe mantenuto, sempre, la proibizione del prestito con interesse, la
speculazione sul danaro produce altro danaro e, nel codice canonico medievale,
il Decretum [1140]
di Graziano,
si afferma che è difficile evitare il peccato in qualsiasi processo di
compravendita. Ma la Chiesa era su quella strada. Tuttavia, la crescita dell’economia
urbana – che è, essenzialmente, una economia di danaro – costrinse la Chiesa a
riconsiderare una proibizione che lei stessa non aveva mai rispettato e che
urtava, ora, con una società cementata sul danaro e sul lucro economico.
Sarebbe lungo tratteggiare, anche sommariamente, la storia di questa
evoluzione. Indico soltanto che, per molti secoli, sia la Chiesa sia i principi
cristiani trasferirono buona parte del loro senso di colpa per l’uso e il
fomento sistematico del prestito con interesse, attraverso l’ingegnoso
meccanismo di far sì che fossero i giudei – reprobi di Cristo, se ve ne sono,
secondo la Chiesa storica – a occuparsi quasi in esclusiva delle questioni
finanziarie per eccellenza. Già Bernardo di Chiaravalle e la sua epoca
tendevano a identificare il prestito con interesse con l’attività speculativa
propria degli ebrei. Si supponeva che gli “strozzini cristiani” fossero giudei
conversi. La doppiezza di questo spostamento della colpevolezza rappresenta un
curioso esempio di come la Chiesa abbia, sempre, praticato la tecnica di creare
vittime propiziatorie per i suoi peccati.
L’essenziale
di questa breve perorazione consiste nel cogliere l’ambiguità teorico-pratica
della Chiesa di fronte al problema dell’uso del danaro. L’ambiguità è
precisamente la condizione che fa possibile tutto il tessuto dottrinale e
dogmatico del cattolicesimo e della sua etica polisemica. Detta ambiguità
procede dalla natura ibrida del messaggio neotestamentario, in quanto integrato
dalla contrapposizione fondamentale tra uno escatologismo imminente – ereditato
dal messianesimo tardivo del periodo intertestamentale – e una Chiesa inserita,
in modo permanente, in un mondo duraturo e immediatamente configurata come
potere nel concerto politico dei poteri. Un cristianesimo, così articolato,
poteva condannare l’uso del danaro usato per produrre, da solo, altro danaro,
evocando la tradizione delle società pastorali dell’Antico Testamento e
assumendo la credenza in un finale immediato dei tempi con l’arrivo del Regno;
allo stesso tempo, tuttavia, poteva e doveva praticare l’uso del danaro a scopo
di arricchimento, obbedendo alle ferree esigenze della realtà di un mondo
secolare e pagano, nel quale doveva inserirsi per esercitare il suo dominio
temporale, il suo potere.
Questa
radicale immedesimazione della Chiesa nel concerto dei poteri temporali e il
suo graduale consolidamento come potere eguale, inizialmente, e superiore, successivamente,
al potere civile, non è datata, come erroneamente si dice, dalla cosiddetta “perversione
costantiniana”, ma è iniziata nella Storia del I secolo della nostra era e raggiunge
l’apogeo nel secolo IV. Qui, precisamente, nell’articolazione della escatologia
con la curabilità, trova radicamento la procreazione dell’antinomia che
racchiude la formula:
“In
questo mondo, ma non di questo mondo.”
e
racchiude anche tutte le contraddizioni costitutive delle dottrine cristiane
così come le forgiò la Chiesa antica. La evidente ipocrisia con la quale la
Chiesa romana trattò, nella teoria e nella pratica, la questione del danaro è,
diciamo così, strutturale. Non appartiene tanto all’ordine psicologico, ma a
quello logico. Corrisponde a quello che William Barrows Dunham chiamava,
riferendosi alla Chiesa, la logica dell’organizzazione. O, concernente il
danaro, la logica del beneficio. Non dipende dalle distrazioni o dalle
deviazioni di questo o di quello, di un Giacomo Antonelli
o di un Paul Casimir Marcinkus, che la Chiesa si corrompa con l’uso del danaro,
ma è il risultato necessario di una Chiesa, formatasi come Monarchia Assoluta
con la sua struttura gerarchica sacramentale, giuridica e amministrativa per
agire quale grande potere nel concerto mondiale di poteri.
Allo
stesso modo, come accadde nell’URSS con l’idea di Karl Marx, nella Chiesa
Romana, nella sua realtà di fatto e, non sempre, nella sua retorica, l’organizzazione
divorò il messaggio cristiano, ibrido, già, in germe e con il verme della
corruzione nelle sue viscere.
Quando
una istituzione si considera in possesso di una verità totale, esclusiva ed
escludente e, allo stesso tempo, si configura come un grande potere temporale è
impossibile, perché va contro la natura delle cose, che, partendo da questa
presunta verità, non si muova, irresistibilmente, verso il dogmatismo di
considerare legittimo qualsiasi mezzo creda opportuno per condurre alla
realizzazione dei fini postulati da tale verità.
Così
succede con il danaro e le alte forme pratiche di potere della Chiesa di
Roma.
E io
che credevo che l’epoca dei Borgia con Alessandro VI, nel 1492, fosse un’epoca
di intrighi straordinari nella Storia della Chiesa.
Come
vedete, sono soggetta all’errore, talvolta!
Per
contro, io non penso di fare errore dicendo che la Chiesa è lontana dall’avere
la testa tra le nuvole, obnubilata in una pura contemplazione.
Ha
piuttosto i piedi ben piantati a terra, in una lotta per il potere a livello
internazionale.
“Ite
missa est.”
O piuttosto:
“Alea iacta
est!”
Daniela
Zini
Copyright
© 20 ottobre 2014 ADZ
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman,
ladies and gentlemen:
I appreciate very
much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy
responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of
how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your
profession.
You may remember
that in 1851 the New York Herald Tribune under
the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an
obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that
foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his
financial appeals were refused, Marx looked around for other means of
livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune
and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world
the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic
New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have selected as
the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest
that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But
those are not my sentiments tonight.
It is true,
however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently
that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague
it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible
for the press, for the press had already made it clear that it was not
responsible for this Administration.
Nevertheless, my
purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one
party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are
these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press
should allow to any President and his family.
If in the last few
months your White House reporters and photographers have been attending church
services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand,
I realize that your staff and wire service photographers may be complaining
that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that
they once did.
It is true that my
predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in
action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is
a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk
about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of
recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the
dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years.
Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living
with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly
challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to
the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The very word
“secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people
inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to
secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and
unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are
cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat
of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there
is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not
survive with it. And there is very grave danger that an announced need for
increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I do ask every
publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own
standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war,
the government and the press have customarily joined in an effort based largely
on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time
of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged
rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national
security.
Today no war has
been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared
in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make
themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our
friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is
awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat
conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our
security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I
can only say that the danger has never been more clear and its presence has
never been more imminent.
It requires a
change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the
government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every
newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless
conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of
influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of
elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night
instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and
material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its preparations
are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its
dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is
printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a
war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every
democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the
question remains whether those restraints need to be more strictly observed if
we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of
the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through
our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through
theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations
to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper
reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the
nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use,
have all been pinpointed in the press and other news media to a degree
sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the
publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were
followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers
which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for
you alone to answer. No public official should answer it for you. No
governmental plan should impose its restraints against your will. But I would
be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities
that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities,
if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful
consideration.
On many earlier
occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these
are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have no intention
of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I
am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security
classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and
would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the
newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own
responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger,
and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now
asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that
you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I
hope that every group in America
- unions and businessmen and public officials at every level - will ask the
same question of their endeavors, and subject their actions to the same
exacting tests.
And should the
press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps there will
be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a
free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any
discussion of this subject, and any action that results, are both painful and
without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is the
unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No President should
fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes
understanding; and from that understanding comes support or opposition. And
both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could
not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration
intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error
does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept
full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we
miss them.
Without debate,
without criticism, no Administration and no country can succeed - and no
republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This means greater
coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and
foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved
understanding of the news as well as improved transmission. And it means,
finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you
with the fullest possible information outside the narrowest limits of national
security - and we intend to do it.
III
It was early in the
Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions
already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press.
Now the links between the nations first forged by the compass have made us all
citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and
threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution
of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible
consequences of failure.
And so it is to the
printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience,
the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident
that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
La Città del Vaticano,
che copre una superficie di 0,44 km2 [44 ettari], è sede di tre istituti finanziari:
-
l’APSA
[Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica], che è,
in pratica, la Banca Centrale della Città del Vaticano, svolge funzioni di
tesoreria e gestisce gli stipendi dello
Stato. Tra i suoi compiti vi è, anche, quello di coniare moneta;
-
la
Prefettura per gli Affari Economici;
-
lo
IOR [Istituto per le Opere di Religione], di cui, ufficialmente,
l’unico azionista è il papa. Lo IOR è fondato, nel 1887, da Leone XIII, con il
nome di Commissione per le Opere Pie, al fine di convertire le offerte dei
fedeli in un fondo facilmente smobilizzabile. La prima riforma delle finanze
vaticane risale al 1908, quando su
iniziativa di papa Pio X l’istituto assunse il nome di Commissione Cardinalizia
per le Opere di Religione. La trasformazione in una banca vera e propria
avviene nel 1941.
Il 2 febbraio 1989, Clara Canetti, la vedova di Calvi, nel corso di una puntata
della trasmissione televisiva Samarcanda
affermò che il marito le avesse confidato che il vero capo della Loggia P2
fosse Giulio Andreotti:
Ferruccio Pinotti, Poteri forti.
Callisto nacque, intorno agli anni 160-170 d.C., da un certo Domizio, cristiano
della condizione servile della Regio XIV
della città, l’attuale Trastevere. Coinvolto, dopo una serie di speculazioni
sbagliate, nel fallimento di alcune imprese equivoche e non riuscendo più a far
fronte ai suoi impegni finanziari, Callisto preferì fuggire da Roma. Scoperto a
Porto, lo schiavo fuggitivo venne riconsegnato al suo legittimo proprietario,
che lo gettò nel pistrinum,
il luogo in cui gli schiavi erano condannati a girare una enorme macina di
mulino. Poi, spinto con ogni probabilità dal desiderio di liberarsi dei
creditori di Callisto, che si rivolgevano a lui per riavere il denaro perduto,
Carpoforo mise lo schiavo di fronte alle sue responsabilità, e, pur seguitando
a mantenerlo alle proprie dipendenze, lo liberò. Implicato in torbide vicende
con la colonia ebraica di Roma, Callisto venne, nuovamente, arrestato e, dopo
regolare processo, venne condannato ad
metalla, ai lavori forzati, nelle miniere di Sardegna. Fortunatamente, una
delle concubine dell’imperatore Commodo, Marcia, era una simpatizzante dei
cristiani e si era conquistata una certa influenza sull’imperatore, tanto da
riuscire a combinare, nel 190 d.C., un incontro tra il capo della comunità di
Roma, papa Vittore, e l’imperatore.
Fu
un incontro davvero storico!
Papa
Vittore si recò al Palatino con l’elenco dei nomi dei cristiani detenuti in
Sardegna per chiederne la scarcerazione e Commodo ne firmò la liberazione. Ma,
per uno strano incidente, il nome di Callisto non figurava nell’elenco. E,
quando Giacinto, il prete messaggero di Marcia, arrivò in Sardegna, Callisto lo
supplicò di aiutarlo. Giacinto, a sua volta, convinse il governatore che il
prigioniero fosse amico personale di Marcia.
Rientrato
in Italia, Callisto dovette impegnarsi, per esplicita ingiunzione del papa, a
non rimettere piede a Roma e a stabilirsi ad Anzio. Il successore di Vittore, Zefirino,
al contrario, non solo fece richiamare Callisto da Anzio, revocando le
disposizioni date in materia dal predecessore, ma lo volle accanto a sé come
diretto collaboratore e quindi, ordinatolo diacono, gli affidò la gestione e il
controllo del primo cimitero sotterraneo collettivo, che la Chiesa aveva aperto
tra il II e il III miglio della Via Appia. La serietà dimostrata
nell’espletamento delle sue nuove funzioni, la competenza e le indubbie doti
organizzative di cui dette prova nel corso del lungo pontificato di Zefirino,
qualificandosi come uno degli esponenti più ragguardevoli e influenti del clero
romano, fecero sì che Callisto fosse chiamato a succedergli, nel 217 d.C.
La
favorevole politica dei Severi verso le classi inferiori rese più facile
costituire anche alcune proprietà ecclesiastiche, sotto la copertura di
associazioni funerarie.
Arcigno, rio, saracinesco muso,
Sicario infame, a nordici flagello,
Poiché fedel conservi il patern’uso,
Pur se’ glorioso, o perfido Antonelli,
Degno ministro, anzi padrone intruso
Del più vil dei vilissimi ribelli
Che Papa ha nome e che sì ben t’abbraccia
O arcigna, ria, saracinesca faccia.
Nicola Roncalli, Diario dall’anno 1849 al 1870, Roma, Torino, Bocca, 1884