“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 20 ottobre 2014

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA QUADRIPLICE INTESA STATO-MAFIA-VATICANO-MASSONERIA - PARTE PRIMA - di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


para Lazzaro
“Un Amigo es la mano que despeina tristezas.”
Gustavo Gutierrez Merino

Cuando todo me parece imposible, horrible e inalcanzable, pienso en Tu sonrisa y la fuerza que me da, y de repente todo es posible.
Un día como hoy, hace un año me pediste que fuera Tu Amiga.
Desde ese momento mi vida cambió.
Te fui conociendo poco a poco y me di cuenta de que eres una persona excepcional y diferente a las demás.
Un año se cumple hoy y a pesar de nuestras diferencias, l’Amistad siempre ha prevalecido. En nuestra Amistad he aprendido mucho y me has enseñado a ver claramente mis defectos y cómo y porqué debo mejorarlos.
Mi Amigo gracias por Tu paciencia y comprensión; se que no soy fácil pero gracias a Dios siempre has mantenido la calma.
Quisiera decirte tantas cosas, de mil formas distintas para que Te des cuenta de lo mucho que te respeto, pero no se como hacerlo.
Espero que nuestra Amistad perdure y que con el paso de los años se fortalezca mas. Que a tua vida seja repleta de emoções, alegrias e conquistas.
¡Feliz aniversario, Amigo especial!
Roma, 20 octubre 2014
D



Se un fiore è la Primavera, un Amico è la fine della separazione.
Questo reportage sulla mafia, risultato di circa 5 mesi di intensa ricerca, non esisterebbe senza l’incontro con Lazzaro DIA, cui desidero esprimere tutta la mia riconoscenza.
In verità, Lazzaro DIA non mi ha permesso di sapere su di lui più di quanto mi servisse per convincermi a portare a termine la stesura del reportage.
L’Italia è uno strano Paese.
È un Paese diviso dalle passioni e dagli interessi.
È un Paese in crisi.
È il riflesso e, perfino, il quadrante di tutto un mondo in crisi.
I suoi peccati smisuratamente grandi quanto le sue virtù, sono i peccati dell’Idealismo e della Democrazia; ma sono anche i peccati di un sistema economico-politico-tecnologico che investe responsabilità extra-umane, astratte, mondiali, senza via di uscita, apparentemente.
La prima chiarezza, che viene da questo studio, è che la corruzione ha, sempre, avuto un posto a sé tra legge formale, legge morale e opinione pubblica corrente. La legge formale ha potuto, sovente, mandarla sul banco degli accusati; quella morale ne ha fatto, molto sovente, oggetto dei suoi strali e delle sue invettive; ma, sempre, per la opinione pubblica corrente, la corruzione non è, mai, stata un vero reato, un vero peccato, non ha, mai, avuto l’impatto duro del furto, non è mai stata un tabù – come le trasgressioni sessuali – è, sempre, stata qualcosa di congenito, di naturale.
I padri fondatori della potenza inglese, Francis Bacon, Padre della Scienza, Samuel Pepys, organizzatore della marina militare e Warren Hasting, creatore dell’India inglese, incassavano, tranquillamente, tangenti e, nell’intimo, non se ne vergognavano affatto; lo annotavano sui loro diari. Seconda osservazione di chi sta allo specchio e, per una volta, si guarda come è, in quanto uomo immutabile: la corruzione non è, di per sé, quella decadenza delle buone società, di cui parlano i padri pellegrini e altri moralisti o puritani.
La corruzione è come un propellente: manda giù i deboli, gli stupidi; ma può, anche, accompagnarsi a grandi disegni, a grandi avventure di gruppo o di Nazione.
Intendiamoci bene: non sto facendo una apologia della corruzione!
Chi non ha letto in tutta la letteratura romana imperiale la nostalgia, il rimpianto per la buona severa Repubblica dai costumi spartani, dal profondo senso dello Stato?
Eppure basta grattare un po’ nella Storia morale del ceto dirigente repubblicano per scoprire non solo casi incredibili di corruzione, ma la naturalezza, direi il diritto alla corruzione diffusissimo nell’aristocrazia senatoriale.
Vi sono molti tipi di corruzione. La corruzione come arte di governo, a esempio. Praticata, sempre, dai dittatori o dai governi autoritari. Nel Drittes Reich, in cui un suddito poteva venire fucilato alla minima violazione della disciplina militare o burocratica, il maresciallo Hermann Wilhelm Göring aveva accumulato una ricchezza enorme, facendo man bassa dei quadri e delle opere d’arte razziati nei Paesi occupati. Erano, rapidamente, arricchiti Joseph Paul Goebbels, Walter Richard Rudolf Heß, Joachim von Ribbentrop e Heinrich Luitpold Himmler, ma il severissimo Führer chiudeva un occhio: rubassero pure, ma gli restassero sottomessi e fedeli.
La corruzione che si autodistrugge, autolesionista. A esempio, la corruzione mafiosa che tende a uccidere la gallina dalle uova d’oro, a strangolare industrie e negozi e ridurre regioni, quali la Sicilia e la Calabria a deserti industriali. Una corruzione che si traduce, sempre, in vita grama, di chi la pratica, densa di paura. Gente che deve vivere nascosta, in un continuo conflitto con gli amici e i nemici.
Vi è la corruzione a pioggia, la redistribuzione del reddito che partiti, enti pubblici, ministeri, aziende di Stato compiono per tenere buoni i clienti.
Vi è la corruzione partitica, in cui neppure i protagonisti riescono più a distinguere la corruzione per il partito o per la corrente da quella per se stessi.
Il potere economico è così forte, così ricco che non sente bisogno alcuno di donazioni da parte dei sudditi: è lui a corrompere i sudditi che possono servirgli, lui a seppellire la critica giornalistica, l’informazione pericolosa sotto una pioggia di regali. Case di moda, agenzie di pubblicità, aziende, banche, assicurazioni praticano la corruzione diffusa, coprendola con nomi professionali, quali pubbliche relazioni, sponsorizzazioni, marketing, interventi promozionali.
Nella nostra cultura – la cultura occidentale, quella che, ancora, domina la cultura mondiale – la differenza tra tangente e dono si è sviluppata, soprattutto, riflettendo, dal punto di vista teologico-letterario, sulla Redenzione! 
A volte, l’uomo onesto, il non corrotto viene colto dal dubbio che la sua moralità sia una invenzione, una copertura di altro e meno nobile sentimento: la voglia di stare fuori dal gioco defatigante della corruzione, di non avere a che fare con ricattatori e venditori di fumo.
A volte, l’uomo onesto, che non ha, mai, toccato danaro sporco, si interroga su tutte le corruzioni intellettuali, culturali, cortigiane che ha praticato, monetizzabili nel futuro prossimo e si ricorda delle parole evangeliche:
“Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.”
Questo reportage è un invito alla riflessione per tutti gli ipocriti, per tutti i sepolcri imbiancati che sulla corruzione hanno la ricetta pronta. È difficile che la Democrazia possa sopravvivere in una società organizzata sul principio della terapia anziché su quello del giudizio, sull’errore anziché sul misfatto. Se gli uomini sono liberi ed eguali, allora, debbono essere giudicati anziché ospitalizzati. 
Essendo un concetto legale, sono le leggi a determinare ciò che è corruzione, in una particolare società. La definizione legale non si dimostra, tuttavia, di alcuna utilità che non sia superficiale.
La legge è l’editto promulgato da un principe, lo statuto scritto sui libri o è, invece, ciò che viene realmente fatto rispettare?
Se ci si attiene alla norma proclamata, si rischia di scegliere un criterio di misura che, spesso, si dimostra non reale.
Alla risposta che è legge quella che viene applicata, segue la domanda: quanti processi occorrono perché una legge sia fatta rispettare?
È sufficiente il processo o è necessaria anche una condanna?
È sufficiente una dichiarazione di colpevolezza o deve esservi anche una grave punizione?
La legge è applicata anche se a essere puniti sono soltanto i piccoli trasgressori e non i grandi?
Quello dell’applicazione reale non è un criterio semplice e chiaro. 
Come diverrà chiaro al lettore, l’assassinio si accompagna, frequentemente, agli avvenimenti ricordati in questo reportage. Molti di questi delitti rimangono, ufficialmente, insoluti e nessuno dubita che i responsabili di quelle morti abbiano la capacità di uccidere ancora.
In me resta, come in molti Italiani, un profondo senso di gratitudine per i tanti Lazzaro DIA, Uomini, di cui non conosciamo il nome e non vediamo il volto, ma che scelgono di sacrificare la propria vita per garantire la nostra. E speranza non effimera che, risolti gli aggrovigliati fatti politici del momento, guarite le piaghe interne, lenito il dolore per quelle guerre senza scopo e senza gloria, l’Italia possa tornare a simboleggiare per gli stranieri e, soprattutto, per gli Italiani migliori, il suolo sacro di una civiltà che non è fallita.
Posso assicurare il lettore che tutte le informazioni, tutti i dettagli, tutti i fatti sono stati, da me, controllati e ricontrollati, per verificare la credibilità delle diverse fonti.
Come sempre, me ne assumo la responsabilità, in toto.
La Verità deve essere rivelata, quando uno scrittore è pronto a raccontarla.
Allora, così sia!
Roma, 20 ottobre 2014
Daniela Zini






“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini

Moi
Daniela Zini

J’ai naître plus loin, dans un passé plus vieux,
Sur les eaux écumeuses et blanches,
Quand l’Univers était un volcan en fusion,
A l’aube incertaine d’un jour
Tout ruisselant de flamme, cendre et lapilli.

Telle une rivière printanière en crue,
Ma vie a répandu des fleurs et des parfums.
De moi je laisse, dans les remous des vers,
La chaleur des larmes qui les a vu fleurir,
La marque d’une lame insinuante et dure.

Mes vers,
Soyez des fleuves!
Allez-en vous élargissant!
Qu’on sache combien j’ai aimé!
Je ne souhaite pas d’éternité plus douce.



Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie ad apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo! 
 


II. LA MAFIA
di
Daniela Zini

3. LA QUADRUPLICE INTESA
Stato-Mafia-Vaticano-Massoneria

- Parte Prima -   


“Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche.”
Toro Seduto


Senza dubbio alcuno, questa inchiesta sarà attaccata da alcuni e respinta da altri. Non si pretende esaustiva, si vuole, semplicemente, onesta e obiettiva per quel che si poteva fare in un brevissimo lasso di tempo.
E se ne infischia delle cautele…
Ve ne accorgerete subito!
Io avrei potuto citare delle voci, dei “si dice”, delle maldicenze e anche dei documenti che circolano sia in Vaticano sia nelle sale di redazione italiane.
Me ne sono astenuta nella misura in cui mi sembravano poco credibili.
Io ho attinto, esclusivamente, a fonti “degne di fede”.
Verso, dunque, queste pagine nel dossier della Storia della Chiesa che non ha finito, nella gloria e nella polvere, di stupirci. Saranno considerate un attacco alle fede cattolica romana, in particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non sono niente di tutto ciò e possono dare fastidio solo a chi si crede detentore esclusivo di una verità assoluta ed è privo, allo stesso tempo, di ogni cognizione storica.
Sono una inchiesta su una Chiesa che dal Concilio Vaticano II è alla ricerca di se stessa.
Sono una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono nati cattolici romani, ma che non sono mai divenuti cristiani.
E, poiché nessuno di noi ha la verità assoluta, ma tante piccole verità unite portano alla conoscenza, ben venga chi offrirà una analisi storica, anche crudele, diversa.
Gliene sarò grata, purché lo faccia con rispetto.
La ricerca della verità non è così semplice come potrebbe apparire!
Esistono precise barriere nel mondo, forze oscure, ma potenti, che impediscono con tutti i mezzi, che ci si avventuri alla ricerca di una qualsiasi verità. 
Esistono persone molto influenti in grado di bloccare qualsiasi iniziativa legittima nell’interesse della Giustizia degli uomini. Queste persone molto potenti vivono secondo leggi e codici che non sono le leggi e i codici degli altri uomini. Le comuni leggi e i codici in vigore non hanno valore per queste persone e non si applicano nei loro confronti.


papa Francesco I e Giorgio Napolitano

“Forse oggi farà bene a tutti noi pregare per tanti bambini e ragazzi che ricevono dai loro genitori pane sporco: anche questi sono affamati, sono affamati di dignità! Pregare perché il Signore cambi il cuore di questi devoti della dea tangente e se ne accorgano che la dignità viene dal lavoro degno, dal lavoro onesto, dal lavoro di ogni giorno e non da queste strade più facili che alla fine ti tolgono tutto.”
8 novembre 2013
papa Francesco I





“Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un’inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l’assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s’incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare.”
Lirio Abbate





Giovanni Francesco Barbieri, il Guercino [1591-1666]
Cacciata dei mercanti dal tempio, Galleria di Palazzo Rosso, Genova

1Alzàti gli occhi, vide i ricchi che gettavano le loro offerte nel tesoro del tempio. 2Vide anche una vedova povera, che vi gettava due monetine, 3e disse: “In verità vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato più di tutti. Tutti costoro, infatti, hanno gettato come offerta parte del loro superfluo. Ella invece, nella sua miseria, ha gettato tutto quello che aveva per vivere.”
5Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, disse:
6 “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». 7Gli domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?” 8Rispose: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! 9Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
10Poi diceva loro: “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, 11e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
12Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13Avrete allora occasione di dare testimonianza. 14Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita.
20Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. 21Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano verso i monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; 22quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia. 23In quei giorni guai alle donne che sono incinte e a quelle che allattano, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo. 24Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani non siano compiuti.
25Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, 26mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. 27Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. 28Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.”
29E disse loro una parabola: “Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: 30quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina. 31Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. 32In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto avvenga. 33Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
34State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; 35come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. 36Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo.”
37Durante il giorno insegnava nel tempio; la notte, usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. 38E tutto il popolo di buon mattino andava da lui nel tempio per ascoltarlo.
Vangelo secondo Luca, Capitolo 21




SOCIETA’ SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
di Daniela Zini

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA’
di Daniela Zini


Quando Il Codice da Vinci uscì, nel 2003, senza dubbio alcuno, Dan Brown sperava che il suo romanzo riscuotesse un qualche successo. Nel 1996, Brown si era buttato nell’impresa più rischiosa della sua vita: aveva lasciato il posto di professore di inglese alla prestigiosa Phillips Exeter Academy per fare lo scrittore a tempo pieno.
Il desiderio di scoprire segreti è, profondamente, radicato nell’uomo. Anche la mente meno curiosa è stimolata dalla prospettiva di pervenire a conoscenze che agli altri sono inaccessibili, ma la maggior parte di noi è indotta a soddisfare questo desiderio mediante la soluzione di enigmi artificiali ideati per nostro diletto.
La combinazione che Dan Brown crea tra il genere del giallo investigativo, il tema delle società segrete e le storie alternative si è rivelata una ispirazione per il famoso romanzo. Attraverso i riferimenti al mistero storico della società conosciuta come Priorato di Sion e l’inserimento di leggende tratte dalla storia dell’arte negli enigmi crittografici, Brown ha realizzato il sogno di scrivere un best-seller di portata gigantesca.
Sono pochi i casi in cui un romanzo ha stabilito un tale primato.
Il Codice da Vinci ha avuto un enorme effetto a livello sociologico. Il ricorso da parte dell’autore a temi eretici, come il matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, ha fomentato accesi e controversi dibattiti sulla vera storia del cristianesimo e, soprattutto, del cattolicesimo.
Il 15 marzo 2005, il Vaticano lanciò, perfino, una offensiva contro il best-seller di Dan Brown, che si è rivelata un attacco senza precedenti contro un’opera narrativa. Il cardinale Tarcisio Pietro Evasio Bertone [http://www.sueddeutsche.de/panorama/kardinalstaatssekretaer-bertone-maechtig-umstritten-1.1600868], accusò il romanzo di essere “un castello di menzogne”, definì la sua trama deplorabile e si appellò alle librerie cattoliche affinché ritirassero, immediatamente, il libro dai loro scaffali [http://www.theguardian.com/books/2005/mar/15/catholicism.religion, http://www.fedeecultura.it/davinci0.html, http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-06-18/bertone-tentativo-ripetuto-creare-123736.shtml?uuid=Ab2mDLuF].
Se fosse stato scritto un libro pieno di menzogne su Buddha o su Maometto, o se fosse uscito un romanzo che avesse manipolato la storia dell’Olocausto o della Shoah, che cosa sarebbe accaduto? Questo libro è un castello di menzogne.”
Tra il 1971 e il 1973, un miliardo e mezzo di dollari circa, in titoli e valori, invase il mercato monetario internazionale. Schiaccianti testimonianze provarono che almeno 14 milioni di dollari di questo stock fossero fluite nelle casse del Vaticano[2] di Paolo VI.
Conigliette di Playboy, un agente immobiliare ucciso, due funzionari tedeschi, il segretario al tesoro degli Stati Uniti John Bowden Connally Jr.[3], il cardinale Paul Casimir Marcinkus, il banchiere italiano Michele Sindona, il procuratore generale degli Stati Uniti Richard Gordon Kleindienst[4], il boss mafioso Vincent Rizzo erano alcuni dei personaggi della sconvolgente storia dei 14 milioni di dollari finiti nelle casse del Vaticano. 
Nel 1982, un nuovo scandalo coinvolse il Vaticano e questa volta il ruolo di Paul Casimir Marcinkus non poté essere ignorato.
Personaggi dei più svariati rackets internazionali, falsari, capi mafiosi, contrabbandieri di droga, finanzieri e uomini di successo, dignitari vaticani sono al centro dell’audace operazione finanziaria, cui si rifa il reportage.
Lo scandalo riguardava il Banco Ambrosiano di Milano, la banca privata più importante d’Italia, sull’orlo del collasso per prestiti non garantiti per un ammontare di 1250 milioni di dollari.



Michele Sindona

Ricorse il nome di Michele Sindona, mentre il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi[5], scomparve, all’improvviso, da Milano e fu trovato morto, il 18 giugno 1982, a Londra, sotto il Blackfriars Bridge [Ponte dei Frati Neri], le mani legate dietro la schiena e indosso alcuni mattoni [nelle tasche, uno anche nelle mutande], 15mila dollari e un orologio Phatek Philippe fermo all’1 e 52. Vennero rinvenuti anche un passaporto con le generalità modificate in Gian Roberto Calvini e un biglietto aereo per Rio de Janeiro.



Papa Paolo VI e Roberto Calvi

Licio Gelli e Roberto Calvi avevano investito danaro sporco nello IOR e nel Banco Ambrosiano per conto del boss mafioso Giuseppe Calò, che curava gli interessi finanziari del clan dei Corleonesi. A tale proposito, il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia dichiara:
Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile.”
Il Banco Ambrosiano era passato, da poco, sotto il controllo di quattro società panamensi, tramite la Cisalpine Overseas Bank di Nassau [http://www.philipwillan.com/portale/sites/default/files/Consulenza%20Calvi.pdf], nel cui consiglio di amministrazione figurava il cardinale Paul Casimir Marcinkus. Lo IOR stesso aveva garantito presso il Banco Ambrosiano dei dubbi prestiti latino-americani con lettere di patronage. Queste lettere garantivano la copertura del debito estero delle suddette società offshore per un altro anno a partire da quel momento. In cambio Calvi aveva firmato una manleva, con la quale si assumeva la responsabilità di tutte le conseguenze patrimoniali dannose relative al Banco Ambrosiano.
“È la galassia delle società panamensi – Astolfine, Bellatrix, Belrosa, Erin, Laramie, Starfiled –, registrate nel più accogliente dei paradisi fiscali mondiali e gestite dagli uomini di fiducia di Pierre Siegenthaler. Lo scopo era quello di riempire le scatole vuote di Panamá con i soldi scippati al Banco Ambrosiano. Costituire una società a Panamá era ancora più semplice che a Nassau. Il costo da sostenere era di soli 285 dollari. Con un capitale minimo queste società potevano indebitarsi per milioni di dollari.”[6]
Marcinkus si rese introvabile e i suoi collaboratori mostrarono agli investigatori italiani la lettera di Roberto Calvi, che sollevava da qualunque responsabilità la banca vaticana.
Il potere di Paul Casimir Marcinkus fu, fortemente, scosso.
Dopo dieci anni, era stato smascherato!   
Qui non si assolve né si giustifica Paul Casimir Marcinkus perché mancherebbero molti elementi necessari per darne un giudizio complessivo.
Qui si vuole rileggere alcuni fatti noti con una ottica diversa da quella abituale e questa nuova lettura permette di constatare due cose abbastanza rilevanti.
La prima è che lo IOR è stato comodo per molta gente, non escluse diverse banche italiane e una parte della classe politica di questo Paese e di altri.
La seconda è che il cardinale Marcinkus avrebbe potuto, tranquillamente, replicare di aver obbedito, sempre, ai suoi superiori, ma resta il fatto che ha goduto, almeno fino al 1980, di una libertà totale. Ha fatto ciò che ha voluto, credendo, probabilmente e temerariamente, di essere lui a muovere i fili del gameplay.
La vita di Paul Casimir Marcinkus non è né più né meno scandalosa di molte altre. A ben guardare, il problema non è neppure Marcinkus, ma lo IOR, la banca vaticana che non è riuscita a conciliare i principi necessariamente commerciali di una banca con quelle verità, cui la Chiesa si ispira. Il vero scandalo non è tanto Paul Casimir Marcinkus e la gestione che lui ha fatto della banca, ma la visione di quella parte allegra e spregiudicata delle finanze del Vaticano, che ha esultato perché il presidente della sua banca e i suoi più stretti collaboratori, Luigi Mennini e Pellegrino de Stroebel, l’avevano fatta franca con la Giustizia italiana. L’avevano fatta franca per questioni formali, non perché fossero innocenti.
E, per me, cristiana seppure non osservante, quella esultanza è una vergogna! 
Per i giudici di Milano, i 44 ettari della Città del Vaticano furono territorio inviolabile. Si guardò il cardinale Marcinkus dall’accettare i loro inviti, le loro convocazioni. Si degnò appena di rispondere con due memorie:
-          La prima, inviata alla commissione mista italo-vaticana, istituita, alla fine del 1982, per accertare le colpe del fallimento;
-          La seconda, spedita ai giudici, due anni dopo.
I soldi e il patrimonio del Vaticano sono, sempre, stati oggetto di curiosità più o meno interessate, talvolta, morbose, che non avrebbero oltrepassato un certo limite se si fosse amministrato quel patrimonio in modo discreto.
Non fu così!
Il presidente della banca vaticana attirò l’interesse del mondo intero sulla sua persona: i dettagli, le minuzie, i fatti apparentemente insignificanti divennero interessanti, oggetto di indagine, secondo il principio che la vita privata di un uomo pubblico è anch’essa pubblica.
Marcinkus non ha inventato nessun nuovo sistema di gestione economica, ma è stato inserito in una logica antecedente, nella quale, già, si muovevano le finanze vaticane: la logica del profitto con relativi vantaggi e inconvenienti. Tutt’al più Marcinkus esagerò ed esasperò quella logica. Oppure, forse, non dipese neppure da lui, ma dal fatto che il mondo era cambiato.
Se lo avesse fatto, cento anni prima, probabilmente, non vi sarebbe stato scandalo alcuno e lo avrebbero lasciato tranquillo. Credo, pertanto, che dovremmo essergli grati: con le sue avventatezze e le illegalità della banca che ha diretto, ci ha permesso, infine, di vedere, di scoprire ciò che, già, i suoi predecessori, con grande discrezione, facevano.        
Ricordo quanta importanza assegnasse papa Giovanni Paolo II al danaro per le inesauribili necessità finanziarie del Vaticano. Ripeteva quando si offriva l’occasione, che, solo con grandi risorse economiche, la Chiesa poteva consolidare il suo primato e continuare la sua opera di evangelizzazione. Non a caso amava citare la parabola dei talenti:     
“Beato l’uomo che teme il Signore.” [Salmo 127, 4]. Nella liturgia dell’odierna XXXIII domenica “per annum”, che ci prepara all’Avvento, ormai vicino, la Chiesa ci richiama a un vigile e dinamico impiego dei talenti che il Signore ha affidato a ciascuno di noi e ad essere generosi nella corrispondenza alle grazie e ai doni che Egli ci destina. Non sono degni del Signore, perciò, quella comunità o quel singolo individuo che, per paura di compromettersi, si rinchiudono in se stessi e si alienano dalla realtà di questo mondo. Nel Vangelo di oggi, abbiamo il tipico atteggiamento di colui che non mette a frutto i doni ricevuti: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, per paura andai a nascondere il tuo talento sotterra.” [Vangelo secondo Matteo, 25, 24-25].” [http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1981/documents/hf_jp-ii_hom_19811115_visita-parrocchia_it.html].
Quanta parte ha avuto lo IOR nella genesi del movimento sindacale polacco Solidarnosc?
Quali finanziamenti Marcinkus aveva indirizzato a Danzica e a Varsavia?
Il silenzio è un’arte, secondo il rivalutato insegnamento dell’abate Joseph Antoine Toussaint Dinouart[7], che morì alla vigilia della Rivoluzione Francese.
“Si deve smettere di tacere solo quando si abbia qualcosa da dire che valga più del silenzio.”

 papa Giovanni Paolo II e il cardinale Paul Casimir Marcinkus

Il silenzio ha concesso al cardinale Marcinkus di non soccombere e alla Chiesa di non ammetterne le scelleratezze finanziarie. Sotto il mirino di tutti, dentro e fuori il Vaticano, era riuscito a ritagliarsi uno spicchio di autonomia, guadagnandosi la riconoscenza di papa Giovanni Paolo II con i fondi inviati in Polonia. Sapeva di essere in tal modo sacrificabile, ma fino a un certo punto.
Gli aiuti alla Polonia sarebbero iniziati a metà degli anni 1970 e si sarebbero intensificati sempre più. Il cardinale Marcinkus, naturalmente, negava di aver partecipato non solo alle razzie di Roberto Calvi, ma anche agli interventi a favore della Polonia cattolica. Ma, era la stessa cronaca dell’epocale 1989 a smentirlo. Fu, infatti, in quel memorabile 1989 che il generale polacco Wojciech Jaruzelski si decise a concedere il pluralismo sindacale, che spianò la strada a Solidarnosc e alla sua plebiscitaria vittoria nelle elezioni politiche del 4 giugno. Gli aiuti vaticani determinarono il successo travolgente degli amici del papa, quali il devotissimo Tadeusz Mazowiecki, che divenne, in agosto, addirittura presidente del consiglio e scelse per la prima significativa uscita pubblica la parrocchia di Santa Brigida, a Danzica, culla spirituale di Solidarnosc, terminale polacco delle iniziative finanziarie di papa Woitila.
Dieci anni prima, Solidarnosc non esisteva.
In una Polonia stremata e poverissima, chi l’aveva sostenuto, nei momenti più terribili, se non la Roma di San Pietro?   
E chi era riuscito a divenire il presidente della Nazione, la domenica del 9 dicembre 1990, dopo aver sconfitto l’intelletttuale laico Mazowiecki e il chiacchierato uomo di affari Stan Tyminski, se non il devoto suddito di Woitila, l’elettricista Lech Walesa, Premio Nobel per la Pace 1983?
In Polonia, la situazione politica, agli inizi degli anni 1980, si faceva, di mese in mese, sempre più precaria, dopo la lunga esaltante estate dei cantieri Lenin di Danzica, quando 17mila operai osarono sfidare il regime per strappare le prime significative conquiste democratiche.
Lech Walesa, leader degli operai polacchi, era consapevole dell’irrepetibilità di tale esperienza: il movimento operaio libero doveva gestire saggiamente l’incredibile, imprevista vittoria. Un patrimonio sindacale e politico unico, prezioso.
Tutto il mondo guardava preoccupato a Danzica: quei 18 giorni di scioperi e occupazioni dei cantieri e delle fabbriche, iniziato il 14 agosto 1980, fecero pensare al peggio.
L’allarme cresceva, di ora in ora, si temeva una pesante reazione sovietica, l’ombra della normalizzazione praghese e la paura dei carri armati russi mise in piedi una strana consorteria internazionale, che invitava tutti, gli operai del cattolico Walesa e i burocrati del regime di Edward Gierek, a mantenere la calma e ad applicare la ragione.
Dalla cancelleria di Bonn, dal quartiere generale della NATO, dalla Casa Bianca, dalla Santa Sede, il coro fu più o meno unanime: moderazione.  Il peso e gli sforzi della Chiesa furono fondamentali nello scontro con il regime filosovietico di Varsavia.
Ben lo sapeva Marcinkus, al quale i genitori avevano imposto, quale secondo nome, quello del Santo Patrono della Polonia e della Lituania, Casimiro di Cracovia [la città di papa Giovanni Paolo II], terzogenito di Casimiro IV, re di Polonia e di Lituania, e della regina Elisabetta d’Austria, canonizzato, nel 1521 da papa Leone X.  
Il 1981 e il 1982 furono due anni memorabili.
L’assedio di Calvi da parte della magistratura, della banca centrale e della borsa valori durava da tempo e divenne frenetico nella primavera del 1981. Michele Sindona era, già, stato condannato negli Stati Uniti e, proprio in quella stagione, ebbe una condanna a sette anni di prigione per l’autosequestro. In quel periodo divenne particolarmente acceso anche lo scontro tra opposte fazioni per consegnare Sindona all’Italia.
La P2 o una parte di essa stava affondando miseramente e la lotta nella massoneria nazionale e internazionale per scaricarla o difenderla divenne selvaggia.
Licio Gelli, che, soltanto un anno prima, dalle pagine del Corriere della Sera, somministrava ricette per guarire il grande malato, l’Italia, era scappato come un qualsiasi delinquente.
Il 5 ottobre 1980, Maurizio Costanzo [tessera P2 n. 1819], sulle pagine del Corriere della Sera, confezionò una intervista a Licio Gelli, nella quale si sintetizzavano gli obiettivi del Piano di Rinascita Democratica [http://it.wikipedia.org/wiki/File:Piano_di_rinascita_democratica_della_Loggia_P2.djvu][8].


Alla data, in cui uscì questo articolo – otto settimane dopo la strage alla stazione ferroviaria di Bologna, la mattina di sabato 2 agosto 1980 – mancavano ancora cinque mesi alle perquisizioni a Castiglion Fibocchi e a Villa Wanda. Perquisizioni che portarono alla scoperta della lista degli iscritti alla Loggia P2, da cui emergerà che intervistatore e intervistato erano “fratelli” di tessera.
“La sinistra di oggi non farebbe paura alla P2. La P2 non sarebbe nemmeno nata per difendersi dall’attuale Partito Comunista. Con la P2 avevamo l’Italia in mano. Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia. Noi non abbiamo mai voluto attaccare, eravamo invece una sentinella, attenta a controllare che non emergesse il Partito Comunista.”
Lo scompiglio scatenatosi, in Polonia, dal risveglio che seguì la elezione di Wojtila al pontificato non poteva essere più grande.
Sette giorni prima dell’arresto di Calvi, venti prima della pubblicazione della lista degli appartenenti alla Loggia P2, ventiquattro dopo l’ultima condanna inflitta a Michele Sindona e cinquantasei dopo la fuga di Licio Gelli da Arezzo, il ventitreenne turco Mehmet Ali Agca, sparò a Karol Wojtila in piazza San Pietro. Fu condannato all’ergastolo, ma il processo non produsse nessuna prova definitiva che confermasse la tesi che il reato di Agca fosse il frutto di un complotto internazionale.
Il processo lasciò solo dubbi.
Probabilmente, non si saprà mai se i tre scenari – Polonia, P2, disputa per il Banco Ambrosiano – fossero in rapporto tra loro.
L’ambiguità e la bipolarità dottrinali del cattolicesimo sulla questione del danaro non è altro che la proiezione dell’ambiguità costitutiva del messaggio cristiano in quanto ideologia e simbolismo del potere. La formula topica che meglio esprime la natura ibrida del cristianesimo ecclesiale è ben nota, anche se, forse, poco meditata: la Chiesa di Cristo sta nel mondo, con il mondo, ma non è di questo mondo. Questa è la cerniera di ambiguità, matrice di tutta la sua versatilità operativa, oltre che rappresentazione della grande trovata metodologica della dogmatica cattolica, vale a dire l’unità dei contrari, la coincidentia oppositorum, anche se si tratta di una dialettica elementare e povera di mediazioni.
La perdita degli Stati Pontifici costituisce il capovolgimento economico più importante della Chiesa negli ultimi secoli. Da un punto di vista storico, tutti riconoscono che fu un disastro inevitabile quanto favorevole, perché la Chiesa avrebbe smesso di essere una potenza politica e i suoi scopi spirituali sarebbero passati in primo piano. Ma, dal punto di vista economico, venne tutto capovolto. Non vi erano più regioni da amministrare e neppure entrate provenienti dagli Stati Pontifici. Ma anche se il patrimonio materiale ed economico si era ridotto a ben poca cosa, tuttavia, era costoso fare funzionare ciò che restava… 
Dal 1870 al 1929, anno in cui l’Italia e il Vaticano firmarono la pace, la Santa Sede visse ossessionata dall’idea di ricostruirsi un patrimonio, di trovare una nuova fonte di entrate che le consentisse di sopravvivere. Sui 44 ettari, cui si era ridotto lo Stato Pontificio, in buona parte occupati da immobili, si poteva produrre ben poco. Inoltre, il nuovo Governo, insediatosi a Roma, non solo aveva espropriato la maggioranza dei beni della Chiesa, ma le aveva proibito ogni attività economica in Italia. La mancanza di identità non poteva essere più grande: il Vaticano somigliava ancora a uno Stato, ma non ne aveva nessuno dei vantaggi, come, a esempio, i sistemi di produzione, le imposte, i meccanismi finanziari per regolare i redditi. Fu, dunque, logico e naturale che, durante quegli anni, vivesse di elemosina, di quell’Obolo di San Pietro, che alcuni Paesi cattolici avevano reintrodotto con la progressiva perdita degli Stati Pontifici. Vivere di elemosina è assai meritevole, ma non ha, mai, consentito di fare progetti stabili e, ancora meno, di amministrare uno Stato, per piccolo che sia e il governo centrale di una comunità di fedeli così larga. Forse, quello era il momento in cui la Chiesa avrebbe potuto trasformarsi interamente per privilegiare la sua realtà spirituale. Ma non lo fece e si limitò a cercare nuove strade per risolvere soltanto i problemi economici. L’acquisto di titoli, azioni e obbligazioni, divenne l’unico sbocco: forse, era l’unica strada che sembrava possibile a una Chiesa abituata a vivere da potenza.     
Si intraprese, così, la strada della borsa valori.
Sei anni dopo l’entrata degli italiani a Roma, il cardinale Giacomo Antonelli aveva ricostruito un patrimonio di 30 milioni di lire, una fortuna per l’epoca. È la somma, che, morendo, nel 1876, lasciò in beni mobili, conti correnti e titoli. Tutto era stato accumulato con donazioni ed eredità fittizie, attraverso prestanome e investimenti all’estero, per barcamenarsi tra le leggi italiane. Per sopravvivere la Chiesa era ricorsa alla speculazione finanziaria, entrando nella logica del profitto, fatta di alti e bassi e anche degli inevitabili scandali e durata fino a oggi.
Papa Leone XIII distinse e separò l’amministrazione del patrimonio – i 30 milioni del cardinale Antonelli – da quella dell’Obolo di San Pietro. Quando morì, Pio X riunificò il due capitoli di entrata e tutti i papi successivi sarebbero intervenuti per riformare le amministrazioni, crearne di nuove, sopprimere le vecchie, per centralizzare o decentrare la chiave della cassaforte. Ma non si riuscì a evitare che l’instabilità della finanza internazionale di quello scorcio di secolo riducesse, a poco a poco, il patrimonio del Vaticano fino al punto di dovere ricorrere ai crediti bancari per poter sopravvivere. 
L’11 dicembre 1925, papa Pio XI, con l’Enciclica Quas Prima  [http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas_it.html], istituiva la festa di Cristo Re e spiegava che il regno di Cristo è principalmente spirituale, Gesù stesso lo aveva detto più volte, in particolare davanti a Ponzio Pilato:

Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.”
[Vangelo secondo Giovanni 18, 36]

Ma Pio XI affermava altresì:
“D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano.”
“Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: “Allontanato, infatti - così lamentavamo - Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali.”,
infine, concludeva:
“È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia” [Lettera ai Romani 6, 13] offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione.”
I Patti Lateranensi maturarono in questo contesto. L’11 febbraio 1929, cinquantanove anni dopo la caduta di Roma, l’Italia e il Vaticano mettevano fine a tutte le controversie sul potere temporale dei papi e sui beni ecclesiastici persi con Roma. Per compensare la Santa Sede delle perdite subite, lo Stato italiano le accordava un miliardo in buoni del tesoro pubblico al 5% di interesse annuo e 750 milioni di lire in contanti.
Pio XI spese una parte di questo danaro per costruire seminari e parrocchie in Italia e per restaurare e riorganizzare alcune istituzioni del Vaticano. Tuttavia, la parte più consistente di quel capitale fu affidata a una commissione di tre persone, chiamata Amministrazione Speciale della Santa Sede. Bernardino Nogara, uno dei tre membri, investì la somma per un primo terzo in azioni industriali italiane – Bastogi, Beni Stabili, Sip, Immobiliare, ecc. –, per un secondo terzo in immobili e per il restante terzo in valuta e oro. In confronto a Nogara, i finanzieri vaticani, che a lui sono succeduti, sono stati dei nanetti, perché fu grazie a lui che la finanza papale si lanciò in pieno nella logica del profitto.    
Oltre all’amministrazione diretta da Bernardino Nogara e a un’altra che curava il patrimonio ricostituito dal cardinale Antonelli, vi era un piccolo organismo o istituzione, che amministrava un fondo segreto creato da Leone XIII, l’11 febbraio 1887, affidato a una Commissione ad pias causas, con il compito di “serbare e amministrare i capitali delle fondazioni pie”. Nel 1904, Pio X modificò il regolamento dell’organismo e lo chiamò Commissione Cardinalizia per le Opere di Religione, estendendone l’attività da Roma a tutta l’Italia. Quattro anni più tardi, la Congregazione del Concilio, da cui dipendeva l’amministrazione del fondo segreto stabilì che le donazioni fatte al papa potessero essere amministrate direttamente dai vescovi locali. Sarebbe stato logico, a questo punto, sopprimere la commissione che amministrava il fondo segreto, poiché ne veniva cancellata la funzione.
Ma non fu così! 
La situazione europea, sempre più instabile, la Prima Guerra Mondiale e il Nazionalsocialismo tedesco convinsero il papa che un fondo segreto poteva tornare utile per aiutare in modo diretto ed efficace i cattolici dei Paesi in difficoltà. Così, il 10 febbraio 1934, nasceva una commissione di prelati per amministrare le Opere di Religione, la quale fu chiamata Amministrazione delle Opere di Religione e ricevette un nuovo regolamento da Pio XII, nel 1941.
Il 27 giugno 1942, Pio XII dava vita all’Istituto per le Opere di Religione [IOR], così com’e oggi.
L’Antico Testamento condannava senza mezze misure l’usura, vale a dire qualsiasi eccesso nella restituzione di quanto prestato, fossero cose o soldi.

“Se tu presti del danaro a qualcuno del mio popolo, al povero ch’è teco, non lo tratterai da usuraio; non gl’imporrai interesse.”
[Esodo 22, 25]

35 Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è privo di mezzi, aiutalo, come un forestiero e inquilino, perché possa vivere presso di te. 36 Non prendere da lui interessi, né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere il tuo fratello presso di te. 37 Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. 38 Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto, per darvi il paese di Cànaan, per essere il vostro Dio.
[Levitico 25, 35-38]

19 Non farai al tuo prossimo prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualsiasi cosa che si presta a interesse. 20 Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo prossimo, affinché il Signore, il tuo Dio, ti benedica in tutto ciò cui metterai mano nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso.
21 Quando avrai fatto un voto al Signore tuo Dio, non tarderai ad adempierlo poiché il Signore, il tuo Dio, te ne domanderebbe certamente conto e tu saresti colpevole; 22 ma se ti astieni dal fare voti, non commetti peccato.”
[Deutoronomio 23, 19-21]

L’usura è peccato.
Eppure, la Storia della Chiesa è tutta una sfida pratica di questa condanna. Parallelamente alla proibizione radicale del prestito con interesse assimilato all’usura, la Chiesa e i suoi fedeli trasgrediscono, quotidianamente, con la più grande disinvoltura, il tabù ereditato.
Ricordiamo la storia di Callisto[9], il quale, aperto, presso la piscina publica, un banco di depositi e cambio con il finanziamento del suo padrone, un ricchissimo cristiano di nome Carpoforo, imparentato con la famiglia dell’imperatore Comodo, vide, progressivamente, aumentare la propria clientela, costituita, essenzialmente, da cristiani.
È la prima “banca” dei cristiani.
Come ricordava Domenico del Rio[10], da papa Callisto fino ai Rothschild, il pontificato romano ha agito, in efficace simbiosi, con gli usurai, soprattutto con gli usurai ebrei. Al contempo, le norme canoniche della Chiesa continuavano a rifiutare il prestito con interesse in quanto peccato. Un grande canonista del secolo XI, Pedro Damián, proclamava, come portavoce autorizzato della Chiesa:
“Prima di ogni altra cosa liberatevi dai soldi, perché Cristo e il danaro non possono stare insieme in nessun posto!”
Alzava la voce anche contro la simonia, l’orribile peccato di introdurre la corruzione del danaro nel cuore della successione apostolica. La dottrina ecclesiastica avrebbe mantenuto, sempre, la proibizione del prestito con interesse, la speculazione sul danaro produce altro danaro e, nel codice canonico medievale, il Decretum [1140][11] di Graziano[12], si afferma che è difficile evitare il peccato in qualsiasi processo di compravendita. Ma la Chiesa era su quella strada. Tuttavia, la crescita dell’economia urbana – che è, essenzialmente, una economia di danaro – costrinse la Chiesa a riconsiderare una proibizione che lei stessa non aveva mai rispettato e che urtava, ora, con una società cementata sul danaro e sul lucro economico. Sarebbe lungo tratteggiare, anche sommariamente, la storia di questa evoluzione. Indico soltanto che, per molti secoli, sia la Chiesa sia i principi cristiani trasferirono buona parte del loro senso di colpa per l’uso e il fomento sistematico del prestito con interesse, attraverso l’ingegnoso meccanismo di far sì che fossero i giudei – reprobi di Cristo, se ve ne sono, secondo la Chiesa storica – a occuparsi quasi in esclusiva delle questioni finanziarie per eccellenza. Già Bernardo di Chiaravalle e la sua epoca tendevano a identificare il prestito con interesse con l’attività speculativa propria degli ebrei. Si supponeva che gli “strozzini cristiani” fossero giudei conversi. La doppiezza di questo spostamento della colpevolezza rappresenta un curioso esempio di come la Chiesa abbia, sempre, praticato la tecnica di creare vittime propiziatorie per i suoi peccati. 
L’essenziale di questa breve perorazione consiste nel cogliere l’ambiguità teorico-pratica della Chiesa di fronte al problema dell’uso del danaro. L’ambiguità è precisamente la condizione che fa possibile tutto il tessuto dottrinale e dogmatico del cattolicesimo e della sua etica polisemica. Detta ambiguità procede dalla natura ibrida del messaggio neotestamentario, in quanto integrato dalla contrapposizione fondamentale tra uno escatologismo imminente – ereditato dal messianesimo tardivo del periodo intertestamentale – e una Chiesa inserita, in modo permanente, in un mondo duraturo e immediatamente configurata come potere nel concerto politico dei poteri. Un cristianesimo, così articolato, poteva condannare l’uso del danaro usato per produrre, da solo, altro danaro, evocando la tradizione delle società pastorali dell’Antico Testamento e assumendo la credenza in un finale immediato dei tempi con l’arrivo del Regno; allo stesso tempo, tuttavia, poteva e doveva praticare l’uso del danaro a scopo di arricchimento, obbedendo alle ferree esigenze della realtà di un mondo secolare e pagano, nel quale doveva inserirsi per esercitare il suo dominio temporale, il suo potere.
Questa radicale immedesimazione della Chiesa nel concerto dei poteri temporali e il suo graduale consolidamento come potere eguale, inizialmente, e superiore, successivamente, al potere civile, non è datata, come erroneamente si dice, dalla cosiddetta “perversione costantiniana”, ma è iniziata nella Storia del I secolo della nostra era e raggiunge l’apogeo nel secolo IV. Qui, precisamente, nell’articolazione della escatologia con la curabilità, trova radicamento la procreazione dell’antinomia che racchiude la formula:
“In questo mondo, ma non di questo mondo.”
e racchiude anche tutte le contraddizioni costitutive delle dottrine cristiane così come le forgiò la Chiesa antica. La evidente ipocrisia con la quale la Chiesa romana trattò, nella teoria e nella pratica, la questione del danaro è, diciamo così, strutturale. Non appartiene tanto all’ordine psicologico, ma a quello logico. Corrisponde a quello che William Barrows Dunham chiamava, riferendosi alla Chiesa, la logica dell’organizzazione. O, concernente il danaro, la logica del beneficio. Non dipende dalle distrazioni o dalle deviazioni di questo o di quello, di un Giacomo Antonelli[13] o di un Paul Casimir Marcinkus, che la Chiesa si corrompa con l’uso del danaro, ma è il risultato necessario di una Chiesa, formatasi come Monarchia Assoluta con la sua struttura gerarchica sacramentale, giuridica e amministrativa per agire quale grande potere nel concerto mondiale di poteri.
Allo stesso modo, come accadde nell’URSS con l’idea di Karl Marx, nella Chiesa Romana, nella sua realtà di fatto e, non sempre, nella sua retorica, l’organizzazione divorò il messaggio cristiano, ibrido, già, in germe e con il verme della corruzione nelle sue viscere.
Quando una istituzione si considera in possesso di una verità totale, esclusiva ed escludente e, allo stesso tempo, si configura come un grande potere temporale è impossibile, perché va contro la natura delle cose, che, partendo da questa presunta verità, non si muova, irresistibilmente, verso il dogmatismo di considerare legittimo qualsiasi mezzo creda opportuno per condurre alla realizzazione dei fini postulati da tale verità.
Così succede con il danaro e le alte forme pratiche di potere della Chiesa di Roma.   
E io che credevo che l’epoca dei Borgia con Alessandro VI, nel 1492, fosse un’epoca di intrighi straordinari nella Storia della Chiesa.
Come vedete, sono soggetta all’errore, talvolta!  
Per contro, io non penso di fare errore dicendo che la Chiesa è lontana dall’avere la testa tra le nuvole, obnubilata in una pura contemplazione.
Ha piuttosto i piedi ben piantati a terra, in una lotta per il potere a livello internazionale.
Nel giugno del 2013, lo IOR è ancora una volta toccato da un altro scandalo di riciclaggio di danaro [http://italiadallestero.info/archives/18648]:
“Ite missa est.”
O piuttosto:
“Alea iacta est!”



Daniela Zini
Copyright © 20 ottobre 2014 ADZ



[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2]  La Città del Vaticano, che copre una superficie di 0,44 km2 [44 ettari], è sede di tre istituti finanziari:
-           l’APSA [Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica], che è, in pratica, la Banca Centrale della Città del Vaticano, svolge funzioni di tesoreria e gestisce gli stipendi dello Stato. Tra i suoi compiti vi è, anche, quello di coniare moneta; 
-           la Prefettura per gli Affari Economici;
-           lo IOR [Istituto per le Opere di Religione], di cui, ufficialmente, l’unico azionista è il papa. Lo IOR è fondato, nel 1887, da Leone XIII, con il nome di Commissione per le Opere Pie, al fine di convertire le offerte dei fedeli in un fondo facilmente smobilizzabile. La prima riforma delle finanze vaticane risale al 1908, quando su iniziativa di papa Pio X l’istituto assunse il nome di Commissione Cardinalizia per le Opere di Religione. La trasformazione in una banca vera e propria avviene nel 1941.

[3] John Bowden Connally Jr. fu governatore del Texas, dal 1963 al 1969. A Dallas, fu ferito nell’attentato che costò la vita a John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963, [https://www.youtube.com/watch?v=cP04_lGjkO0]. L’11 febbraio 1971, il presidente americano Richard Nixon nominò Connally segretario al tesoro, funzione che ricoprì fino al 12 giugno 1972. È in quella veste, che, a una delegazione europea, preoccupata delle fluttuazioni del dollaro americano, Connally rispose:
“Il dollaro è la nostra moneta, ma è vostro il problema.”

[4] Richard Gordon Kleindienst fu amico e confidente di William Hubbs Rehnquist, giudice capo della Corte Suprema degli Stati Uniti.

[5] Il 2 febbraio 1989, Clara Canetti, la vedova di Calvi, nel corso di una puntata della trasmissione televisiva Samarcanda affermò che il marito le avesse confidato che il vero capo della Loggia P2 fosse Giulio Andreotti:
“Mio marito mi disse che Ciarrapico gli aveva fatto dei discorsi minacciosi. Non mi spiegò in cosa consistessero. Quel che è certo è che Roberto in più di un’occasione mi disse di essere rimasto turbato da alcuni ragionamenti fatti dall’onorevole Andreotti e mi riferì che Andreotti e Ciarrapico gli facevano discorsi carichi di minacce.”  [http://books.google.it/books?id=9dRZODoB-xUC&pg=PA159&lpg=PA159&dq=samarcanda+clara+canetti+calvi&source=bl&ots=AcEHN_QcE-&sig=VvV6MS3WlpaEvflGQkhLyVENuMY&hl=it&sa=X&ei=KaxDVPilGoLhauy9gqAN&ved=0CEYQ6AEwBg#v=onepage&q=samarcanda%20clara%20canetti%20calvi&f=false, http://archiviostorico.corriere.it/1993/aprile/02/Ciarrapico_minaccio_Calvi_mio_marito_co_0_9304022958.shtml, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1989/02/03/la-vedova-calvi.html].

[6] Ferruccio Pinotti, Poteri forti.
[7]Il primo grado della saggezza è sapere tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso.”
L’art de se taire
fu pubblicato a Parigi nel 1771. L’abate Joseph Antoine Tousaint Dinouart [[1716-1786] è tra quegli ecclesiastici “mondani” e poligrafi del XVIII secolo. Scrisse sui più svariati argomenti, soprattutto sulle donne, compresi rifacimenti di opere altrui che gli guadagnarono l’epiteto di Alessandro dei plagiari, e pubblicò, nel 1749, un Trionfo del sesso, a causa del quale entrò in grave attrito con la sua gerarchia.

[8] Il Piano di Rinascita Democratica venne ritrovato e sequestrato, nel 1982, nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio Gelli, con il memorandum sulla situazione politica in Italia. Fu pubblicato negli atti della commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2.

[9] Callisto nacque, intorno agli anni 160-170 d.C., da un certo Domizio, cristiano della condizione servile della Regio XIV della città, l’attuale Trastevere. Coinvolto, dopo una serie di speculazioni sbagliate, nel fallimento di alcune imprese equivoche e non riuscendo più a far fronte ai suoi impegni finanziari, Callisto preferì fuggire da Roma. Scoperto a Porto, lo schiavo fuggitivo venne riconsegnato al suo legittimo proprietario, che lo gettò nel pistrinum, il luogo in cui gli schiavi erano condannati a girare una enorme macina di mulino. Poi, spinto con ogni probabilità dal desiderio di liberarsi dei creditori di Callisto, che si rivolgevano a lui per riavere il denaro perduto, Carpoforo mise lo schiavo di fronte alle sue responsabilità, e, pur seguitando a mantenerlo alle proprie dipendenze, lo liberò. Implicato in torbide vicende con la colonia ebraica di Roma, Callisto venne, nuovamente, arrestato e, dopo regolare processo, venne condannato ad metalla, ai lavori forzati, nelle miniere di Sardegna. Fortunatamente, una delle concubine dell’imperatore Commodo, Marcia, era una simpatizzante dei cristiani e si era conquistata una certa influenza sull’imperatore, tanto da riuscire a combinare, nel 190 d.C., un incontro tra il capo della comunità di Roma, papa Vittore, e l’imperatore.
Fu un incontro davvero storico!
Papa Vittore si recò al Palatino con l’elenco dei nomi dei cristiani detenuti in Sardegna per chiederne la scarcerazione e Commodo ne firmò la liberazione. Ma, per uno strano incidente, il nome di Callisto non figurava nell’elenco. E, quando Giacinto, il prete messaggero di Marcia, arrivò in Sardegna, Callisto lo supplicò di aiutarlo. Giacinto, a sua volta, convinse il governatore che il prigioniero fosse amico personale di Marcia.
Rientrato in Italia, Callisto dovette impegnarsi, per esplicita ingiunzione del papa, a non rimettere piede a Roma e a stabilirsi ad Anzio. Il successore di Vittore, Zefirino, al contrario, non solo fece richiamare Callisto da Anzio, revocando le disposizioni date in materia dal predecessore, ma lo volle accanto a sé come diretto collaboratore e quindi, ordinatolo diacono, gli affidò la gestione e il controllo del primo cimitero sotterraneo collettivo, che la Chiesa aveva aperto tra il II e il III miglio della Via Appia. La serietà dimostrata nell’espletamento delle sue nuove funzioni, la competenza e le indubbie doti organizzative di cui dette prova nel corso del lungo pontificato di Zefirino, qualificandosi come uno degli esponenti più ragguardevoli e influenti del clero romano, fecero sì che Callisto fosse chiamato a succedergli, nel 217 d.C.
La favorevole politica dei Severi verso le classi inferiori rese più facile costituire anche alcune proprietà ecclesiastiche, sotto la copertura di associazioni funerarie. 
[10] Domenico Del Rio è stato vaticanista de La Repubblica, dal 1976 al 1993, ma, in precedenza, era stato frate minore con il nome di Evangelista.

[11] Graziano, definito il padre del diritto canonico è autore del cosiddetto Decretum [Decretum Gratiani o Decretum Magisteri Gratiani o, più propriamente, Concordia Discordantium canonum].

[12] Dante Alighieri colloca Graziano nel X canto del Paradiso, nel Cielo del Sole, dove San Tommaso d’Aquino lo presenta come brillante esponente degli Spiriti Sapienti:
Quell’altro fiammeggiare esce del riso
Di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
Aiutò sí che piace in paradiso.
L’altro ch’appresso adorna il nostro coro,
Quel Pietro fu che con la poverella
Offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto X, vv. 103-108
[13] Giacomo Antonelli era nato, a Sonnino, sui Monti Musoni, il 2 aprile 1806. Nella primavera del 1852 – la cronaca di Nicola Roncalli prendeva nota alla data del 30 marzo – girava, a Roma, una poesia a stampa intitolata Il Dagherrotipo, che faceva il ritratto di Giacomo Antonelli:  

Arcigno, rio, saracinesco muso,
Sicario infame, a nordici flagello,
Poiché fedel conservi il patern’uso,
Pur se’ glorioso, o perfido Antonelli,
Degno ministro, anzi padrone intruso
Del più vil dei vilissimi ribelli
Che Papa ha nome e che sì ben t’abbraccia
O arcigna, ria, saracinesca faccia.
Nicola Roncalli, Diario dall’anno 1849 al 1870, Roma, Torino, Bocca, 1884

Del componimento vi è poco da dire: è un concentrato di insulti al cardinale e al papa. Serve a sapere quanto potesse essere odiato Antonelli dai pochi repubblicani rimasti a Roma e, probabilmente, non solo da loro.