il prossimo 20 ottobre, qui:
SOCIETA' SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA TRIPLICE INTESA
di Daniela Zini
Premetto che non sono una persona superstiziosa. Non porto in tasca
amuleti, zampe di coniglio (che schifo, tra l’altro!), sale o altre cose
di tal fatta, credo fermamente nell’inutilità dell’esistenza di Paolo
Fox e sono profondamente convinta che trarre predizioni dallo studio
degli astri sia utile quanto analizzare le forme dei cerchi nel grano o
delle onde sulla sabbia.
Quindi preparatevi, sarò molto, ma molto cattiva…
“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In
politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was
planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
para Lazzaro
“Un
amigo es la mano que despeina tristezas.”
Gustavo
Gutierrez Merino
Cuando todo me parece imposible,
horrible e inalcanzable, pienso en Tu sonrisa y la fuerza que me da, y de
repente todo es posible.
Un día como hoy, hace un año me
pediste que fuera Tu Amiga.
Desde ese momento mi vida cambió.
Te fui conociendo poco a poco y me di
cuenta de que eres una persona excepcional y diferente a las demás.
Un año se cumple hoy y a pesar de
nuestras diferencias, l'Amistad siempre ha prevalecido. En nuestra Amistad he
aprendido mucho y me has enseñado a ver claramente mis defectos y cómo y porqué
debo mejorarlos.
Mi Amigo gracias por Tu paciencia y
comprensión; se que no soy fácil pero gracias a Dios siempre has mantenido la
calma.
Quisiera decirte tantas cosas, de mil
formas distintas para que T e des cuenta de lo mucho que te respeto, pero no se
como hacerlo.
Espero que nuestra Amistad perdure y
que con el paso de los años se fortalezca mas. Que a tua vida seja repleta de
emoções, alegrias e conquistas.
¡Feliz aniversario,Amigo especial !
Roma, 20 octubre 2014
D
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela
Zini
Moi
Daniela Zini
J’ai dû naître plus loin, dans un passé plus vieux,
Sur les eaux écumeuses et blanches,
Quand l’Univers était un volcan en fusion,
A l’aube incertaine d’un jour
Tout ruisselant de flamme, cendre et lapilli.
Telle une rivière printanière en crue,
Ma vie a répandu des fleurs et des parfums.
De moi je laisse, dans les remous des vers,
La chaleur des larmes qui les a vu fleurir,
La marque d’une lame insinuante et dure.
Mes vers,
Soyez des fleuves !
Allez-en vous élargissant !
Qu’on sache combien j’ai aimé !
Je ne souhaite pas d’éternité plus douce.
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga
ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che
vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo
iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben
presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini
3. LA TRIPLICE INTESA
“Quando avranno inquinato
l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato
l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro
accumulato nelle loro banche.”
Toro Seduto
“Forse
oggi farà bene a tutti noi pregare per tanti bambini e ragazzi che ricevono dai
loro genitori pane sporco: anche questi sono affamati, sono affamati di
dignità! Pregare perché il Signore cambi il cuore di questi devoti della dea
tangente e se ne accorgano che la dignità viene dal lavoro degno, dal lavoro
onesto, dal lavoro di ogni giorno e non da queste strade più facili che alla
fine ti tolgono tutto”.
8
novembre 2013
Papa
Francesco I
“Io so,
noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori.
Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della
Cassazione o un’inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della
responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e
politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l’assessore, il
primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un
fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s’incontrano.
È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È
il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un
estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche
parole: raccontare quel che posso documentare.”
Lirio
Abbate
Tra il 1971 e il 1973, un miliardo e mezzo
di dollari circa, in tutoli e valori, invase il mercato monetario
internazionale. Schiaccianti testimonianze hanno provato che almeno 14 milioni
di dollari di questo stock fluirono nelle casse del Vaticano.
Personaggi dei più svariati rackets
internazionali, falsari, capimafia, contrabbandieri di droga, finanzieri e
uomini di successo, dignitari vaticani furono al centro dell’audace operazione
finanziaria alla quale il reportage si rifa.
I soldi e il patrimonio del Vaticano sono,
sempre, stati oggetto di curiosità più o meno interessate, talvolta, morbose,
che non avrebbero oltrepassato un certo limite se si fosse amministrato quel
patrimonio in modo discreto.
L’ambiguità e bipolarità dottrinali de
cattolicesimo nella questione del danaro non è altro che la proiezione
dell’ambiguità costitutiva del messaggio cristiano in quanto ideologia e
simbolismo del potere. La formula topica che meglio esprime la natura ibrida
del cristianesimo ecclesiale è ben nota, anche se, forse, poco meditata: la
Chiesa di Cristo sta nel mondo, con il mondo, ma non è di questo mondo. Questa
è la cerniera di ambiguità, matrice di tutta la sua versatilità operativa,
oltre che rappresentazione della grande trovata metodologica della dogmatica
cattolica, vale a dire l’unità dei contrari, la coincidentia oppositorum, anche se si tratta di una dialettica
elementare e povera di mediazioni.
L’Antico Testamento condannava senza mezze
misure l’usura, vale a dire qualsiasi eccesso nella restituzione di quanto
prestato, fossero cose o soldi.
“25 Se tu presti del denaro ad alcuno
del mio popolo, al povero che è con te, non lo tratterai da usuraio; non gli
imporrai alcun interesse.”
Esodo
22, 25
“35
E quando il tuo fratello sarà impoverito, e le sue facoltà saranno scadute
appresso di te, porgigli la mano, forestiere o avveniticcio che egli si sia;
acciocchè possa vivere appresso di te. 36
Non prender da lui usura nè profitto; e abbi timore dell’Iddio tuo, e fa’ che
il tuo fratello possa vivere appresso di te. 37
Non dargli i tuoi danari ad usura, nè la tua vittuaglia a profitto. 38
Io sono il Signore Iddio vostro, che vi ho tratti fuor del paese di Egitto, per
darvi il paese di Canaan, per essere vostro Iddio.”
Levitino
25, 35-38
“19
Non farai al tuo fratello prestiti a
interesse, né di danaro, né di viveri, né di qualsivoglia cosa che si presta a
interesse. 20Allo
straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello; affinché
l'Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutto ciò a cui porrai mano, nel paese
dove stai per entrare per prenderne possesso. 21Quando
avrai fatto un voto all'Eterno, al tuo Dio, non tarderai ad adempirlo; poiché
l'Eterno, il tuo Dio, te ne domanderebbe certamente conto, e tu saresti
colpevole; 22ma
se ti astieni dal far voti, non commetti peccato.”
Deutoronomio
23, 19-21
L’usura era peccato.
Eppure, la Storia della Chiesa è tutta una
sfida pratica di questa condanna. Parallelamente alla proibizione radicale del
prestito con interesse assimilato all’usura, la Chiesa e i suoi fedeli
trasgrediscono, quotidianamente, con la più grande disinvoltura, il tabù
ereditato.
Ricordiamo la storia di Callisto, liberto
romano, cristiano e direttore della banca di Carpoforo. I suoi clienti
creditori erano cristiani; ma, un giorno, decise di prestare soldi anche ai
giudei, i quali non gli restituirono i prestiti avuti.
Carpoforo si adirò e lo punì.
Ma, un giorno, di sabato, Callisto decise
di presentarsi alla sinagoga, durante le preghiere, per reclamare i suoi
crediti. I giudei lo espulsero a bastonate e le autorità romane, sempre gelose
dell’ordine pubblico, lo condannarono a lavorare nelle miniere della Sardegna.
Fortunatamente, Marcia, la bella concubina dell’imperatore Commodo, ottenne la
libertà di Callisto da papa Zeferino e, alla morte di questi, fu eletto, a sua
volta, papa, quale quindicesimo successore di Pietro.
Come ricordava Domenico del Rio,
da papa Callisto fino ai Rothschild, il pontificato romano ha agito in efficace
simbiosi con gli usurai, soprattutto con gli usurai ebrei. Al contempo, le
norme canoniche della Chiesa continuavano a rifiutare il prestito con interesse
in quanto peccato. Un grande canonista del secolo XI, Pedro Damián, proclamava, come portavoce
autorizzato della Chiesa:
“Prima
di ogni altra cosa liberatevi dai soldi, perché Cristo e il danaro non possono
stare insieme in nessun posto!”
Lui alzava la voce anche contro la simonia,
l’orribile peccato di introdurre la corruzione del danaro nel cuore della
successione apostolica. La dottrina ecclesiastica avrebbe mantenuto, sempre, la
proibizione del prestito con interesse, la speculazione sul danaro produce
altro danaro e, nel codice canonico medievale, il Decretum [1140]
di Graziano, si afferma che è
difficile evitare il peccato in qualsiasi processo di compravendita. Ma la
Chiesa era su questa strada. Tuttavia, la crescita dell’economia urbana, che è,
essenzialmente, una economia di danaro, costrinse la Chiesa a riconsiderare una
proibizione che lei stessa non aveva mai rispettato e che urtava ora con una
società cementata sul danaro e sul lucro economico. Sarebbe lungo tratteggiare
anche sommariamente la storia di questa evoluzione. Indico soltanto che, per
molti secoli, sia la Chiesa sia i principi cristiani trasferirono buona parte
del loro senso di colpa per l’uso e il fomento sistematico del prestito con
interesse, attraverso l’ingegnoso meccanismo di far sì che fossero i giudei –
reprobi di Cristo, se ve ne sono, secondo la Chiesa storica – a occuparsi quasi
in esclusiva delle questioni finanziarie per eccellenza. Già Bernardo di
Chiaravalle [1090-1153] e la sua epoca tendevano a identificare il prestito con
interesse con l’attività speculativa propria degli ebrei. Si supponeva che gli “strozzini
cristiani” fossero giudei conversi. La doppiezza di questo spostamento della
colpevolezza rappresenta un curioso esempio di come la Chiesa ha praticato,
sempre, la tecnica di creare vittime propiziatorie per i suoi peccati.
L’essenziale di questa breve perorazione
consiste nel cogliere l’ambiguità teorico-pratica della Chiesa di fronte al
problema dell’uso del danaro. L’ambiguità è precisamente la condizione che fa
possibile tutto il tessuto dottrinale e dogmatico del cattolicesimo e della sua
etica polisemia. Detta ambiguità procede dalla natura ibrida del messaggio
neotestamentario in quanto integrato dalla contrapposizione fondamentale tra
uno scatologismo imminente – ereditato dal messianesimo tardivo del periodo
intertestamentale – e una chiesa inserita, in modo permanente, in un mondo
duraturo e immediatamente configurata come potere nel concerto politico dei
poteri. Un cristianesimo, così articolato, poteva condannare l’uso del danaro
usato per produrre, da solo altro danaro, evocando la tradizione delle società
pastorali dell’Antico Testamento e assumendo la credenza in un finale immediato
dei tempi con l’arrivo del Regno; allo stesso tempo, tuttavia, poteva e doveva
praticare l’uso del danaro a scopo di arricchimento, obbedendo alle ferree
esigenze della realtà di un mondo secolare e pagano, nel quale doveva inserirsi
per esercitare il suo dominio temporale, il suo potere.
Questa radicale immedesimazione della
Chiesa nel concerto dei poteri temporali e il suo graduale consolidamento come
potere eguale – inizialmente – e superiore – successivamente – al potere
civile, non è datata, come erroneamente si dice, dalla cosiddetta “perversione
costantiniana”, ma è iniziata nella Storia del I secolo della nostra era e
raggiunge l’apogeo nel secolo IV. Qui, precisamente, nell’articolazione della
escatologia con la curabilità, trova radicamento la procreazione dell’antinomia
che racchiude la formula:
“In questo
mondo, ma non di questo mondo.”
e racchiude anche tutte le contraddizioni
costitutive delle dottrine cristiane così come le forgiò la chiesa antica.
L’evidente ipocrisia con la quale la Chiesa romana trattò, nella teoria e nella
pratica, la questione del danaro è, diciamo così, strutturale. Non appariene
tanto all’ordine psicologico, ma a quello logico. Corrisponde a quello che B.
Dunham chiamava, riferendosi alla Chiesa, la logica dell’organizzazione. O,
concernente al danaro, la logica del beneficio. Non dipende dalle distrazioni o
dalle deviazioni di questo o di quello, di un Giacomo Antonelli
o di un Paul Marcinkus,
che la Chiesa si corrompa con l’uso del danaro, ma è il risultato necessario di
una Chiesa, formatasi come Monarchia Assoluta con la sua struttura gerarchica
sacramentale, giuridica e amministrativa per agire come grande potere nel
concerto mondiale di poteri. Allo stesso modo, come accadde nell’URSS con
l’idea di Karl Marx, nella Chiesa Romana, nella sua realtà di fatto e non
sempre nella sua retorica, l’organizzazione divorò il messaggio cristiano,
ibrido, già, in germe e con il verme della corruzione nelle sue viscere.
Quando una istituzione si considera in
possesso di una verità totale, esclusiva ed escludente e, allo stesso tempo, si
configura come un grande potere temporale è impossibile, perché va contro la
natura delle cose, che, partendo da questa presunta verità, non si muova,
irresistibilmente, verso il dogmatismo di considerare come legittimo qualsiasi
mezzo che creda opportuno per condurre alla realizzazione dei fini postulati da
tale verità. Così succede con il danaro e le alte forme pratiche di potere
della Chiesa di Roma.
Senza dubbio questo articolo sarà attaccato
da alcuni e respinto da altri.
Sarà considerato un attacco alle fede
cattolica romana, in particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non è niente di tutto ciò.
È piuttosto una accusa contro uomini
chiaramente identificati, che sono nati cattolici romani, ma che non sono mai
devenuti cristiani.
il seguito al 20 ottobre prossimo...
President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman,
ladies and gentlemen:
I appreciate very
much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy
responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of
how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your
profession.
You may remember
that in 1851 the New York Herald Tribune under
the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an
obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that
foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and
undernourished, constantly appealed to Greeley
and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5
per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the
“lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his
financial appeals were refused, Marx looked around for other means of
livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune
and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world
the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this
capitalistic New York
newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign
correspondent, history might have been different. And I hope all publishers
will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken
appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper
man.
I have selected as
the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest
that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But
those are not my sentiments tonight.
It is true,
however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently
that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague
it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible
for the press, for the press had already made it clear that it was not
responsible for this Administration.
Nevertheless, my
purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one
party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any
complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor
is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential
press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000
Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so,
the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are
these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press
should allow to any President and his family.
If in the last few
months your White House reporters and photographers have been attending church
services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand,
I realize that your staff and wire service photographers may be complaining
that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that
they once did.
It is true that my
predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in
action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is
a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk
about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of
recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the
dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years.
Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living
with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its
challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us
in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly
challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to
the press and to the President - two requirements that may seem almost
contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to
meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public
information; and, second, to the need for far greater official secrecy.
I
The very word “secrecy”
is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and
historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret
proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted
concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to
justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a
closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is
little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not
survive with it. And there is very grave danger that an announced need for
increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning
to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend
to permit to the extent that it is in my control. And no official of my
Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should
interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle
dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public
the facts they deserve to know.
But I do ask every
publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own
standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war,
the government and the press have customarily joined in an effort based largely
on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time
of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged
rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national
security.
Today no war has
been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be
declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who
make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our
friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been
crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is
awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat
conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our
security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I
can only say that the danger has never been more clear and its presence has
never been more imminent.
It requires a
change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the
government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every
newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless
conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of
influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of
elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night
instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and
material resources into the building of a tightly knit, highly efficient
machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific
and political operations.
Its preparations
are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its
dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is
printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a
war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every
democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the
question remains whether those restraints need to be more strictly observed if
we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of
the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through
our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through
theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations
to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper
reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the
nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use,
have all been pinpointed in the press and other news media to a degree
sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the
publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were
followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers
which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and
well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not
have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized
only the tests of journalism and not the tests of national security. And my
question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for
you alone to answer. No public official should answer it for you. No
governmental plan should impose its restraints against your will. But I would
be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities
that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities,
if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful
consideration.
On many earlier
occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these
are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and
self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and
comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that
those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt
from that appeal.
I have no intention
of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I
am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security
classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and
would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the
newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own
responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger,
and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now
asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that
you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I
hope that every group in America
- unions and businessmen and public officials at every level - will ask the
same question of their endeavors, and subject their actions to the same
exacting tests.
And should the
press of America
consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or
machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those
recommendations.
Perhaps there will
be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a
free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any
discussion of this subject, and any action that results, are both painful and
without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no
precedent in history.
II
It is the
unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second
obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform
and alert the American people - to make certain that they possess all the facts
that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the
purposes of our program and the choices that we face.
No President should
fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes
understanding; and from that understanding comes support or opposition. And
both are necessary. I am not asking your newspapers to support the
Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing
and alerting the American people. For I have complete confidence in the
response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could
not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration
intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error
does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept
full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we
miss them.
Without debate,
without criticism, no Administration and no country can succeed - and no
republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a
crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was
protected by the First Amendment - the only business in America specifically
protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to
emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what
it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our
opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate
and sometimes even anger public opinion.
This means greater
coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and
foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved
understanding of the news as well as improved transmission. And it means,
finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you
with the fullest possible information outside the narrowest limits of national
security - and we intend to do it.
III
It was early in the
Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions
already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press.
Now the links between the nations first forged by the compass have made us all
citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats
of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of
gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences
of failure.
And so it is to the
printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience,
the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident
that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
Arcigno, rio, saracinesco muso,
Sicario infame, ai popoli flagello,
Poiché fedel conservi il paten’uso,
Pur se’ glorioso, o perfido Antonelli,
Degno ministro, anzi padrone intruso
Del più vil dei vilissimi ribelli
Che Papa ha nome e che sì ben t'abbraccia
O arcigna, ria, saracinesca faccia.
Nicola Roncalli, Diario dall’anno 1849 al 1870, Roma, Torino, Bocca, 1884
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