“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 5 ottobre 2014

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 3. LA TRIPLICE INTESA di Daniela Zini

il prossimo 20 ottobre, qui:
SOCIETA' SEGRETE
II. LA MAFIA
3. LA TRIPLICE INTESA
di Daniela Zini
Premetto che non sono una persona superstiziosa. Non porto in tasca amuleti, zampe di coniglio (che schifo, tra l’altro!), sale o altre cose di tal fatta, credo fermamente nell’inutilità dell’esistenza di Paolo Fox e sono profondamente convinta che trarre predizioni dallo studio degli astri sia utile quanto analizzare le forme dei cerchi nel grano o delle onde sulla sabbia.
Quindi preparatevi, sarò molto, ma molto cattiva…



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE


“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt













para Lazzaro
“Un amigo es la mano que despeina tristezas.”
Gustavo Gutierrez Merino
Cuando todo me parece imposible, horrible e inalcanzable, pienso en Tu sonrisa y la fuerza que me da, y de repente todo es posible.
Un día como hoy, hace un año me pediste que fuera Tu Amiga.
Desde ese momento mi vida cambió.
Te fui conociendo poco a poco y me di cuenta de que eres una persona excepcional y diferente a las demás.
Un año se cumple hoy y a pesar de nuestras diferencias, l'Amistad siempre ha prevalecido. En nuestra Amistad he aprendido mucho y me has enseñado a ver claramente mis defectos y cómo y porqué debo mejorarlos.
Mi Amigo gracias por Tu paciencia y comprensión; se que no soy fácil pero gracias a Dios siempre has mantenido la calma.
Quisiera decirte tantas cosas, de mil formas distintas para que T e des cuenta de lo mucho que te respeto, pero no se como hacerlo.
Espero que nuestra Amistad perdure y que con el paso de los años se fortalezca mas. Que a tua vida seja repleta de emoções, alegrias e conquistas.
¡Feliz aniversario,Amigo especial !
Roma, 20 octubre 2014
D

“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini


 Moi
Daniela Zini

J’ai naître plus loin, dans un passé plus vieux,
Sur les eaux écumeuses et blanches,
Quand l’Univers était un volcan en fusion,
A l’aube incertaine d’un jour
Tout ruisselant de flamme, cendre et lapilli.

Telle une rivière printanière en crue,
Ma vie a répandu des fleurs et des parfums.
De moi je laisse, dans les remous des vers,
La chaleur des larmes qui les a vu fleurir,
La marque d’une lame insinuante et dure.

Mes vers,
Soyez des fleuves !
Allez-en vous élargissant !
Qu’on sache combien j’ai aimé !
Je ne souhaite pas d’éternité plus douce.

Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!




  
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini

3. LA TRIPLICE INTESA 


“Quando avranno inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero, preso l’ultimo bisonte, pescato l’ultimo pesce, solo allora si accorgeranno di non poter mangiare il denaro accumulato nelle loro banche.”

Toro Seduto







“Forse oggi farà bene a tutti noi pregare per tanti bambini e ragazzi che ricevono dai loro genitori pane sporco: anche questi sono affamati, sono affamati di dignità! Pregare perché il Signore cambi il cuore di questi devoti della dea tangente e se ne accorgano che la dignità viene dal lavoro degno, dal lavoro onesto, dal lavoro di ogni giorno e non da queste strade più facili che alla fine ti tolgono tutto”.
8 novembre 2013
Papa Francesco I





“Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un’inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l’assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s’incontrano. È soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. È il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare.”
Lirio Abbate




Tra il 1971 e il 1973, un miliardo e mezzo di dollari circa, in tutoli e valori, invase il mercato monetario internazionale. Schiaccianti testimonianze hanno provato che almeno 14 milioni di dollari di questo stock fluirono nelle casse del Vaticano.
Personaggi dei più svariati rackets internazionali, falsari, capimafia, contrabbandieri di droga, finanzieri e uomini di successo, dignitari vaticani furono al centro dell’audace operazione finanziaria alla quale il reportage si rifa.
I soldi e il patrimonio del Vaticano sono, sempre, stati oggetto di curiosità più o meno interessate, talvolta, morbose, che non avrebbero oltrepassato un certo limite se si fosse amministrato quel patrimonio in modo discreto.
L’ambiguità e bipolarità dottrinali de cattolicesimo nella questione del danaro non è altro che la proiezione dell’ambiguità costitutiva del messaggio cristiano in quanto ideologia e simbolismo del potere. La formula topica che meglio esprime la natura ibrida del cristianesimo ecclesiale è ben nota, anche se, forse, poco meditata: la Chiesa di Cristo sta nel mondo, con il mondo, ma non è di questo mondo. Questa è la cerniera di ambiguità, matrice di tutta la sua versatilità operativa, oltre che rappresentazione della grande trovata metodologica della dogmatica cattolica, vale a dire l’unità dei contrari, la coincidentia oppositorum, anche se si tratta di una dialettica elementare e povera di mediazioni.
L’Antico Testamento condannava senza mezze misure l’usura, vale a dire qualsiasi eccesso nella restituzione di quanto prestato, fossero cose o soldi.

25 Se tu presti del denaro ad alcuno del mio popolo, al povero che è con te, non lo tratterai da usuraio; non gli imporrai alcun interesse.”
Esodo 22, 25

“35 E quando il tuo fratello sarà impoverito, e le sue facoltà saranno scadute appresso di te, porgigli la mano, forestiere o avveniticcio che egli si sia; acciocchè possa vivere appresso di te. 36 Non prender da lui usura nè profitto; e abbi timore dell’Iddio tuo, e fa’ che il tuo fratello possa vivere appresso di te. 37 Non dargli i tuoi danari ad usura, nè la tua vittuaglia a profitto. 38 Io sono il Signore Iddio vostro, che vi ho tratti fuor del paese di Egitto, per darvi il paese di Canaan, per essere vostro Iddio.”
Levitino 25, 35-38

19 Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di danaro, né di viveri, né di qualsivoglia cosa che si presta a interesse. 20Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello; affinché l'Eterno, il tuo Dio, ti benedica in tutto ciò a cui porrai mano, nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso. 21Quando avrai fatto un voto all'Eterno, al tuo Dio, non tarderai ad adempirlo; poiché l'Eterno, il tuo Dio, te ne domanderebbe certamente conto, e tu saresti colpevole; 22ma se ti astieni dal far voti, non commetti peccato.”
Deutoronomio 23, 19-21

L’usura era peccato.
Eppure, la Storia della Chiesa è tutta una sfida pratica di questa condanna. Parallelamente alla proibizione radicale del prestito con interesse assimilato all’usura, la Chiesa e i suoi fedeli trasgrediscono, quotidianamente, con la più grande disinvoltura, il tabù ereditato.
Ricordiamo la storia di Callisto, liberto romano, cristiano e direttore della banca di Carpoforo. I suoi clienti creditori erano cristiani; ma, un giorno, decise di prestare soldi anche ai giudei, i quali non gli restituirono i prestiti avuti.
Carpoforo si adirò e lo punì.
Ma, un giorno, di sabato, Callisto decise di presentarsi alla sinagoga, durante le preghiere, per reclamare i suoi crediti. I giudei lo espulsero a bastonate e le autorità romane, sempre gelose dell’ordine pubblico, lo condannarono a lavorare nelle miniere della Sardegna. Fortunatamente, Marcia, la bella concubina dell’imperatore Commodo, ottenne la libertà di Callisto da papa Zeferino e, alla morte di questi, fu eletto, a sua volta, papa, quale quindicesimo successore di Pietro.
Come ricordava Domenico del Rio[2], da papa Callisto fino ai Rothschild, il pontificato romano ha agito in efficace simbiosi con gli usurai, soprattutto con gli usurai ebrei. Al contempo, le norme canoniche della Chiesa continuavano a rifiutare il prestito con interesse in quanto peccato. Un grande canonista del secolo XI, Pedro Damián, proclamava, come portavoce autorizzato della Chiesa:
“Prima di ogni altra cosa liberatevi dai soldi, perché Cristo e il danaro non possono stare insieme in nessun posto!”
Lui alzava la voce anche contro la simonia, l’orribile peccato di introdurre la corruzione del danaro nel cuore della successione apostolica. La dottrina ecclesiastica avrebbe mantenuto, sempre, la proibizione del prestito con interesse, la speculazione sul danaro produce altro danaro e, nel codice canonico medievale, il Decretum [1140][3] di Graziano[4], si afferma che è difficile evitare il peccato in qualsiasi processo di compravendita. Ma la Chiesa era su questa strada. Tuttavia, la crescita dell’economia urbana, che è, essenzialmente, una economia di danaro, costrinse la Chiesa a riconsiderare una proibizione che lei stessa non aveva mai rispettato e che urtava ora con una società cementata sul danaro e sul lucro economico. Sarebbe lungo tratteggiare anche sommariamente la storia di questa evoluzione. Indico soltanto che, per molti secoli, sia la Chiesa sia i principi cristiani trasferirono buona parte del loro senso di colpa per l’uso e il fomento sistematico del prestito con interesse, attraverso l’ingegnoso meccanismo di far sì che fossero i giudei – reprobi di Cristo, se ve ne sono, secondo la Chiesa storica – a occuparsi quasi in esclusiva delle questioni finanziarie per eccellenza. Già Bernardo di Chiaravalle [1090-1153] e la sua epoca tendevano a identificare il prestito con interesse con l’attività speculativa propria degli ebrei. Si supponeva che gli “strozzini cristiani” fossero giudei conversi. La doppiezza di questo spostamento della colpevolezza rappresenta un curioso esempio di come la Chiesa ha praticato, sempre, la tecnica di creare vittime propiziatorie per i suoi peccati. 
L’essenziale di questa breve perorazione consiste nel cogliere l’ambiguità teorico-pratica della Chiesa di fronte al problema dell’uso del danaro. L’ambiguità è precisamente la condizione che fa possibile tutto il tessuto dottrinale e dogmatico del cattolicesimo e della sua etica polisemia. Detta ambiguità procede dalla natura ibrida del messaggio neotestamentario in quanto integrato dalla contrapposizione fondamentale tra uno scatologismo imminente – ereditato dal messianesimo tardivo del periodo intertestamentale – e una chiesa inserita, in modo permanente, in un mondo duraturo e immediatamente configurata come potere nel concerto politico dei poteri. Un cristianesimo, così articolato, poteva condannare l’uso del danaro usato per produrre, da solo altro danaro, evocando la tradizione delle società pastorali dell’Antico Testamento e assumendo la credenza in un finale immediato dei tempi con l’arrivo del Regno; allo stesso tempo, tuttavia, poteva e doveva praticare l’uso del danaro a scopo di arricchimento, obbedendo alle ferree esigenze della realtà di un mondo secolare e pagano, nel quale doveva inserirsi per esercitare il suo dominio temporale, il suo potere.
Questa radicale immedesimazione della Chiesa nel concerto dei poteri temporali e il suo graduale consolidamento come potere eguale – inizialmente – e superiore – successivamente – al potere civile, non è datata, come erroneamente si dice, dalla cosiddetta “perversione costantiniana”, ma è iniziata nella Storia del I secolo della nostra era e raggiunge l’apogeo nel secolo IV. Qui, precisamente, nell’articolazione della escatologia con la curabilità, trova radicamento la procreazione dell’antinomia che racchiude la formula:
“In questo mondo, ma non di questo mondo.”
e racchiude anche tutte le contraddizioni costitutive delle dottrine cristiane così come le forgiò la chiesa antica. L’evidente ipocrisia con la quale la Chiesa romana trattò, nella teoria e nella pratica, la questione del danaro è, diciamo così, strutturale. Non appariene tanto all’ordine psicologico, ma a quello logico. Corrisponde a quello che B. Dunham chiamava, riferendosi alla Chiesa, la logica dell’organizzazione. O, concernente al danaro, la logica del beneficio. Non dipende dalle distrazioni o dalle deviazioni di questo o di quello, di un Giacomo Antonelli[5] o di un Paul Marcinkus, che la Chiesa si corrompa con l’uso del danaro, ma è il risultato necessario di una Chiesa, formatasi come Monarchia Assoluta con la sua struttura gerarchica sacramentale, giuridica e amministrativa per agire come grande potere nel concerto mondiale di poteri. Allo stesso modo, come accadde nell’URSS con l’idea di Karl Marx, nella Chiesa Romana, nella sua realtà di fatto e non sempre nella sua retorica, l’organizzazione divorò il messaggio cristiano, ibrido, già, in germe e con il verme della corruzione nelle sue viscere.
Quando una istituzione si considera in possesso di una verità totale, esclusiva ed escludente e, allo stesso tempo, si configura come un grande potere temporale è impossibile, perché va contro la natura delle cose, che, partendo da questa presunta verità, non si muova, irresistibilmente, verso il dogmatismo di considerare come legittimo qualsiasi mezzo che creda opportuno per condurre alla realizzazione dei fini postulati da tale verità. Così succede con il danaro e le alte forme pratiche di potere della Chiesa di Roma.        
Senza dubbio questo articolo sarà attaccato da alcuni e respinto da altri.
Sarà considerato un attacco alle fede cattolica romana, in particolare, e al cristianesimo, in generale.
Non è niente di tutto ciò.
È piuttosto una accusa contro uomini chiaramente identificati, che sono nati cattolici romani, ma che non sono mai devenuti cristiani.




il seguito al 20 ottobre prossimo...


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] Domenico Del Rio è stato vaticanista de La Repubblica, dal 1976 al 1993, ma, precedentemente, era stato frate minore con il nome di Evangelista.

[3] Graziano, definito il padre del diritto canonico è autore del cosiddetto Decretum [Decretum Gratiani o Decretum Magisteri Gratiani o, più propriamente, Concordia Discordantium canonum].

[4] Dante Alighieri colloca Graziano nel X canto del Paradiso, nel Cielo del Sole, dove San Tommaso d’Aquino lo presenta come brillante esponente degli Spiriti Sapienti:
Quell'altro fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l'uno e l'altro foro
aiutò sí che piace in paradiso.
L'altro ch'appresso adorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Canto X, vv. 103-108

[5] Giacomo Antonelli era nato, a Sonnino, sui Monti Musoni, il 2 aprile 1806.
Nella primavera del 1852 – la cronaca di Nicola Roncalli prendeva nota alla data del 30 marzo – girava, a Roma una poesia a stampa intitolata Il Dagherrotipo, che faceva il ritratto di Giacomo Antonelli:  
Arcigno, rio, saracinesco muso,
Sicario infame, ai popoli flagello,
Poiché fedel conservi il paten’uso,
Pur se’ glorioso, o perfido Antonelli,
Degno ministro, anzi padrone intruso
Del più vil dei vilissimi ribelli
Che Papa ha nome e che sì ben t'abbraccia
O arcigna, ria, saracinesca faccia.
Nicola Roncalli, Diario dall’anno 1849 al 1870, Roma, Torino, Bocca, 1884
Del componimento vi è poco da dire: è un concentrato di insulti al carinale e al papa. Serve a sapere quanto potesse essere odiato Antonelli dai pochi repubblicani rmasti a Roma e, probabilmente, non solo da loro.





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