“He who controls the past controls
the future.
He who controls the present controls
the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE
“In
politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was
planned that way.”
Franklin D. Roosevelt
“Ibo singulariter donec transeam.”
A mio Nonno
Tu desideravi un nipote, un maschio, e,
invece, sono nata io!
“Destino. Non è una parola da bambina”,
dicevi Tu.
“Sei, ancora, troppo piccola per
afferrare il valore divinatorio di questa parola. Non è il momento di scrivere.”
“Sì, invece!”
Batto i piedi.
“Il mio Diario!
Dove hai messo il mio Diario?
Dove lo hai nascosto?
Restituiscimelo!”
Riprendo con rabbia il mio tesoro. Mi
rifugio in un angolo ed estraggo dal cesto di vimini un quaderno con la
rilegatura in cuoio.
Sulla prima pagina, in bella grafia,
la scritta:
“Il mio Diario”
Potrei definirlo “il mio Amico, il mio
Confidente, il mio Specchio”.
Nel Diario io mi rifugio.
Io mi ritrovo.
Mi ammiro.
Mi abbandono.
Confido intime gioie e dolori.
Chi trascorre, a otto anni, le
giornate scrivendo?
Il Diario mi accetta completamente.
Con i miei difetti e le mie bizzarrie. Non mi giudica e non mi rimprovera.
Il mio Diario mi ama per quello che
sono.
Come tutti coloro che amano!
“Capisci Nonno?”
Non pensare a Lui.
L’Assente.
L’Artista adorato.
Non evocarLo, per non coprire le
pagine di lacrime. Per non macchiare il Diario. In tal caso, non oseresti più
inviarGlielo, come una lettera, la più lunga lettera che mai sia stata scritta
a un Nonno.
Non devi piangere, ma scrivere.
Pongo il quaderno sulle ginocchia, lo
sfoglio e mi fermo sull’ultima frase scritta:
“Eccomi ancora con il mio Diario.
A lui confiderò i miei pensieri…
Stiamo arrivando a Marseille, tutti
sono felici.
Anche io lo sono, ma, in fondo,
preferirei tornare a Venezia…
Ho otto anni, lo so, ma non sono
abbastanza seria. Ieri sera mi sono detta: “Domani sarò buona e assennata.”
Assennata?
Non lo sono più di ieri.
Non ho, ancora, pensato di divenire
ragionevole, di dominare le passioni e il mio carattere…
Sono parole profonde, frutto di
riflessione.
Scrivi D!
Ciò che vivi!
Ciò che vedi!
Io che affermo:
“Mi sento diversa da tutti. Ho
compreso che nessun altro bambino ha pensieri simili ai miei…
I miei desideri, i miei sogni, le mie
ambizioni sono, profondamente, diversi…
Intendo dedicarmi interamente alla
Poesia, alla Prosa, non per conquistare la Gloria, ma solo per il piacere di
scrivere…
La tempesta si è placata.
La nave getta l’ancora e io richiudo
il mio Diario…”
Scrivo perché mi piace il processo
creativo letterario, scrivo come amo, perché questo è, probabilmente, il mio
Destino, la mia sola consolazione.
Questo Diario, un giorno, farà le veci
di una intera biblioteca, di tutta una folla di libri inaccessibili alla mia
errabonda e, ormai, spoglia vita.
Chi per caso, quel giorno, si
prendesse la briga di leggerlo, vi troverebbe, fedelmente, rispecchiato tutto
il processo, sempre più celere, del mio sviluppo, forse, già, definito…
Le stesse citazioni che lo costellano,
riflettono i miei diversi e successivi stati d’animo…
D
“Chi tace e chi piega la testa muore ogni
volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone
ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine,
che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai
nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non
facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo
una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non
riuscire a provare!”
Daniela Zini
Douleur
Daniela Zini
Mon abîme s’emplit de leur
regard,
Qui se fondit en mon être, et
fut si mien
Que je doute si cette haleine
d’agonie
Est encore vie ou mort
hallucinée.
L’Archange vint, abattit son
épée
Sur le double laurier qui
fleurissait
Dans le jardin clos… et ce
jour-là
Revint l’ombre et je retournai
à mon néant.
Je crus que le monde, devant
l’humaine peur,
Allait s’écrouler couvert par
les débris
De l’effondrement total du
firmament…
Mais je vis la terre en paix,
en paix les sommets,
La campagne sereine, pure la
rivière,
La montagne bleue et le vent
apaisé !...
SOCIETA’
SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA
SOCIETA’
SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO
Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò
che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo
piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi
esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in
questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi
stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di
gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società
segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti.
La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li
obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e
mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy
tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di
New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra
Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4],
tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima
contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più
pericoloso.
“[…] La
stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e
storicamente contrari alle società
segrete, ai giuramenti segreti e
alle procedure segrete. Abbiamo deciso,
molto tempo fa, che i pericoli di
un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti
superino, di gran lunga, i pericoli che vengono
invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno
alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche,
sociali, politiche o di clubs privati
riservati a una élite.
Pressoché tutte le civiltà sono state, in
un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni
dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto
a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si
ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo
mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle
società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si
pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una
appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della
storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle
società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti
di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società
segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla
nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non
critico, che degenera, facilmente, in paranoia.
Dedicare una inchiesta alle società segrete
in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare,
ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini,
noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti”
[capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è
sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei
predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo
un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente
scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle
società segrete è che
le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui
rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari
per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali,
sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le
società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo
ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde,
necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più
lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In
principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla
fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu
la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui
veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali
della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero
divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i
due poli della sua esistenza.
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto
al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un
inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto,
l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e,
ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la
trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni
abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O
che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la
materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si
svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre
di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete
assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e,
soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra
svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario,
legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la
razionalità scientifica.
Il periodo contemporaneo è segnato da una
moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con
possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una
importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia,
versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono,
sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le
ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia
esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente,
legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne
ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su
Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema,
esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali,
basati sul controllo, il potere e la manipolazione.
Un nuovo modo di considerare il mondo in
cui viviamo!
II. LA MAFIA
di
Daniela Zini
2. LA ONORATA SOCIETA’
Alla
fine degli anni 1970, Cosa Nostra è la organizzazione criminale più potente al
mondo e Palermo la sua capitale. La Sicilia è, in quel momento, il regno del clan dei Corleonesi, che scatena una
lotta interna alla mafia e sfida lo Stato. Chiunque tenti di ostacolarlo è
annientato. In questo clima di violenza, due giudici, Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino, con un pugno di uomini coraggiosi del pool anti-mafia, iniziano a opporsi a Cosa Nostra e alle sue
metastasi, che si propagano fino alle più alte cariche dello Stato italiano.
“Certe
cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare
più
serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli.”
Carlo
Alberto Dalla Chiesa
Io so.
Io so i nomi dei
responsabili di quello che viene chiamato “golpe” [e che in realtà è una serie
di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere].
Io so i nomi dei
responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei
responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice”
che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i
neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti”
autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno
gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase
anticomunista [Milano 1969] e una seconda fase antifascista [Brescia e Bologna
1974].
Io so i nomi del gruppo di
potenti, che, con l’aiuto della Cia [e in second’ordine dei colonnelli greci
della mafia], hanno prima creato [del resto miseramente fallendo] una crociata
anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per
ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a
tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che,
tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione
politica a vecchi generali [per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione
di un potenziale colpo di Stato], a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti [per
creare in concreto la tensione anticomunista] e infine criminali comuni, fino a
questo momento, e forse per sempre, senza nome [per creare la successiva
tensione antifascista]. Io so i nomi delle persone serie e importanti che
stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che
operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale [mentre i boschi italiani
bruciavano], o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il
generale Miceli.
Io so i nomi delle persone
serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le
suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono
messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e
so tutti i fatti [attentati alle istituzioni e stragi] di cui si sono resi
colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un
intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di
conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o
che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che
ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il
mistero.
Tutto ciò fa parte del mio
mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto
di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i
suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che
molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto
intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di
ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente
con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche
giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per
sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i
suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre
1974.
Probabilmente i giornalisti
e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle
prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare
questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma,
insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per
definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque
potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né
indizi.
Il potere e il mondo che,
pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli
intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità
di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare
che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare
in quel mondo esplicitamente politico [del potere o intorno al potere],
compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una
certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io
risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare
in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio
intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale
della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale -
profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si
deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di
dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo
mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito [come se non
si aspettasse altro che questo] al “tradimento dei chierici” è un alibi e una
gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il
potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è
così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente
al Partito comunista italiano.
È certo che in questo
momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito
comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni
democratiche.
Il Partito comunista
italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese
disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese
ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni
tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in
un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si
è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto
un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere
rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto,
degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In
realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza,
nella loro totalità.
È possibile, proprio su
queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe
l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza”
tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di
positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il
momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in
due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella
degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di
pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè
come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che
tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini
politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini
di potere.
Nel caso specifico, che in
questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito
all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene
meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma
soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli
uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o
almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei
comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li
fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un
intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente,
neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non
funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data
l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve
continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a
iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il
caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare
pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è
diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della
verità politica: quella che - quando può e come può - l’impotente intellettuale
è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io
non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle
stragi [e non al posto di questo] io non posso pronunciare la mia debole e
ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io
credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel
Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare
ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la
mia mozione di sfiducia [anzi non aspetto altro che questo] solo quando un uomo
politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma
piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi
dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa,
come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il
potere americano lo consentirà - magari decidendo “diplomaticamente” di
concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a
proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno
uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro
maggiori responsabili [e non è detto, come nel caso americano, che siano
migliori]. Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
“Ragazzi godetevi la vita,
innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza,
la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di
pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli ribadiscono e
sollecitano di diventare protagonisti e partecipi nella salvaguardia della
comunità in cui vivono.”
Antonino Caponnetto
Che cos’è la mafia?
Leggo nel Simone:
“Organizzazione
criminale radicata nel nostro Paese, caratterizzata da una rigida struttura
piramidale e dotata di un enorme potere economico; è oggi diffusa non solo a
livello nazionale, ma anche internazionale.
Le
sue origini poggiano sulla particolare struttura socio-economica della Sicilia
occidentale, caratterizzata dallo sfruttamento del latifondo e da una tipica
mentalità clientelare basata su di un atteggiamento di diffidenza, un tempo
giustificato, nei confronti dello Stato. Tale diffidenza favoriva la
sottoposizione dei ceti più deboli alla signoria e alla protezione del più
potente, perpetuando così un sistema di tipo feudale.
Nel
secondo dopoguerra si è verificata una trasformazione nella struttura e nei
metodi della [—] che si è prepotentemente allargata estendendo la sua attività
al controllo del mercato ortofrutticolo, allo sfruttamento della prostituzione
e della manodopera, al contrabbando di armi e tabacco, alla commissione di
illeciti edilizi, al traffico internazionale della droga in forma
monopolizzata.
Questa
trasformazione ha comportato il ricorso indiscriminato alla violenza, sia per
affermare il predominio tra le cosche, sia nell’offensiva senza esclusione di
colpi contro funzionari dello Stato, magistrati, poliziotti e uomini politici
schierati dalla parte dell’interesse pubblico e della giustizia.”
[http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&dizionario=1&id=1048]
Di tutte le definizioni, la più riuscita mi
sembra, tuttavia, quella di Mario Puzo, l’autore di The Godfather:
“È un business come un altro, con la
differenza che ogni tanto si spara.”
Infatti, Meyer Lansky, considerato il
banchiere del ramo americano, diceva con orgoglio:
“Siamo importanti, siamo più grossi
dell’United States Steel.”,
quelli dell’acciaio.
Nell’analisi della struttura organizzativa
della criminalità mafiosa siciliana, due tesi si sono, sempre, contrapposte:
-
l’una
dell’esistenza di una organizzazione unica e coordinata;
-
l’altra di
una pluralità di organizzazioni disperse sul territorio.
Queste due teorie hanno conseguenze diverse
sulla natura e la definizione della criminalità mafiosa. Di più, sfociano in
strategie diverse quanto alle forme di lotta da intraprendere contro i mafiosi.
L’intento di questo reportage è di
analizzare le condizioni che possono determinare, empiricamente, la preminenza
di una tesi sull’altra in contesti socio-storici determinati; ciò ci porterà a
spostare gli obiettivi del dibattito, focalizzati in Italia, da lungo tempo,
sulla struttura organizzativa, per meglio intendersi su ciò che può essere una
criminalità di tipo mafioso.
La genesi della mafia risale agli anni
1860-1876. Emerge al momento dell’unificazione dell’Italia, della spedizione di
Garibaldi in Sicilia, nell’entroterra di
Palermo, in seno al mondo degli affari capitalista del commercio degli agrumi.
È ciò che illustra il caso del dottor Gaspare Galati,
vittima delle manovre di una cosca mafiosa tra il 1872 e il 1875, il quale,
volle scuotere l’opinione pubblica e, nell’agosto del 1875, scrisse un
resoconto circostanziato delle proprie disavventure, precisando che il suo non era
affatto un caso isolato nella Sicilia Occidentale. Nel memorandum, indirizzato alle autorità di Roma, dal titolo I casi di Malaspina e la mafia nelle
campagne di Palermo, il dottor Galati ricordava che la borgata
dell’Uditore, pur contando 800 abitanti, nel solo 1874, aveva fatto registrare
ben 34 omicidi, anche di donne e bambini. A Malaspina, l’opinione pubblica
sapeva chi fossero i responsabili dei delitti, ma le due “famiglie”, i Giammona
e gli Amoroso, operavano indisturbate. Lo scritto del dottor Galati, insieme ad
altri, indusse il giovane Regno d’Italia, che aspirava a mettersi al passo
delle grandi Nazioni europee, a inviare una commissione parlamentare di
inchiesta, in Sicilia.
È su un terriccio antropologico e storico molto
particolare che è nata ed è fiorita la mafia. La mafia è, infatti,
strettamente, collegata alle realtà politiche e sociali di una Sicilia a lungo
sottomessa a padroni stranieri, quali i Bizantini, i Musulmani, i Normanni, gli
Svevi, gli Angiò, gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Borbone di Napoli e, infine, i
Piemontesi, una volta realizzata l’unità d’Italia; una terra sempre,
preoccupata di preservare la propria autonomia e che costruisce, nel XIX
secolo, una società parallela garante della resistenza allo straniero, fondata su
tutto un sistema di riferimenti arcaici e feudali. Questi sono, agevolmente,
identificabili: gerarchia immutabile; rispetto quasi religioso per il capo
reputato infallibile; giustizia immediata e sbrigativa, che riposa su un codice
non scritto, in cui la parola “fa legge”; senso del gruppo, dalle “famiglie”,
che si dividevano il controllo di una città, fino alla “sicilianità” da
difendere, a qualunque costo, contro le intrusioni dei poteri esterni o contro
ogni tentativo di uno Stato centralizzato, che cercasse di imporre la sua
autorità. Aggiunti al culto della virilità e a quello del segreto, tutti questi
elementi compongono, nella loro semplicità, la loro teatralità e la loro
violenza, il cemento di una contro-società, che finisce per confondersi, sur fond di corruzione e di potere
parallelo, con la società tout court.
Agli inizi del
1838, molto prima della realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario
borbonico, Pietro Calà Ulloa [1801-1879], procuratore generale, che
rappresentava, a Trapani, la Giustizia del Regno delle Due Sicilie e sarebbe
divenuto primo ministro di re Francesco II in esilio, illustra in due relazioni,
al guardasigilli,
Cataldo Parisio, a Napoli, un quadro palpitante di dati e di
fatti, di rilievi e di osservazioni molto interessanti, attraverso cui possiamo
formarci una idea abbastanza chiara della situazione interna della Sicilia,
appena qualche mese dopo uno dei suoi più gravi rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella
prima, datata 25 aprile, sono tratteggiate le condizioni della magistratura in
Sicilia.
“Il basso stato in
cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e
gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello
ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla
macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu,
durante il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei
magistrati del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche,
dai bisogni della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli
stranieri e degli emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea un
felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne anche
nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle cose.”
Nella
seconda, datata 3 agosto, di più ampio respiro e di più ricco contenuto, si
descrivono le condizioni politiche, sociali ed economiche della stessa isola.
“Questa
generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi.
Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo
politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un
capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai
bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di
proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della
forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a
tacita convenzione con i rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad
offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali
accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire
oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di una egida
impenetrabile.”
Nella stessa epoca, il procuratore generale di Palermo, Giuseppe
Ferrigno, incaricato da Ferdinando II, di accertare le condizioni delle
province occidentali dell’isola, dopo aver messo in rilievo lo stato di
precarietà dei pubblici servizi e, particolarmente, di quelli della pubblica
sicurezza, scriveva al medesimo ministro, attribuendone la ragione “alla mancanza di fortuna del terzo ceto,
che lo rendeva dipendente dalla nobiltà” [http://archiviopiolatorre.camera.it/img-repo/DOCUMENTAZIONE/Antimafia/01_rel_p03_1.pdf],
nonché “alla mancanza di pubblico e
privato insegnamento, al sistema delle pratiche degli uomini del foro, al
disordine nella magistratura che, priva com’era di una vera e propria
autonomia, non poteva essere al paese esempio di moralità”.
Nel 1864, il barone Nicolò Turrisi Colonna,
nel suo studio
dal titolo Cenni
sullo stato attuale della Pubblica sicurezza in Sicilia,
spiega come la mafia avesse approfittato delle
rivoluzioni del 1848 e del 1860, per accompagnare il cambiamento e insediarsi
nella società siciliana. Ricorda come, alle
sue origini, la Onorata Società, primo nome della mafia e prodotto delle
tradizioni locali, fosse, innanzitutto, per i siciliani un mezzo per resistere
agli innumerevoli invasori, succedutisi nella sua Storia, e per protestare
contro la disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale.
Tuttavia, il contro-potere di partenza divenne un “sistema parallelo di
autorità”, che si sostituì al potere locale fino a costituire uno Stato nello
Stato.
Ma,
quando, nel settembre del 1866, bande armate marciarono, di nuovo, sulla città
di Palermo, il reparto della Guardia Nazionale, affidato al barone Nicolò
Turrisi Colonna e posto sotto il comando di Antonino Giammona, si oppose alla
rivolta. Nel passato, Giammona, come molti altri uomini della violenza, aveva
scommesso sulla rivoluzione; ma, ormai, aveva capito che lo Stato italiano era
una entità, con la quale si potevano fare affari. Palermo era la città della
rivoluzione, ma era, anche una città dove – secondo la malevola interpretazione
dei funzionari borbonici – “vivono 40mila proletari, la cui
sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei grandi”. La repressione piemontese permise di
ristabilire l’ordine, ma il Governo centrale, che, nel frattempo, si era
trasferito a Firenze, dopo la firma della Convenzione di Settembre
con la Francia, il 15 settembre 1864, avvertì l’esigenza di meglio accertare le
reali condizioni della Sicilia. E, per evitare il ripetersi di fenomeni
rivoluzionari, fu nominata dalla Camera, il 25 aprile 1867, una commissione di
inchiesta, sotto la presidenza di Giuseppe Pisanelli. E, quando il gruppo di parlamentari italiani si
recò, in Sicilia, per indagare sulla insicurezza, che regnava sull’isola, e
sulla ostilità, manifestata dalla popolazione ai rappresentanti del governo di
Firenze, constatò che delinquenza e dissidenza politica erano nate dalla
disillusione dei siciliani, delusi dall’annessione al nuovo Regno. La
relazione della commissione di inchiesta mise in luce, infatti, che i moti
insurrezionali, in Sicilia, erano stati generati dal malcontento, derivante dalle
precarie condizioni economico-sociali. Dunque, per intervenire in modo
efficace, il Governo avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo, costruendo strade e
aprendo nuove scuole, allo scopo di migliorare il tenore di vita e, quindi,
neutralizzare le tendenze malavitose. I risultati dell’inchiesta furono
presentati, il 2 luglio dello stesso anno, alla Camera dal relatore Giovanni
Fabrizi, unitamente a sei progetti di legge formulati dalla stessa Commissione.
È noto come, nella relazione parlamentare
sulla inchiesta per i fatti di Palermo del settembre del 1866, il termine
mafia, che si imporrà, più tardi, non ricorra, mai. Né la parola è, mai,
pronunciata nelle discussioni connesse alla inchiesta. La parola mafia, la cui origine resta misteriosa, anche se
alcuni inclinano per una pista araba – i musulmani, venuti dall’attuale
Tunisia, avevano occupato l’isola, nel IX secolo, nel periodo in cui Federico
II di Hohenstaufen regnava a Palermo –, deriverebbe da màhfal, che designa “l’assemblea” o da mahyàs
che significa “proteggere” o “difendere”. Per i siciliani si trattava di
difendersi da uno Stato, che imponeva una fiscalità molto più pesante di quella
dell’Ancien Régime Bourbonien.
Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della spedizione dei
Mille, guidata da Giuseppe Garibaldi, aveva, infatti, fatto nascere qualche
speranza di riforma agraria e di trasformazione sociale, ma la
ridistribuzione delle terre, che era una delle grandi aspirazioni dei contadini
siciliani, alimentata anche dalle promesse di Garibaldi, non solo non si
realizzò, ma divenne un grande inganno, che determinò un progressivo
impoverimento del mondo contadino e bracciantile, fino a giungere alle
condizioni di estremo degrado e di miseria dei primi anni 1890. L’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato
siciliano Francesco Crispi [1819-1901] – che si sarebbe fatto campione
dell’espansione coloniale italiana – non esitava, allora, a proclamare che la
popolazione insulare detestava il Governo di Roma, considerato peggiore di
quello dei Borbone di Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo organizzato si svilupparono
rapidamente, dal 1860. Gli ex-sostenitori di Garibaldi si rifiutavano di
ritornare alla vita civile, quando constatavano che la vittoria
dell’insurrezione non aveva cambiato in nulla il loro destino. E, quando il
nuovo Regno d’Italia volle imporre il servizio militare, dal 1861, numerosi,
non sottomessi, si dettero alla macchia e, in questi margini sociali, la mafia
nascente poté reclutare i suoi uomini di mano.
Come spiega Marie-Anne Matard:
“La
Onorata Società non è una semplice associazione di fuorilegge, ma una nuova
struttura di potere. Quando si scava un fossato tra lo Stato italiano e il
popolo siciliano, si presenta come un “sistema parallelo di autorità”.
Direttamente uscito dai quadri preesistenti della vita politica e sociale, il
nuovo potere sembra, così, prolungare il feudalesimo, molto tardivamente
abolito in Sicilia, durante l’occupazione inglese, nel 1812. Sostituendosi ai
baroni, i capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese o
della regione, e molti sono più rispettati dei rasppresentanti del potere
centrale.”
Il termine mafia compare, per la prima volta,
nell’aprile del 1865, in
un rapporto del prefetto di Palermo, Filippo Gualterio, con riferimento a una “associazione
malandrinesca” ritenuta “dipendente dai partiti” e, in
particolare, collegata agli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, tra i
capi, il generale garibaldino Giovanni Corrao [1822-1863],
ucciso il 3 agosto 1863. Anche la stampa
quotidiana, allarmatissima per la temuta congiura clericale e repubblicana,
pare non sospettare la presenza della mafia.
Potere parallelo, la mafia, strettamente legata alle classi dirigenti
siciliane, inizia, rapidamente, a prendere il controllo del potere politico
legale. In tutta la Sicilia occidentale, “fa le elezioni” e può, così,
assicurarsi complicità e protezione al più alto livello dello Stato. Sul
terreno locale, le “famiglie” più importanti si dividono borghi e regioni e
forniscono i mediatori – piccoli notabili, avvocati, contadini agiati,
intendenti – che reclutano, secondo il loro buon volere, la manodopera
contadina e che gestiscono le aziende dei grandi proprietari assenteisti,
garantendo loro la perennità della rendita fondiaria. Sono cacicchi locali, che
costituiscono l’asse portante dell’organizzazione mafiosa e assicurano il
controllo sociale delle masse rurali arretrate e sottomesse. I delitti,
commessi da piccole bande armate, riunite intorno al capo locale, persistono
nell’ultimo terzo del XIX secolo; ma è una delinquenza molto più organizzata,
creatrice di una illegalità divenuta strutturale, che si impone, in questa
epoca, e che permette alla mafia di rinnovare, regolarmente, i suoi uomini di
onore – di fatto, gli uomini di mano, incaricati degli affari sporchi – e i
suoi quadri, trasformati in tranquilli notabili, che si guardano bene
dall’ostentare una fortuna sia improvvisa sia sospetta. L’abigeato, il furto di
bovini, è, allora, una industria nazionale in Sicilia, ma la mafia controlla,
egualmente, il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando, importato
dalla Tunisia, e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie o
immobiliari.
Tutti i tentativi dello Stato centrale per venire a capo di queste
diverse forme di delinquenza falliscono, l’una dopo l’altra, per la resistenza
della classe politica locale e il sostegno che si è assicurata a Roma.
L’arresto o l’esecuzione dei colpevoli non cambiano affatto la situazione e non
intaccano il potere della Onorata Società. Il suo dominio sull’opinione
insulare è pressoché totale, alla fine del XIX secolo. Nessuno può sperare di
guadagnare una elezione senza il sostegno della mafia e l’assassinio del
marchese Emanuele Notarbartolo,
sindaco di Palermo, resta impunito, perché i siciliani unanimi prendono le
parti del deputato, accusato di aver commissionato l’assassinio, Raffaele
Palizzolo, il quale è, dapprima, assolto per un vizio di forma, poi, discolpato
da ogni sospetto.
È l’epoca che vede l’etnologo Giuseppe Pitré affermare:
“La mafia non è setta né associazione, non
ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se
nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata
applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico
non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di
sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto
un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere
mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio
essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di
ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della
superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere
rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla
giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la
forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto presente negli ingranaggi dello Stato centrale, ciò che gli
garantisce una impunità quasi totale, la mafia può, anche, sollevare l’opinione
siciliana contro lo stesso Stato, se manifesta velleità di ristabilire la
legalità.
Dal
1875 al 1885, la Sicilia fu oggetto di tre diverse inchieste:
-
l’inchiesta di Romualdo Bonfadini del 1875;
-
l’inchiesta privata del 1876 di Sidney Sonnino,
Leopoldo Franchetti ed Enea Cavalieri, tre giovani laureati dell’Università di
Pisa, rispettivamente, di ventisette, ventinove e ventotto anni;
-
l’inchiesta di Abele Damiani [1798-1855], dal
1877 al 1884.
Tre
differenti iniziative che, con motivazioni in parte diverse e in parte simili,
si proponevano di fare luce sulla realtà siciliana.
L’inchiesta
parlamentare del 1875 nacque in quel clima confuso che precedette la caduta
della Destra e che, in Sicilia, aveva visto, nelle elezioni del 1874, la
sconfitta del Governo. La Sicilia contava, all’epoca, 48mila votanti, che, in
quella occasione, avevano dato 44 dei 48 seggi siciliani ai candidati
dell’opposizione. La Sinistra, fino ad allora, all’opposizione aveva,
insistentemente, chiesto una commissione d’inchiesta, che facesse luce sui
legami, spesso torbidi, tra politica e mafia, denunciati dal Procuratore di
Palermo Diego Tajani; ma il Governo vi si era, costantemente, opposto. Mutati i
rapporti di forza, fu il Governo a farsi promotore di una inchiesta
parlamentare, di cui la Sinistra fu una tiepida sostenitrice. L’inchiesta
nacque, pertanto, come un elemento tattico di una strategia politica molto più
vasta, che vedeva la Destra e la Sinistra lottare per la conduzione politica
della Nazione. Romualdo Bonfadini e gli altri suoi otto collaboratori furono,
così, costretti dalla contingente situazione politica generale, a dare al loro
lavoro un taglio particolare, che finì per limitarne l’importanza e scemarne
gli effetti. Se, infatti, il Governo intendeva servirsi dell’inchiesta per
colpire i nuovi legami, che la Sinistra aveva saputo stabilire con la classe
dirigente siciliana, non era interesse del Governo condurre, fino in fondo,
tale indagine, perché avrebbe potuto portare a evidenziare che, in Sicilia,
torbide collusioni politiche erano usuali, molto prima della vittoria della
Sinistra, e ad averne fatto strumento di potere era stata la stessa Destra
governativa. La commissione si rivolse ai Prefetti, ai Sottoprefetti, ai
Sindaci e ai Pretori di vari centri della Sicilia e chiese loro un elenco di
persone rispettabili di tutti i ceti della cittadinanza e di tutti i partiti
politici. Ai nominativi segnalati la commissione indirizzò un questionario
circa le condizioni dell’ordine pubblico, dell’economia agricola, dei patti
agrari, del benessere dei ceti rurali. La commissione escluse l’esistenza di
una questione sociale in Sicilia e fece notare che la situazione economica
delle classi agricole siciliane non fosse né migliore né peggiore di quella dei
contadini delle altre regioni d’Italia.
La
commissione d’inchiesta sullo stato della pubblica sicurezza in Sicilia
raccolse una documentazione cospicua e si chiuse con una relazione del deputato
lombardo Romualdo Bonfadini.
“La mafia non è un’associazione che abbia
forme stabilite e organismi speciali; non è neanche una riunione temporanea di
malandrini a scopo transitorio o determinato; non ha statuti, non ha
compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se
non i più forti e i più abili. Ma è piuttosto lo sviluppo e il perfezionamento
della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva,
brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli
organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano
trarre l’esistenza e gli agi, non già dal lavoro, ma dalla violenza,
dall’inganno e dall’intimidazione.”
Nello
stesso periodo in cui la Commissione di inchiesta svolgeva i suoi lavori, tre
giovani studiosi, Leopoldo Franchetti,
Sidney Sonnino
ed Enea Cavalieri, scendevano in Sicilia per condurre una loro inchiesta
privata. Appartenevano tutti e tre al ceto dirigente, ma il loro intento
nell’affrontare la questione siciliana era ben diverso da quello che muoveva la
Commissione d’inchiesta parlamentare. Si armarono di quattro rivoltelle di
grosso calibro, una per ciascuna di loro e una per il servitore che li avrebbe
seguiti in Sicilia, e quattro carabine “Vetterli” del recentissimo modello a
ripetizione; si fornirono di letti da campo, di tende e di quattro vaschette di
rame, che, riempite di acqua, prima di coricarsi, avrebbero isolato i piedi del
letto dagli insetti, e si disposero al viaggio. Partirono nei primi del 1876, e
attraversarono la Sicilia, in lungo e in largo, inerpicandosi su erte
mulattiere e addentrandosi in valloni solitari, confacenti ad agguati. Si
recarono da una quarantina di persone, sparse in tutta l’isola, per le quali si
erano muniti di lettere di presentazione. Viaggiarono, con molte precauzioni,
lasciando trapelare il meno possibile sull’itinerario e le varie tappe e
scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento.
Franchetti parla di una “industria
della violenza”, praticata, prevalentemente, dai “facinorosi
della classe media” che sono divenuti “una
classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé
stante”, la cui sussistenza e il cui sviluppo vanno
ricercati “nella
classe dominante”.
“La
Mafia è unione di persone di ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che
senza avere nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre
riunite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque
considerazione di legge e di giustizia e di ordine pubblico; è un sentimento
medioevale di colui che crede di poter provvedere alla tutela ed alla
incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua
influenza personale indipendentemente dalla azione dell’autorità e delle leggi.”
Franchetti
rileva anche una contraddizione di fondo nell’azione dello Stato:
“In
Sicilia lo Stato si trova in questa dolorosa condizione, che nell’adempiere al
primo dei doveri di uno Stato moderno, il mantenimento, cioè, dell’ordine
materiale, esso non difende la legge, ma le prepotenze e i soprusi di una parte
dei cittadini a danno degli altri. Difatti, mentre l’azione del Governo è
efficacissima e pronta contro i disordini popolari, rimane miseramente
impotente contro quelli i quali, come il brigantaggio e la mafia, si fondano sopra la classe
abbiente, o almeno sopra la parte dominante di essa.”
“L’argomento è ingrato”,
scrive Sonnino,
“perché sappiamo di parlare al vento. I
contadini non sono in grado di apprezzare consigli; questi anzi non possono ora
nemmeno giungere ai loro orecchi. Potremmo, è vero, appunto perciò, parlare più
chiaro, senza timore di destare nessuno spirito di ribellione in quegli animi
abbrutiti e ancora in gran parte inconsci della propria abiezione; ma a che
sfiatarsi quando nessuno vi ascolta.”
Contrariamente a Bonfadini, relatore della
precedente inchiesta, che si era basato sui dati forniti dalla classe dirigente
amministrativa locale e aveva finito con il presentare un quadro ottimistico
del panorama sociale ed economico insulare, Abele Damiani [1835-1905],
che aveva la ferma convinzione che precise responsabilità politico-sociali
fossero alla base delle arretrate condizioni economico-generali della
agricoltura isolana e dell’inumano livello di vita del ceto bracciantile, si
ricollegò, decisamente, alle posizioni di Franchetti.
Si
doveva, davvero, prestare fede alle tesi naturalistiche, che ipotizzavano nel
contadino siciliano una predestinazione alla criminalità sociale sulla base
della dolicocefalia occipitale?
È in
questi anni, infatti, che la “diversità” del Meridione si insinua e si fissa
nell’immaginario del neonato Stato italiano nel segno della inferiorità
antropologica e della incomprensione culturale.
“È noto
quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della
borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che
impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i
meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei
barbari completi, per destino naturale.”,
scrive
Antonio Gramsci, nel 1926, che non nomina, esplicitamente, Cesare Lombroso.
Non ne
aveva bisogno!
Nel
1876, era stata pubblicata la prima edizione de L’uomo delinquente di Cesare Lombroso [1835-1909], secondo il
quale, alcuni soggetti erano, naturalmente, portati al delitto in misura
maggiore rispetto ad altri, a causa di specifiche differenze nella struttura
biologica ed era, infatti, universalmente, noto l’appassionato contributo che il
criminologo veronese e i suoi seguaci più fedeli, Alfredo Niceforo,
in primis, avevano dato, nella fase
post-unitaria, alla creazione e diffusione di una idea del Sud quale luogo
irredimibile.
La
questione meridionale?
La
rabbia dei contadini calabresi, lucani, siciliani, campani?
Il
brigantaggio?
Un semplice
problema di strutture anatomiche, di atavismo criminale!
Altro
che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai
contadini: al Sud erano concentrate troppe “fossette occipitali mediane”, vi
viveva “una
razza maledetta”, che si poteva affrontare solo con i tribunali
militari e la legge 15 agosto 1863, n. 1409, nota come Legge
Pica.
La
neonata scienza positivista forniva la spiegazione!
Damiani
operò in mezzo alle difficoltà derivanti dal sospetto, diffuso tra il pubblico,
che l’inchiesta avesse scopi fiscali. Compì diversi viaggi in tutti i paesi e
capoluoghi della Sicilia e cercò di associarsi l’opera delle persone più
competenti nei vari settori dell’indagine, ma soltanto due studiosi di cose
agrarie, Nicola Chicoli e Angelo Nicolosi Gallo, collaborarono attivamente con
lui.
L’inchiesta
di Damiani si presentava ripartita in due parti distinte:
-
l’una verteva sulle condizioni generali
dell’agricoltura, con riferimento agli aspetti più squisitamente tecnici:
terreni e coltivazioni arboree, coltura del tabacco, del foraggio, delle
leguminose, delle graminacee, impianti viticoli, fillossera, bestiame e sua
igiene, concimi, monti frumentari, divisione delle proprietà, imposte, prezzi,
commerci, viabilità, irrigazione, beni rurali degli enti ecclesiastici;
-
l’altra, dal taglio più propriamente sociale,
era volta a definire le condizioni economiche della classe agraria, i suoi
rapporti con i proprietari, le condizioni di vita, di salute, l’istruzione,
l’incidenza dei costumi tradizionali e delle superstizioni, le abitudini
religiose, l’influenza del servizio militare e le prospettive aperte dalla
riforma elettorale.
I risultati
dell’inchiesta Damiani furono raccolti in 5 tomi, tutti appartenenti al volume 13
dell’inchiesta Jacini.
A manifestare le proprie considerazioni
furono ben 180 pretori, sparsi in ogni angolo della Sicilia.
Il pretore di Partitico esponeva l’idea che
i contadini avevano dello Stato:
“La legge è un patto convenzionale, una
imposizione a danno del popolo; il governo un gran mostro personificato, dallo
usciere fino a quell’essere privilegiato che si chiama re. Esso assorbisce
tutto, ruba a man franca, dispone degli averi e delle persone a beneficio di
pochi perché appoggiato dalla sbirraglia e dalle baionette.”
E il pretore di Castelvetrano lo
confermava:
“Il contadino che feconda col suo enorme
lavoro la terra ha un vago sentimento del suo diritto fondamentale a goderne i
frutti. Questo sentimento essendo combattuto dalla legge e dalle autorità, non
ha ragione alcuna per ritenere che questi siano suoi protettori e suoi amici.”
I pretori confermavano l’esistenza della
mafia in forma positiva – e non solo latente o probabile – in un gran numero di
mandamenti.
Il pretore di Ravanusa confessava che i
pretori, se non parteggiano per la classe dominante, dovevano sopportare una
guerra infernale dall’ambiente borghese e dai superiori corrotti e presentava
la mafia come “una
vasta unione di persone di ogni ceto, senza legami apparenti, allo scopo di
provvedere agli interessi comuni, quali che siano” .
E scorgeva nella lontana genesi della mafia l’influenza della Chiesa. Recava a
prova una bolla, edita da Giovanni Battista dei conti Naselli [1786-1870],
arcivescovo di Palermo, che si rifaceva alla bolla Taxae cancellariae et poenitentiariae romanae del 1477, il cui
articolo 6 dichiara componibile [perdonabile] la falsa testimonianza in udienza
giudiziaria, anche se venale; mentre l’articolo 10 dichiara lecito l’operare
affinché non si amministri la Giustizia e si liberi un arrestato per delitti,
anche se questa azione è venale; come, altresì, è moralmente lecita la
corruzione del funzionario per il suddetto fine di impedimento all’esercizio
della Giustizia. La composizione che rende lecito l’atto è, naturalmente,
subordinata all’acquisto della bolla e all’elemosina, alla Chiesa, di tarì due,
grana dodici e piccioli cinque, per ogni tarì 77 e grana 7 del valore del corpo
del reato, “rimanendo libero e perdonato in foro
conscientiae e tenendosi il denaro come sua cosa propria e giustamente guadagnata
e acquistata”.
Il pretore di Aidone notava che, nel suo
mandamento, la classe agricola partecipava, raramente, alla mafia, la quale,
invece, nasceva dall’ozio. Osservazione acuta e sintomatica da collegare a
quanto scrive il pretore di Lentini:
“L’ozio e la spensieratezza sono i segni
necessari e sociali della possidenza e della indipendenza economica.”
Il pretore di Niscemi nota che “delle associazioni a delinquere
Meli-Parachiazza e Valenti-Moranda facevano parte persone civili e pensanti,
non per spirito di lucro, ma per tenere alta l’influenza partigiana nelle gare
municipali”. E osservava che la diffusione della mafia
nel suo comune era dovuta a una causa storica:
“Niscemi non conta che meno di tre secoli
di esistenza, e la sua popolazione fu collettata nei bassifondi della vasta
baronia dei principi di Butera che furono i castellani della terra di Niscemi.”
Il pretore di Rammacca confermava la
diagnosi sociale del suo collega di Niscemi, indicando i mafiosi nelle “persone civili e di chiari natali”.
Il pretore di Canicattì chiariva ancora
meglio:
“Il contadino è solo uno strumento della
mafia nella quale esercita funzioni secondarie. Essa è reclutata fra gente di
città; il contadino mafioso abbandona l’agricoltura e si dà a fare il sensale
di animali, il bettoliere, il verdumaio e simili. Il contadino generalmente
serve la mafia per determinati servizi, tanto che, in un fatto di mafia
scoperto nel comune, un contadino, implicato in un assassinio, non sapeva esso
rendersi ragione del come e del perché.”
Secondo il pretore di Caltanissetta la
mafia era diffusa e reclutata proprio tra i contadini: del che non recava,
tuttavia, prova alcuna.
Ma, soprattutto, colpisce l’affermazione
del pretore di Corleone, secondo cui la mafia era il “correttivo di tutte le classi”. Dove a parte il significato equivoco del
termine “correttivo” è contenuta, potenzialmente, la tesi del
carattere interclassista della Onorata Società.
Il pretore di Petralia Sottana scopriva
che, nel suo mandamento, i rapporti tra i contadini e i proprietari sono “tali quali devono essere, stando ognuno al
suo posto”.
Il pretore di Ragusa si stupiva che il
contadino “non comprende la necessità delle
disuguaglianze di fatto”.
Abele Damiani tracciò un quadro completo delle misere
condizioni economiche, morali e sociali dei contadini e concludeva, così, la
sua relazione:
“Questi
fatti dovrebbero ormai impensierire e le classi colte e il Governo; che non si
sciolgono le questioni coll’indifferenza, rifiutandosi dal preoccuparsene e
tanto meno poi soffocandole con la forza.
[...]
Chi può
prevedere dove si andrà a finire perdurando questo stato d’abbrutimento?”
Tra il 1876 e
il 1890, la mafia entra, progressivamente, nel sistema di governo italiano. Le
prime discussioni sull’esistenza della mafia nel Parlamento sono burrascose e mostrano
la collusione tra il mondo politico e la organizzazione criminale. La Sinistra,
che era arrivata al potere, nel 1876, si era servita della mafia come strumento
di governo locale. Giovanni Nicotera, ministro dell’interno nel primo Governo
Depretis, mazziniano, ex-combattente al
fianco di Garibaldi, era riuscito a
far regredire il crimine in Sicilia e, nel
novembre del 1877, aveva potuto annunciare “una grande vittoria sui banditi e sul
crimine”. In verità, per rendere governabile o, quanto meno,
esportabile, in forma accettabile, l’immagine dell’ordine pubblico in Sicilia,
Nicotera era sceso a patti con i potenti del crimine isolano, cui aveva chiesto
di tenere a freno gli aspetti più visibili del fenomeno senza intaccarne le
radici. Circa un mese dopo l’annuncio della vittoria della Sinistra sul
banditismo, Giovanni Nicotera era stato costretto a dimettersi.
Lo
smantellamento della Fratellanza di Favara,
l’organizzzazione che opera nelle miniere di zolfo del sud-ovest dell’isola,
tra il 1883 e il 1885, ci ricorda, ancora, che la mafia si sviluppa nei settori
economici più competitivi e lucrosi.
Tra il 1890 e il 1904, la corruzione si
sviluppa, in alto loco.
Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo
di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia
[http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/].
Già
sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in
tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da
Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno,
nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti
che legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del
Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un
dossier accusatorio delle attività
illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo
e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i
possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il
deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è
facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in
modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in
passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo
Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa
volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi,
chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo.
Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni
di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza
per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della
assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti
per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle
calunnie, di cui erano stati oggetto nel processo. Questa sentenza significa
per loro un fatto chiaro:
“LA GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON
ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato,
dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari,
Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A
proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano,
molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto
in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano
intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in
tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente
abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola
mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di
togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi
introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di
fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono
sinteticamente quando dicono la mafia, riesce cosí familiare, che quasi non
immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione,
di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i
nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or
dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro
linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia
intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che,
quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili
di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è
una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la
prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di
rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno
speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si
propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai
membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente
delittuosi.”
E
ancora:
“Sono
arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo
fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose.
Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non
esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la
superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le
cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di
amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si
combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno
è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che
ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I
membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie
diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno
dei rapporti fra di loro.
È
superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale,
alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: «il
tale è un capo della mafia», significa soltanto che egli è in buoni rapporti
con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne
l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E
neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di
riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le
persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che
appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per
quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e
dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle
diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso
viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un
battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va
fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo
riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno
perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in
identico modo.”
Dal 1893 al 1943, la mafia deve trovare un
accordo con il socialismo, prima, e con il fascismo, poi. Corleone illustra
come i contromastri dei grandi domini terrieri dell’interno della Sicilia siano
legati al sistema mafioso. È, a Corleone, che, nel 1893, i contadini iniziano
ad associarsi in Fasci, sotto l’autorità di Bernardino Verro. Dopo dieci anni dall’inchiesta
agraria, nulla, infatti, era stato fatto in favore dei contadini, anzi, la loro
situazione si era, ulteriormente, aggravata.
Il
direttore generale della pubblica sicurezza (1 ottobre 1893 – 7 aprile 1896),
Giuseppe Sensales [1831-1902], inviato in Sicilia dal Governo, alla fine del mese di settembre del 1893, nella sua
relazione poneva l’accento su due questioni:
-
l’una, relativa alla gestione delle
amministrazioni comunali:
“Certo,
col far cessare le gravi ingiustizie che sogliono commettersi dalle
amministrazioni comunali, il Governo farà opera provvida, eliminando ogni
motivo di disordine.”
-
l’altra, più grave, relativa alle condizioni dei
lavoratori dei campi:
“Su
questo particolare esistevano ed esistono in Sicilia molti abusi, gran parte
dei quali furono già rilevati dall’inchiesta agraria e da parecchi scrittori.
Il latifondo, la cultura estensiva, l’assentismo, il contratto di gabella, e
l’avidità di non pochi proprietari hanno concorso ad immiserire gli
agricoltori, i quali non potevano essere sordi alla voce di coloro che
promettevano di redimerli dal loro stato.”
Verro, capo dei contadini ostili ai
latifondisti siciliani, è stato iniziato a una cosca mafiosa. Paradossalmente,
i suoi legami con la criminalità organizzata hanno permesso al Governo di
giustificare una repressione feroce del movimento contadino, dal 1894. Verro,
imprigionato, esiliato, persegue, tuttavia, la sua lotta, benché spaventato
dalle ramificazioni della mafia, che inizia a minacciarlo. Nel 1914, viene
eletto sindaco di Corleone e, l’anno seguente, assassinato.
All’inizio
degli anni 1920, la mafia fa causa comune con i primi fascisti locali, ma la
situazione cambia, rapidamente, dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si
vedono, allora, politici liberali, quali Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi
“mafioso
e fiero di esserlo” e presentare la Onorata Società come un polo di
resistenza, necessario di fronte all’evoluzione autoritaria e liberticida del
nuovo regime. Il 28 giugno 1925, nel
comizio elettorale dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm],
di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da
Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
“Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso
dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza
e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il
forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche
della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi
atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di
contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono
fiero di esserlo!”
Preoccupato
di imporre la sua autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista
nell’isola, Benito Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di
briganti di ogni tipo di poesia e di fascino e si indigna che si parli della
nobiltà e dello spirito cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto,
il 2 giugno 1924, a
Trapani, poi, a Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori.
Mussolini, che aveva sperato di assicurarsi
i mafiosi siciliani come strumento di governo locale, si era, presto, disilluso!
La lotta contro la mafia, attraverso la nomina
di Cesare Mori, serve al duce per consolidare il suo potere. La lotta contro la mafia è un’arma politica.
E, serve allo Stato italiano per giustificare una politica di repressione in
Sicilia e regolare conti politici.
Cesari
Mori aveva una lunga carriera dietro di sé. Aveva, già, operato, in Sicilia,
tra il 1903 e il 1917, e aveva ottenuto, nel complesso, risultati più che positivi.
Quando i giornali parlarono di “colpo mortale alla mafia”, Mori
dichiarò a un suo collaboratore:
“Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono
due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano
l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il
vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di
rastrellare non soltanto tra i fichi d’India, ma negli ambulacri delle
prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di
qualche ministero.”
Carabinieri e milizie fasciste suddividono a scacchiera il paese, le “famiglie”
mafiose sono identificate e i loro beni confiscati, centinaia di arresti sono
operati. Unendo repressione e azione psicologica verso le popolazioni, ottiene
risultati spettacolari e la tradizionale omertà, la legge del silenzio, non
protegge più i capi mafiosi. Alcuni
mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi legami oltre Atlantico;
altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe Genco Russo.
Mori è “ringraziato”,
nel giugno del 1929, e la sua
morte, nel 1942, passerà, del tutto, inosservata.
La mafia non è
stata smantellata, anche se ha subito duri colpi.
Ma, per Mussolini è sufficiente!
È soddisfatto di essere uscito vincitore da questa prova di forza; ma è,
anche, intenzionato a conquistarsi i notabili siciliani, che, adottando la
camicia nera, si sono, indirettamente, messi al riparo dalle inchieste troppo
approfondite.
La Seconda Guerra Mondiale fornisce l’occasione alla Onorata Società di
ritrovare tutto il suo potere!
Dal 1942, gli americani si preoccupano di un futuro sbarco in Sicilia e
beneficiano, in questa prospettiva, dei consigli avveduti di Lucky Luciano, uno
dei più noti mafiosi degli Stati Uniti, condannato a 50 anni di carcere, che
viene liberato sulla parola per la circostanza.
Il 10 luglio 1943, lo sbarco
anglo-americano porta una ondata di nuove nomine locali in Sicilia, che
beneficiano alla mafia: i tre quarti
dei sindaci designati dal Governo Militare Alleato, insediato nell’isola, sono
noti mafiosi. Questi “notabili” sono interlocutori ideali per gli americani e
reclamano, perfino, la costituzione di una Repubblica Siciliana indipendente.
La mafia è dietro questa impresa separatista, cui dà corpo Salvatore Giuliano
[1922-1950]. Durante l’estate del 1945, alcuni monarchici, che sostengono il
movimento separatista, lo nominano colonnello del loro Esercito Volontario
di Indipendenza Siciliana [EVIS], ma la concessione, nel 1946, di uno Statuto
Autonomo all’isola priva i separatisti del sostegno popolare. La Mafia vede,
immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di azione che, ormai,
sarà la sua, nel quadro della nuova amministrazione regionale.
Le elezioni dell’aprile del 1947, che suggellano il fallimento della
corrente separatista, sono segnate da una forte spinta della Sinistra, in un contesto
di bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana. La mafia fa, rapidamente, la
sua scelta: si tratta, ora, di lottare contro la Sinistra e, più
particolarmente, contro i comunisti.
Salvatore Giuliano interviene nell’attuazione di questa nuova strategia.
Altre azioni analoghe sono condotte nel corso delle settimane seguenti.
Ma Giuliano non è, di fatto, che un uomo di mano, che rischia di divenire
troppo “chiacchierone” e, il 5 luglio 1950, Giuliano viene ritrovato
morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano. Forse, tradito da
Gaspare Pisciotta, che
morrà avvelenato in prigione, prima di avere avuto il tempo di fare
imbarazzanti rivelazioni.
Con l’instaurazione del regime repubblicano, la mafia stabilisce legami
stretti con la Democrazia Cristiana, divenuta il primo partito, in Sicilia.
Può, così, intervenire nell’amministrazione della regione, dotata, ormai, di
una larga autonomia e il sistema clientelista che faceva la sua forza è,
rapidamente, ristabilito.
La legge di riforma agraria del 1950 – la cui applicazione è controllata
dall’amministrazione regionale – permette tutte le speculazioni e, al tempo
stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli contadini che debbono
beneficiarne. Il controllo della creazione di pubblici impieghi – che rientra
nell’autorità regionale – favorisce, egualmente, il clientelismo e contribuisce
allo sviluppo dell’influenza mafiosa.
La
ricostruzione di Palermo, che è stata, in gran parte, distrutta dai bombardamenti
alleati, innesca il famoso “sacco di Palermo”. Il conseguimento di permessi per costruire, nel contesto del boom immobiliare del dopoguerra,
permette di privilegiare le imprese mafiose, che sanno in cambio mostrarsi
generose, quando viene il momento delle campagne elettorali…
La mafia controlla l’attribuzione dei
cantieri e li protegge.
La Chiesa cattolica, che è ossessionata dal
comunismo, tace, salvo eccezioni.
Nell’ottobre del 1957, Giuseppe Bonanno, capo
dei castellammaresi, a New York, compie un viaggio, in Sicilia, accompagnato da
Carmine Galante, per
riorganizzare il traffico di stupefacenti negli Stati Uniti, dopo che la rivoluzione
castrista, a Cuba [1955-1957] ha privato la mafia siciliana e americana di
quell’importante base di smistamento per l’eroina.
L’espansione economica dei Trenta Gloriosi genera condizioni favorevoli
allo sviluppo delle attività mafiose. Racket, speculazione immobiliare,
contrabbando di sigarette e traffico di droga divengono campi di attività
particolarmente redditizi. Le “famiglie” si sbranano tra loro per il controllo
di alcuni settori, perché la mafia dei giardini e dei campi, molto presente
negli aranceti della Conca d’Oro, dove controlla il mercato fondiario o
l’irrigazione, si scontra con la “mafia delle città” o “dei cantieri”,
specializzata nell’immobiliare e nel
riciclaggio del danaro sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio
favorito, anche, dalla libera circolazione di capitali nell’Europa in
costruzione.
Numerose vittime scompaiono, allora, e nessuno ne ritrova i cadaveri,
discretamente colati nel cemento di immobili in costruzione…
Lo stermino del clan Navarra, di Corleone, per ordine di Luciano Leggio è
uno degli episodi più sanguinosi di questi lutti senza pietà.
I Corleonesi, si impongono, allora,
progressivamente, alla testa della mafia siciliana, innanzitutto nella persona
di Luciano Leggio, poi, del suo braccio destro Totò Riina.
La mafia diviene più violenta e più del potere locale o la considerazione
che assicura, è la ricchezza che costituisce l’obiettivo delle nuove
generazioni.
Una “mafia dei capi di impresa” corrotti, organizzata in una vera
multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia rurale, uscita
degli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di somme astronomiche tratte da
attività illegali e docilità degli impiegati delle imprese mafiose
costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, che non stentano
affatto a prendere il controllo di settori interi dell’economia siciliana o
italiana.
La potenza finanziaria, tratta dal traffico di droga, procura, di nuovo,
i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato italiano, in seno al quale
diviene possibile acquistare preziose complicità, ciò di cui testimoniano i sospetti
molto seri, portati su Giulio Andreotti, presidente del Consiglio dei Ministri,
per sette mandati, e vero centro di gravità del sistema politico per decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in Parlamento, nel 1962, non ottiene
che modestissimi risultati e molti funzionari, poliziotti e magistrati onesti pagheranno,
con la vita, la volontà di combattere, seriamente, il crimine organizzato.
La serie di assassinii, che ha segnato gli anni 1970 e che ha culminato,
nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla
Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione delle menti, soprattutto in
Sicilia, dove la mafia non può più beneficiare del consenso tacito, che gli
garantiva una impunità quasi totale.
La defezione di Tommaso Buscetta costituisce una svolta nella lotta contro la
mafia. Lo seguono Salvatore Contorno, Vincenzo Sinagra e una ventina di altri
pentiti, che permettono di accumulare le prove per il maxiprocesso del 1986 [https://www.youtube.com/watch?v=RLbYDg6Qyj8].
Nel 1992, la Giustizia italiana riconosce l’esistenza
di una organizzazione centralizzata chiamata Cosa Nostra. La mafia ha, appena,
subito una delle sue peggiori disfatte. Totò Riina, che teme per la sua
sopravvivenza, organizza una serie di attentati: dopo Giovanni Falcone, anche,
Paolo Borsellino è vittima di una bomba, nel 1992.
Il padrino dei padrini è catturato, il 15
gennaio 1993, dal CRIMOR, la squadra speciale dei ROS, guidata da Sergio De Caprio, più conosciuto come Capitano
Ultimo.
Leoluca Bagarella lo sostituisce.
Quello stesso anno, mentre gli attentati
continuano, la Chiesa Cattolica afferma, ufficialmente, la sua ostilità alla
mafia.
Bagarella è arrestato dalla DIA, il 24
giugno 1995.
Giovanni Brusca, lo scannacristiani, il 20
maggio 1996, ad Agrigento.
Bernardo Provenzano, detto “il Trattore”,
prende la guida di Cosa Nostra fino al suo arresto, l’11 aprile 2006, in una masseria, a Corleone.
Uomo di mano di Riina, ferma la politica degli attentati e mostra uno stile di
comando più conciliante. Provenzano torna al racket di protezione, sviluppa i legami con le organizzazioni
straniere, previene le defezioni.
Salvatore Lo Piccolo, che sostituisce
Provenzano, afferma la sua autorità, ordinando l’assassinio del boss Nicolò
Ingarao, il 13 giugno 2007,
in piena Palermo.
Salvatore Lo Piccolo è arrestato, il 5
novembre dello stesso anno, a Giardinello, dalla Sezione Catturandi.
La lotta contro la mafia è, ancora, lontano
dall’essere terminata, fintanto che non sarà combattuta dall’interno, vale a
dire in seno allo Stato italiano, con il quale vive in simbiosi.
O, come suggerisce Napoleone Colajanni, alla
fine del suo libro, Nel regno della mafia,
pubblicato solo 114 anni fa:
Daniela
Zini
Copyright
© 29 agosto 2014 ADZ
President
John F. Kennedy
Waldorf-Astoria
Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be
here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an
article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the
burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New
York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace
Greeley, employed as its London
correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone
broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing
editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per
instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest
petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx
looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating
his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the
cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism,
revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more
kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have
been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the
next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the
expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight
“The President and the Press.” Some may suggest that this would be more
naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my
sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat
from another country demanded recently that our State Department repudiate
certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply
that this Administration was not responsible for the press, for the press had
already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to
deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in
recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the
press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or
defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly
beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences
to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous
qualities displayed by your Washington
correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine
the proper degree of privacy which the press should allow to any President and
his family.
If in the last few months your White House reporters
and photographers have been attending church services with regularity, that has
surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire
service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green
privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do
to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did
he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to
publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in
the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to
illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have
loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the
future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping
either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our
security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere
of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two
requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements
that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and
fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need
for a far greater public information; and, second, to the need for far greater
official secrecy.
I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and
open society; and we are as a people inherently and historically opposed to
secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long
ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent
facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today,
there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating
its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the
survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is
very grave danger that an announced need for increased security will be seized
upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official
censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that
it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is
high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an
excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to
withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every
newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the
nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press
have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to
prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present
danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First
Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce
the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our
way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing
around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has
been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles
have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before
it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that
no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a
finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has
never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics,
a change in missions - by the government, by the people, by every businessman
or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by
a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for
expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on
subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas
by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast
human and material resources into the building of a tightly knit, highly
efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic,
scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its
mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised.
No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It
conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would
ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary
restraints of national security - and the question remains whether those
restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of
attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s
foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they
would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage;
that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert
operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike;
that the size, the strength, the location and the nature of our forces and
weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in
the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign
power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning
a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at
the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal,
patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare,
they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of
open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of
national security. And my question tonight is whether additional tests should
not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public
official should answer it for you. No governmental plan should impose its
restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation,
in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the
means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem
to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your
newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s
sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh
his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot
now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider
themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of
War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms
of censorship or any new types of security classifications. I have no easy
answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I
had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the
industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider
the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of
self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every
story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the
interest of the national security?” And I hope that every group in America
- unions and businessmen and public officials at every level - will ask the
same question of their endeavors, and subject their actions to the same
exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the
voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that
we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps
there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold
and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any
action that results, are both painful and without precedent. But this is a time
of peace and peril which knows no precedent in history.
II
It is the unprecedented nature of this challenge that
also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And
that is our obligation to inform and alert the American people - to make
certain that they possess all the facts that they need, and understand them as
well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices
that we face.
No President should fear public scrutiny of his
program. For from that scrutiny comes understanding; and from that
understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not
asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help
in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I
have complete confidence in the response and dedication of our citizens
whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your
readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its
errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until
you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our
errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration
and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the
Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from
controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment -
the only business in America specifically protected by the Constitution - not
primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the
sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to
arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our
crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public
opinion.
This means greater coverage and analysis of
international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand
and local. It means greater attention to improved understanding of the news as
well as improved transmission. And it means, finally, that government at all
levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible
information outside the narrowest limits of national security - and we intend
to do it.
III
It was early in the Seventeenth Century that Francis
Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the
compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations
first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes
and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one
world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate
limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder
of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we
look for strength and assistance, confident that with your help man will be
what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik
La storia del dottor Galati ci serve come chiave di lettura per capire come la
mafia si muovesse sul territorio. Partiamo dal primo anello della catena:
Antonio Giammona, colui che appare il maggior esponente della mafia palermitana
ottocentesca a capo della cosca dell’Uditore, dagli anni 1870. Giammona nasce,
nella borgata di Passo di Rignano, intorno al 1819, ed è poverissimo fino al
1848, ma, “briganteggiando sotto il
vessillo della rivoluzione”, diviene affittuario di giardini, proprietario
di terreni e di immobili, acquistati nelle vendite demaniali del periodo
post-unitario, nonché titolare di una azienda pastorizia, per un patrimonio
stimato, nel 1875, intorno alle 150mila lire. In tempo di suffragio ristretto,
controlla una cinquantina di voti. Da Giammona si dipanano tre fili: verso il
basso, guardiani, ladri, estortori, briganti, poliziotti; verso i suoi pari,
gli altri capi della mafia, il capo-brigante Angelo Pugliese, i grandi
gabellotti Guccione; verso l’alto, gli uomini eminenti che lo proteggono e che
lui protegge. Il filo che si dipana verso l’alto porta, soprattutto, al barone
Nicolò Turrisi Colonna, grande proprietario terriero, patriota prima dell’Unità
e, poi, esponente di punta della Sinistra, senatore e sindaco di Palermo.
Rappresenta il secondo anello della nostra catena. Nel 1860, lo troviamo a capo
della Guardia Nazionale cittadina, nella quale Giammona è ufficiale.
Quando,
il 1° marzo 1876, arrivarono a Palermo il barone Leopoldo Franchetti e il
barone Sidney Sonnino, una delle prime persone che vollero incontrare nel
capoluogo dell’isola fu proprio Nicolò Turrisi Colonna. Ma ecco cosa scrissero
sul suo conto, nel chiedere a un loro amico una lettera di presentazione per il
barone:
“Qui lo dicono legato colla maffia – ma
questo non c’importa, e si vorrebbe sentire quello che dice[...] Guardi di non
dire a nessuno a proposito del Barone Turrisi quello che le dico più sopra
intorno ai supposti suoi legami colla maffia. Qualche suo amico potrebbe
scriverglielo, e questo ci farebbe un brutto servizio.”
Molti
elementi suggeriscono che Turrisi Colonna non fosse, in realtà, il capo della
mafia, ma l’uomo che forniva una essenziale protezione politica ai più
importanti e spietati mafiosi di Palermo. Le voci sui suoi legami con la mafia
erano, largamente, diffuse. A Roma, nelle cerchie della Corte, perfino, membri
del suo raggruppamento politico esprimevano riserve su di lui.
Turrisi
Colonna fu, soltanto, il primo di una lunga serie di uomini politici italiani
le cui azioni, in materia di mafia, non andavano d’accordo con le parole.
Nonostante la sua struttura e il suo codice d’onore, la mafia siciliana non
sarebbe stata niente senza i legami con uomini politici come Turrisi Colonna.
Le sarebbe servito ben poco corrompere poliziotti e magistrati se le autorità
sovraordinate agli uni e agli altri si fossero dedicati alla difesa imparziale
del dominio della legge. E, nella contabilità della mafia, un politico amico è
tanto più utile quanto più grande è la sua credibilità. Se, per diventare
credibili bisogna tuonare contro il crimine, o effettuare diagnosi dello stato
dell’ordine pubblico in Sicilia, nessuna obiezione.
Nello stesso periodo la mafia fece il suo primo cadavere eccellente: il
marchese Emanuele Notarbartolo. Il primo febbraio 1893 due mafiosi commisero
l’omicidio su un treno diretto per Palermo. La vittima, persona integerrima, si
inimicò Raffaele Palizzolo, uomo politico siciliano colluso con la mafia. Il
conflitto tra i due si accese, sia quando Notarbartolo divenne sindaco di
Paleremo, sia quando fu eletto direttore generale del Banco di Sicilia
[Palizzolo era membro del consiglio direttivo], perché il marchese si oppose al
sistema di potere costruito da Palizzolo. La faccenda diventò personale a tal
punto che don Raffaele decise di dare sfogo alla sua vendetta e ordinò che il
suo nemico venisse ucciso. Il figlio di Notarbartolo, Leopoldo, si costituì
parte civile al processo e, tra lo stupore del pubblico, accusò pubblicamente
Raffaele Palizzolo di essere il mandante dell’omicidio del padre. Inoltre
riuscì ad avere l’appoggio politico del presidente del consiglio [Pelloux,
amico della famiglia Notarbartolo], che spinse affinchè si spostasse il
processo da Palermo a Milano per evitare intimidazioni nei confronti dei
testimoni, e fece in modo che la camera votasse a favore dell’autorizzazione a
procedere nei confronti di Palizzolo. Un prezioso aiuto per fare luce sul caso
la diede il questore Sangiorgi partecipando alle indagini. Dopo undici mesi di
udienza la Corte d’Assise di Bologna [nel frattempo il processo era stato
spostato nel capoluogo emiliano] condannò Palizzolo e uno degli assassini a
trenta anni di carcere. Per protesta si crearono in Sicilia movimenti a favore
della sicilianità, poiché questa sentenza era frutto di un complotto ordito dai
settentrionali per delegittimare l’intero popolo dell’isola. Fu un momento
importantissimo, era stato inferto un duro colpo alla mafia e al potere
politico colluso con essa. Purtroppo fu una vittoria di Pirro: la cassazione
annullò il processo per un vizio formale [un testimone non aveva giurato in una
sua deposizione]. Il nuovo processo, svoltosi a Firenze, nel 1904, produsse
l’assoluzione degli imputati.
Leopoldo Franchetti, Le condizioni
politiche e amministrative della Sicilia, 1876.
Leopoldo Franchetti, Le condizioni
politiche e amministrative della Sicilia, 1876.
Gli anni 1920 e la prosperità che li accompagna oltre Atlantico
vedono la Mano Nera dell’inizio del secolo sostituita dall’Unione Siciliana,
antenata di Cosa Nostra, in seno alla quale si distinguono, nel modo in cui si
sa, con il favore del proibizionismo, Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese,
Frank Costello e Joe Profaci.
I servizi di informazione
americani si servirono di Lucky Luciano per determinare la presenza di spie
tedesche, negli Stati Uniti, attraverso il sindacato dei dockers, dopo l’incendio del transatlantico Normandie, nel febbraio del 1942.