“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 29 agosto 2014

SOCIETA' SEGRETE II. LA MAFIA 2. LA ONORATA SOCIETA' di Daniela Zini



“He who controls the past controls the future.
He who controls the present controls the past.”
George Orwell, 1984
SOCIETA’ SEGRETE 

“In politics, nothing happens by accident. If it happens, you can bet it was planned that way.”
Franklin D. Roosevelt


“Ibo singulariter donec transeam.”


A mio Nonno
Tu desideravi un nipote, un maschio, e, invece, sono nata io!

“Destino. Non è una parola da bambina”,
dicevi Tu.
“Sei, ancora, troppo piccola per afferrare il valore divinatorio di questa parola. Non è il momento di scrivere.”
“Sì, invece!”
Batto i piedi.
“Il mio Diario!
Dove hai messo il mio Diario?
Dove lo hai nascosto?
Restituiscimelo!”
Riprendo con rabbia il mio tesoro. Mi rifugio in un angolo ed estraggo dal cesto di vimini un quaderno con la rilegatura in cuoio.
Sulla prima pagina, in bella grafia, la scritta:
“Il mio Diario”
Potrei definirlo “il mio Amico, il mio Confidente, il mio Specchio”.
Nel Diario io mi rifugio.
Io mi ritrovo.
Mi ammiro.
Mi abbandono.
Confido intime gioie e dolori.
Chi trascorre, a otto anni, le giornate scrivendo? 
Il Diario mi accetta completamente. Con i miei difetti e le mie bizzarrie. Non mi giudica e non mi rimprovera.
Il mio Diario mi ama per quello che sono.
Come tutti coloro che amano!
“Capisci Nonno?”
Non pensare a Lui.
L’Assente.
L’Artista adorato.
Non evocarLo, per non coprire le pagine di lacrime. Per non macchiare il Diario. In tal caso, non oseresti più inviarGlielo, come una lettera, la più lunga lettera che mai sia stata scritta a un Nonno.
Non devi piangere, ma scrivere.
Pongo il quaderno sulle ginocchia, lo sfoglio e mi fermo sull’ultima frase scritta:
“Eccomi ancora con il mio Diario.
A lui confiderò i miei pensieri…
Stiamo arrivando a Marseille, tutti sono felici.
Anche io lo sono, ma, in fondo, preferirei tornare a Venezia…
Ho otto anni, lo so, ma non sono abbastanza seria. Ieri sera mi sono detta: “Domani sarò buona e assennata.”
Assennata?
Non lo sono più di ieri.
Non ho, ancora, pensato di divenire ragionevole, di dominare le passioni e il mio carattere…
Sono parole profonde, frutto di riflessione.
Scrivi D!
Ciò che vivi!
Ciò che vedi!
Io che affermo:
“Mi sento diversa da tutti. Ho compreso che nessun altro bambino ha pensieri simili ai miei…
I miei desideri, i miei sogni, le mie ambizioni sono, profondamente, diversi…
Intendo dedicarmi interamente alla Poesia, alla Prosa, non per conquistare la Gloria, ma solo per il piacere di scrivere…
La tempesta si è placata.
La nave getta l’ancora e io richiudo il mio Diario…”
Scrivo perché mi piace il processo creativo letterario, scrivo come amo, perché questo è, probabilmente, il mio Destino, la mia sola consolazione.
Questo Diario, un giorno, farà le veci di una intera biblioteca, di tutta una folla di libri inaccessibili alla mia errabonda e, ormai, spoglia vita.   
Chi per caso, quel giorno, si prendesse la briga di leggerlo, vi troverebbe, fedelmente, rispecchiato tutto il processo, sempre più celere, del mio sviluppo, forse, già, definito…
Le stesse citazioni che lo costellano, riflettono i miei diversi e successivi stati d’animo…
D


“Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.”
Giovanni Falcone

ai Magistrati e alle Forze dell’Ordine, che, quotidianamente, sono impegnati nella lotta alla criminalità organizzata.
A chi sostiene che tanto non cambierà mai nulla, vorrei dire:
“Il problema siamo tutti noi che non facciamo nulla.
Stabiliamo una presenza costante o avremo una costante violenza.
Meglio provare e non riuscire che non riuscire a provare!”
Daniela Zini

 Douleur
Daniela Zini

Mon abîme s’emplit de leur regard,
Qui se fondit en mon être, et fut si mien
Que je doute si cette haleine d’agonie
Est encore vie ou mort hallucinée.

L’Archange vint, abattit son épée
Sur le double laurier qui fleurissait
Dans le jardin clos… et ce jour-là
Revint l’ombre et je retournai à mon néant.

Je crus que le monde, devant l’humaine peur,
Allait s’écrouler couvert par les débris
De l’effondrement total du firmament…

Mais je vis la terre en paix, en paix les sommets,
La campagne sereine, pure la rivière,
La montagne bleue et le vent apaisé !...


SOCIETA’ SEGRETE I. LA CAMORRA 1. LA CAMORRA

SOCIETA’ SEGRETE II. LA MAFIA 1. LA MAFIA AL CUORE DELLO STATO


Crediamo, veramente, di conoscere tutto ciò che accade sul nostro pianeta?
Gli uomini che occupano uno spazio di primo piano sulla scena politica dispongono di un potere reale?
Il mondo degli affari è viziato da società segrete?
Molti sostengono che potenti personaggi esercitino un controllo assoluto su tutti gli eventi mondiali.
È il problema essenziale che tratteremo in questa inchiesta, dove si dimostra, attraverso una serie di esempi stupefacenti, che la sorte delle Nazioni dipende, sovente, dalla volontà di gruppi di uomini che non hanno alcuna funzione ufficiale. Si tratta di società segrete, veri cripto-governi, che reggono la nostra sorte a insaputa di tutti. La loro esistenza non può essere avvertita che quando un fatto imprevisto li obbliga ad agire alla luce del sole.
Circa due anni e mezzo prima del suo assassinio, il 27 aprile 1961, John Fitzgerald Kennedy tenne ai rappresentanti della stampa, riuniti presso l’Hotel Waldorf-Astoria di New York, un discorso incentrato sulla analisi e sul pericolo della Guerra Fredda [http://www.youtube.com/watch?v=PFMbYifiXI4][1], tuttavia, alcuni suoi passaggi, sembrano alludere, non alla sfida acerrima contro l’Unione Sovietica, ma a qualcosa di altro di più oscuro e di più pericoloso.
“[…] La stessa parola “segretezza” è ripugnante in una società libera e aperta; e noi, come popolo, siamo intimamente e storicamente contrari alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Abbiamo deciso, molto tempo fa, che i pericoli di un eccessivo e ingiustificato occultamento di fatti pertinenti superino, di gran lunga, i pericoli che vengono invocati a giustificazione. […]”
La storia è costellata di enigmi intorno alle società segrete, che si tratti di potenti organizzazioni economiche, sociali, politiche o di clubs privati riservati a una élite.  
Pressoché tutte le civiltà sono state, in un’epoca o in un’altra, il rifugio di queste società dell’ombra: riunioni dietro porte chiuse, divieto di rivelare ciò che si dice all’esterno, sospetto a ogni gesto o parola di uno dei membri...
Il mistero di cui le società segrete si ammantano non è avulso dall’interesse che suscitano appena se ne parli.
E se si cercasse di squarciare questo mistero?
Che ne è della sedicente influenza delle società segrete attraverso la storia?
Sono state, sono così potenti come si pretende?
Vi è motivo di temerle?
Tante domande alla partenza di una appassionante incursione nel cuore delle società segrete più celebri della storia.
In questo reportage, solidamente documentato, penetreremo all’interno delle società segrete più conosciute, riassumendone la storia, descrivendone i riti di iniziazione, i segni e il linguaggio, che sono loro propri.
Se le voci che circondano le società segrete, rispondono, in parte, alla sete di meraviglioso, che ci viene dalla nostra infanzia, contribuiscono, troppo sovente, ad assumere un pensiero non critico, che degenera, facilmente, in paranoia.  
Dedicare una inchiesta alle società segrete in un mondo, in cui la cultura del segreto [di Stato, scientifico, nucleare, ecc.] viene, incessantemente, a ricordarci che, in quanto semplici cittadini, noi restiamo fuori degli arcani di una conoscenza superiore, cui solo gli “eletti” [capi di Stato, militari, diplomatici, spie, ecc.] possono accedere, mi è sembrata una idea luminosa e illuminante.
Non sono, certo, la prima, tuttavia, i miei predecessori sono stati, sovente, credibili, ma discutibili, perché, occorrendo un inizio di cui non si aveva prova, questo è stato, sovente, su un continente scomparso o su un disco volante.
Una delle numerose tesi ricorrenti sulle società segrete è che le suddette società segrete funzionino come le nostre società “reali”, di cui rappresentano dei doppi sovversivi, critici, inaccessibili, ma anche necessari per controbilanciare l’ordine mondiale, governato dai poteri temporali, sensatamente trasparenti, perché eletti secondo principi democratici.
Scrive Georg Simmel:
“Le società segrete sono, per così dire, delle repliche in miniatura del “mondo ufficiale”, al quale resistono e si oppongono.”
L’inizio delle società segrete si perde, necessariamente, nella rarefazione delle tracce di un passato sempre più lontano: Grecia, Egitto dei faraoni neri, Sumer e, forse, oltre…
“In principio era il buio.”
Sarebbe stato più comodo iniziare dalla fine, giacché le società stesse sono alla ricerca delle loro origini.
“Poi fu la luce.”
Allorché si ergeva nella direzione da cui veniva la luce, l’uomo era in contatto con il divino e le difficoltà materiali della vita, che, forse, formavano, allora, una unica cosa, ma che sarebbero divenute, con la nascita del verbo e il risveglio dell’uomo alla parola, i due  poli della sua esistenza. 
Nessuno sa quanto tempo l’uomo sia vissuto al riparo del dubbio neppure se ne sia stato, mai, abitato.
Ma che la sua prima parola sia stata un inno alla natura o una espressione del suo bisogno alimentare… ben presto, l’uomo iniziò a tentare di condividere le proprie idee con i suoi fratelli e, ben presto, i più sottili di questi concetti richiesero più che parole: la trasmissione dell’esperienza e, dunque, l’iniziazione.
È possibile che le prime iniziazioni abbiano riguardato il modo di sopravvivere nella divina natura circostante. O che abbiano trasmesso la certezza di un mondo spirituale nascosto dietro la materia.
Nell’Antichità, i culti misterici si svilupparono e conobbero un grande favore nel mondo greco-romano.
In seguito, il Medioevo, teatro di guerre di religione, dette vita ai misteriosi Templari.
Nel Rinascimento, le società segrete assunsero tutta un’altra dimensione con il leggendario ordine dei Rosa-Croce e, soprattutto, con la nascita della Massoneria.
Il XIX secolo segna, ancora, un’altra svolta: la proliferazione delle società segrete, che hanno, come corollario, legittimazioni, prestiti sempre più diversificati e una attrattiva per la razionalità scientifica. 
Il periodo contemporaneo è segnato da una moltiplicazione di società segrete, in particolare nell’era di Internet, con possibili derive settarie a apocalittiche.
La storia delle società segrete ha una importante influenza sulla storia. Esiste una versione ufficiale della storia, versione detta esoterica, che tiene conto delle società segrete, perché sono, sovente, uscite dall’ombra.
Ma ciò che questa storia non dice sono le ragioni segrete dei loro interventi.
E, per comprenderle, è alla storia esoterica che bisognerà interessarsi.
Queste società segrete sono, profondamente, legate alla magia, a partire dai documenti più antichi in nostro possesso.
Vi farò la grazia, tuttavia, di farne ricadere la colpa, come è, sovente, il caso, sui massoni, sui sionisti o su Satana.
Andrò, subito, al cuore del problema, esprimendomi senza ambage, senza temere di affrontare i sistemi criminali, basati sul controllo, il potere e la manipolazione. 
Un nuovo modo di considerare il mondo in cui viviamo!



II. LA MAFIA
di
Daniela Zini

2. LA ONORATA SOCIETA’
Alla fine degli anni 1970, Cosa Nostra è la organizzazione criminale più potente al mondo e Palermo la sua capitale. La Sicilia è, in quel momento, il regno del clan dei Corleonesi, che scatena una lotta interna alla mafia e sfida lo Stato. Chiunque tenti di ostacolarlo è annientato. In questo clima di violenza, due giudici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con un pugno di uomini coraggiosi del pool anti-mafia, iniziano a opporsi a Cosa Nostra e alle sue metastasi, che si propagano fino alle più alte cariche dello Stato italiano.

 
  “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare
più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli.”
Carlo Alberto Dalla Chiesa



Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” [e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere].
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista [Milano 1969] e una seconda fase antifascista [Brescia e Bologna 1974].
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia [e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia], hanno prima creato [del resto miseramente fallendo] una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali [per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato], a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti [per creare in concreto la tensione anticomunista] e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome [per creare la successiva tensione antifascista]. Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale [mentre i boschi italiani bruciavano], o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti [attentati alle istituzioni e stragi] di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico [del potere o intorno al potere], compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito [come se non si aspettasse altro che questo] al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità.
È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi [e non al posto di questo] io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia [anzi non aspetto altro che questo] solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili [e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori]. Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Pier Paolo Pasolini,, Cos’è questo golpe? Io so, Corriere della Sera, 14 novembre 1974 [http://www.corriere.it/speciali/pasolini/ioso.html, https://www.youtube.com/watch?v=9k1Kv4XKE00]
 


“Ragazzi godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli ribadiscono e sollecitano di diventare protagonisti e partecipi nella salvaguardia della comunità in cui vivono.”
 Antonino Caponnetto


 
Che cos’è la mafia?
Leggo nel Simone:
“Organizzazione criminale radicata nel nostro Paese, caratterizzata da una rigida struttura piramidale e dotata di un enorme potere economico; è oggi diffusa non solo a livello nazionale, ma anche internazionale.
Le sue origini poggiano sulla particolare struttura socio-economica della Sicilia occidentale, caratterizzata dallo sfruttamento del latifondo e da una tipica mentalità clientelare basata su di un atteggiamento di diffidenza, un tempo giustificato, nei confronti dello Stato. Tale diffidenza favoriva la sottoposizione dei ceti più deboli alla signoria e alla protezione del più potente, perpetuando così un sistema di tipo feudale.
Nel secondo dopoguerra si è verificata una trasformazione nella struttura e nei metodi della [—] che si è prepotentemente allargata estendendo la sua attività al controllo del mercato ortofrutticolo, allo sfruttamento della prostituzione e della manodopera, al contrabbando di armi e tabacco, alla commissione di illeciti edilizi, al traffico internazionale della droga in forma monopolizzata.
Questa trasformazione ha comportato il ricorso indiscriminato alla violenza, sia per affermare il predominio tra le cosche, sia nell’offensiva senza esclusione di colpi contro funzionari dello Stato, magistrati, poliziotti e uomini politici schierati dalla parte dell’interesse pubblico e della giustizia.”
[http://www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&dizionario=1&id=1048]
Di tutte le definizioni, la più riuscita mi sembra, tuttavia, quella di Mario Puzo, l’autore di The Godfather:
“È un business come un altro, con la differenza che ogni tanto si spara.”
Infatti, Meyer Lansky, considerato il banchiere del ramo americano, diceva con orgoglio:
“Siamo importanti, siamo più grossi dell’United States Steel[2].”,
quelli dell’acciaio. 
Nell’analisi della struttura organizzativa della criminalità mafiosa siciliana, due tesi si sono, sempre, contrapposte:
-         l’una dell’esistenza di una organizzazione unica e coordinata;
-         l’altra di una pluralità di organizzazioni disperse sul territorio.
Queste due teorie hanno conseguenze diverse sulla natura e la definizione della criminalità mafiosa. Di più, sfociano in strategie diverse quanto alle forme di lotta da intraprendere contro i mafiosi. L’intento di questo reportage è di analizzare le condizioni che possono determinare, empiricamente, la preminenza di una tesi sull’altra in contesti socio-storici determinati; ciò ci porterà a spostare gli obiettivi del dibattito, focalizzati in Italia, da lungo tempo, sulla struttura organizzativa, per meglio intendersi su ciò che può essere una criminalità di tipo mafioso.
La genesi della mafia risale agli anni 1860-1876. Emerge al momento dell’unificazione dell’Italia, della spedizione di Garibaldi in Sicilia, nell’entroterra di Palermo, in seno al mondo degli affari capitalista del commercio degli agrumi. È ciò che illustra il caso del dottor Gaspare Galati[3], vittima delle manovre di una cosca mafiosa tra il 1872 e il 1875, il quale, volle scuotere l’opinione pubblica e, nell’agosto del 1875, scrisse un resoconto circostanziato delle proprie disavventure, precisando che il suo non era affatto un caso isolato nella Sicilia Occidentale. Nel memorandum, indirizzato alle autorità di Roma, dal titolo I casi di Malaspina e la mafia nelle campagne di Palermo, il dottor Galati ricordava che la borgata dell’Uditore, pur contando 800 abitanti, nel solo 1874, aveva fatto registrare ben 34 omicidi, anche di donne e bambini. A Malaspina, l’opinione pubblica sapeva chi fossero i responsabili dei delitti, ma le due “famiglie”, i Giammona e gli Amoroso, operavano indisturbate. Lo scritto del dottor Galati, insieme ad altri, indusse il giovane Regno d’Italia, che aspirava a mettersi al passo delle grandi Nazioni europee, a inviare una commissione parlamentare di inchiesta, in Sicilia. 
È su un terriccio antropologico e storico molto particolare che è nata ed è fiorita la mafia. La mafia è, infatti, strettamente, collegata alle realtà politiche e sociali di una Sicilia a lungo sottomessa a padroni stranieri, quali i Bizantini, i Musulmani, i Normanni, gli Svevi, gli Angiò, gli Aragonesi, gli Spagnoli, i Borbone di Napoli e, infine, i Piemontesi, una volta realizzata l’unità d’Italia; una terra sempre, preoccupata di preservare la propria autonomia e che costruisce, nel XIX secolo, una società parallela garante della resistenza allo straniero, fondata su tutto un sistema di riferimenti arcaici e feudali. Questi sono, agevolmente, identificabili: gerarchia immutabile; rispetto quasi religioso per il capo reputato infallibile; giustizia immediata e sbrigativa, che riposa su un codice non scritto, in cui la parola “fa legge”; senso del gruppo, dalle “famiglie”, che si dividevano il controllo di una città, fino alla “sicilianità” da difendere, a qualunque costo, contro le intrusioni dei poteri esterni o contro ogni tentativo di uno Stato centralizzato, che cercasse di imporre la sua autorità. Aggiunti al culto della virilità e a quello del segreto, tutti questi elementi compongono, nella loro semplicità, la loro teatralità e la loro violenza, il cemento di una contro-società, che finisce per confondersi, sur fond di corruzione e di potere parallelo, con la società tout court. 
Agli inizi del 1838, molto prima della realizzazione dell’unità d’Italia, un funzionario borbonico, Pietro Calà Ulloa [1801-1879], procuratore generale, che rappresentava, a Trapani, la Giustizia del Regno delle Due Sicilie e sarebbe divenuto primo ministro di re Francesco II in esilio, illustra in due relazioni, al guardasigilli, Cataldo Parisio, a Napoli, un quadro palpitante di dati e di fatti, di rilievi e di osservazioni molto interessanti, attraverso cui possiamo formarci una idea abbastanza chiara della situazione interna della Sicilia, appena qualche mese dopo uno dei suoi più gravi rivolgimenti, i moti del 1837.
Nella prima, datata 25 aprile, sono tratteggiate le condizioni della magistratura in Sicilia.
“Il basso stato in cui è caduta la giustizia in questa Sicilia Cisfarana nacque da diverse e gravissime circostanze. La prima fra tutte fu l’avversione al novello ordinamento giudiziario, quindi l’ignavia di coloro che dovevano dar moto alla macchina novella.
L’amministrazione della giustizia fu, durante il decennio, un caos; perciocché agli antichi vizi delle leggi e dei magistrati del Regno si aggiunsero i nuovi generati dalle passioni politiche, dai bisogni della guerra, dalle urgenze dell’Erario, dalla esigenza degli stranieri e degli emigrati.
Il riordinamento del 1819 promettea un felice avvenire, ma gli uomini del Foro, che avean nome, siccome avvenne anche nel Regno, si pronunziarono fortemente contro l’ordine novello delle cose.”
Nella seconda, datata 3 agosto, di più ampio respiro e di più ricco contenuto, si descrivono le condizioni politiche, sociali ed economiche della stessa isola.  
“Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innnocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Così come accadono i furti escono, i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile.”
Nella stessa epoca, il procuratore generale di Palermo, Giuseppe Ferrigno, incaricato da Ferdinando II, di accertare le condizioni delle province occidentali dell’isola, dopo aver messo in rilievo lo stato di precarietà dei pubblici servizi e, particolarmente, di quelli della pubblica sicurezza, scriveva al medesimo ministro, attribuendone la ragione “alla mancanza di fortuna del terzo ceto, che lo rendeva dipendente dalla nobiltà” [http://archiviopiolatorre.camera.it/img-repo/DOCUMENTAZIONE/Antimafia/01_rel_p03_1.pdf], nonché “alla mancanza di pubblico e privato insegnamento, al sistema delle pratiche degli uomini del foro, al disordine nella magistratura che, priva com’era di una vera e propria autonomia, non poteva essere al paese esempio di moralità”. 
Nel 1864, il barone Nicolò Turrisi Colonna[4], nel suo studio dal titolo Cenni sullo stato attuale della Pubblica sicurezza in Sicilia, spiega come la mafia avesse approfittato delle rivoluzioni del 1848 e del 1860, per accompagnare il cambiamento e insediarsi nella società siciliana. Ricorda come, alle sue origini, la Onorata Società, primo nome della mafia e prodotto delle tradizioni locali, fosse, innanzitutto, per i siciliani un mezzo per resistere agli innumerevoli invasori, succedutisi nella sua Storia, e per protestare contro la disaffezione, di cui erano oggetto da parte del potere centrale. Tuttavia, il contro-potere di partenza divenne un “sistema parallelo di autorità”, che si sostituì al potere locale fino a costituire uno Stato nello Stato.
Ma, quando, nel settembre del 1866, bande armate marciarono, di nuovo, sulla città di Palermo, il reparto della Guardia Nazionale, affidato al barone Nicolò Turrisi Colonna e posto sotto il comando di Antonino Giammona, si oppose alla rivolta. Nel passato, Giammona, come molti altri uomini della violenza, aveva scommesso sulla rivoluzione; ma, ormai, aveva capito che lo Stato italiano era una entità, con la quale si potevano fare affari. Palermo era la città della rivoluzione, ma era, anche una città dove – secondo la malevola interpretazione dei funzionari borbonici – “vivono 40mila proletari, la cui sussistenza dipende dal caso o dal capriccio dei grandi”. La repressione piemontese permise di ristabilire l’ordine, ma il Governo centrale, che, nel frattempo, si era trasferito a Firenze, dopo la firma della Convenzione di Settembre[5] con la Francia, il 15 settembre 1864, avvertì l’esigenza di meglio accertare le reali condizioni della Sicilia. E, per evitare il ripetersi di fenomeni rivoluzionari, fu nominata dalla Camera, il 25 aprile 1867, una commissione di inchiesta, sotto la presidenza di Giuseppe Pisanelli. E, quando il gruppo di parlamentari italiani si recò, in Sicilia, per indagare sulla insicurezza, che regnava sull’isola, e sulla ostilità, manifestata dalla popolazione ai rappresentanti del governo di Firenze, constatò che delinquenza e dissidenza politica erano nate dalla disillusione dei siciliani, delusi dall’annessione al nuovo Regno. La relazione della commissione di inchiesta mise in luce, infatti, che i moti insurrezionali, in Sicilia, erano stati generati dal malcontento, derivante dalle precarie condizioni economico-sociali. Dunque, per intervenire in modo efficace, il Governo avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo, costruendo strade e aprendo nuove scuole, allo scopo di migliorare il tenore di vita e, quindi, neutralizzare le tendenze malavitose. I risultati dell’inchiesta furono presentati, il 2 luglio dello stesso anno, alla Camera dal relatore Giovanni Fabrizi, unitamente a sei progetti di legge formulati dalla stessa Commissione.
È noto come, nella relazione parlamentare sulla inchiesta per i fatti di Palermo del settembre del 1866, il termine mafia, che si imporrà, più tardi, non ricorra, mai. Né la parola è, mai, pronunciata nelle discussioni connesse alla inchiesta. La parola mafia, la cui origine resta misteriosa, anche se alcuni inclinano per una pista araba – i musulmani, venuti dall’attuale Tunisia, avevano occupato l’isola, nel IX secolo, nel periodo in cui Federico II di Hohenstaufen regnava a Palermo –, deriverebbe da màhfal, che designa “l’assemblea” o da mahyàs che significa “proteggere” o “difendere”. Per i siciliani si trattava di difendersi da uno Stato, che imponeva una fiscalità molto più pesante di quella dell’Ancien Régime Bourbonien.
Lo sbarco a Marsala, nel 1860, della spedizione dei Mille, guidata da Giuseppe Garibaldi, aveva, infatti, fatto nascere qualche speranza di riforma agraria e di trasformazione sociale, ma la ridistribuzione delle terre, che era una delle grandi aspirazioni dei contadini siciliani, alimentata anche dalle promesse di Garibaldi, non solo non si realizzò, ma divenne un grande inganno, che determinò un progressivo impoverimento del mondo contadino e bracciantile, fino a giungere alle condizioni di estremo degrado e di miseria dei primi anni 1890. L’immobilismo aveva, infine, trionfato e il deputato siciliano Francesco Crispi [1819-1901] – che si sarebbe fatto campione dell’espansione coloniale italiana – non esitava, allora, a proclamare che la popolazione insulare detestava il Governo di Roma, considerato peggiore di quello dei Borbone di Napoli.
Delinquenza, brigantaggio e banditismo organizzato si svilupparono rapidamente, dal 1860. Gli ex-sostenitori di Garibaldi si rifiutavano di ritornare alla vita civile, quando constatavano che la vittoria dell’insurrezione non aveva cambiato in nulla il loro destino. E, quando il nuovo Regno d’Italia volle imporre il servizio militare, dal 1861, numerosi, non sottomessi, si dettero alla macchia e, in questi margini sociali, la mafia nascente poté reclutare i suoi uomini di mano.  
Come spiega Marie-Anne Matard:
“La Onorata Società non è una semplice associazione di fuorilegge, ma una nuova struttura di potere. Quando si scava un fossato tra lo Stato italiano e il popolo siciliano, si presenta come un “sistema parallelo di autorità”. Direttamente uscito dai quadri preesistenti della vita politica e sociale, il nuovo potere sembra, così, prolungare il feudalesimo, molto tardivamente abolito in Sicilia, durante l’occupazione inglese, nel 1812. Sostituendosi ai baroni, i capi mafiosi incarnano, innanzitutto, l’autorità locale, del paese o della regione, e molti sono più rispettati dei rasppresentanti del potere centrale.” 
Il termine mafia compare, per la prima volta, nell’aprile del 1865, in un rapporto del prefetto di Palermo, Filippo Gualterio, con riferimento a una “associazione malandrinesca” ritenuta “dipendente dai partiti” e, in particolare, collegata agli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, tra i capi, il generale garibaldino Giovanni Corrao [1822-1863][6], ucciso il 3 agosto 1863. Anche la stampa quotidiana, allarmatissima per la temuta congiura clericale e repubblicana, pare non sospettare la presenza della mafia.
Potere parallelo, la mafia, strettamente legata alle classi dirigenti siciliane, inizia, rapidamente, a prendere il controllo del potere politico legale. In tutta la Sicilia occidentale, “fa le elezioni” e può, così, assicurarsi complicità e protezione al più alto livello dello Stato. Sul terreno locale, le “famiglie” più importanti si dividono borghi e regioni e forniscono i mediatori – piccoli notabili, avvocati, contadini agiati, intendenti – che reclutano, secondo il loro buon volere, la manodopera contadina e che gestiscono le aziende dei grandi proprietari assenteisti, garantendo loro la perennità della rendita fondiaria. Sono cacicchi locali, che costituiscono l’asse portante dell’organizzazione mafiosa e assicurano il controllo sociale delle masse rurali arretrate e sottomesse. I delitti, commessi da piccole bande armate, riunite intorno al capo locale, persistono nell’ultimo terzo del XIX secolo; ma è una delinquenza molto più organizzata, creatrice di una illegalità divenuta strutturale, che si impone, in questa epoca, e che permette alla mafia di rinnovare, regolarmente, i suoi uomini di onore – di fatto, gli uomini di mano, incaricati degli affari sporchi – e i suoi quadri, trasformati in tranquilli notabili, che si guardano bene dall’ostentare una fortuna sia improvvisa sia sospetta. L’abigeato, il furto di bovini, è, allora, una industria nazionale in Sicilia, ma la mafia controlla, egualmente, il commercio del ghiaccio e del caffè di contrabbando, importato dalla Tunisia, e preleva una percentuale sulle transazioni fondiarie o immobiliari.
Tutti i tentativi dello Stato centrale per venire a capo di queste diverse forme di delinquenza falliscono, l’una dopo l’altra, per la resistenza della classe politica locale e il sostegno che si è assicurata a Roma. L’arresto o l’esecuzione dei colpevoli non cambiano affatto la situazione e non intaccano il potere della Onorata Società. Il suo dominio sull’opinione insulare è pressoché totale, alla fine del XIX secolo. Nessuno può sperare di guadagnare una elezione senza il sostegno della mafia e l’assassinio del marchese Emanuele Notarbartolo[7], sindaco di Palermo, resta impunito, perché i siciliani unanimi prendono le parti del deputato, accusato di aver commissionato l’assassinio, Raffaele Palizzolo, il quale è, dapprima, assolto per un vizio di forma, poi, discolpato da ogni sospetto.
È l’epoca che vede l’etnologo Giuseppe Pitré affermare:
“La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Molto presente negli ingranaggi dello Stato centrale, ciò che gli garantisce una impunità quasi totale, la mafia può, anche, sollevare l’opinione siciliana contro lo stesso Stato, se manifesta velleità di ristabilire la legalità. 
Dal 1875 al 1885, la Sicilia fu oggetto di tre diverse inchieste:
-         l’inchiesta di Romualdo Bonfadini del 1875;
-         l’inchiesta privata del 1876 di Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti ed Enea Cavalieri, tre giovani laureati dell’Università di Pisa, rispettivamente, di ventisette, ventinove e ventotto anni;
-         l’inchiesta di Abele Damiani [1798-1855], dal 1877 al 1884.
Tre differenti iniziative che, con motivazioni in parte diverse e in parte simili, si proponevano di fare luce sulla realtà siciliana.
L’inchiesta parlamentare del 1875 nacque in quel clima confuso che precedette la caduta della Destra e che, in Sicilia, aveva visto, nelle elezioni del 1874, la sconfitta del Governo. La Sicilia contava, all’epoca, 48mila votanti, che, in quella occasione, avevano dato 44 dei 48 seggi siciliani ai candidati dell’opposizione. La Sinistra, fino ad allora, all’opposizione aveva, insistentemente, chiesto una commissione d’inchiesta, che facesse luce sui legami, spesso torbidi, tra politica e mafia, denunciati dal Procuratore di Palermo Diego Tajani; ma il Governo vi si era, costantemente, opposto. Mutati i rapporti di forza, fu il Governo a farsi promotore di una inchiesta parlamentare, di cui la Sinistra fu una tiepida sostenitrice. L’inchiesta nacque, pertanto, come un elemento tattico di una strategia politica molto più vasta, che vedeva la Destra e la Sinistra lottare per la conduzione politica della Nazione. Romualdo Bonfadini e gli altri suoi otto collaboratori furono, così, costretti dalla contingente situazione politica generale, a dare al loro lavoro un taglio particolare, che finì per limitarne l’importanza e scemarne gli effetti. Se, infatti, il Governo intendeva servirsi dell’inchiesta per colpire i nuovi legami, che la Sinistra aveva saputo stabilire con la classe dirigente siciliana, non era interesse del Governo condurre, fino in fondo, tale indagine, perché avrebbe potuto portare a evidenziare che, in Sicilia, torbide collusioni politiche erano usuali, molto prima della vittoria della Sinistra, e ad averne fatto strumento di potere era stata la stessa Destra governativa. La commissione si rivolse ai Prefetti, ai Sottoprefetti, ai Sindaci e ai Pretori di vari centri della Sicilia e chiese loro un elenco di persone rispettabili di tutti i ceti della cittadinanza e di tutti i partiti politici. Ai nominativi segnalati la commissione indirizzò un questionario circa le condizioni dell’ordine pubblico, dell’economia agricola, dei patti agrari, del benessere dei ceti rurali. La commissione escluse l’esistenza di una questione sociale in Sicilia e fece notare che la situazione economica delle classi agricole siciliane non fosse né migliore né peggiore di quella dei contadini delle altre regioni d’Italia.
La commissione d’inchiesta sullo stato della pubblica sicurezza in Sicilia raccolse una documentazione cospicua e si chiuse con una relazione del deputato lombardo Romualdo Bonfadini.
“La mafia non è un’associazione che abbia forme stabilite e organismi speciali; non è neanche una riunione temporanea di malandrini a scopo transitorio o determinato; non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti e i più abili. Ma è piuttosto lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi, non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dall’intimidazione.”
Nello stesso periodo in cui la Commissione di inchiesta svolgeva i suoi lavori, tre giovani studiosi, Leopoldo Franchetti[8], Sidney Sonnino[9] ed Enea Cavalieri, scendevano in Sicilia per condurre una loro inchiesta privata. Appartenevano tutti e tre al ceto dirigente, ma il loro intento nell’affrontare la questione siciliana era ben diverso da quello che muoveva la Commissione d’inchiesta parlamentare. Si armarono di quattro rivoltelle di grosso calibro, una per ciascuna di loro e una per il servitore che li avrebbe seguiti in Sicilia, e quattro carabine “Vetterli” del recentissimo modello a ripetizione; si fornirono di letti da campo, di tende e di quattro vaschette di rame, che, riempite di acqua, prima di coricarsi, avrebbero isolato i piedi del letto dagli insetti, e si disposero al viaggio. Partirono nei primi del 1876, e attraversarono la Sicilia, in lungo e in largo, inerpicandosi su erte mulattiere e addentrandosi in valloni solitari, confacenti ad agguati. Si recarono da una quarantina di persone, sparse in tutta l’isola, per le quali si erano muniti di lettere di presentazione. Viaggiarono, con molte precauzioni, lasciando trapelare il meno possibile sull’itinerario e le varie tappe e scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento.
Franchetti parla di una “industria della violenza”, praticata, prevalentemente, dai “facinorosi della classe media” che sono divenuti “una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”, la cui sussistenza e il cui sviluppo vanno ricercati “nella classe dominante”.
“La Mafia è unione di persone di ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza avere nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre riunite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge e di giustizia e di ordi­ne pubblico; è un sentimento medioevale di colui che crede di poter provve­dere alla tutela ed alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dalla azione dell’autorità e delle leggi.”[10]
Franchetti rileva anche una contraddizione di fondo nell’azione dello Stato:
“In Sicilia lo Stato si trova in questa dolorosa condizione, che nell’adempiere al primo dei doveri di uno Stato moderno, il mantenimento, cioè, dell’ordine materiale, esso non difende la legge, ma le prepotenze e i soprusi di una parte dei cittadini a danno degli altri. Difatti, mentre l’azione del Governo è efficacissima e pronta contro i disordini popolari, rimane miseramente impotente contro quelli i quali, come il brigantaggio e la mafia, si fondano sopra la classe abbiente, o almeno sopra la parte dominante di essa.”[11]
“L’argomento è ingrato”,
scrive Sonnino,
“perché sappiamo di parlare al vento. I contadini non sono in grado di apprezzare consigli; questi anzi non possono ora nemmeno giungere ai loro orecchi. Potremmo, è vero, appunto perciò, parlare più chiaro, senza timore di destare nessuno spirito di ribellione in quegli animi abbrutiti e ancora in gran parte inconsci della propria abiezione; ma a che sfiatarsi quando nessuno vi ascolta.”[12]
Contrariamente a Bonfadini, relatore della precedente inchiesta, che si era basato sui dati forniti dalla classe dirigente amministrativa locale e aveva finito con il presentare un quadro ottimistico del panorama sociale ed economico insulare, Abele Damiani [1835-1905][13], che aveva la ferma convinzione che precise responsabilità politico-sociali fossero alla base delle arretrate condizioni economico-generali della agricoltura isolana e dell’inumano livello di vita del ceto bracciantile, si ricollegò, decisamente, alle posizioni di Franchetti.
Si doveva, davvero, prestare fede alle tesi naturalistiche, che ipotizzavano nel contadino siciliano una predestinazione alla criminalità sociale sulla base della dolicocefalia occipitale?
È in questi anni, infatti, che la “diversità” del Meridione si insinua e si fissa nell’immaginario del neonato Stato italiano nel segno della inferiorità antropologica e della incomprensione culturale.
“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale.”,
scrive Antonio Gramsci, nel 1926, che non nomina, esplicitamente, Cesare Lombroso.
Non ne aveva bisogno!
Nel 1876, era stata pubblicata la prima edizione de L’uomo delinquente di Cesare Lombroso [1835-1909], secondo il quale, alcuni soggetti erano, naturalmente, portati al delitto in misura maggiore rispetto ad altri, a causa di specifiche differenze nella struttura biologica ed era, infatti, universalmente, noto l’appassionato contributo che il criminologo veronese e i suoi seguaci più fedeli, Alfredo Niceforo[14], in primis, avevano dato, nella fase post-unitaria, alla creazione e diffusione di una idea del Sud quale luogo irredimibile.
La questione meridionale?
La rabbia dei contadini calabresi, lucani, siciliani, campani?
Il brigantaggio?
Un semplice problema di strutture anatomiche, di atavismo criminale!
Altro che ragioni storiche, economiche e sociali, altro che terre da distribuire ai contadini: al Sud erano concentrate troppe “fossette occipitali mediane”, vi viveva “una razza maledetta”, che si poteva affrontare solo con i tribunali militari e la legge 15 agosto 1863, n. 1409, nota come Legge Pica[15].
La neonata scienza positivista forniva la spiegazione!
Damiani operò in mezzo alle difficoltà derivanti dal sospetto, diffuso tra il pubblico, che l’inchiesta avesse scopi fiscali. Compì diversi viaggi in tutti i paesi e capoluoghi della Sicilia e cercò di associarsi l’opera delle persone più competenti nei vari settori dell’indagine, ma soltanto due studiosi di cose agrarie, Nicola Chicoli e Angelo Nicolosi Gallo, collaborarono attivamente con lui.
L’inchiesta di Damiani si presentava ripartita in due parti distinte:
-         l’una verteva sulle condizioni generali dell’agricoltura, con riferimento agli aspetti più squisitamente tecnici: terreni e coltivazioni arboree, coltura del tabacco, del foraggio, delle leguminose, delle graminacee, impianti viticoli, fillossera, bestiame e sua igiene, concimi, monti frumentari, divisione delle proprietà, imposte, prezzi, commerci, viabilità, irrigazione, beni rurali degli enti ecclesiastici;
-         l’altra, dal taglio più propriamente sociale, era volta a definire le condizioni economiche della classe agraria, i suoi rapporti con i proprietari, le condizioni di vita, di salute, l’istruzione, l’incidenza dei costumi tradizionali e delle superstizioni, le abitudini religiose, l’influenza del servizio militare e le prospettive aperte dalla riforma elettorale.
I risultati dell’inchiesta Damiani furono raccolti in 5 tomi, tutti appartenenti al volume 13 dell’inchiesta Jacini. 
A manifestare le proprie considerazioni furono ben 180 pretori, sparsi in ogni angolo della Sicilia.
Il pretore di Partitico esponeva l’idea che i contadini avevano dello Stato:
“La legge è un patto convenzionale, una imposizione a danno del popolo; il governo un gran mostro personificato, dallo usciere fino a quell’essere privilegiato che si chiama re. Esso assorbisce tutto, ruba a man franca, dispone degli averi e delle persone a beneficio di pochi perché appoggiato dalla sbirraglia e dalle baionette.”
E il pretore di Castelvetrano lo confermava:
“Il contadino che feconda col suo enorme lavoro la terra ha un vago sentimento del suo diritto fondamentale a goderne i frutti. Questo sentimento essendo combattuto dalla legge e dalle autorità, non ha ragione alcuna per ritenere che questi siano suoi protettori e suoi amici.”
I pretori confermavano l’esistenza della mafia in forma positiva – e non solo latente o probabile – in un gran numero di mandamenti.
Il pretore di Ravanusa confessava che i pretori, se non parteggiano per la classe dominante, dovevano sopportare una guerra infernale dall’ambiente borghese e dai superiori corrotti e presentava la mafia come “una vasta unione di persone di ogni ceto, senza legami apparenti, allo scopo di provvedere agli interessi comuni, quali che siano” . E scorgeva nella lontana genesi della mafia l’influenza della Chiesa. Recava a prova una bolla, edita da Giovanni Battista dei conti Naselli [1786-1870][16], arcivescovo di Palermo, che si rifaceva alla bolla Taxae cancellariae et poenitentiariae romanae del 1477, il cui articolo 6 dichiara componibile [perdonabile] la falsa testimonianza in udienza giudiziaria, anche se venale; mentre l’articolo 10 dichiara lecito l’operare affinché non si amministri la Giustizia e si liberi un arrestato per delitti, anche se questa azione è venale; come, altresì, è moralmente lecita la corruzione del funzionario per il suddetto fine di impedimento all’esercizio della Giustizia. La composizione che rende lecito l’atto è, naturalmente, subordinata all’acquisto della bolla e all’elemosina, alla Chiesa, di tarì due, grana dodici e piccioli cinque, per ogni tarì 77 e grana 7 del valore del corpo del reato, “rimanendo libero e perdonato in foro conscientiae e tenendosi il denaro come sua cosa propria e giustamente guadagnata e acquistata”. 
Il pretore di Aidone notava che, nel suo mandamento, la classe agricola partecipava, raramente, alla mafia, la quale, invece, nasceva dall’ozio. Osservazione acuta e sintomatica da collegare a quanto scrive il pretore di Lentini:
“L’ozio e la spensieratezza sono i segni necessari e sociali della possidenza e della indipendenza economica.”
Il pretore di Niscemi nota che “delle associazioni a delinquere Meli-Parachiazza e Valenti-Moranda facevano parte persone civili e pensanti, non per spirito di lucro, ma per tenere alta l’influenza partigiana nelle gare municipali”[17]. E osservava che la diffusione della mafia nel suo comune era dovuta a una causa storica:
“Niscemi non conta che meno di tre secoli di esistenza, e la sua popolazione fu collettata nei bassifondi della vasta baronia dei principi di Butera che furono i castellani della terra di Niscemi.”
Il pretore di Rammacca confermava la diagnosi sociale del suo collega di Niscemi, indicando i mafiosi nelle “persone civili e di chiari natali”.
Il pretore di Canicattì chiariva ancora meglio:
“Il contadino è solo uno strumento della mafia nella quale esercita funzioni secondarie. Essa è reclutata fra gente di città; il contadino mafioso abbandona l’agricoltura e si dà a fare il sensale di animali, il bettoliere, il verdumaio e simili. Il contadino generalmente serve la mafia per determinati servizi, tanto che, in un fatto di mafia scoperto nel comune, un contadino, implicato in un assassinio, non sapeva esso rendersi ragione del come e del perché.”[18]
Secondo il pretore di Caltanissetta la mafia era diffusa e reclutata proprio tra i contadini: del che non recava, tuttavia, prova alcuna.
Ma, soprattutto, colpisce l’affermazione del pretore di Corleone, secondo cui la mafia era il “correttivo di tutte le classi”. Dove a parte il significato equivoco del termine “correttivo” è contenuta, potenzialmente, la tesi del carattere interclassista della Onorata Società.
Il pretore di Petralia Sottana scopriva che, nel suo mandamento, i rapporti tra i contadini e i proprietari sono “tali quali devono essere, stando ognuno al suo posto”.
Il pretore di Ragusa si stupiva che il contadino “non comprende la necessità delle disuguaglianze di fatto”.
Abele Damiani tracciò un quadro completo delle misere condizioni economiche, morali e sociali dei contadini e concludeva, così, la sua relazione:
“Questi fatti dovrebbero ormai impensierire e le classi colte e il Governo; che non si sciolgono le questioni coll’indifferenza, rifiutandosi dal preoccuparsene e tanto meno poi soffocandole con la forza.
[...]
Chi può prevedere dove si andrà a finire perdurando questo stato d’abbrutimento?”
Tra il 1876 e il 1890, la mafia entra, progressivamente, nel sistema di governo italiano. Le prime discussioni sull’esistenza della mafia nel Parlamento sono burrascose e mostrano la collusione tra il mondo politico e la organizzazione criminale. La Sinistra, che era arrivata al potere, nel 1876, si era servita della mafia come strumento di governo locale. Giovanni Nicotera, ministro dell’interno nel primo Governo Depretis, mazziniano, ex-combattente al fianco di Garibaldi, era riuscito a far regredire il crimine in Sicilia e, nel novembre del 1877, aveva potuto annunciare “una grande vittoria sui banditi e sul crimine”. In verità, per rendere governabile o, quanto meno, esportabile, in forma accettabile, l’immagine dell’ordine pubblico in Sicilia, Nicotera era sceso a patti con i potenti del crimine isolano, cui aveva chiesto di tenere a freno gli aspetti più visibili del fenomeno senza intaccarne le radici. Circa un mese dopo l’annuncio della vittoria della Sinistra sul banditismo, Giovanni Nicotera era stato costretto a dimettersi.
Lo smantellamento della Fratellanza di Favara[19], l’organizzzazione che opera nelle miniere di zolfo del sud-ovest dell’isola, tra il 1883 e il 1885, ci ricorda, ancora, che la mafia si sviluppa nei settori economici più competitivi e lucrosi.
Tra il 1890 e il 1904, la corruzione si sviluppa, in alto loco.
Nel 1893, il marchese Emanuele Notarbartolo di San Giovanni [1834-1893] è la prima vittima illustre della mafia [http://www.storiamediterranea.it/portfolio/processo-contro-raffaele-palizzolo-e-c-i-arringa/]. Già sindaco di Palermo e personalità molto in vista, non solo in Sicilia ma in tutta Italia, viene assassinato, il primo febbraio, con 27 colpi di pugnale, da Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, e il suo corpo buttato giù da un treno, nel tragitto tra Termini Imerese e Travia. Da subito, emergono forti sospetti che legano l’accaduto alla passata esperienza dell’ucciso alla direzione del Banco di Sicilia. Si vocifera, in particolare, di una sua “agenda rossa”, di un dossier accusatorio delle attività illecite di alcuni membri del consiglio di amministrazione, inviato al Governo e, prontamente, fatto scomparire. E, ancora, da subito, si individuano anche i possibili esecutori materiali e, soprattutto, il probabile mandante: il deputato di Destra, Raffaele Palizzolo [1845-1910].
Come è facile intuire, con gli occhi smaliziati di oggi, le indagini sono svolte, in modo distratto e poco scrupoloso, fino a sfociare - come chissà quante volte in passato - in un nulla di fatto. Soltanto la caparbietà del figlio, Leopoldo Notarbartolo, riesce a far riaprire il caso, alcuni anni dopo. Ma, questa volta, viene assegnato alla Corte di Assise di Milano, per quello che, oggi, chiameremmo “legittimo sospetto” nei confronti della magistratura di Palermo. Nel 1902, la Corte d’Appello di Bologna condannava Raffaele Palizzolo a 30 anni di carcere; ma, nel 1904, la Corte di Appello di Firenze annullava la sentenza per un semplice vizio di forma. Quando è comunicata la notizia della assoluzione, in gran parte della Sicilia, si festeggia. Sono molti i comitati istituiti per difendere il “buon nome dei siciliani” dalle calunnie, di cui erano stati oggetto nel pro­cesso. Questa sentenza significa per loro un fatto chiaro:
“LA GIUSTIZIA DECRETA CHE LA MAFIA NON ESISTE.”
Nel famoso saggio sulla mafia, stilato, dopo l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo e i suoi postumi giudiziari, Gaetano Mosca [1858-1941] scrive:
“A proposito del recente ed ormai celebre processo, che si è svolto a Milano, molto si è parlato e si è scritto della mafia, argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un interesse nuovo ed un’attualità nuova. È strano intanto che si debba notare come coloro che discorrono e scrivono di mafia, in tutta l’Italia, ma specialmente in quella settentrionale, ancora oggi raramente abbiano un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che colla parola mafia vogliono indicare. Veramente sarebbe toccato ai Siciliani stessi di togliere gli equivoci e di stabilire il vero valore del nuovo vocabolo da essi introdotto nel dizionario nazionale. Ma per i Siciliani quel complesso di fenomeni sociali, di anomalie della loro regione, che essi esprimono sinteticamente quando dicono la mafia, riesce cosí familiare, che quasi non immaginano che altri possa sentire il bisogno di una dettagliata spiegazione, di un commento che fissi e chiarisca i vari significati dell’espressione che i nativi dell’isola, mercé la lunga consuetudine, facilmente distinguono.
Or dunque, dovendosi anzitutto eliminare questa poca precisione del nostro linguaggio parlato, occorre rilevare che i Siciliani col vocabolo mafia intendono e vogliono significare due fatti, due fenomeni sociali che, quantunque abbiano fra di loro stretti rapporti, pure sono suscettibili di venire separatamente analizzati. La mafia, o meglio lo spirito di mafia, è una maniera di sentire che, come la superbia, come l’orgoglio, come la prepotenza, rende necessaria una certa linea di condotta in un dato ordine di rapporti sociali; e colla stessa parola vien indicato in Sicilia non uno speciale sodalizio, ma il complesso di tante piccole associazioni che si propongono scopi vari, i quali però quasi sempre sono tali da fare rasentare ai membri dell’associazione stessa il codice penale e qualche volta sono veramente delittuosi.”
E ancora:
“Sono arrivato quasi alla fine del mio dire senza fare alcun accenno ad una organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia o meglio delle cosche mafiose. Non ne ho parlato per la semplice ragione che una tale organizzazione non esiste. Ogni cosca agisce per conto suo, né riconosce ordinariamente la superiorità di alcun capo che stia al di fuori e al di sopra di essa. Fra le cosche che operano in siti vicini ci possono essere, e ci sono, rapporti di amicizia o d’inimicizia, come ho già accennato, esse si rispettano o si combattono e qualche volta si sterminano a vicenda. Ma questa libertà che hanno è appunto una conseguenza della mancanza di un legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre loro una norma comune.
I membri di due cosche lontana l’una dall’altra, per esempio di due provincie diverse, spessissimo neppur si conoscono di nome e di persona e raramente hanno dei rapporti fra di loro.
È superfluo dopo di ciò dire che in Sicilia non esiste alcun consiglio generale, alcun duce supremo di tutta la mafia. Quindi l’espressione spesso usata: «il tale è un capo della mafia», significa soltanto che egli è in buoni rapporti con parecchie cosche di mafia, le quali protegge assiduamente per averne l’appoggio nelle elezioni o anche per altri fini meno confessabili.
E neanche esistono fra i mafiosi parole d’ordine o segni misteriosi di riconoscimento ed aggiungo che essi non ne sentono il bisogno.
Le persone fortemente imbevute di spirito di mafia, e molto piú quelle che appartengono alle varie cosche, si riconoscono facilmente fra di loro per quello stampo, quel non so che di comune, che la medesimezza delle abitudini e dell’educazione morale ed intellettuale imprimono nei diversi ceti e nelle diverse professioni. Come l’ufficiale che viaggia in borghese, il commesso viaggiatore, l’impiegato, l’elegante viveur, in un vagone ferroviario o in un battello a vapore, ravvisa subito il suo congenere, cosí fa il mafioso che va fuori del suo comune natio. Naturalmente, trattandosi di mafiosi, questo riconoscimento ha per conseguenza che, se capita l’occasione, essi sanno perfettamente, senza bisogno di alcuna intesa speciale, parlare ed agire in identico modo.”
Dal 1893 al 1943, la mafia deve trovare un accordo con il socialismo, prima, e con il fascismo, poi. Corleone illustra come i contromastri dei grandi domini terrieri dell’interno della Sicilia siano legati al sistema mafioso. È, a Corleone, che, nel 1893, i contadini iniziano ad associarsi in Fasci, sotto l’autorità di Bernardino Verro. Dopo dieci anni dall’inchiesta agraria, nulla, infatti, era stato fatto in favore dei contadini, anzi, la loro situazione si era, ulteriormente, aggravata.
Il direttore generale della pubblica sicurezza (1 ottobre 1893 – 7 aprile 1896), Giuseppe Sensales [1831-1902], inviato in Sicilia dal Governo, alla fine  del mese di settembre del 1893, nella sua relazione poneva l’accento su due questioni:
-         l’una, relativa alla gestione delle amministrazioni comunali:
“Certo, col far cessare le gravi ingiustizie che sogliono commettersi dalle amministrazioni comunali, il Governo farà opera provvida, eliminando ogni motivo di disordine.”
-         l’altra, più grave, relativa alle condizioni dei lavoratori dei campi:
“Su questo particolare esistevano ed esistono in Sicilia molti abusi, gran parte dei quali furono già rilevati dall’inchiesta agraria e da parecchi scrittori. Il latifondo, la cultura estensiva, l’assentismo, il contratto di gabella, e l’avidità di non pochi proprietari hanno concorso ad immiserire gli agricoltori, i quali non potevano essere sordi alla voce di coloro che promettevano di redimerli dal loro stato.”
Verro, capo dei contadini ostili ai latifondisti siciliani, è stato iniziato a una cosca mafiosa. Paradossalmente, i suoi legami con la criminalità organizzata hanno permesso al Governo di giustificare una repressione feroce del movimento contadino, dal 1894. Verro, imprigionato, esiliato, persegue, tuttavia, la sua lotta, benché spaventato dalle ramificazioni della mafia, che inizia a minacciarlo. Nel 1914, viene eletto sindaco di Corleone e, l’anno seguente, assassinato.
All’inizio degli anni 1920, la mafia fa causa comune con i primi fascisti locali, ma la situazione cambia, rapidamente, dopo l’instaurazione del regime mussoliniano.
Si vedono, allora, politici liberali, quali Vittorio Emanuele Orlando, dichiararsi “mafioso e fiero di esserlo” e presentare la Onorata Società come un polo di resistenza, necessario di fronte all’evoluzione autoritaria e liberticida del nuovo regime.  Il 28 giugno 1925, nel comizio elettorale dell’Unione Palermitana per la Libertà [http://www.scuoladusmetnicolosi.it/didattica/noisiamo/antologia/a-giornaledisicilia1011maggio1924.htm], di cui era capolista e che competeva con le formazioni fasciste, capeggiate da Alfredo Cucco, Orlando così arringa la platea del Teatro Massimo di Palermo:
Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!”
Preoccupato di imporre la sua autorità e di scongiurare ogni pericolo separatista nell’isola, Benito Mussolini, che vuole spogliare questa associazione di briganti di ogni tipo di poesia e di fascino e si indigna che si parli della nobiltà e dello spirito cavalleresco della mafia, decide di inviare sul posto, il 2 giugno 1924, a Trapani, poi, a Palermo, un funzionario integerrimo, il prefetto Cesare Mori.
Mussolini, che aveva sperato di assicurarsi i mafiosi siciliani come strumento di governo locale, si era, presto, disilluso!
La lotta contro la mafia, attraverso la nomina di Cesare Mori, serve al duce per consolidare il suo potere.  La lotta contro la mafia è un’arma politica. E, serve allo Stato italiano per giustificare una politica di repressione in Sicilia e regolare conti politici.
Cesari Mori aveva una lunga carriera dietro di sé. Aveva, già, operato, in Sicilia, tra il 1903 e il 1917, e aveva ottenuto, nel complesso, risultati più che positivi. Quando i giornali parlarono di “colpo mortale alla mafia”, Mori dichiarò a un suo collaboratore:
“Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l’aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d’India, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero.”
Carabinieri e milizie fasciste suddividono a scacchiera il paese, le “famiglie” mafiose sono identificate e i loro beni confiscati, centinaia di arresti sono operati. Unendo repressione e azione psicologica verso le popolazioni, ottiene risultati spettacolari e la tradizionale omertà, la legge del silenzio, non protegge più i capi mafiosi. Alcuni mafiosi si esiliano, negli Stati Uniti, dando vita ai primi legami oltre Atlantico[20]; altri sopravvivono, ungendo le autorità, quali Giuseppe Genco Russo.
Mori è “ringraziato”, nel giugno del 1929, e la sua morte, nel 1942, passerà, del tutto, inosservata.
La mafia non è stata smantellata, anche se ha subito duri colpi.
Ma, per Mussolini è sufficiente!
È soddisfatto di essere uscito vincitore da questa prova di forza; ma è, anche, intenzionato a conquistarsi i notabili siciliani, che, adottando la camicia nera, si sono, indirettamente, messi al riparo dalle inchieste troppo approfondite.
La Seconda Guerra Mondiale fornisce l’occasione alla Onorata Società di ritrovare tutto il suo potere! 
Dal 1942, gli americani si preoccupano di un futuro sbarco in Sicilia e beneficiano, in questa prospettiva, dei consigli avveduti di Lucky Luciano[21], uno dei più noti mafiosi degli Stati Uniti, condannato a 50 anni di carcere, che viene liberato sulla parola per la circostanza.
Il 10 luglio 1943, lo sbarco anglo-americano porta una ondata di nuove nomine locali in Sicilia, che beneficiano alla mafia: i tre quarti dei sindaci designati dal Governo Militare Alleato, insediato nell’isola, sono noti mafiosi. Questi “notabili” sono interlocutori ideali per gli americani e reclamano, perfino, la costituzione di una Repubblica Siciliana indipendente. La mafia è dietro questa impresa separatista, cui dà corpo Salvatore Giuliano [1922-1950]. Durante l’estate del 1945, alcuni monarchici, che sostengono il movimento separatista, lo nominano colonnello del loro Esercito Volontario di Indipendenza Siciliana [EVIS], ma la concessione, nel 1946, di uno Statuto Autonomo all’isola priva i separatisti del sostegno popolare. La Mafia vede, immediatamente, il profitto che può trarre dalla libertà di azione che, ormai, sarà la sua, nel quadro della nuova amministrazione regionale.  
Le elezioni dell’aprile del 1947, che suggellano il fallimento della corrente separatista, sono segnate da una forte spinta della Sinistra, in un contesto di bipolarizzazione con la Democrazia Cristiana. La mafia fa, rapidamente, la sua scelta: si tratta, ora, di lottare contro la Sinistra e, più particolarmente, contro i comunisti.
Salvatore Giuliano interviene nell’attuazione di questa nuova strategia.
Il primo maggio del 1947, attacca un raduno di Sinistra, a Portella della Ginestra, e l’operazione fa 11 morti e 27 feriti [http://legislature.camera.it/_dati/leg05/lavori/stampati/pdf/023_002225.pdf].
Altre azioni analoghe sono condotte nel corso delle settimane seguenti. Ma Giuliano non è, di fatto, che un uomo di mano, che rischia di divenire troppo “chiacchierone” e, il 5 luglio 1950, Giuliano viene ritrovato morto nel cortile della casa di un avvocato di Castelvetrano. Forse, tradito da Gaspare Pisciotta, che morrà avvelenato in prigione, prima di avere avuto il tempo di fare imbarazzanti rivelazioni. 
Con l’instaurazione del regime repubblicano, la mafia stabilisce legami stretti con la Democrazia Cristiana, divenuta il primo partito, in Sicilia. Può, così, intervenire nell’amministrazione della regione, dotata, ormai, di una larga autonomia e il sistema clientelista che faceva la sua forza è, rapidamente, ristabilito.
La legge di riforma agraria del 1950 – la cui applicazione è controllata dall’amministrazione regionale – permette tutte le speculazioni e, al tempo stesso, l’esercizio di pressioni sui piccoli contadini che debbono beneficiarne. Il controllo della creazione di pubblici impieghi – che rientra nell’autorità regionale – favorisce, egualmente, il clientelismo e contribuisce allo sviluppo dell’influenza mafiosa.
La ricostruzione di Palermo, che è stata, in gran parte, distrutta dai bombardamenti alleati, innesca il famoso “sacco di Palermo”. Il conseguimento di permessi per costruire, nel contesto del boom immobiliare del dopoguerra, permette di privilegiare le imprese mafiose, che sanno in cambio mostrarsi generose, quando viene il momento delle campagne elettorali…
La mafia controlla l’attribuzione dei cantieri e li protegge.
La Chiesa cattolica, che è ossessionata dal comunismo, tace, salvo eccezioni.
Nell’ottobre del 1957, Giuseppe Bonanno, capo dei castellammaresi, a New York, compie un viaggio, in Sicilia, accompagnato da Carmine Galante, per riorganizzare il traffico di stupefacenti negli Stati Uniti, dopo che la rivoluzione castrista, a Cuba [1955-1957] ha privato la mafia siciliana e americana di quell’importante base di smistamento per l’eroina.
L’espansione economica dei Trenta Gloriosi genera condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività mafiose. Racket, speculazione immobiliare, contrabbando di sigarette e traffico di droga divengono campi di attività particolarmente redditizi. Le “famiglie” si sbranano tra loro per il controllo di alcuni settori, perché la mafia dei giardini e dei campi, molto presente negli aranceti della Conca d’Oro, dove controlla il mercato fondiario o l’irrigazione, si scontra con la “mafia delle città” o “dei cantieri”, specializzata nell’immobiliare e  nel riciclaggio del danaro sporco nelle catene di ristoranti. Un riciclaggio favorito, anche, dalla libera circolazione di capitali nell’Europa in costruzione.
Numerose vittime scompaiono, allora, e nessuno ne ritrova i cadaveri, discretamente colati nel cemento di immobili in costruzione…
Lo stermino del clan Navarra, di Corleone, per ordine di Luciano Leggio è uno degli episodi più sanguinosi di questi lutti senza pietà. 
I Corleonesi, si impongono, allora, progressivamente, alla testa della mafia siciliana, innanzitutto nella persona di Luciano Leggio, poi, del suo braccio destro Totò Riina.
La mafia diviene più violenta e più del potere locale o la considerazione che assicura, è la ricchezza che costituisce l’obiettivo delle nuove generazioni.
Una “mafia dei capi di impresa” corrotti, organizzata in una vera multinazionale del crimine, si sostituisce, ormai, alla Mafia rurale, uscita degli arcaismi della società siciliana del XIX secolo.
Violenza, intimidazione, riciclaggio di somme astronomiche tratte da attività illegali e docilità degli impiegati delle imprese mafiose costituiscono assi considerevoli per questi nuovi capi, che non stentano affatto a prendere il controllo di settori interi dell’economia siciliana o italiana.
La potenza finanziaria, tratta dal traffico di droga, procura, di nuovo, i mezzi per neutralizzare per una parte lo Stato italiano, in seno al quale diviene possibile acquistare preziose complicità, ciò di cui testimoniano i sospetti molto seri, portati su Giulio Andreotti, presidente del Consiglio dei Ministri, per sette mandati, e vero centro di gravità del sistema politico per decenni.
La Commissione Antimafia, costituita in Parlamento, nel 1962, non ottiene che modestissimi risultati e molti funzionari, poliziotti e magistrati onesti pagheranno, con la vita, la volontà di combattere, seriamente, il crimine organizzato.
La serie di assassinii, che ha segnato gli anni 1970 e che ha culminato, nel 1982, con gli assassinii di Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ha, tuttavia, contribuito a una evoluzione delle menti, soprattutto in Sicilia, dove la mafia non può più beneficiare del consenso tacito, che gli garantiva una impunità quasi totale.
La defezione di Tommaso Buscetta costituisce una svolta nella lotta contro la mafia. Lo seguono Salvatore Contorno, Vincenzo Sinagra e una ventina di altri pentiti, che permettono di accumulare le prove per il maxiprocesso del 1986 [https://www.youtube.com/watch?v=RLbYDg6Qyj8].
Nel 1992, la Giustizia italiana riconosce l’esistenza di una organizzazione centralizzata chiamata Cosa Nostra. La mafia ha, appena, subito una delle sue peggiori disfatte. Totò Riina, che teme per la sua sopravvivenza, organizza una serie di attentati: dopo Giovanni Falcone, anche, Paolo Borsellino è vittima di una bomba, nel 1992.
Il padrino dei padrini è catturato, il 15 gennaio 1993, dal CRIMOR, la squadra speciale dei ROS, guidata da Sergio De Caprio, più conosciuto come Capitano Ultimo.   
Leoluca Bagarella lo sostituisce.
Quello stesso anno, mentre gli attentati continuano, la Chiesa Cattolica afferma, ufficialmente, la sua ostilità alla mafia.
Bagarella è arrestato dalla DIA, il 24 giugno 1995.
Giovanni Brusca, lo scannacristiani, il 20 maggio 1996, ad Agrigento.
Bernardo Provenzano, detto “il Trattore”, prende la guida di Cosa Nostra fino al suo arresto, l’11 aprile 2006, in una masseria, a Corleone. Uomo di mano di Riina, ferma la politica degli attentati e mostra uno stile di comando più conciliante. Provenzano torna al racket di protezione, sviluppa i legami con le organizzazioni straniere, previene le defezioni.
Salvatore Lo Piccolo, che sostituisce Provenzano, afferma la sua autorità, ordinando l’assassinio del boss Nicolò Ingarao, il 13 giugno 2007, in piena Palermo.
Salvatore Lo Piccolo è arrestato, il 5 novembre dello stesso anno, a Giardinello, dalla Sezione Catturandi.
La lotta contro la mafia è, ancora, lontano dall’essere terminata, fintanto che non sarà combattuta dall’interno, vale a dire in seno allo Stato italiano, con il quale vive in simbiosi.
O, come suggerisce Napoleone Colajanni, alla fine del suo libro, Nel regno della mafia, pubblicato solo 114 anni fa:
“Per combattere e distruggere il regno della Mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il Re della Mafia!” [http://www.socialbenefit.it/Allegati/documento_183/Colajanni%20-%20Nel%20Regno%20della%20Mafia%20-%20ed%20Trabant.pdf]


Daniela Zini
Copyright © 29 agosto 2014 ADZ


[1] President John F. Kennedy
Waldorf-Astoria Hotel, New York City
April 27, 1961
Mr. Chairman, ladies and gentlemen:
I appreciate very much your generous invitation to be here tonight.
You bear heavy responsibilities these days and an article I read some time ago reminded me of how particularly heavily the burdens of present day events bear upon your profession.
You may remember that in 1851 the New York Herald Tribune under the sponsorship and publishing of Horace Greeley, employed as its London correspondent an obscure journalist by the name of Karl Marx.
We are told that foreign correspondent Marx, stone broke, and with a family ill and undernourished, constantly appealed to Greeley and managing editor Charles Dana for an increase in his munificent salary of $5 per instalment, a salary which he and Engels ungratefully labelled as the “lousiest petty bourgeois cheating.”
But when all his financial appeals were refused, Marx looked around for other means of livelihood and fame, eventually terminating his relationship with the Tribune and devoting his talents full time to the cause that would bequeath the world the seeds of Leninism, Stalinism, revolution and the cold war.
If only this capitalistic New York newspaper had treated him more kindly; if only Marx had remained a foreign correspondent, history might have been different. And I hope all publishers will bear this lesson in mind the next time they receive a poverty-stricken appeal for a small increase in the expense account from an obscure newspaper man.
I have selected as the title of my remarks tonight “The President and the Press.” Some may suggest that this would be more naturally worded “The President Versus the Press.” But those are not my sentiments tonight.
It is true, however, that when a well-known diplomat from another country demanded recently that our State Department repudiate certain newspaper attacks on his colleague it was unnecessary for us to reply that this Administration was not responsible for the press, for the press had already made it clear that it was not responsible for this Administration.
Nevertheless, my purpose here tonight is not to deliver the usual assault on the so-called one party press. On the contrary, in recent months I have rarely heard any complaints about political bias in the press except from a few Republicans. Nor is it my purpose tonight to discuss or defend the televising of Presidential press conferences. I think it is highly beneficial to have some 20,000,000 Americans regularly sit in on these conferences to observe, if I may say so, the incisive, the intelligent and the courteous qualities displayed by your Washington correspondents.
Nor, finally, are these remarks intended to examine the proper degree of privacy which the press should allow to any President and his family.
If in the last few months your White House reporters and photographers have been attending church services with regularity, that has surely done them no harm.
On the other hand, I realize that your staff and wire service photographers may be complaining that they do not enjoy the same green privileges at the local golf courses that they once did.
It is true that my predecessor did not object as I do to pictures of one’s golfing skill in action. But neither on the other hand did he ever bean a Secret Service man.
My topic tonight is a more sober one of concern to publishers as well as editors.
I want to talk about our common responsibilities in the face of a common danger. The events of recent weeks may have helped to illuminate that challenge for some; but the dimensions of its threat have loomed large on the horizon for many years. Whatever our hopes may be for the future - for reducing this threat or living with it - there is no escaping either the gravity or the totality of its challenge to our survival and to our security - a challenge that confronts us in unaccustomed ways in every sphere of human activity.
This deadly challenge imposes upon our society two requirements of direct concern both to the press and to the President - two requirements that may seem almost contradictory in tone, but which must be reconciled and fulfilled if we are to meet this national peril. I refer, first, to the need for a far greater public information; and, second, to the need for far greater official secrecy.

I
The very word “secrecy” is repugnant in a free and open society; and we are as a people inherently and historically opposed to secret societies, to secret oaths and to secret proceedings. We decided long ago that the dangers of excessive and unwarranted concealment of pertinent facts far outweighed the dangers which are cited to justify it. Even today, there is little value in opposing the threat of a closed society by imitating its arbitrary restrictions. Even today, there is little value in insuring the survival of our nation if our traditions do not survive with it. And there is very grave danger that an announced need for increased security will be seized upon by those anxious to expand its meaning to the very limits of official censorship and concealment. That I do not intend to permit to the extent that it is in my control. And no official of my Administration, whether his rank is high or low, civilian or military, should interpret my words here tonight as an excuse to censor the news, to stifle dissent, to cover up our mistakes or to withhold from the press and the public the facts they deserve to know.
But I do ask every publisher, every editor, and every newsman in the nation to reexamine his own standards, and to recognize the nature of our country’s peril. In time of war, the government and the press have customarily joined in an effort based largely on self-discipline, to prevent unauthorized disclosures to the enemy. In time of “clear and present danger,” the courts have held that even the privileged rights of the First Amendment must yield to the public’s need for national security.
Today no war has been declared - and however fierce the struggle may be, it may never be declared in the traditional fashion. Our way of life is under attack. Those who make themselves our enemy are advancing around the globe. The survival of our friends is in danger. And yet no war has been declared, no borders have been crossed by marching troops, no missiles have been fired.
If the press is awaiting a declaration of war before it imposes the self-discipline of combat conditions, then I can only say that no war ever posed a greater threat to our security. If you are awaiting a finding of “clear and present danger,” then I can only say that the danger has never been more clear and its presence has never been more imminent.
It requires a change in outlook, a change in tactics, a change in missions - by the government, by the people, by every businessman or labor leader, and by every newspaper. For we are opposed around the world by a monolithic and ruthless conspiracy that relies primarily on covert means for expanding its sphere of influence - on infiltration instead of invasion, on subversion instead of elections, on intimidation instead of free choice, on guerrillas by night instead of armies by day. It is a system which has conscripted vast human and material resources into the building of a tightly knit, highly efficient machine that combines military, diplomatic, intelligence, economic, scientific and political operations.
Its preparations are concealed, not published. Its mistakes are buried, not headlined. Its dissenters are silenced, not praised. No expenditure is questioned, no rumor is printed, no secret is revealed. It conducts the Cold War, in short, with a war-time discipline no democracy would ever hope or wish to match.
Nevertheless, every democracy recognizes the necessary restraints of national security - and the question remains whether those restraints need to be more strictly observed if we are to oppose this kind of attack as well as outright invasion.
For the facts of the matter are that this nation’s foes have openly boasted of acquiring through our newspapers information they would otherwise hire agents to acquire through theft, bribery or espionage; that details of this nation’s covert preparations to counter the enemy’s covert operations have been available to every newspaper reader, friend and foe alike; that the size, the strength, the location and the nature of our forces and weapons, and our plans and strategy for their use, have all been pinpointed in the press and other news media to a degree sufficient to satisfy any foreign power; and that, in at least in one case, the publication of details concerning a secret mechanism whereby satellites were followed required its alteration at the expense of considerable time and money.
The newspapers which printed these stories were loyal, patriotic, responsible and well-meaning. Had we been engaged in open warfare, they undoubtedly would not have published such items. But in the absence of open warfare, they recognized only the tests of journalism and not the tests of national security. And my question tonight is whether additional tests should not now be adopted.
The question is for you alone to answer. No public official should answer it for you. No governmental plan should impose its restraints against your will. But I would be failing in my duty to the nation, in considering all of the responsibilities that we now bear and all of the means at hand to meet those responsibilities, if I did not commend this problem to your attention, and urge its thoughtful consideration.
On many earlier occasions, I have said - and your newspapers have constantly said - that these are times that appeal to every citizen’s sense of sacrifice and self-discipline. They call out to every citizen to weigh his rights and comforts against his obligations to the common good. I cannot now believe that those citizens who serve in the newspaper business consider themselves exempt from that appeal.
I have no intention of establishing a new Office of War Information to govern the flow of news. I am not suggesting any new forms of censorship or any new types of security classifications. I have no easy answer to the dilemma that I have posed, and would not seek to impose it if I had one. But I am asking the members of the newspaper profession and the industry in this country to re-examine their own responsibilities, to consider the degree and the nature of the present danger, and to heed the duty of self-restraint which that danger imposes upon us all.
Every newspaper now asks itself, with respect to every story: “Is it news?” All I suggest is that you add the question: “Is it in the interest of the national security?” And I hope that every group in America - unions and businessmen and public officials at every level - will ask the same question of their endeavors, and subject their actions to the same exacting tests.
And should the press of America consider and recommend the voluntary assumption of specific new steps or machinery, I can assure you that we will cooperate whole-heartedly with those recommendations.
Perhaps there will be no recommendations. Perhaps there is no answer to the dilemma faced by a free and open society in a cold and secret war. In times of peace, any discussion of this subject, and any action that results, are both painful and without precedent. But this is a time of peace and peril which knows no precedent in history.

II
It is the unprecedented nature of this challenge that also gives rise to your second obligation - an obligation which I share. And that is our obligation to inform and alert the American people - to make certain that they possess all the facts that they need, and understand them as well - the perils, the prospects, the purposes of our program and the choices that we face.
No President should fear public scrutiny of his program. For from that scrutiny comes understanding; and from that understanding comes support or opposition. And both are necessary. I am not asking your newspapers to support the Administration, but I am asking your help in the tremendous task of informing and alerting the American people. For I have complete confidence in the response and dedication of our citizens whenever they are fully informed.
I not only could not stifle controversy among your readers - I welcome it. This Administration intends to be candid about its errors; for as a wise man once said: “An error does not become a mistake until you refuse to correct it.” We intend to accept full responsibility for our errors; and we expect you to point them out when we miss them.
Without debate, without criticism, no Administration and no country can succeed - and no republic can survive. That is why the Athenian lawmaker Solon decreed it a crime for any citizen to shrink from controversy. And that is why our press was protected by the First Amendment - the only business in America specifically protected by the Constitution - not primarily to amuse and entertain, not to emphasize the trivial and the sentimental, not to simply “give the public what it wants” - but to inform, to arouse, to reflect, to state our dangers and our opportunities, to indicate our crises and our choices, to lead, mold, educate and sometimes even anger public opinion.
This means greater coverage and analysis of international news - for it is no longer far away and foreign but close at hand and local. It means greater attention to improved understanding of the news as well as improved transmission. And it means, finally, that government at all levels, must meet its obligation to provide you with the fullest possible information outside the narrowest limits of national security - and we intend to do it.

III
It was early in the Seventeenth Century that Francis Bacon remarked on three recent inventions already transforming the world: the compass, gunpowder and the printing press. Now the links between the nations first forged by the compass have made us all citizens of the world, the hopes and threats of one becoming the hopes and threats of us all. In that one world’s efforts to live together, the evolution of gunpowder to its ultimate limit has warned mankind of the terrible consequences of failure.
And so it is to the printing press - to the recorder of man’s deeds, the keeper of his conscience, the courier of his news - that we look for strength and assistance, confident that with your help man will be what he was born to be: free and independent.
http://www.youtube.com/watch?v=AKhUbOxM2ik

[2] La United States Steel Corporation venne fondata, nel 1901, da John Piermont Morgan ed Elbert H. Gary, a seguito della fusione della Federal Steel Company e della Carnegie Steel Company.

[3] Il caso del dottor Gaspare Galati, il cui podere, il fondo Riella, era situato alla periferia della città, presso la borgata dell’Uditore, mette in luce l’esistenza di una setta criminale attiva da oltre mezzo secolo, nei dintorni del ricco capoluogo della Sicilia, nella pianura della Conca d’Oro, così chiamata perché ricoperta di lussureggianti agrumeti. Nel 1872, quando il dottor Galati ereditò dal cognato, le sue piantagioni di aranci e di limoni, il fondo non era più in condizioni fiorenti come un tempo. Il dottor Galati fece le sue indagini e scoprì l’ambiguo gioco del guardiano della proprietà, Benedetto Carollo. Da alcuni anni, infatti, sottraeva il 20-30% del raccolto, che non era più sufficiente a evadere le ordinazioni. Tra i mediatori di Palermo si era, così, diffusa la voce che il fondo Riella fosse un cattivo fornitore. Nel 1874, il dottor Galati decise di licenziare Benedetto Carollo e di assumere un nuovo guardiano. La sera del 2 luglio 1874, mentre faceva il giro della proprietà, il nuovo guardiano venne ucciso a colpi di arma da fuoco da alcuni sicari. Benedetto Carollo era, segretamente, protetto da un uomo molto importante, un ricco proprietario della zona, Antonio Giammona. Negli anni 1870, Il cinquantenne don Antonio Giammona, piccolo eroe dell’Italia unita, era divenuto una figura palermitana di spicco, era, infatti, presidente di una confraternita religiosa, i Terziari di San Francesco di Assisi, dietro la cui facciata si celava una sanguinaria organizzazione segreta, il cui obiettivo era mettere le mani su tutte le aziende ortofrutticole più redditizie della zona. Infine, il dottor Galati preferì lasciare la Sicilia e rifugiarsi, a Napoli. La sua proprietà rimase in balia degli sciacalli e, poco tempo dopo, Carollo ottenne, perfino, l’autorizzazione per cacciare nel fondo Riella in compagnia di don Giammona e del primo presidente della Corte di Appello di Palermo.  

[4] La storia del dottor Galati ci serve come chiave di lettura per capire come la mafia si muovesse sul territorio. Partiamo dal primo anello della catena: Antonio Giammona, colui che appare il maggior esponente della mafia palermitana ottocentesca a capo della cosca dell’Uditore, dagli anni 1870. Giammona nasce, nella borgata di Passo di Rignano, intorno al 1819, ed è poverissimo fino al 1848, ma, “briganteggiando sotto il vessillo della rivoluzione”, diviene affittuario di giardini, proprietario di terreni e di immobili, acquistati nelle vendite demaniali del periodo post-unitario, nonché titolare di una azienda pastorizia, per un patrimonio stimato, nel 1875, intorno alle 150mila lire. In tempo di suffragio ristretto, controlla una cinquantina di voti. Da Giammona si dipanano tre fili: verso il basso, guardiani, ladri, estortori, briganti, poliziotti; verso i suoi pari, gli altri capi della mafia, il capo-brigante Angelo Pugliese, i grandi gabellotti Guccione; verso l’alto, gli uomini eminenti che lo proteggono e che lui protegge. Il filo che si dipana verso l’alto porta, soprattutto, al barone Nicolò Turrisi Colonna, grande proprietario terriero, patriota prima dell’Unità e, poi, esponente di punta della Sinistra, senatore e sindaco di Palermo. Rappresenta il secondo anello della nostra catena. Nel 1860, lo troviamo a capo della Guardia Nazionale cittadina, nella quale Giammona è ufficiale.
Quando, il 1° marzo 1876, arrivarono a Palermo il barone Leopoldo Franchetti e il barone Sidney Sonnino, una delle prime persone che vollero incontrare nel capoluogo dell’isola fu proprio Nicolò Turrisi Colonna. Ma ecco cosa scrissero sul suo conto, nel chiedere a un loro amico una lettera di presentazione per il barone:
“Qui lo dicono legato colla maffia – ma questo non c’importa, e si vorrebbe sentire quello che dice[...] Guardi di non dire a nessuno a proposito del Barone Turrisi quello che le dico più sopra intorno ai supposti suoi legami colla maffia. Qualche suo amico potrebbe scriverglielo, e questo ci farebbe un brutto servizio.”
Molti elementi suggeriscono che Turrisi Colonna non fosse, in realtà, il capo della mafia, ma l’uomo che forniva una essenziale protezione politica ai più importanti e spietati mafiosi di Palermo. Le voci sui suoi legami con la mafia erano, largamente, diffuse. A Roma, nelle cerchie della Corte, perfino, membri del suo raggruppamento politico esprimevano riserve su di lui.
Turrisi Colonna fu, soltanto, il primo di una lunga serie di uomini politici italiani le cui azioni, in materia di mafia, non andavano d’accordo con le parole. Nonostante la sua struttura e il suo codice d’onore, la mafia siciliana non sarebbe stata niente senza i legami con uomini politici come Turrisi Colonna. Le sarebbe servito ben poco corrompere poliziotti e magistrati se le autorità sovraordinate agli uni e agli altri si fossero dedicati alla difesa imparziale del dominio della legge. E, nella contabilità della mafia, un politico amico è tanto più utile quanto più grande è la sua credibilità. Se, per diventare credibili bisogna tuonare contro il crimine, o effettuare diagnosi dello stato dell’ordine pubblico in Sicilia, nessuna obiezione.

[5] La Convenzione di Settembre porrà fine all’occupazione francese di Roma, iniziata nel 1849. Le truppe di Napoleone III abbandoneranno la città, entro due anni. In cambio, l’Italia si impegna a difendere i confini dello Stato Pontificio, a permettere l’arruolamento di un esercito del Papa e ad accollarsi parte del debito degli antichi Stati della Chiesa.
[6] Giovanni Corrao venne assassinato il 3 agosto 1863. Il delitto è rimasto, sempre, impunito, ma, negli atti di indagine, venne usato, per la prima volta, nella storia del Regno d’Italia, il termine mafia.
[7] Nello stesso periodo la mafia fece il suo primo cadavere eccellente: il marchese Emanuele Notarbartolo. Il primo febbraio 1893 due mafiosi commisero l’omicidio su un treno diretto per Palermo. La vittima, persona integerrima, si inimicò Raffaele Palizzolo, uomo politico siciliano colluso con la mafia. Il conflitto tra i due si accese, sia quando Notarbartolo divenne sindaco di Paleremo, sia quando fu eletto direttore generale del Banco di Sicilia [Palizzolo era membro del consiglio direttivo], perché il marchese si oppose al sistema di potere costruito da Palizzolo. La faccenda diventò personale a tal punto che don Raffaele decise di dare sfogo alla sua vendetta e ordinò che il suo nemico venisse ucciso. Il figlio di Notarbartolo, Leopoldo, si costituì parte civile al processo e, tra lo stupore del pubblico, accusò pubblicamente Raffaele Palizzolo di essere il mandante dell’omicidio del padre. Inoltre riuscì ad avere l’appoggio politico del presidente del consiglio [Pelloux, amico della famiglia Notarbartolo], che spinse affinchè si spostasse il processo da Palermo a Milano per evitare intimidazioni nei confronti dei testimoni, e fece in modo che la camera votasse a favore dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Palizzolo. Un prezioso aiuto per fare luce sul caso la diede il questore Sangiorgi partecipando alle indagini. Dopo undici mesi di udienza la Corte d’Assise di Bologna [nel frattempo il processo era stato spostato nel capoluogo emiliano] condannò Palizzolo e uno degli assassini a trenta anni di carcere. Per protesta si crearono in Sicilia movimenti a favore della sicilianità, poiché questa sentenza era frutto di un complotto ordito dai settentrionali per delegittimare l’intero popolo dell’isola. Fu un momento importantissimo, era stato inferto un duro colpo alla mafia e al potere politico colluso con essa. Purtroppo fu una vittoria di Pirro: la cassazione annullò il processo per un vizio formale [un testimone non aveva giurato in una sua deposizione]. Il nuovo processo, svoltosi a Firenze, nel 1904, produsse l’assoluzione degli imputati.

[8] Leopoldo Franchetti, si suicidò dopo aver appreso di Caporetto.

[9] Sidney Sonnino divenne deputato e ministro.

[10] Leopoldo Franchetti, Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia, 1876.

[11] Leopoldo Franchetti, Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia, 1876.

[12] Sidney Sonnino, I contadini di Sicilia.

[13] Abele Damiani, deputato della città di Marsala per undici legislature [dalla IX alla XIX,   http://notes9.senato.it/Web/senregno.NSF/0/d5097557521fed9f4125646f005aa9c6?OpenDocument], fece parte della commissione parlamentare per l’inchiesta agraria, dirigendone i lavori per la Sicilia.
[14] Alfredo Niceforo apparteneva proprio a quella “razza dannata” che tanto disprezzava. Era nato, infatti, nel 1876, a Castiglione di Sicilia, alle pendici dell’Etna.
[15] La legge 15 agosto 1863, n. 1409, presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, fu, più volte, prorogata e integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era debellare il brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione dello stesso, colpendo chi lo praticava e chi lo favoriva.
[16] Nato dalla nobile famiglia palermitana dei duchi di Gela.
[17] Inchiesta Agraria, volume XIII, tomo 3

[18] Inchiesta Agraria, volume XIII, tomo 3 
[19] Verso la fine dell’800 scoppiò un caso nazionale in Sicilia: le miniere di zolfo producevano la morte di centinaia di lavoratori, l’anno, a causa delle esalazioni velenose. In particolar modo, preoccupavano le condizioni dei giovani che, lavorando in miniera, conducevano una vita miserabile: pagati pochissimo e deformati dall’eccessivo lavoro, erano, anche, vittime di abusi sessuali. Nel 1883, a Favara, furono arrestate 200 persone con l’accusa di far parte della “Fratellanza” un’organizzazione segreta. Due anni più tardi, vi fu il processo e molti imputati vennero condannati. La fratellanza aveva un rituale di iniziazione e una struttura interna molto simile a quella che Tommaso Buscetta descrisse per Cosa Nostra. Il questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, che aveva curato il caso della Fratellanza di Favara, nel 1900, stilò un rapporto di 485 pagine, presentato al procuratore generale del capoluogo siciliano nel quadro della preparazione di un processo. Le informazioni contenute nel documento sono talmente particolareggiate da poter essere considerate il primo quadro completo della mafia siciliana. Si viene a conoscenza della collocazione delle otto cosche che dominano i sobborghi e i paesi satelliti situati a Nord e a Ovest di Palermo. Sono presenti, altresì, i nomi dei capi e sottocapi di ciascuna cosca, i profili di 218 uomini d’onore e la descrizione accurata del rito di iniziazione e del codice di comportamento della mafia. Questo diagramma è abbastanza impressionante, perché corrisponde in misura larghissima a ciò che molti decenni più tardi Tommaso Buscetta rivelò a Giovanni Falcone. Purtroppo le condizioni politiche mutevoli dell’Italia complicarono le cose: in primo luogo, il generale Luigi Girolamo Pelloux, primo ministro italiano (1898-1900), e grande stimatore di Sangiorgi si dimise in quegli anni dal suo incarico, facendo venir meno la copertura politica. In secondo luogo, il procuratore capo di Palermo era, probabilmente, colluso con la mafia. In terzo luogo, don Antonio Giammona e i suoi scagnozzi minacciarono i testimoni. Il processo si concluse con poche condanne, non permettendo di dimostrare le convinzioni di Sangiorgi.

[20] Gli anni 1920 e la prosperità che li accompagna oltre Atlantico vedono la Mano Nera dell’inizio del secolo sostituita dall’Unione Siciliana, antenata di Cosa Nostra, in seno alla quale si distinguono, nel modo in cui si sa, con il favore del proibizionismo, Al Capone, Lucky Luciano, Vito Genovese, Frank Costello e Joe Profaci.

[21] I servizi di informazione americani si servirono di Lucky Luciano per determinare la presenza di spie tedesche, negli Stati Uniti, attraverso il sindacato dei dockers, dopo l’incendio del transatlantico Normandie, nel febbraio del 1942.