“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 17 agosto 2014

NUNC UT TUNC II. QUO USQUE TANDEM ABUTERE, CATILINA, PATIENTIA NOSTRA? di Daniela Zini


NUNC UT TUNC
“Virtute duce, comite fortuna.”
Marcus Tullius Cicero

à  Sept Fantômatiques Gladiateurs des Temps Modernes

 
En fin de compte nous mourons tous, nous ne pouvons malheureusement pas choisir notre mort. Mais nous pouvons décider comment aller à sa rencontre, afin que l’on se souvienne de nous comme des Hommes.
Je Vous souhaite d’aller très loin et de faire aboutir tous Vos projets!
D

“Rappelle-toi depuis combien de temps tu remets à plus tard et combien de fois, ayant reçu des Dieux des occasions de t’acquitter, tu ne les as pas mises à profit . Mais il faut enfin, dès maintenant, que tu sentes de quel monde tu fais partie, et de quel être, régisseur du monde, tu es une émanation, et qu’un temps limité te circonscrit . Si tu n’en profites pas, pour accéder à la sérénité, ce moment passera ; tu passeras aussi, et jamais plus il ne reviendra.”
Marc Aurèle, Pensées pour moi-même

Qu’ils soient Algériens, Iraniens, Egyptiens, Turcs, Nigérians, Chinois, de plus en plus nombreux sont les écrivains confrontés au cruel dilemme que Tahar Djaout eut à peine le temps d’exprimer quelques jours avant son assassinat en pleine rue:
Si tu parles tu meurs. Si tu te tais tu meurs. Alors parle et meurs...
Plus nous sommes silencieux, patients et disponibles, et plus ce qui est nouveau pénètrera profondément et sûrement en nous, mieux nous le ferons nôtre; il sera d’autant plus notre Destin propre, et, plus tard, lorsqu’il se produira, nous nous sentirons profondément intimes et proches.
Et c’est nécessaire.
Il est nécessaire — et c’est vers cela que peu à peu doit tendre notre évolution — que nous ne nous heurtions à aucune expérience étrangère, mais que nous ne rencontrions que ce qui, depuis longtemps, nous appartient. Il a déjà fallu repenser tant de conceptions du mouvement qu’on saura peu à peu admettre que ce que nous appelons Destin provient des Hommes et ne vient pas de l’extérieur. De même qu’on s’est longtemps abusé à propos du mouvement du Soleil, on continue encore à se tromper sur le mouvement de ce qui est à venir. L’Avenir est fixe, mais c’est nous qui nous nous déplaçons dans l’Espace infini. Tout ce qui, un jour, deviendra peut-être possible pour beaucoup, le solitaire peut déjà le préparer et l’élaborer de ses propres mains qui se trompent moins.
C’est prodigieux, la chance d’être ici: je peux vivre en solitaire, presque en ermite, tout en étant au cœur de l’Univers.
Ici, j’ai fait mon nid.
Sur la table de la chambre dont les fenêtres s’ouvrent sur les grands arbres d’une villa, il y a le dossier de mon testament littéraire.
Parfois j’y glisse un petit papier…
Entre le vrai” testament et ce livre il n’y aura pas grande différence. Dans un testament on indique comment il faut partager ce qu’on laisse. Dans mon testament il y a aussi ce que la Vie m’a provoqué à penser, ce que j’ai eu envie de dire à certains moments.
En vieillissant, peu à peu, on prend conscience d’un devoir.
D’abord on résiste, parce que cela semble présomptueux… et puis revient avec insistance, au-dedans de soi, une voix qui dit:
Avant de nous quitter, dis-nous ce que tu sais.
Si aujourd’hui je ne me soumettais pas à cet appel, j’aurais le sentiment d’enterrer le talent d’une existence. Non pas les mérites de ma personne, bien sûr, mais ce que les circonstances de la Vie dans laquelle j’ai été trimballé m’ont fait comprendre, souvent après bien des résistances.  Toutes les difficultés, les doutes et les renoncements expérimentés par un écrivain ne s’expliquent pas, comme on le croit trop souvent depuis Stéphane Mallarmé, en termes de stérilité ou d’angoisse devant la page blanche. Ce sont là métaphores de poète à ne pas prendre au sens littéral: elles ne rendent pas compte de la réalité infiniment plus complexe du processus de création littéraire. Dans la plupart des cas, si l’écrivain ne parvient pas à faire aboutir son projet – j’entends le grand écrivain -, ce n’est pas qu’il ne peut pas écrire, mais qu’il ne veut le faire qu’à certaines conditions qu’il s’est imposées. Il ne se dessèche pas d’impuissance, mais étouffe d’un trop-plein d’exigences. Cette émotion-ci est commune aux historiens, aux archéologues et aux personnes cultivées qui ont perdu la Passion au contact de l’érudition. Il s’agit d’une émotion à la fois plus exceptionnelle et plus personnelle, identique à celle que Johann Wolfgang von Goethe ressentit en arrivant en Italie après avoir écrit Werther: celle  d’y rencontrer sa propre origine et d’y saisir le sens de son Destin.
Ce n’était donc pas le Passé qui se rapprochait et qui, en se rapprochant, se mettait à ressembler au voyageur mais, à l’inverse, lui-même qui remontait le cours du temps et accédait à sa propre patrie; son Présent se chargeait de signes, et ceux-ci prenaient tout leur sens au contact du Passé. 
Si Vous demandez à deux jeunes gens pourquoi ils s’aiment, ils ne vont pas faire une liste des défauts ou des qualités, établir la moyenne, dire:
Il [elle] arrive à 51%, c’est pour cela que je l’aime…
Chacun s’écriera :
Je l’aime parce que je l’aime, et foutez-moi la paix !
Je l’aime comme il [elle] est.
La Politique est un acte d’Amour.
Il nous faut des contagieux.
Aucune valeur humaine ne peut grandir et se transmettre sans contagion. La contagion est une manière d’être, qui va de soi, comme celle des parents qui accompagnent l’enfant dans son éveil à la Vie. Le contagieux, c’est celui qui sait voir les horreurs du monde, et ses merveilles, qui ne peut pas supporter les horreurs et qui cherche les solutions pour qu’il y en ait moins. Celui-là peut être entendu parce qu’il a agi.
L’homme politique, techniquement compétent, peut bien intervenir pour l’accès à tous, la lutte contre la misère, l’action concertée contre le chômage, mais si, tout en parlant, il ne pense qu’à sa partie de golf du lendemain, il ne sera pas entendu.
Pour convaincre, les arguments sont nécessaires.
Mais les actes le sont davantage.
Qu’ils osent, les contagieux!
Qu’ils n’hésitent pas à utiliser les médias!
Leur action galvanisera l’opinion.
Et parce ce qu’on les aura écoutés, on leur redonnera la parole!
Ce sont eux qui somment d’agir les responsables et l’opinion publique, en les rendant plus clairvoyants et en leur imposant simultanément deux types d’action: l’action d’urgence – le secours immédiat: Tu as faim, voilà à manger. - et la planification, qui n’est plus aujourd’hui à l’échelle du pays, mais à celle du monde.
S’il est vrai que l’on veut étendre la Liberté absolue à tous les domaines, ce qui pourrait donner l’illusion que les Libertés continuent leur expansion sur tous les fronts, il est tout aussi vrai que l’auto-censure, sous la forme de la political correctness, par exemple, fait paraître nos libres parleurs bien timides par rapport à Aristophane et à tous les citoyens grecs de la même époque.
Un passage du Mariage de Figaro de Beaumarchais, écrit il y a plus de deux siècles, nous donne une idée, par le biais de l’humour, de la réalité de cette nouvelle censure qui se présente sous le couvert de la Liberté:
On me dit que, pendant ma retraite économique, il s’est établi dans Madrid un système de liberté sur la vente des productions, qui s’étend même à celles de la presse; et que, pourvu que je ne parle en mes écrits ni de l’autorité, ni du culte, ni de la politique, ni de la morale, ni des gens en place, ni des corps en crédit, ni de l’opéra, ni des autres spectacles, ni de personne qui tienne à quelque chose, je puis tout imprimer librement, sous l’inspection de deux ou trois censeurs.
À la rectitude politique, s’ajoute, dans la plupart des médias, surtout parmi ceux dont la réussite financière dépend de quelques annonceurs, une auto-censure de survie qui devient vite une seconde nature. Il va de soi qu’il faut s’abstenir de donner une opinion éclairée sur le junk food dans une station de radio locale qui diffuse des annonces de telle chaîne alimentaire très connue. En s’accumulant, ces manquements véniels au devoir de vérité créent un climat tel que toute une région peut être au courant des injustices commises par un chef d’entreprise du lieu, alors même que les médias ont craint d’aborder le sujet.
Preuve que l’on peut dans un même Pays à la fois pousser trop loin la Liberté – quand elle est une occasion de profit ou de plaisir - et se montrer incapable de l’assumer, là où elle est un devoir.
Ne tenons jamais la Liberté d’expression pour acquise.
C’est le silence avilissant qu’il faut plutôt tenir pour acquis.
Comme nous le rappelle Fernand Dumont:
Les censeurs existent toujours, même s’ils ont changé de costume et si leur autorité se réclame d’autres justifications. Toutes les Sociétés, quels que soient leur forme et leur visage, mettent en scène des vérités et des idéaux et rejettent dans les coulisses ce qu’il est gênant d’éclairer. Toutes les sociétés pratiquent la censure; ce n’est pas parce que le temps de M. Duplessis est révolu que nous en voilà délivrés. Les clichés se sont renouvelés, mais il ne fait pas bon, pas plus aujourd’hui qu’autrefois, de s’attaquer à certains lieux communs. Il est des questions dont il n’est pas convenable de parler; il est des opinions qu’il est dangereux de contester. Là où il y a des privilèges, là aussi travaille la censure. Le blocage des institutions, le silence pudique sur les nouvelles formes de pauvreté et d’injustice s’expliquent sans doute par l’insuffisance des moyens mis en oeuvre, mais aussi par la dissimulation des intérêts. On n’atteint pas la lucidité sans effraction.
Il y a dans l’histoire de l’Homme un moment qui me bouleverse. C’est celui où les humains ont aligné leurs morts pour les enterrer. On n’a jamais vu les bêtes aligner les dépouilles des bêtes.
Les animaux se cachent pour mourir…
A partir du moment où les restes des défunts ne sont plus laissés là, mais soigneusement rangés, un nouvel âge commence: celui de l’Humanité.

Daniela Zini


II. QUO USQUE TANDEM ABUTERE, 
CATILINA, PATIENTIA NOSTRA?
“Verae amicitiae sempiternae sunt.
Marcus Tullius Cicero

di
Daniela Zini



“Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis, constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fueris, quos convocaveris, quid consilii ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris?”
“Fino a quando, dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata audacia? Non ti scossero né il presidio notturno sul Palatino, né le sentinelle della città, né la paura della gente, né l'accorrere di tutti gli onesti, né questo difesissimo luogo sede di riunione del Senato, né l'espressione del volto dei qui presenti? Non ti accorgi che i tuoi piani sono stati sventati, non vedi che la tua congiura è, ormai, tenuta sotto stretta sorveglianza dalla conoscenza di tutti questi? Chi di noi pensi che ignori cosa hai fatto la scorsa notte e quella prima, dove sei stato, chi hai chiamato attorno a te, quale decisione hai preso?”
M. Tullio Cicerone, Prima Catilinaria



Nelle prime righe delle sue Confessioni, Jean-Jacques Rousseau evoca con passione gli slanci di coraggio e di virtù che suscitavano in lui, nella sua giovinezza, gli atti eroici degli uomini illustri dell’Antichità: si sentiva infiammato all’idea di emulare un Muzio Scevola che, grazie al suo coraggio, alla sua determinazione e alla sua abnegazione, era riuscito a liberare la giovane Repubblica romana dalla minaccia del re etrusco Porsenna.
Rousseau non è il solo della sua generazione a essere, profondamente, influenzato dai modelli che l’Antichità forniva: la Democrazia ateniese e la Repubblica romana ispireranno i rivoluzionari del 1792, quei successori di Rousseau che daranno vita alla prima Repubblica francese. 


Ma se il modello democratico ateniese poteva ben sedurre i loro spiriti improntati all’eguaglianza, quello che offriva loro la Repubblica romana non aveva niente di democratico!
Quello che avevano fissato del modello romano era che, nel 509 a.C., un pugno di cittadini aveva scosso il giogo della tirannia, cacciando, definitivamente, dalla città di Roma i re che vi regnavano da circa duecentocinquanta anni. Sarebbero rimasti molto delusi se avessero avuto idea della realtà del regime politico che era nato da quella rivoluzione e che mirava solo ad assicurare ricchezza e prosperità a una oligarchia agiata, molto poco interessata al bene del popolo. Le derive elettorali di questo regime, particolarmente nel II e nel I secolo prima della nostra era, richiamano alla mente lo spettacolo che alcuni regimi democratici attuali offrono, talvolta, di sé. Potremmo giudicarne, rileggendo alcune testimonianze di Sallustio e di Cicerone, che hanno visto, in quell’epoca, la violenza politica invadere le strade di Roma.





Verso il 40 a.C., nell’ora in cui gli eredi di Cesare si disputano il potere in una Repubblica moribonda, lo storico Sallustio porta uno sguardo amaro sui costumi politici della sua epoca. Il moralismo, che permea le sue riflessioni, rivela la sua nostalgia per un passato idealizzato, allorquando solo il proposito di surclassare in virtù e in gloria gli antenati animava gli uomini politici romani:
“At contra, quis est omnium his moribus quin divitiis et sumptibus, non probitate neque industria cum maioribus suis contendat? Etiam homines novi, qui antea per virtutem soliti erant nobilitatem antevenire, furtim et per latrocinia potius quam bonis artibus ad imperia et honores nituntur: proinde quasi praetura et consulatus atque alia omnia huiuscemodi per se ipsa clara et magnifica sint, ac non perinde habeantur ut eorum qui ea sustinet virtus est. Verum ego liberius altiusque processi, dum me civitatis morum piget taedetque; nunc ad inceptum redeo.”
“Nei nostri costumi attuali, al contrario, è in ricchezza e in prodigalità che si vuole surclassare i propri antenati, non in probità e in energia. Anche gli uomini nuovi, che, non molto tempo fa, avevano l’ambizione di trionfare sulla nobiltà grazie al proprio valore, si sforzano di conquistare poteri e onori non attraverso il merito, ma il brigantaggio; come se la pretura, il consolato e le altre cariche fossero cose gloriose e onorabili per se stesse e non ritenute tali per i meriti di coloro che le rivestono. In verità, mi sono troppo allontanato dall’argomento, ma il modo di vivere dei miei concittadini mi offende e mi disgusta. Torno, dunque al mio assunto.”
Sallustio, La Guerra di Giugurta, Capitolo IV
Queste righe di una sorprendente intensità ci espongono tre elementi fondamentali della vita politica nell’ultimo secolo della Repubblica: la composizione della classe politica, la finalità della politica e i mezzi messi in atto per giungervi.
 

La questione della corruzione non è nuova in sé e dal momento stesso in cui si è costituita una società politica, vale a dire uno spazio, che non si identifica né con gli individui in quanto tali, né con la sfera privata dei gruppi o delle comunità, la corruzione ha costituito un problema potenziale.
Innegabilmente, non tutti i sistemi politici vi hanno prestato la medesima attenzione. Ma là, ove la divisione tra sfera politica e sfera commerciale è stata eretta quale principio; là, ove l’interesse pubblico è distinto dagli interessi privati; là ove lo Stato ha fatto battere in ritirata il patrimonialismo, il clientelismo, il nepotismo; là la corruzione è considerata una patologia.
Non è indulgere all’idealismo o al moralismo ricordare che i sistemi politici, in generale, e le Democrazie, in particolare, sono fondati su un insieme di valori più o meno complessi che li sottendono e li sostengono.
Come scrive Giovanni Sartori:
“Sappiamo da Machiavelli in poi che la politica è diversa dalla morale. Secoli dopo si è stabilito che anche l’economia è diversa dalla morale. Ma la distinzione tra etica, politica ed economia distingue tra sfere di azione, tra campi di attività. In concreto, e a monte di queste differenziazioni, esiste la singola persona umana che non è trina ma soltanto una, e che può variamente essere una persona morale, amorale o immorale.
E quando si dibatte la «questione morale» è di questo che si dibatte, è da qui che si deve partire. Le persone morali sono tali in tutto: anche in politica e anche in economia. Le persone amorali non promuovono il bene ma nemmeno si dedicano al male, anche perché sono fermate, nel malfare, da freni interiorizzati. Invece le persone immorali ridono dei cretini che credono nei valori e non sono fermate da nulla [o soltanto dal pericolo di finire in prigione]. Per i primi non è vero che il fine giustifica i mezzi. Per i secondi il fine può giustificare qualche mezzo scorretto, ma non tutti. Per le persone immorali il fine di fare soldi o di conquistare potere giustifica qualsiasi mezzo: non c’è scrupolo, non c’è «coscienza » che li fermi. […]
Sono un moralista? Sì, ma non perché faccio confusione tra etica e politica; lo sono in quanto sostengo che deve esistere una moralità politica e, alla stessa stregua, una moralità economica; e che in tutti i settori della vita associata devono esistere regole che le persone perbene rispettano. Appunto, le persone perbene.”
Giovanni Sartori, La questione Morale, Corriere della Sera 13 agosto 2005


Riconoscere che i sistemi politici, a iniziare dalle Democrazie, siano fondati su valori, la cui violazione mina la legittimità, sottintende che la corruzione non sia da considerare un fenomeno secondario, un male benigno e inevitabile, da dover, certo, combattere, ma impossibile da sradicare.
Definire la corruzione non è agevole, tenuto conto delle variabili culturali nella gerarchia dei valori, nella definizione reciproca del pubblico e del privato, nell’atteggiamento più o meno lassista delle élites e dell’opinione pubblica. La corruzione può essere definita come uno scambio clandestino tra due mercati, il mercato politico e/o amministrativo e il mercato economico e sociale. Questo scambio è occulto, perché viola norme pubbliche, giuridiche ed etiche e sacrifica l’interesse generale a interessi privati [personali, corporativi]. Una transazione che permette a settori privati di avere accesso a risorse pubbliche [contratti, finanziamenti, decisioni], in modo privilegiato e artificioso [assenza di trasparenza, di concorrenza] e procura agli attori pubblici corrotti benefici materiali presenti o futuri per se stessi o per il gruppo di cui sono soci. 
   

Come ogni estate, anche quella del 63 a.C., è, per Roma, un periodo di passione. Si approssimano le elezioni per le magistrature. Quelle per i nuovi consoli, che entreranno in carica l’anno successivo, si annunciano particolarmente calde. I concorrenti, sia pure per diversi motivi, sono tutti elementi particolarmente quotati. Emerge, in particolare, Lucio Sergio Catilina, non tanto, agli occhi di molti, per le sue doti personali, quanto per il timore che suscita.


Non è la prima volta che Catilina tenta la scalata alla suprema magistratura repubblicana. L’anno precedente, era, già, sceso in campo, battuto, nettamente, da Marco Tullio Cicerone. Ora, questo nobile decaduto, questo patrizio che pretende di discendere da Enea, ex-sicario di Silla, all’epoca delle grandi proscrizioni, ci riprova, con un programma politico completamente rovesciato rispetto alle sue antiche convinzioni. Cancellazione dei debiti; distribuzione delle proprietà terriere statali [ager publicus, che la nobilitas sfrutta indegnamente]; fine dei privilegi ereditari, che consentono a una ristretta cerchia di famiglie di manipolare le cariche pubbliche; queste poste sono le sue parole d’ordine. 

Il fine ultimo che Catilina si propone è il rovesciamento dell’oligarchia senatoria e il ridimensionamento dell’ordine equestre. I consensi che raccoglie sono numerosi anche se eterogenei. Nullatenenti, nobili caduti in rovina e molti giovani bene, desiderosi di novità e di potere, sono pronti a seguirlo. I veterani di Silla, che hanno dilapidato il bottino, realizzato con il loro capo, sono tutti per lui. Perfino gli schiavi lo guardano con simpatia. Catilina dispone, inoltre, dell’appoggio di personaggi potenti, che pur restando nell’ombra, cercano di strumentalizzarlo per i propri fini. Si tratta di Caio Giulio Cesare, astro nascente del partito dei populares, e di Licinio Crasso, il patrizio miliardario, che, con i suoi crediti, tiene in pugno una buona parte della popolazione romana, Cesare e Catilina inclusi.


Il console Cicerone – il collega Antonio è una figura del tutto secondaria – è preoccupato. L’anno precedente, i voti coalizzati delle classi medie e superiori erano stati sufficienti a farlo prevalere. Questa volta, teme che la lotta non si limiterà alla pura e semplice raccolta di suffragi. Sa per certo che, attorno a Catilina, si è formato un gruppo di individui decisi a tutto, per lo più nobili di fede sillana, rovinati economicamente come il loro capo. Spicca tra tutti per la sua personalità il pretore Publio Cornelio Lentulo Sura.

Cicerone era riuscito, negli ultimi tempi, a infiltrare un paio di informatori nell’organizzazione catilinaria. Da questi viene a sapere di una riunione segreta, nel corso della quale sono state pronunciate parole incendiarie contro il governo legittimo, i ricchi e l’ordine costituito. Ormai, appare chiaro che, se i comizi daranno ragione al partito senatorio, Catilina e i suoi seguaci ricorreranno ad altri argomenti. Preoccupa, soprattutto, la massa di persone convenute a Roma. La campagna elettorale del loro beniamino è tale da infiammare gli animi. Si parla apertamente di potere ai poveri e dell’avvento di una nuova Era dell’Oro.


Cicerone convoca d’urgenza il Senato ed espone la situazione. Occorrono provvedimenti di emergenza; soprattutto, è necessario rinviare le elezioni per motivi di ordine pubblico, nella speranza che molti dei convenuti in città, in buona parte favorevoli a Catilina, si dileguino.
I senatori sonnecchiano.
Alcuni parteggiano, nonostante tutto, per Catilina.




Altri, che, in fondo disprezzano Cicerone, anche se momentaneamente utile, ritengono che questo parvenu si agiti, soprattutto, a fini personali.

Catilina, presente nella seduta, ha buon gioco nel mostrare la assoluta mancanza di prove a suo carico. Quando Catone, passato, poi, alla storia come l’Uticense, gli domanda cosa vi sia di vero in tutta la faccenda, risponde, con orgogliosa sicurezza, che lo Stato romano si compone di due corpi: l’uno debole e vacillante, ma con la testa, l’aristocrazia, e l’altro forte e vigoroso, ma privo di guida, il popolo. Suo programma, legale, era ovviare a questa situazione.

La proposta di Cicerone, dunque, viene respinta e le elezioni tenute alla data stabilita [settembre 63 a.C.]. I sostenitori di Catilina rimangono in città, ma i loro voti, ancora una volta, si rivelano insufficienti. Oltretutto, Cicerone denota un inaspettato grado di fantasia, presentandosi in pubblico, il giorno delle votazioni, con una folta scorta e protetto da una grande e splendente lorica.




L’immaginazione della plebe ne resta colpita.
Sono eletti Decimo Giunio Silano, nobile ricchissimo, e Lucio Licinio Murena, una creatura dei pubblicani.
La situazione si deteriora.
La tensione è acuita dalle accuse di brogli, che una parte stessa dei conservatori lancia a Murena.
Catilina deve fronteggiare l’impazienza dei suoi, soprattutto di Lentulo, che si sente l’uomo della provvidenza, in base a una profezia dei Libri Sibillini. Catilina è, invece, ancora combattuto nella scelta tra via legalitaria e rivoluzionaria. Vuol vedere come finirà il processo a Murena, che, più tardi, sarà assolto. Si è posizionato terzo nella consultazione elettorale. In caso di condanna dell’avversario, succederebbe di ufficio. Intanto, manda i suoi luogotenenti Caio Manlio e Caio Flaminio in Etruria, per reclutare il maggior numero possibile di armati. Altri agenti fidati si dirigono in Apulia e nel Piceno. Rinforzi potrebbero giungergli dalla Mauritania. A Roma non si aspetta che un suo cenno.



In questa situazione, instabile e delicata, accade, d’improvviso, il fatto nuovo. Gli occulti protettori di Catilina, coloro che, dall’ombra, lo manovrano e lo finanziano, per i propri fini di potere, temono che il gioco si stia facendo pericoloso. Loro scopo era quello di provocare un incendio, del quale presentarsi, in seguito, come “estintori” – Crasso, poi, ha una esperienza effettiva in materia, ha organizzato un corpo di vigili, ufficialmente per soffocare gli incendi, assai frequenti, in realtà, per appiccarli e acquistare, poi, i terreni edificabili a prezzi stracciati – e non di restare coinvolti nel rogo. Le proposte di abolizione dei debiti e di stesura di nuovi registri, tabulae novae, non possono, certo, piacere all’usuraio Crasso. Quanto a Cesare, questi vuole riformare e non distruggere.
La notte del 20 ottobre, Crasso riceve misteriosamente, per sé e per altri senatori, delle lettere anonime, nelle quali si consigliano i destinatari ad abbandonare la città, perché gravi eventi si stanno preparando. 

 

Naturalmente, sente che è suo dovere avvertire il console. Cicerone, prese in consegna le lettere, convoca il senato, il 21 ottobre, e ordina a ogni destinatario di leggere, ad alta voce, il contenuto della propria missiva. Vi sono espresse minacce e previsioni di sanguinosi disordini. L’impressione, enorme, aumenta, ulteriormente, quando uno dei senatori più vicini alle posizioni di Cesare, Quinto Arrio, dà notizia di disordini imminenti in Etruria, che effettivamente scoppieranno, il giorno 27. Cicerone, sulla base delle sue informazioni, rincara la dose, annunciando che, il 28, è prevista una strage di senatori e il 1° novembre un attacco a Preneste. A Capua e nelle Puglie scoppia, nel frattempo, una violentissima rivolta di schiavi.
Questa volta, il Senato non esita e decreta, con un senatus consultum ultimum, i pieni poteri per i consoli – in realtà, per Cicerone –. Vengono inviate truppe nelle località in fermento. In diverse zone si arriva all’arruolamento in massa di gruppi di volontari, sotto la direzione dei pretori.

A Roma, le vie si fanno deserte, mentre presidi di armati vengono posti da Cicerone nei punti strategici. Sulla città scende una cappa di paura. In Senato, riunito in seduta di emergenza, parte la prima accusa di complotto contro Catilina. Questi si mette a disposizione dei Padri Coscritti per una verifica della sua posizione. È incerto sul da farsi, ma gli altri congiurati incalzano. Se non si passerà all’azione al più presto, è chiaro che la intera organizzazione rischia di sfaldarsi miseramente.

Nella notte tra il 6 e il 7 novembre avviene, in casa di Marco Porcio Leca, una nuova riunione dei congiurati. Ormai, non si può più attendere. Scoppieranno incendi in varie parti della città e di ciò si approfitterà per uccidere i senatori più importanti. L’azione all’interno dovrà essere coordinata a quella esterna, in procinto di iniziare in Etruria.


Ostinatamente, Catilina, nonostante le insistenze di Lentulo, rifiuta di fare appello agli schiavi. Eliminati i più eminenti uomini politici, sarà facile per gli insorti impadronirsi dell’Urbe e porre fine al potere dei nobili – non del loro, naturalmente – dei ricchi, dei corrotti. Condizione prima, perché il piano riesca, è l’uccisione del console. Due dei congiurati, il senatore Lucio Vargunteio e il cavaliere Caio Cornelio, si recheranno all’alba del giorno dopo all’abitazione di Cicerone, chiedendo udienza, e lo uccideranno. Ma in mezzo ai catilinari è, sempre, presente uno degli informatori governativi, Quinto Curio. Quando i sicari arrivano alla casa di Cicerone, trovano le guardie e sono, pertanto, costretti ad allontanarsi.


Qualche ora dopo, nel tempio di Giove Statore, Cicerone convoca, nuovamente, il Senato. È presente anche Catilina, sempre più in veste di imputato. Nessuno degli astanti lo ha salutato. Questi siede in disparte, pensoso, mentre il console si accinge a parlare.
“Fino a quando, dunque, Catilina”,
lo investe Cicerone,
“abuserai della nostra pazienza? Quanto a lungo ancora codesta tua follia si prenderà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata audacia? Non ti scossero né il presidio notturno sul Palatino, né le sentinelle della città, né la paura della gente, né l'accorrere di tutti gli onesti, né questo difesissimo luogo sede di riunione del Senato, né l'espressione del volto dei qui presenti? Non ti accorgi che i tuoi piani sono stati sventati, non vedi che la tua congiura è, ormai, tenuta sotto stretta sorveglianza dalla conoscenza di tutti questi? Chi di noi pensi che ignori cosa hai fatto la scorsa notte e quella prima, dove sei stato, chi hai chiamato attorno a te, quale decisione hai preso?”


Dopodichè, inizia la requisitoria vera e propria, con l’enunciazione dei piani approntati in casa di Lena e che Curio aveva passato a Cicerone.
“Tu hai diviso l’Italia in settori, tu hai distribuito gli incarichi, hai stabilito i quartieri urbani da incendiare, hai organizzato l’attentato contro la mia persona.”
Sotto la montagna di accuse Catilina reagisce. Tre volte osa interrompere il discorso del console, tra urla e clamori.


“Come si può pensare”,
grida rivolto agli altri senatori,
“che  egli, di famiglia nobile tra le nobili, mediti l’affossamento della Repubblica, mentre perfino un homo novus, un arrivista, vale a dire Cicerone, mostra di difenderla?” 
Ma le accuse di nemico della patria, di parricida [era stato, perfino, sospettato di aver assassinato il padre] lo sommergono.

Cicerone, tuttavia, non intende ancora concludere. Arrestato Catilina, troppi sarebbero i congiurati ancora in libertà. Ufficialmente gli altri catilinari sono ancora sconosciuti, né Cicerone è in grado di addurre prove a loro carico. Meglio indurli a scoprirsi. Catilina deve andarsene da Roma.
“Se fossi detestato dai miei schiavi”,
gli grida,
“come tu dai tuoi concittadini, non esiterei un istante a lasciare il mio tetto.”


Catilina è isolato. I suoi sostenitori in Senato tacciono o si sono eclissati. Spaventato e, nello stesso tempo, furibondo, urla:
“Poiché circondato da nemici sono spinto alla disperazione, soffocherò gli incendi [quelli progettati] con le rovine di Roma.”
Cicerone ha vinto la prova con il suo infiammato discorso [Prima Catilinaria]. Catilina, la sera stessa, se ne va, con trecento dei suoi. A dirigere le operazioni, a Roma, resta Lentulo. Prima di abbandonare l’Urbe, lascia una lettera per il princeps del senato Quinto Lutezio Catulo. L’incolumità e l’onore della moglie Orestilia sono affidati a lui. 

Dopo aver compiuto una breve digressione, Catilina punta, prima, su Arezzo, sollevando numerosi coloni di fede sillana, e raggiunge, poi, Fiesole, dove Manlio ha raggruppato un esercito di 12mila uomini. La lotta è, ora, su due fronti. Cicerone raduna il popolo nel Foro, e tiene un discorso [Seconda Catilinaria], nel quale giustifica il suo operato. La plebe, di cui una cospicua parte simpatizzava per Catilina, lo osanna.


Successivamente, avuta conferma che quest’ultimo si trova presso l’esercito di Manlio, lo fa dichiarare dal Senato nemico pubblico, e invia il collega Caio Antonio, alla testa dell’esercito consolare, a reprimere la insurrezione armata.
 Siamo negli ultimi giorni di novembre.   
La tormentata vicenda si decide, tuttavia, a Roma. 


In quei giorni è presente nell’Urbe una delegazione di galli allobrogi, provenienti dalla Provenza, per esporre le proprie rimostranze circa la cattiva amministrazione romana. Il momento non è, certo, dei più propizi e gli allobrogi non vengono neppure ricevuti dal Senato. E, poiché questi si agitano e minacciano contro il governo di Roma, a Lentulo la occasione sembra ottima per rafforzare le proprie fila. Questi galli, infatti, possono mettere in campo una ottima cavalleria, con la quale invadere l’Italia settentrionale e collegarsi a Manlio e Catilina. Ma gli allobrogi chiedono tempo. Da soli non possono decidere. Devono mettersi in contatto con i loro capi. In realtà, hanno deciso – sperano, evidentemente, di acquistarsi benemerenze – di fare il doppio gioco e, attraverso il loro patrono Quinto Fabio Sanga, informano Cicerone. 

La trappola è presto congegnata.
Gli allobrogi fingono di accettare e si fanno mettere, per iscritto, dai congiurati proposte, con tutti i piani eversivi, e promesse. In aggiunta vi fanno apporre i sigilli personali. Tito Volturcio di Crotone, si incarica di guidare, clandestinamente, la delegazione sulla via del ritorno. Se la risposta gallica sarà positiva, diventerà operativo il piano per la insurrezione. 
Le cose vanno ben diversamente.
Gli allobrogi vengono bloccati – o meglio, si fanno bloccare –, e le lettere dei congiurati, con i loro sigilli, sequestrate.
Volturcio è fermato.
Infine, Cicerone ha prove concrete.


Il 3 dicembre, Lentulo, insieme ai complici Cetego, Statilio, Gabinio e Cepario, viene arrestato. Tutti vengono condotti al Tempio della Concordia, dove il Senato è riunito, e posti a confronto con gli allobrogi. Cetego rifiuta ogni confessione. Alla domanda di Cicerone circa gli ingenui quantitativi di armi rinvenuti nella sua abitazione, risponde:
“Mi piacciono le lame.”
Ma quando viene letta una delle sue lettere con tanto di sigillo, si limita a tacere.
Quanto a Lentulo, dopo aver cercato di far cadere in contraddizione gli allobrogi, finisce con il rassegnarsi e confessa; le prove contro di lui sono schiaccianti.


Cicerone tiene informato il popolo, radunato nel foro [Terza Catilinaria].
La plebe, venuta a conoscenza dei piani dei congiurati, è infuriata.
Il console è acclamato con grande vigore.
Resta da decidere la sorte dei prigionieri.
La situazione è lungi dall’essere calma.
I congiurati arrestati fanno pervenire appelli ad amici, clienti e liberti.
Si teme egualmente una insurrezione.
Un catilinario, tale Lucio Tarquinio, cerca di salvarsi facendo il nome di Crasso tra i responsabili della congiura. La cosa viene, naturalmente, messa a tacere. Il console fa occupare il Campidoglio e per sicurezza dorme all’interno.

Il 5 dicembre, si svolge la seduta decisiva del Senato.
Giunio Silano è per la pena di morte.
Cesare, riapparso finalmente, chiede la prigione a vita e la confisca dei beni.
“Quando la pena di morte diviene pratica comune”,
dice in sostanza,
“si sa come si inizia, ma non dove si finisce, soprattutto perché, in queste circostanze, non è prevista dalle leggi romane; inoltre, esiste il diritto dell’appello al popolo per i condannati.”
Cicerone ringrazia Cesare del suo intervento, ma ribadisce la richiesta di condanna a morte [Quarta Catilinaria].
I senatori esitano, poi, si alza Catone, che sottolinea la necessità di eliminare i condannati.
Lasciarli in vita, spiega con calma, significa rafforzare Catilina.
La decisione è presa.
Mentre Cesare sfugge per miracolo al linciaggio da parte di un gruppo di cavalieri; Cicerone dà disposizione per la esecuzione.


Al crepuscolo dello stesso giorno, i cinque compagni di Catilina vengono strangolati.
A esecuzione avvenuta, Cicerone si reca nel Foro e dà l’annuncio ufficiale alla folla, soprattutto per scoraggiare eventuali conati di rivolta.
Gli basta un verbo per essere esauriente: vixerunt [vissero].
Le ultime scene del dramma si consumano sui campi di Etruria.
Esercito governativo e catilinari si affrontano in una lotta impari.


Catilina ha rifiutato, fino all’ultimo, l’aiuto degli schiavi, che, pure, accorrevano a lui. I suoi uomini hanno un armamento approssimativo. L’urto è violentissimo. Catilina è dovunque, in prima fila; soccorre chi è in pericolo, fa sostituire i feriti, duella di persona contro gli avversari. Rimasto con pochi, narra Sallustio, memore della sua stirpe e della antica dignità, si getta nel folto dello schieramento nemico e cade trafitto. Non uno degli insorti caduti ha ferite alla schiena; e nessuno è rimasto vivo. I soldati governativi ritrovano tra i morti vecchi amici, parenti, antichi ospiti.
Un velo di tristezza scende sui vincitori.
Come in ogni guerra fratricida.   
Cicerone scrive di aver passato gran parte del suo tempo nei tribunali, esagerando, per esprimere come considerasse i tribunali il suo territorio e la sua casa.
Teneva moltissimo alla loro reputazione.
I suoi criteri di giudizio sembrano la natura, la realtà, la verità.


Daniela Zini
Copyright © 17 agosto 2014 ADZ
Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?

 

Nessun commento:

Posta un commento