“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

domenica 21 settembre 2014

MAFIA IN TOSCANA DAL 2005 AD OGGI di Renato Scalia

MAFIA IN TOSCANA DAL 2005 AD OGGI di Renato Scalia



Condivido questo post di Renato Scalia, con grande piacere e con molto onore, e non solo perché è mio Amico.
Potrete rilevarne, voi stessi, il merito leggendolo.
Come diceva Anna Politkovskaja, il cui spirito illumina, dalla sua scomparsa, il mio cammino:
"Certe volte le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano."
Io potrei lasciare, con l'inizio del nuovo anno, dopo una lunga militanza sul Web e fuori del Web, le mie velleità attivistiche e giornalistiche, per dedicarmi, esclusivamente, alla Prosa e alla Poesia, nonché alla traduzione di Poeti Iraniani, per poi, chiudere il mio ciclo vitale, scrivendo Fiabe per Bambini.
A ciascuno il suo Destino!
Vi chiedo, pertanto, fin da adesso, di seguire Renato Scalia nel suo impegno quotidiano alla LOTTA CONTRO LA MAFIA sui BLOGS:
http://quannomepare.blogspot.it/
http://stopmafia.blogspot.it/
E questo è tutto.
Buona domenica a tutti.

Daniela Zini 






venerdì 19 settembre 2014

UOMINI DI STORIA STORIA DI UOMINI 114 ANNI FA NASCEVA CICERUACCHIO di Daniela Zini



UOMINI DI STORIA
STORIA DI UOMINI
114 anni fa nasceva
Ciceruacchio
 “Sovrano come er Popolo sovrano
che viceversa nun commanna mai.”
Trilussa
ANGELO BRUNETTI
[Roma, 27 settembre 1800 – Porto Tolle, 10 agosto 1849]


“E tu ricorda: il servo che non si ribella
è peggio del padrone che lo comanda.”
da In nome del Popolo sovrano di Luigi Magni

Un entusiasmo spontaneo; un’anima mobilissima; una inutile eroica morte. Questa, in sintesi, la vita di Ciceruacchio. 

di
Daniela Zini

“La Storia insegna, ma non ha scolari.”
Antonio Gramsci

Molto sovente, quelle idee che non hanno argini debbono trovare il giusto tempo e il giusto percorso per far nascere in un Popolo la esigenza di cambiare.
Gli ostacoli sono molti, ma potrebbero essere tutti facilmente rimossi, se si potesse superare quello della poca unione di noi Italiani nell’attuare una idea, nostro flagello, origine di tante piaghe antiche e recenti, sanguinose, irrimediabili.
È un appello accorato a una quotidiana Resistenza, che rivolgo a tutti Voi Italiani verso un nuovo Risorgimento Italiano.

Daniela Zini


Il soprannome di Ciceruacchio gli viene dato dalla madre e dalle comari, amiche della stessa madre, che lo fanno oggetto di coccole, quando è ancora un “tocco” di bimbo, paffutello, cicciuto, tondeggiante e, in quanto tale, bello come un “ciccio”, come un “ruacchio”.
Alla parrocchia, viene registrato come Angelo Brunetti, nato a Trastevere, nel quartiere di Campo Marzio, presso piazza dell’Oca, il 27 settembre 1800. Dotato di natura vivacissima e di eccezionale vigoria fisica, Angelo vive una giovinezza contrassegnata da risse e baruffe. Inviato alla scuola dei Padri Carissimi, non ne trae grande profitto, se apprende appena a leggere e a fare di conto.
In realtà, la sua cultura resta, sempre, assai modesta.
Avendo una certa inclinazione per la poesia, legge la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, conosce molti melodrammi di Pietro Metastasio e inizia presto a improvvisare versi, che declama, con un certo successo, agli amici buontemponi, seduti intorno i bicchieri ricolmi di vino.
Dalle litografie, che ci sono rimaste, e dalle testimonianze, che ci hanno tramandato i coetanei suoi amici, è facile ricavare il profilo fisico di Ciceruacchio adulto. Di statura appena al di sopra della media, di corporatura solida e robusta, di fisionomia piacevole e simpatica, ha occhi azzurri ed espressivi, collo taurino, folta chioma bionda, fronte regolare, naso profilato, carnagione chiara.     
Veste in modo curioso ed eccentrico. Quando non è in sole maniche di camicia, indossa una corta giacca sopra un panciotto e calzoni stretti al ginocchio e larghi al collo del piede. Un fazzoletto di seta, disegnato a fiori, gli avvolge il collo e una sciarpa, egualmente di seta, gli corre intorno alla vita; sul capo porta un cappello a cencio un po’ a punta, di tipo calabrese.
Ha, già, intrapreso il mestiere di carrettiere di vino, quando, intorno ai venti anni, sposa una graziosa popolana del suo quartiere, la cui dote, unita ai suoi risparmi, gli consente di estendere il raggio della sua attività e di accrescere il volume dei suoi affari. Acquista altri due cavalli e altri due carretti e aggiunge al trasporto del vino, quello dei cereali e del fieno. In un secondo tempo, prosperando gli affari e crescendo la clientela, al trasporto per conto di altri, sostituisce il commercio diretto e in proprio delle stesse merci.
È la ricchezza.
Ciceruacchio diviene Padron Angelo.
È la popolarità, favorita dal fisico, dal temperamento, dalla professione e dalla stessa agiatezza. Quando, quindi, gli eventi del 1846-1849, ne porteranno il nome anche fuori dello Stato Pontificio, il popolano dal viso largo e aperto, dalla parola facile e dal carattere socievole e generoso, avrà il suo seguito di folla tra il Popolo che aiuta, comprende e rappresenta.
Il primo giugno del 1846, muore, scarsamente compianto dalla generalità dei sudditi, il pontefice Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Alberto Mauro Cappellari. Mezzo mese più tardi, dopo appena tre giorni di conclave, le caratteristiche fumate bianche annunciano al Popolo l’Habemus Papam. I cardinali di Santa Romana Chiesa, con trentasei voti su quarantanove, hanno eletto papa l’ex-vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che prende il nome di Pio IX.
È l’evento che imprime, alla vita di Ciceruacchio una svolta decisiva.
L’elezione del nuovo papa, in fama di liberale, e, molto più, l’avvio concretamente liberale del suo governo, desta una risonanza immensa. Il mito ventilato dal filosofo Vincenzo Gioberti, di una confederazioni di Stati italiani sotto la presidenza del pontefice, sembra avviato a diventare realtà.
Di qui fervore ed euforia, di qui inni e dimostrazioni.
Da questa ventata di caldo entusiasmo viene preso il generoso Ciceruacchio, che in Pio IX trova l’idolo da venerare e la bandiera da seguire. 
Quando, nel trigesimo dell’elezione al pontificato, Pio IX concede l’aministia ai detenuti politici, il popolano manifesta il suo giubilo con un gesto spettacolare di schietto stampo popolano. Fa trasportare in piazza del Popolo undici barili di vino e li mette a disposizione del Popolo, si ammira un maestoso arco di trionfo, eretto in onore del papa. Ciceruacchio, che fa parte del comitato organizzativo della festa, ha impegnato tutto il suo entusiasmo nel dirigere e nell’incoraggiare. Sull’arco si legge, in grossi caratteri, la scritta:
“Onore e gloria a Pio IX cui bastò un giorno per consolare i sudditi e meravigliare il mondo.”
L’11 novembre, nel Teatro Alibert, seicento romani offrono a trecento patrioti non romani un solenne banchetto. Ciceruacchio, alzatosi con il bicchiere in mano, manifesta la sua vena di poeta estemporaneo, improvvisando una applauditissima ottava, altrettanto approssimativa nella forma, quanto sincera nel contenuto:

Oggi per il gran Pio semo felici
Né dai briganti più saremo offesi;
Oggi per il gran Pio siam tutti amici,
E amici avemo pure i Bolognesi.
Se alcun, corpo di Dio, dei rei nemici
Fa un passo avanti… noi già semo intesi.
Evviva la provincia e Roma madre,
Evviva Italia con il Santo Padre!


papa Pio IX, nato Giovanni Maria Mastai Ferretti

A metà dicembre, Pio IX riceve in udienza privata i promotori della festa dell’8 settembre. Ciceruacchio, alla sua presenza, si commuove, si confonde, smarrisce la facile popolana eloquenza. La coscienza di avere ricevuto un onore immeritato e la convinzione di trovarsi dinanzi al rappresentante di Dio sulla terra lo inibiscono; lo splendore del trono dei papi e la simpatica fisionomia di Pio IX lo affascinano: alle amorevoli parole del pontefice, non sa rispondere che con gli occhi e con l’anima.  
Intanto la fama del pontefice si propaga in Italia e all’estero.
“Viva Pio IX diventa la parola di moda, il sunto di tutti gli encomi: si diffonde dall’Italia a tutta l’Europa e al di là dell’Atlantico: protestanti, cattolici, turchi ed ebrei ripetono: Viva Pio IX.”
L’entusiasmo dei romani viene espresso attraverso frequenti dimostrazioni popolari, nelle quali Cceruacchio è, sempre, magna pars.
Quando il 25 marzo 1847, Pio IX si reca in pompa solenne alla Basilica di Santa Maria sopra Minerva, il capopopolo conduce, più volte, sul suo cammino acclamanti squadre di trasteverini, di monticiani e di regolanti. Quando un mese dopo il papa si reca a Subiaco, in carrozza, Ciceruacchio lo accompagna per un buon tratto alla testa di cento popolani a cavallo.
Il 17 giugno, anniversario dell’ascesa di Pio IX al pontificato, dalla provincia accorrono migliaia di cittadini e rappresentanze municipali con bandiere e concerti musicali. I romani, riuniti nel Foro, si ordinano in rioni attorno al proprio vessillo e al proprio capopopolo. Ciceruacchio, capopopolo e vessillifero del quarto rione, vale a dire il Campo Marzio, è il duce supremo del Popolo che, preceduto dalla banda musicale e seguito dalle magistrature civiche, sale al Campidoglio e di là muove al Quirinale per ricevere la benedizione papale.
Il tribuno è, ormai, l’idolo della moltitudine.
Uno scultore lo ritrae in una statuetta, un poeta lo esalta in nove sestine, uno scrittore contemporaneo ne pubblica una succinta biografia. Sui giornali dell’epoca si leggono elogiativi del popolano; il giorno del suo onomastico, al banchetto offerto in suo onore, intervengono più di duecento persone. Gioberti, che, in un’altra occasione, ha affermato che la Roma moderna può vantarsi del suo Ciceruacchio come l’antica di Cicerone, scrive a un amico:
“Abbraccia in mio nome Menenio Agrippa dell’età nostra, voglio dire il Ciceruacchio, che io stimo più di Cicerone.”
Si giunge al Capodanno del 1848.
Il Circolo Romano e Ciceruacchio deliberano una dimostrazione di Popolo per porgere a Pio IX gli auguri del nuovo anno, ma la dimostrazione viene proibita. La folla è contrariata: si alzano grida di sdegno e di dolore. Ciceruacchio, in nome del Popolo, prega il principe Tommaso Corsini, senatore di Roma, di farsi interprete dei desideri della cittadinanza e il principe riceve l’assicurazione che, l’indomani, il pontefice uscirà senza guardie per le vie della città.
Il giorno successivo, il papa mantiene la promessa.
Una folla, immensa ed entusiasta fa ala al seguito del corteo pontificio, agita una bandiera bianca e gialla sulla quale si legge il significativo invito:
“Coraggio, Santo Padre, fidatevi del Popolo!”,
mentre la moltitudine lancia il grido:
“Viva Pio IX solo!”
Il papa è commosso e, forse, atterrito.
A un tratto corre la voce che stia male e si fa, subito, profondo silenzio.
Pio IX, pallido come un cadavere, si affretta a tornare al Quirinale.
L’acqua cade a dirotto.
La folla che lo ha accompagnato al palazzo attende invano la benedizione.
Dal balcone un prelato annuncia che il pontefice è malato.     
Al termine di quella famosa giornata si sente che, nei rapporti tra sovrano e sudditi, è accaduto qualcosa di irreparabile.
Il vero trionfatore di quelle giornate è stato Ciceruacchio, il quale ha sperimentato la sua grande potenza sulla folla, da lui guidata e frenata.
 Uno storico degli avvenimenti di quei giorni conclude perentoriamente:
“Da quel momento Ciceruacchio fu il re di Roma.”
Nel Popolo prende sempre più piede l’aspirazione verso un regime liberale e si sviluppa sempre più la coscienza nazionale. Solo le famosissime parole dell’allocuzione pontificia del 10 febbraio:
“Benedite, Gran Dio, l’Italia”,
interpretate con significato troppo estensivo, lo riconciliano interamente al sovrano e lo mandano in visibilio.
Intanto, maturano gravissimi eventi.
Ferdinando II, re di Napoli, è costretto a concedere la Costituzione, dando un esempio che Carlo Alberto e Pio IX saranno obbligati a imitare.
In febbraio, scoppia la rivoluzione a Parigi.
In marzo, nel Lombardo-Veneto, Milano insorge e scaccia gli austriaci.
Il re di Sardegna dichiara guerra all’Austria e da ogni parte d’Italia accorrono volontari a dare man forte alle truppe regolari dell’esercito piemontese.  
A Roma, la risonanza degli avvenimenti parigini e milanesi è immensa. Alla notizia della cacciata degli austriaci la folla corre al palazzo d’Austria e abbatte gli stemmi dall’aquila bicipite. Le campane suonano a distesa e su alcuni edifici sventola il tricolore. Nel pomeriggio, dinanzi a molte migliaia di persone, assiepate tra i resti maestosi del Colosseo, la parola infuocata e trascinante del padre barnabita Alessandro Gavazzi [1809-1889] provoca una ondata impetuosa di entusiasmo patriottico.
Il governo è costretto ad autorizzare l’arruolamento dei volontari: a piazza del Popolo e al Colosseo si aprono i registri per le iscrizioni e migliaia di cittadini vanno a dare il loro nome. Ciceruacchio, che non è stato assente dalle manifestazioni di quei giorni, è tra i primi ad arruolarsi. Ma il Popolo non vuole perdere il suo rappresentante e il popolano fa partire, in sua vece, il figlio.
Ma nella famosa allocuzione del 29 aprile 1848, il papa afferma che, in qualità di vicario in terra di colui che è autore di pace, non può accogliere l’invito dei suoi popoli che lo vorrebbero in armi contro l’Austria e produce una impressione enorme.
Si grida al tradimento.
Crollano, definitivamente, le illusioni neo-guelfe.
In luglio, il papa viene, ancora, applaudito in Trastevere, che è il rione dove l’autorità del tribuno è maggiormente sentita, ma nei primi di settembre, mentre è di ritorno da San Carlo al Corso, viene fatto oggetto di manifestazioni ostili da parte della folla, guidata da Luigi, il figlio maggiore di Ciceruacchio. Luigi, giovane e robusto, biondo e bello, ammirato per se stesso e additato per essere il figlio del popolare Ciceruacchio, viene coinvolto nelle spire di una congiura politica e accetta – o si offre? – di assassinare lo statista pescarese Pellegrino Rossi[1787-1848], da Pio IX, chiamato a reggere la politica dello Stato e fermamente intenzionato a non deludere le aspettative del pontefice. 


Assassinio di Pellegrino Rossi

Il 15 novembre, mentre Pellegrino Rossi sale le scale del palazzo della Cancelleria, il giovane esce dalla folla assiepata tutta intorno, gli si avvicina e gli vibra un colpo di pugnale.
Lo statista stramazza al suolo con la carotide recisa.
Ciceruacchio è estraneo alla congiura e il delitto compiuto dal figlio lo sconvolge letteralmente. Allo storico Luigi Carlo Farini, che subito dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi, lo incontra in Campo de’ Fiori, dice tristemente:
“Queste sono infamie che io vorrei lavare con il mio sangue; tanta è la vergogna e il dolore che ne provo!”
L’assassinio del ministro accelera i tempi.
Pio IX, sentendosi, ormai, sfuggire di mano il controllo della situazione e paventando mali peggiori, il 24 novembre esce, travestito, da Roma e fugge, in carrozza, a Gaeta, ospite del re di Napoli.
Alla notizia della fuga del papa il Popolo si agita.
Ciceruacchio arringa la folla in Trastevere, ma il suo discorso è interrotto  così di frequente che diventa un vero e proprio dialogo.
“Er papa vada dove je pare. Volemo l’Italia; L’Italia volemo.”,
grida alla folla.
Eppure tra le fiorite espressioni, che colorano il suo comizio-dialogo in romanesco, quelle che si riferiscono al pontefice sono le meno pesanti e le più pudiche. Ne trapela, più il cruccio, che lo sdegno, più il rammarico che il rancore, più il dolore che l’odio.

Se il Papa è andato via
Buon viaggio e così sia.
Non morremo d’affanno
Perché fuggì un tiranno,
Perché si ruppe il canapo
Che ci legava i piè.
Viva l’Italia e il Popolo
E il Papa che va via.
Se andranno in compagnia
Via pure gli altri re.

Venuta meno la speranza di far tornare il papa a Roma, gli uomini che hanno in mano le redini politiche dello Stato si vanno orientando verso la proclamazione della Repubblica, che implica la dichiarazione di decadenza dello Stato temporale dei papi. Nel tentativo di appoggiare il movimento estremista, Ciceruacchio incorre nell’ostilità della folla. Ma il 9 febbraio 1849 eccolo nuovamente a capo delle sue schiere salire le scale del Campidoglio per assistere alla proclamazione della Repubblica.
Nel marzo, Giuseppe Mazzini, capo del Triumvirato, lo manda in Toscana per una importante missione,
“Dall’Assemblea Romana”,
scrive al governatore di Livorno,
“v’ho fatto inviare una deputazione: ora vi mando il voto del Popolo incarnato nella persona di Ciceruacchio.”     
Ma il destino della Repubblica è segnato.
Per abbatterla muovono gli eserciti delle potenze straniere che hanno risposto all’appello del pontefice. Spetterà al corpo di spedizione francese comandato dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot il compito – e l’onta – di travolgere la resistenza eroica dei difensori di Roma. Inutili sono i prodigi di valore compiuti dai bersaglieri di Luciano Manara, dai garibaldini di Giuseppe Garibaldi, nonché dai soldati dell’esercito regolare comandato dal generale Pietro Rosselli.
La forza prevale sul coraggio; la potenza ha ragione dell’eroismo.
Il 2 luglio, alla vigilia dell’ingresso delle truppe di Oudinot, a Roma, Giuseppe Garibaldi riunisce i soldati e i cittadini in piazza San Pietro. È mezzogiorno. L’immensa piazza è gremita. L’arrivo di Garibaldi è salutato da entusiastiche acclamazioni. Il generale, giunto al centro della piazza, rivolge alla folla un breve, conciso, disincantato discorso.
“Da chi mi segue pretendo amore gagliardo di Patria, prove di cuore ardentissime. Non prometto paghe, non ozi molli. Acqua, pane quando se ne avrà. Chi non sia da tanto rimanga. Varcata la porta di Roma, un passo fatto indietro, sarà passo di morte.”  
Nonostante queste prospettive, al pomeriggio, a piazza San Giovanni, convengono diverse migliaia di uomini. All’appello hanno risposto tutti i migliori. Si nota padre Ugo Bassi con la camicia rossa e il crocifisso sul petto. Si ammira Anita Garibaldi nella divisa della gloriosa Legione Italiana.
Si distinguono tutti i fedelissimi di Garibaldi. Vi è anche un fanciullo di non più di tredici anni, che rappresenta una nota di disarmata gentilezza e di inconsapevole temerità tra una folla di prodi induriti nell’aspro mestiere delle armi, rotti a ogni rischio, pronti a ogni audacia. È insieme con suo padre, il romano Ciceruacchio, che là, in abiti borghesi, montato su di un piccolo cavallo, grosso com’è, non ha neppure lui un piglio militare, piuttosto, l’aria di un buon padre di famiglia, che eventi turbinosi e imprevisti hanno gettato in un ruolo niente affatto consentaneo alle sue più profonde tendenze naturali. A sera, la colonna inizia l’epica marcia. Vuole raggiungere Venezia che difende ancora il libero stendardo repubblicano contro il tenace assedio austriaco. In quella strana colonna la figura di Ciceruacchio è una delle più importanti. I soldati lo rispettano e lo ascoltano, Garibaldi gli manifesta una amicizia e una fiducia particolari; la gente dei paesi, nei quali si sosta, lo indica con il dito, mentre le maggiori famiglie gareggiano nell’offrirgli ospitalità. Ma il popolano non conserva solo la sua fama: serba anche i suoi difetti, l’impulsività e l’irascibilità, pronte a esplodere a ogni minima provocazione.


Giuseppe Mazzini

Romani!
La forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri diritti. La Repubblica Romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi che la proclamarono, nella adesione spontanea di tutti gli elementi dello Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa. Tradiscano a posta loro gl’invasori le loro solenne promesse. Dio non tradisce le sue. Durate costanti e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei vuole che per poco voi soggiacciate; e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d’un Popolo che spera, combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà.
Voi deste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio civile ...
Dai municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d’accento la dichiarazione ch’essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all’abolizione del governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo s’impianti senza l’approvazione liberamente data dal Popolo; poi occorrendo si sciolgano... Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido: Fuori il governo dei preti! Libero Voto! ...
I vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto perché non disperavano nei rovesci.
In nome di Dio e del Popolo siate grande come i vostri padri. Oggi come allora, e più che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia.
La vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.
Giuseppe Mazzini
Roma, 5 luglio 1849

Il 31 luglio, la colonna entra nella Repubblica di San Marino, dove Garibaldi decide di scioglierla, lasciando a tutti la libertà di andarsene. Lui stabilisce, invece, di proseguire la marcia verso Venezia e manifesta il suo proposito a Ciceruacchio e a pochi altri che si associano senza riserva.
Diminuisce il numero dei fuggitivi; non diminuisce il pericolo degli austriaci.
A Cesenatico, il drappello superstite è posto dinanzi a una ferrea alternativa: o arrendersi al nemico, che urge alle spalle e fa quasi sentire l’alito del segugio pronto a balzare sulla preda o lanciarsi sul mare nell’avventuroso e spericolato tentativo di sfuggire alla morsa del nemico e di raggiungere per quella via Venezia. Ci si decide per la seconda alternativa e ci si imbarca su tredici bragozzi. Ma questi, appena al largo, si trovano accerchiati da navi austriache. Tre o quattro bragozzi riescono a toccare terra, a Magnavacca; ma i centosessantadue garibaldini degli altri bragozzi cadono nelle mani degli austriaci. Tra l’equipaggio dei bragozzi scampati vi sono Giuseppe Garibaldi, Ugo Bassi e Ciceruacchio. La presenza di numerose pattuglie nei dintorni e le gravi condizioni di Anita Garibaldi, che, fino dalla prima parte della marcia, è malata, inducono il generale a frazionare il gruppo sparuto dei superstiti.
“Addio Angelo,”,
esclama Garibaldi, accomiatandosi dal popolano romano,
“speriamo di rivederci presto sui campi di battaglia, speriamo di combattere insieme per la libertà italiana.”
“Oh, sì, speriamo!”,
risponde, melanconicamente, Angelo Brunetti, presago degli eventi funesti.
Il corpo dei volontari garibaldini, che era andato sempre più assottigliandosi, mentre avanzava nel suo cammino, ora, disperde in piccoli rigagnoli le poche forze residue. Garibaldi riuscirà a raggiungere Genova, da dove, poi, si imbarcherà per l’America; ma, nelle paludi di Comacchio, raccoglierà l’estremo anelito della sua amatissima Anita.
Il gruppo, capeggiato da Ciceruacchio, dopo avere vagato tra le paludi di Mesola, per alcuni giorni, con l’aiuto di alcuni goresi riesce a passare il Po di Goro e, poi, quello di Gnocca. Ma, a Donzella, entrati nell’osteria di Fortunato Chiarelli, detto il Capitin, vengono denunciati dallo stesso oste agli austriaci, che li catturano e li conducono a Ca’ Tiepolo, dove è di stanza una guarnigione comandata da un giovane tenente croato. Al momento dell’arresto, i fuggitivi sono inermi: inermi o armati, per il duro croato non fa differenza. Tra quella comitiva di uomini logori e sfiniti, vi è, anche, un bambino; ma per lo spietato croato non vi è fiore di puerizia che valga a destare in lui palpiti di umanità.
Viene spiccata la sentenza finale e suona morte per tutti.
Fatte scavare da sei contadini, precettati nella zona, otto fosse lungo l’argine del Po, gli austriaci inquadrano, a due a due, gli otto superstiti della Repubblica Romana e li scortano verso il luogo scelto per la loro fucilazione. Nel cuore della notte del 10 agosto, il passo cadenzato del corteo della morte pare scandire gli ultimi palpiti di vita dei condannati, avviati al supplizio. Le bianche giubbe dei soldati austriaci, al riflesso della diffusa luce lunare, conferiscono a tutto il plotone in marcia un aspetto fantasmagorico e irreale. Ciceruacchio, che, nel momento supremo dell’olocausto, ha ritrovato tutta la grandezza dei suoi antenati quiriti, marcia impavido in prima fila, sorreggendo il figlio. Si giunge alla meta e viene dato l’alt. Mentre il plotone di esecuzione si schiera per la carneficina, ai condannati vengono legate le bende agli occhi. Ciceruacchio le ricusa ed esorta i suoi compagni a “dimostrare ai croati come i romani sappiano impavidamente morire”. Una secca scarica di spari pone fine alla dolorosa odissea degli otto sfortunati fuggitivi.


Ettore Ximenes, Ciceruacchio e il figlio Lorenzo
Angelo Brunetti fu arrestato dagli Austriaci e fucilato a mezzanotte del 10 agosto 1849, insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, al sacerdote Stefano Ramorino, a Lorenzo Parodi di Genova, a Luigi Bossi di Terni [che era, in realtà, il figlio maggiore di Angelo Brunetti, Luigi Brunetti, e aveva cambiato nome, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi], a Francesco Laudadio di Narni, a Paolo Baccigalupi e a Gaetano Fraternali, ambedue di Roma. Nel 1892, si formò un comitato popolare per un monumento all’eroe carrettiere – un gesso dello scultore siciliano Ettore Ximenes, che lo aveva, già, presentato durante l’esposizione di Torino, nel 1880. Nelle intenzioni del comitato, il monumento doveva essere collocato in una posizione tale che lo sguardo di Ciceruacchio fosse rivolto – come per Giordano Bruno – verso il Vaticano, una dichiarata accusa contro il potere temporale dei papi. Nel 1900, il gesso di Ximenes venne fuso in bronzo e, nel 1907, fu collocato vicino al ponte Margherita sul lungotevere Flaminio, ora Arnaldo da Brescia, ma con il volto non già rivolto a guardare la Basilica di San Pietro, bensì verso la città. Sul lato anteriore figura, questa dedica:
“A CICERUACCHIO – IL POPOLO –”
La scultura fu spostata, nel 1959, sul Lungotevere in Augusta, e trasferita, definitivamente, nel parco del Granicolo, luogo simbolo della Resistenza Romana.
Questo mitico personaggio romano è stato interpretato da Nino Manfredi nel noto film di Luigi Magni: In nome del popolo sovrano.
“Come ti chiami? Angelo Brunetti, Eccellenza, detto Ciceruacchio: gonfaloniere de Campo Marzio, di professione carrettiere (si sente da come parlo)... dice... Allora perché ti sei impicciato de cose che non te riguardano? ... dico... Perché… io so’ carrettiere ma a tempo perso so’ omo... e l’omo si impiccia Eccellenza. Difatti vie’ Garibaldi e dice: “Famo l’Italia”, e io che fo’? Nun m’empiccio? Io so’ romano, Eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano: è colpa? ...dice... Sì… Ah! mo’ è colpa esse’ italiano?... No... dice lui. E’ colpa perché tu hai difeso l’anarchia e la rivoluzione. Ma nossignore, Eccellenza! Io ho difeso Roma, er paese mio. E lei ce lo sa meglio de me… Ma come, i francesi me pijano a cannonate e io nun m’empiccio? Nun me riguarda? Insomma, Eccellenza, se annamo a strigne, che avemo fatto de male? Sta creatura manco a dillo… ma io? Io c’ho fatto? Ho voluto bene a Roma, embè? E da quanno in qua l’amor de patria è diventato un delitto? Però se nella legge vostra è un delitto volé bene ar paese proprio... allora io so’ corpevole... anzi so’ reo confesso... e m’offenderebbe pure se me rimandaste assorto. Per cui, Eccellenza, spero che lei si sia persuasa... e così voi che mi sembrate… Oh! Ma me state a sentì? No... dicevo... spero che pure voi ve siete appersuasi… No ma che fate?… Il ragazzino no!”

La strage di Ca’ Tiepolo restò sconosciuta per molti anni. A Roma, circolarono varie voci sulla sorte di Ciceruacchio. Chi lo voleva rifugiato a Marsiglia, chi riparato in Crimea, intento al commercio. Certamente, fu creduto vivo, se il tribunale della Sacra Consulta imbastì due processi contro di lui contumace. Solo il 28 ottobre 1859, dopo che Giuseppe Garibaldi fece pubblicare sul Monitore di Bologna una lettera di don Luigi Rivalta, cappellano di Goro, fu noto a tutta l’Italia il martirio subito dall’ultimo TRIBUNO DEL POPOLO ROMANO.


Giuseppe Garibaldi

È gran tempo che una voce vaga e misteriosa aveva recato novella agli Italiani come sulle rive dell’Adriatico avesse avuto luogo una luttuosa tragedia. Dicevasi, infatti, come Ciceruacchio, l’egregio popolano di Roma, dopo la presa della patria città si avviasse con due figli giovanetti alla volta di Venezia, e nell’atto d’imbarcarsi fosse preso dagli Austriaci, e, insieme ai figli, barbaramente fucilato. Non mancarono né allora né adesso giornali prezzolati dall’Austria o dai preti, che negassero colla più sfacciata pertinacia il fatto surriferito, tentando di mascherarlo colle più sottili menzogne. Alcuni, infatti, accertavano essere Ciceruacchio annegato nell’Adriatico, mentre si recava a Venezia; altri, più recentemente, assicurano che il mio sventurato compagno seguì le armate guerreggianti in Crimea, facendo commercio di viveri.
Volendo io svelare all’Europa un’ultima vergogna dell’Austria, e bramando con tutto il cuore di conoscere la sorte di persona a me cara cotanto e sì lungamente cercata, incito tutti coloro, che ne avessero contezza, a farmene partecipe.
In replica alle mie premure, ricevo la seguente lettera, la quale sparge luce incontestabile sul fatto in questione, e che raccomando alla vostra gentilezza di pubblicare. 
Giuseppe Garibaldi

A Sua Eccellenza il Generale Giuseppe Garibaldi.
Vostra Eccellenza si compiacerà di far sapere a tutti coloro che hanno osato di scrivere che Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e i suoi figli erano in Crimea a fare i vivandieri, ch’essi hanno troppo solennemente ingiuriato alla verità. Invece quei generosi italiani furono senza alcun dubbio fucilati dagli austriaci a Ca’ Tiepolo. Latitanti per alcuni giorni nel bosco di Mesola sette de’ vostri soldati, verso i primi di agosto del 1849, riuscirono con l’aiuto di alcuni goresi a passare il Po, e ad entrare nel Veneto coll’idea di recarsi a Venezia. Era tutto disposto per condurveli, quando l’infame oste, che li aveva alloggiati, li tradì, consegnandoli inermi nelle mani di un barbaro capitano austriaco, che li fece immediatamente fucilare, subito che conobbe che erano vostri soldati. Vi era fra essi un giovine di circa 15 anni e un prete. Questi da tutti i connotati che potei rilevare, era il vostro cappellano Stefano Ramorino, nativo del circondario di Genova, quello stesso che insieme al vostro segretario capitano Guglielmo Cenni mi fece nominare dal campo presso Sarliano vostro aggiunto all’Uditorato di Guerra. Nel mentre che col più profondo dolore del mio cuore annunzio all’Eccellenza Vostra un fatto così barbaro, assicurandola che il nome di quell’infame oste è già segno della comune esecrazione fra i popolani di Cà Tiepolo e di Contarina, mi procuro il bene di proferirmi coi sensi della più distinta considerazione dell’Eccellenza Vostra Illustrissima
devotissimo ed affezionatissimo
don Luigi dott. Rivalta
ex-arciprete di San Martino presso Rovigo
cappellano curato di Goro
Bologna, lì 15 di ottobre 1859


Daniela Zini
Copyright © 19 settembre 2014 ADZ
Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?

mercoledì 17 settembre 2014

a Gianni Palagonia per ringraziarlo delle ore piacevoli immerse nella lettura del suo libro IL SILENZIO di Daniela Zini



a Gianni Palagonia
La verità uccide.
Perché le parole sono armi, si sa, e possono uccidere o, piuttosto, condannare a morte.
 




Come Stendhal, che, spesso, tornava sulla storia della sua vita “senza illusioni in proposito”, in quegli scritti segreti destinati alla posterità, anche noi dovremmo essere curiosi di sapere chi eravamo.
Quanto a me, sono decisa a rimediare a questa lacuna.
Il passato – diciamo “il lascito culturale”, poiché è fondamentalmente di ciò che si tratta – non è una identità prefabbricata e fissata una volta per tutte. È una identità in divenire a pari titolo del presente. Ogni epoca e ogni gruppo umano legge il passato in funzione dei propri bisogni. E se un gruppo umano di una qualunque epoca si mostra incapace di leggere il proprio passato in funzione dei propri bisogni, la colpa non ricade sul passato, ma sullo stesso gruppo umano. In generale, la colpa è di non conoscere il proprio passato e, quindi, di non essere in grado di riconoscere ciò di cui si avrebbe bisogno. E anche quando ciò di cui si avesse bisogno fosse fare tabula rasa, non si farebbe ignorando il passato o fingendo di ignorarlo. Quanto a noi italiani, se mai vi è colpa, non è certo nostra, ma di chi avrebbe dovuto elaborare i programmi delle scuole e non dimenticare, con tanta disattenzione, quanto è accaduto in Italia.
“Un nuovo libro sui crimini della Mafia, un libro di più!”
diranno alcuni,
“Era veramente necessario?”
Sì.
Questa “altra storia della Mafia” non è “un libro di più sui crimini della Mafia”.
Il libro di Gianni Palagonia è “un’altra storia della Mafia”.
“Un’altra storia” perché è uno sguardo particolare e personale.
Molto è stato scritto sulla Mafia, eppure, dopo aver letto solo una parte di questa letteratura, in continuo incremento, ho notato, con un senso di vivo rammarico, come abbondi di errori di fatto e di interpretazione. Naturalmente, la perfetta verità storica è un fuoco fatuo, ma vedo, chiaramente, che l’era mediatica incombe anche sul campo letterario e che gli errori vengono raccolti, ripetuti e accresciuti dalla presente generazione di storici. Tanto più necessario, dunque, che qualcuno di noi ripeta quello che veramente avvenne, prima che l’errore metta radici così salde da non permettere più ai posteri di distinguere la realtà dalla fantasia. Certo, nessuno può pretendere di essere il portavoce autorizzato di un’intera generazione. L’idea stessa di generazione è un mero artificio mentale, non si sa neppure dove inizi la propria generazione o dove finisca, né se sia stata “perduta” o “trovata” e, tuttavia, i nostri ricordi di testimoni personali possono offrire utili documentazioni sul movimento delle idee in un dato periodo. 
Ma la rievocazione, nelle parole e nelle immagini di Gianni Palagonia, vuole tenere conto soltanto del dovere di ricordare: restituire alla storia volti e momenti di un tempo in cui noi non eravamo. 
Il libro di Gianni Palagonia si chiude con il capitolo:
“Una decisione difficile”.
Ne ho trascritto, appositamente, per voi le ultime righe:
“Dopo quattro mesi tornammo in Sicilia per il trasloco definitivi.
La casa non era ancora finita ma il titolare dell’impresa promise che avrebbe fatto di tutto per farmela trovare pronta al mio ritorno.
Il giorno del trasloco ci fu un momento di sconforto, nel vedere i nostri mobili che scendevano dalla rampa. non saremmo mai più tornati in quella casa.
Accompagnammo il camion con le cose che erano tutta la nostra vita, fino all’imbocco dell’autostrada.
In viaggio giurai a mia moglie che non avrei mai più fatto polizia giudiziaria.
Sapevo di mentire. Già pensavo a come avrei potuto indorarle la pillola, qualche giorno dopo. “Qui al nord è tutto più tranquillo, per strada non succede quasi niente, pranzerò tutti i giorni con voi, turni regolari…”
Che poi non è mica vero che qui è tranquillo.
La criminalità è solo meno spavalda, meno chiassosa.
Più strisciante.
Ma questa è un’altra storia.”
Per coloro che capiranno, alcuna spiegazione è necessaria.
Per coloro che non capiranno, alcuna spiegazione è possibile.
Libro di rabbia, tonificante, ben documentato, ben scritto, libro utile, perfino indispensabile.
Da consumare senza moderazione.
Grazie, Gianni Palagonia, e al piacere di rileggerti!

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