UOMINI
DI STORIA
STORIA
DI UOMINI
114 anni fa nasceva
Ciceruacchio
“Sovrano come er Popolo sovrano
che viceversa nun commanna mai.”
Trilussa
ANGELO BRUNETTI
[Roma, 27 settembre 1800 –
Porto Tolle, 10 agosto 1849]
“E tu ricorda: il servo che non si ribella
è peggio del
padrone che lo comanda.”
da In nome del Popolo sovrano di Luigi Magni
Un entusiasmo spontaneo;
un’anima mobilissima; una inutile eroica morte. Questa, in sintesi, la vita di
Ciceruacchio.
di
Daniela Zini
“La
Storia insegna, ma non ha scolari.”
Antonio
Gramsci
Molto sovente, quelle idee che non
hanno argini debbono trovare il giusto tempo e il giusto percorso per far
nascere in un Popolo la esigenza di cambiare.
Gli ostacoli sono molti, ma potrebbero essere tutti
facilmente rimossi, se si potesse superare quello della poca unione di noi
Italiani nell’attuare una idea, nostro flagello, origine di tante piaghe
antiche e recenti, sanguinose, irrimediabili.
È un appello accorato a una
quotidiana Resistenza, che rivolgo a tutti Voi Italiani verso un nuovo
Risorgimento Italiano.
Daniela Zini
Il
soprannome di Ciceruacchio gli viene dato dalla madre e dalle comari, amiche della
stessa madre, che lo fanno oggetto di coccole, quando è ancora un “tocco” di
bimbo, paffutello, cicciuto, tondeggiante e, in quanto tale, bello come un “ciccio”,
come un “ruacchio”.
Alla
parrocchia, viene registrato come Angelo Brunetti, nato a Trastevere, nel
quartiere di Campo Marzio, presso piazza dell’Oca, il 27 settembre 1800. Dotato
di natura vivacissima e di eccezionale vigoria fisica, Angelo vive una
giovinezza contrassegnata da risse e baruffe. Inviato alla scuola dei Padri
Carissimi, non ne trae grande profitto, se apprende appena a leggere e a fare
di conto.
In
realtà, la sua cultura resta, sempre, assai modesta.
Avendo
una certa inclinazione per la poesia, legge la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, conosce molti melodrammi di
Pietro Metastasio e inizia presto a improvvisare versi, che declama, con un
certo successo, agli amici buontemponi, seduti intorno i bicchieri ricolmi di
vino.
Dalle
litografie, che ci sono rimaste, e dalle testimonianze, che ci hanno tramandato
i coetanei suoi amici, è facile ricavare il profilo fisico di Ciceruacchio
adulto. Di statura appena al di sopra della media, di corporatura solida e
robusta, di fisionomia piacevole e simpatica, ha occhi azzurri ed espressivi,
collo taurino, folta chioma bionda, fronte regolare, naso profilato, carnagione
chiara.
Veste
in modo curioso ed eccentrico. Quando non è in sole maniche di camicia, indossa
una corta giacca sopra un panciotto e calzoni stretti al ginocchio e larghi al
collo del piede. Un fazzoletto di seta, disegnato a fiori, gli avvolge il collo
e una sciarpa, egualmente di seta, gli corre intorno alla vita; sul capo porta un
cappello a cencio un po’ a punta, di tipo calabrese.
Ha,
già, intrapreso il mestiere di carrettiere di vino, quando, intorno ai venti
anni, sposa una graziosa popolana del suo quartiere, la cui dote, unita ai suoi
risparmi, gli consente di estendere il raggio della sua attività e di
accrescere il volume dei suoi affari. Acquista altri due cavalli e altri due
carretti e aggiunge al trasporto del vino, quello dei cereali e del fieno. In
un secondo tempo, prosperando gli affari e crescendo la clientela, al trasporto
per conto di altri, sostituisce il commercio diretto e in proprio delle stesse
merci.
È la
ricchezza.
Ciceruacchio
diviene Padron Angelo.
È la popolarità,
favorita dal fisico, dal temperamento, dalla professione e dalla stessa
agiatezza. Quando, quindi, gli eventi del 1846-1849, ne porteranno il nome
anche fuori dello Stato Pontificio, il popolano dal viso largo e aperto, dalla
parola facile e dal carattere socievole e generoso, avrà il suo seguito di
folla tra il Popolo che aiuta, comprende e rappresenta.
Il
primo giugno del 1846, muore, scarsamente compianto dalla generalità dei
sudditi, il pontefice Gregorio XVI, al secolo Bartolomeo Alberto Mauro
Cappellari. Mezzo mese più tardi, dopo appena tre giorni di conclave, le
caratteristiche fumate bianche annunciano al Popolo l’Habemus Papam. I cardinali di Santa Romana Chiesa, con trentasei
voti su quarantanove, hanno eletto papa l’ex-vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai
Ferretti, che prende il nome di Pio IX.
È l’evento
che imprime, alla vita di Ciceruacchio una svolta decisiva.
L’elezione
del nuovo papa, in fama di liberale, e, molto più, l’avvio concretamente
liberale del suo governo, desta una risonanza immensa. Il mito ventilato dal
filosofo Vincenzo Gioberti, di una confederazioni di Stati italiani sotto la
presidenza del pontefice, sembra avviato a diventare realtà.
Di qui
fervore ed euforia, di qui inni e dimostrazioni.
Da
questa ventata di caldo entusiasmo viene preso il generoso Ciceruacchio, che in
Pio IX trova l’idolo da venerare e la bandiera da seguire.
Quando,
nel trigesimo dell’elezione al pontificato, Pio IX concede l’aministia ai
detenuti politici, il popolano manifesta il suo giubilo con un gesto
spettacolare di schietto stampo popolano. Fa trasportare in piazza del Popolo undici
barili di vino e li mette a disposizione del Popolo, si ammira un maestoso arco
di trionfo, eretto in onore del papa. Ciceruacchio, che fa parte del comitato
organizzativo della festa, ha impegnato tutto il suo entusiasmo nel dirigere e
nell’incoraggiare. Sull’arco si legge, in grossi caratteri, la scritta:
“Onore
e gloria a Pio IX cui bastò un giorno per consolare i sudditi e meravigliare il
mondo.”
L’11
novembre, nel Teatro Alibert, seicento romani offrono a trecento patrioti non
romani un solenne banchetto. Ciceruacchio, alzatosi con il bicchiere in mano,
manifesta la sua vena di poeta estemporaneo, improvvisando una applauditissima
ottava, altrettanto approssimativa nella forma, quanto sincera nel contenuto:
Oggi
per il gran Pio semo felici
Né dai
briganti più saremo offesi;
Oggi
per il gran Pio siam tutti amici,
E amici
avemo pure i Bolognesi.
Se
alcun, corpo di Dio, dei rei nemici
Fa un
passo avanti… noi già semo intesi.
Evviva
la provincia e Roma madre,
Evviva
Italia con il Santo Padre!
papa
Pio IX, nato Giovanni Maria Mastai Ferretti
A metà
dicembre, Pio IX riceve in udienza privata i promotori della festa dell’8
settembre. Ciceruacchio, alla sua presenza, si commuove, si confonde, smarrisce
la facile popolana eloquenza. La coscienza di avere ricevuto un onore
immeritato e la convinzione di trovarsi dinanzi al rappresentante di Dio sulla
terra lo inibiscono; lo splendore del trono dei papi e la simpatica fisionomia
di Pio IX lo affascinano: alle amorevoli parole del pontefice, non sa
rispondere che con gli occhi e con l’anima.
Intanto
la fama del pontefice si propaga in Italia e all’estero.
“Viva
Pio IX diventa la parola di moda, il sunto di tutti gli encomi: si diffonde
dall’Italia a tutta l’Europa e al di là dell’Atlantico: protestanti, cattolici,
turchi ed ebrei ripetono: Viva Pio IX.”
L’entusiasmo
dei romani viene espresso attraverso frequenti dimostrazioni popolari, nelle
quali Cceruacchio è, sempre, magna pars.
Quando
il 25 marzo 1847, Pio IX si reca in pompa solenne alla Basilica di Santa Maria
sopra Minerva, il capopopolo conduce, più volte, sul suo cammino acclamanti
squadre di trasteverini, di monticiani e di regolanti. Quando un mese dopo il
papa si reca a Subiaco, in carrozza, Ciceruacchio lo accompagna per un buon
tratto alla testa di cento popolani a cavallo.
Il 17
giugno, anniversario dell’ascesa di Pio IX al pontificato, dalla provincia
accorrono migliaia di cittadini e rappresentanze municipali con bandiere e
concerti musicali. I romani, riuniti nel Foro, si ordinano in rioni attorno al
proprio vessillo e al proprio capopopolo. Ciceruacchio, capopopolo e
vessillifero del quarto rione, vale a dire il Campo Marzio, è il duce supremo
del Popolo che, preceduto dalla banda musicale e seguito dalle magistrature
civiche, sale al Campidoglio e di là muove al Quirinale per ricevere la
benedizione papale.
Il
tribuno è, ormai, l’idolo della moltitudine.
Uno
scultore lo ritrae in una statuetta, un poeta lo esalta in nove sestine, uno
scrittore contemporaneo ne pubblica una succinta biografia. Sui giornali dell’epoca
si leggono elogiativi del popolano; il giorno del suo onomastico, al banchetto
offerto in suo onore, intervengono più di duecento persone. Gioberti, che, in
un’altra occasione, ha affermato che la Roma moderna può vantarsi del suo
Ciceruacchio come l’antica di Cicerone, scrive a un amico:
“Abbraccia
in mio nome Menenio Agrippa dell’età nostra, voglio dire il Ciceruacchio, che
io stimo più di Cicerone.”
Si
giunge al Capodanno del 1848.
Il
Circolo Romano e Ciceruacchio deliberano una dimostrazione di Popolo per
porgere a Pio IX gli auguri del nuovo anno, ma la dimostrazione viene proibita.
La folla è contrariata: si alzano grida di sdegno e di dolore. Ciceruacchio, in
nome del Popolo, prega il principe Tommaso Corsini, senatore di Roma, di farsi
interprete dei desideri della cittadinanza e il principe riceve l’assicurazione
che, l’indomani, il pontefice uscirà senza guardie per le vie della città.
Il
giorno successivo, il papa mantiene la promessa.
Una
folla, immensa ed entusiasta fa ala al seguito del corteo pontificio, agita una
bandiera bianca e gialla sulla quale si legge il significativo invito:
“Coraggio,
Santo Padre, fidatevi del Popolo!”,
mentre
la moltitudine lancia il grido:
“Viva
Pio IX solo!”
Il papa
è commosso e, forse, atterrito.
A un
tratto corre la voce che stia male e si fa, subito, profondo silenzio.
Pio IX,
pallido come un cadavere, si affretta a tornare al Quirinale.
L’acqua
cade a dirotto.
La
folla che lo ha accompagnato al palazzo attende invano la benedizione.
Dal
balcone un prelato annuncia che il pontefice è malato.
Al
termine di quella famosa giornata si sente che, nei rapporti tra sovrano e
sudditi, è accaduto qualcosa di irreparabile.
Il vero
trionfatore di quelle giornate è stato Ciceruacchio, il quale ha sperimentato
la sua grande potenza sulla folla, da lui guidata e frenata.
Uno storico degli avvenimenti di quei giorni
conclude perentoriamente:
“Da
quel momento Ciceruacchio fu il re di Roma.”
Nel Popolo
prende sempre più piede l’aspirazione verso un regime liberale e si sviluppa
sempre più la coscienza nazionale. Solo le famosissime parole dell’allocuzione
pontificia del 10 febbraio:
“Benedite,
Gran Dio, l’Italia”,
interpretate
con significato troppo estensivo, lo riconciliano interamente al sovrano e lo
mandano in visibilio.
Intanto,
maturano gravissimi eventi.
Ferdinando
II, re di Napoli, è costretto a concedere la Costituzione, dando un esempio che
Carlo Alberto e Pio IX saranno obbligati a imitare.
In
febbraio, scoppia la rivoluzione a Parigi.
In
marzo, nel Lombardo-Veneto, Milano insorge e scaccia gli austriaci.
Il re
di Sardegna dichiara guerra all’Austria e da ogni parte d’Italia accorrono
volontari a dare man forte alle truppe regolari dell’esercito piemontese.
A Roma,
la risonanza degli avvenimenti parigini e milanesi è immensa. Alla notizia
della cacciata degli austriaci la folla corre al palazzo d’Austria e abbatte
gli stemmi dall’aquila bicipite. Le campane suonano a distesa e su alcuni
edifici sventola il tricolore. Nel pomeriggio, dinanzi a molte migliaia di
persone, assiepate tra i resti maestosi del Colosseo, la parola infuocata e
trascinante del padre barnabita Alessandro Gavazzi [1809-1889] provoca una ondata
impetuosa di entusiasmo patriottico.
Il
governo è costretto ad autorizzare l’arruolamento dei volontari: a piazza del Popolo
e al Colosseo si aprono i registri per le iscrizioni e migliaia di cittadini
vanno a dare il loro nome. Ciceruacchio, che non è stato assente dalle
manifestazioni di quei giorni, è tra i primi ad arruolarsi. Ma il Popolo non
vuole perdere il suo rappresentante e il popolano fa partire, in sua vece, il
figlio.
Ma
nella famosa allocuzione del 29 aprile 1848, il papa afferma che, in qualità di
vicario in terra di colui che è autore di pace, non può accogliere l’invito dei
suoi popoli che lo vorrebbero in armi contro l’Austria e produce una
impressione enorme.
Si
grida al tradimento.
Crollano,
definitivamente, le illusioni neo-guelfe.
In
luglio, il papa viene, ancora, applaudito in Trastevere, che è il rione dove l’autorità
del tribuno è maggiormente sentita, ma nei primi di settembre, mentre è di
ritorno da San Carlo al Corso, viene fatto oggetto di manifestazioni ostili da
parte della folla, guidata da Luigi, il figlio maggiore di Ciceruacchio. Luigi,
giovane e robusto, biondo e bello, ammirato per se stesso e additato per essere
il figlio del popolare Ciceruacchio, viene coinvolto nelle spire di una congiura
politica e accetta – o si offre? – di assassinare lo statista pescarese
Pellegrino Rossi[1787-1848], da Pio IX, chiamato a reggere la politica dello
Stato e fermamente intenzionato a non deludere le aspettative del
pontefice.
Assassinio
di Pellegrino Rossi
Il 15
novembre, mentre Pellegrino Rossi sale le scale del palazzo della Cancelleria,
il giovane esce dalla folla assiepata tutta intorno, gli si avvicina e gli
vibra un colpo di pugnale.
Lo statista
stramazza al suolo con la carotide recisa.
Ciceruacchio
è estraneo alla congiura e il delitto compiuto dal figlio lo sconvolge
letteralmente. Allo storico Luigi Carlo Farini, che subito dopo l’uccisione di Pellegrino
Rossi, lo incontra in Campo de’ Fiori, dice tristemente:
“Queste
sono infamie che io vorrei lavare con il mio sangue; tanta è la vergogna e il
dolore che ne provo!”
L’assassinio
del ministro accelera i tempi.
Pio IX,
sentendosi, ormai, sfuggire di mano il controllo della situazione e paventando
mali peggiori, il 24 novembre esce, travestito, da Roma e fugge, in carrozza, a
Gaeta, ospite del re di Napoli.
Alla
notizia della fuga del papa il Popolo si agita.
Ciceruacchio
arringa la folla in Trastevere, ma il suo discorso è interrotto così di frequente che diventa un vero e
proprio dialogo.
“Er
papa vada dove je pare. Volemo l’Italia; L’Italia volemo.”,
grida
alla folla.
Eppure
tra le fiorite espressioni, che colorano il suo comizio-dialogo in romanesco,
quelle che si riferiscono al pontefice sono le meno pesanti e le più pudiche. Ne
trapela, più il cruccio, che lo sdegno, più il rammarico che il rancore, più il
dolore che l’odio.
Se il
Papa è andato via
Buon
viaggio e così sia.
Non
morremo d’affanno
Perché
fuggì un tiranno,
Perché
si ruppe il canapo
Che ci
legava i piè.
Viva l’Italia
e il Popolo
E il
Papa che va via.
Se
andranno in compagnia
Via
pure gli altri re.
Venuta
meno la speranza di far tornare il papa a Roma, gli uomini che hanno in mano le
redini politiche dello Stato si vanno orientando verso la proclamazione della
Repubblica, che implica la dichiarazione di decadenza dello Stato temporale dei
papi. Nel tentativo di appoggiare il movimento estremista, Ciceruacchio incorre
nell’ostilità della folla. Ma il 9 febbraio 1849 eccolo nuovamente a capo delle
sue schiere salire le scale del Campidoglio per assistere alla proclamazione
della Repubblica.
Nel
marzo, Giuseppe Mazzini, capo del Triumvirato, lo manda in Toscana per una
importante missione,
“Dall’Assemblea
Romana”,
scrive
al governatore di Livorno,
“v’ho
fatto inviare una deputazione: ora vi mando il voto del Popolo incarnato nella
persona di Ciceruacchio.”
Ma il
destino della Repubblica è segnato.
Per
abbatterla muovono gli eserciti delle potenze straniere che hanno risposto all’appello
del pontefice. Spetterà al corpo di spedizione francese comandato dal generale Nicolas Charles Victor Oudinot il compito – e l’onta – di
travolgere la resistenza eroica dei difensori di Roma. Inutili sono i prodigi
di valore compiuti dai bersaglieri di Luciano Manara, dai garibaldini di
Giuseppe Garibaldi, nonché dai soldati dell’esercito regolare comandato dal
generale Pietro Rosselli.
La
forza prevale sul coraggio; la potenza ha ragione dell’eroismo.
Il 2
luglio, alla vigilia dell’ingresso delle truppe di Oudinot, a Roma, Giuseppe Garibaldi
riunisce i soldati e i cittadini in piazza San Pietro. È mezzogiorno. L’immensa
piazza è gremita. L’arrivo di Garibaldi è salutato da entusiastiche
acclamazioni. Il generale, giunto al centro della piazza, rivolge alla folla un
breve, conciso, disincantato discorso.
“Da chi
mi segue pretendo amore gagliardo di Patria, prove di cuore ardentissime. Non
prometto paghe, non ozi molli. Acqua, pane quando se ne avrà. Chi non sia da
tanto rimanga. Varcata la porta di Roma, un passo fatto indietro, sarà passo di
morte.”
Nonostante
queste prospettive, al pomeriggio, a piazza San Giovanni, convengono diverse
migliaia di uomini. All’appello hanno risposto tutti i migliori. Si nota padre
Ugo Bassi con la camicia rossa e il crocifisso sul petto. Si ammira Anita
Garibaldi nella divisa della gloriosa Legione Italiana.
Si
distinguono tutti i fedelissimi di Garibaldi. Vi è anche un fanciullo di non
più di tredici anni, che rappresenta una nota di disarmata gentilezza e di
inconsapevole temerità tra una folla di prodi induriti nell’aspro mestiere
delle armi, rotti a ogni rischio, pronti a ogni audacia. È insieme con suo
padre, il romano Ciceruacchio, che là, in abiti borghesi, montato su di un
piccolo cavallo, grosso com’è, non ha neppure lui un piglio militare, piuttosto,
l’aria di un buon padre di famiglia, che eventi turbinosi e imprevisti hanno
gettato in un ruolo niente affatto consentaneo alle sue più profonde tendenze
naturali. A sera, la colonna inizia l’epica marcia. Vuole raggiungere Venezia
che difende ancora il libero stendardo repubblicano contro il tenace assedio
austriaco. In quella strana colonna la figura di Ciceruacchio è una delle più
importanti. I soldati lo rispettano e lo ascoltano, Garibaldi gli manifesta una
amicizia e una fiducia particolari; la gente dei paesi, nei quali si sosta, lo
indica con il dito, mentre le maggiori famiglie gareggiano nell’offrirgli
ospitalità. Ma il popolano non conserva solo la sua fama: serba anche i suoi
difetti, l’impulsività e l’irascibilità, pronte a esplodere a ogni minima
provocazione.
Giuseppe
Mazzini
Romani!
La
forza brutale ha sottomesso la vostra città; ma non mutato o scemato i vostri
diritti. La Repubblica Romana vive eterna, inviolabile nel suffragio dei liberi
che la proclamarono, nella adesione spontanea di tutti gli elementi dello
Stato, nella fede dei popoli che hanno ammirato la lunga nostra difesa, nel
sangue dei martiri che caddero sotto le nostre mura per essa. Tradiscano a
posta loro gl’invasori le loro solenne promesse. Dio non tradisce le sue.
Durate costanti e fedeli al voto dell’anima vostra, nella prova alla quale Ei
vuole che per poco voi soggiacciate; e non diffidate dell’avvenire. Brevi sono
i sogni della violenza, e infallibile il trionfo d’un Popolo che spera,
combatte e soffre per la Giustizia e per la santissima Libertà.
Voi
deste luminosa testimonianza di coraggio militare; sappiate darla di coraggio
civile ...
Dai
municipii esca ripetuta con fermezza tranquilla d’accento la dichiarazione
ch’essi aderiscono volontari alla forma repubblicana e all’abolizione del
governo temporale del Papa; e che riterranno illegale qualunque governo
s’impianti senza l’approvazione liberamente data dal Popolo; poi occorrendo si
sciolgano... Per le vie, nei teatri, in ogni luogo di convegno, sorga un grido:
Fuori il governo dei preti! Libero Voto! ...
I
vostri padri, o Romani, furon grandi non tanto perché sapevano vincere, quanto
perché non disperavano nei rovesci.
In nome
di Dio e del Popolo siate grande come i vostri padri. Oggi come allora, e più
che allora, avete un mondo, il mondo italiano in custodia.
La
vostra Assemblea non è spenta, è dispersa. I vostri Triumviri, sospesa per
forza di cose la loro pubblica azione, vegliano a scegliere a norma della
vostra condotta, il momento opportuno per riconvocarla.
Giuseppe
Mazzini
Roma, 5
luglio 1849
Il 31
luglio, la colonna entra nella Repubblica di San Marino, dove Garibaldi decide di
scioglierla, lasciando a tutti la libertà di andarsene. Lui stabilisce, invece,
di proseguire la marcia verso Venezia e manifesta il suo proposito a
Ciceruacchio e a pochi altri che si associano senza riserva.
Diminuisce
il numero dei fuggitivi; non diminuisce il pericolo degli austriaci.
A
Cesenatico, il drappello superstite è posto dinanzi a una ferrea alternativa: o
arrendersi al nemico, che urge alle spalle e fa quasi sentire l’alito del
segugio pronto a balzare sulla preda o lanciarsi sul mare nell’avventuroso e
spericolato tentativo di sfuggire alla morsa del nemico e di raggiungere per quella
via Venezia. Ci si decide per la seconda alternativa e ci si imbarca su tredici
bragozzi. Ma questi, appena al largo, si trovano accerchiati da navi austriache.
Tre o quattro bragozzi riescono a toccare terra, a Magnavacca; ma i centosessantadue
garibaldini degli altri bragozzi cadono nelle mani degli austriaci. Tra l’equipaggio
dei bragozzi scampati vi sono Giuseppe Garibaldi, Ugo Bassi e Ciceruacchio. La
presenza di numerose pattuglie nei dintorni e le gravi condizioni di Anita
Garibaldi, che, fino dalla prima parte della marcia, è malata, inducono il
generale a frazionare il gruppo sparuto dei superstiti.
“Addio
Angelo,”,
esclama
Garibaldi, accomiatandosi dal popolano romano,
“speriamo
di rivederci presto sui campi di battaglia, speriamo di combattere insieme per
la libertà italiana.”
“Oh,
sì, speriamo!”,
risponde,
melanconicamente, Angelo Brunetti, presago degli eventi funesti.
Il
corpo dei volontari garibaldini, che era andato sempre più assottigliandosi,
mentre avanzava nel suo cammino, ora, disperde in piccoli rigagnoli le poche
forze residue. Garibaldi riuscirà a raggiungere Genova, da dove, poi, si
imbarcherà per l’America; ma, nelle paludi di Comacchio, raccoglierà l’estremo
anelito della sua amatissima Anita.
Il
gruppo, capeggiato da Ciceruacchio, dopo avere vagato tra le paludi di Mesola,
per alcuni giorni, con l’aiuto di alcuni goresi riesce a passare il Po di Goro
e, poi, quello di Gnocca. Ma, a Donzella, entrati nell’osteria di Fortunato
Chiarelli, detto il Capitin, vengono denunciati dallo stesso oste agli
austriaci, che li catturano e li conducono a Ca’ Tiepolo, dove è di stanza una
guarnigione comandata da un giovane tenente croato. Al momento dell’arresto, i
fuggitivi sono inermi: inermi o armati, per il duro croato non fa differenza.
Tra quella comitiva di uomini logori e sfiniti, vi è, anche, un bambino; ma per
lo spietato croato non vi è fiore di puerizia che valga a destare in lui palpiti
di umanità.
Viene
spiccata la sentenza finale e suona morte per tutti.
Fatte
scavare da sei contadini, precettati nella zona, otto fosse lungo l’argine del
Po, gli austriaci inquadrano, a due a due, gli otto superstiti della Repubblica
Romana e li scortano verso il luogo scelto per la loro fucilazione. Nel cuore
della notte del 10 agosto, il passo cadenzato del corteo della morte pare
scandire gli ultimi palpiti di vita dei condannati, avviati al supplizio. Le
bianche giubbe dei soldati austriaci, al riflesso della diffusa luce lunare,
conferiscono a tutto il plotone in marcia un aspetto fantasmagorico e irreale.
Ciceruacchio, che, nel momento supremo dell’olocausto, ha ritrovato tutta la
grandezza dei suoi antenati quiriti, marcia impavido in prima fila, sorreggendo
il figlio. Si giunge alla meta e viene dato l’alt. Mentre il plotone di
esecuzione si schiera per la carneficina, ai condannati vengono legate le bende
agli occhi. Ciceruacchio le ricusa ed esorta i suoi compagni a “dimostrare
ai croati come i romani sappiano impavidamente morire”. Una secca
scarica di spari pone fine alla dolorosa odissea degli otto sfortunati
fuggitivi.
Ettore
Ximenes, Ciceruacchio e il figlio Lorenzo
Angelo
Brunetti fu arrestato dagli Austriaci e fucilato a mezzanotte del 10 agosto
1849, insieme al figlio Lorenzo di tredici anni, al sacerdote Stefano Ramorino,
a Lorenzo Parodi di Genova, a Luigi Bossi di Terni [che era, in realtà, il
figlio maggiore di Angelo Brunetti, Luigi Brunetti, e aveva cambiato nome, dopo
l’assassinio di Pellegrino Rossi], a Francesco Laudadio di Narni, a Paolo
Baccigalupi e a Gaetano Fraternali, ambedue di Roma. Nel 1892, si formò un
comitato popolare per un monumento all’eroe carrettiere – un gesso dello
scultore siciliano Ettore Ximenes, che lo aveva, già, presentato durante l’esposizione
di Torino, nel 1880. Nelle intenzioni del comitato, il monumento doveva essere
collocato in una posizione tale che lo sguardo di Ciceruacchio fosse rivolto –
come per Giordano Bruno – verso il Vaticano, una dichiarata accusa contro il
potere temporale dei papi. Nel 1900, il gesso di Ximenes venne fuso in bronzo
e, nel 1907, fu collocato vicino al ponte Margherita sul lungotevere Flaminio,
ora Arnaldo da Brescia, ma con il volto non già rivolto a guardare la Basilica
di San Pietro, bensì verso la città. Sul lato anteriore figura, questa dedica:
“A
CICERUACCHIO – IL POPOLO –”
La
scultura fu spostata, nel 1959, sul Lungotevere in Augusta, e trasferita,
definitivamente, nel parco del Granicolo, luogo simbolo della Resistenza
Romana.
Questo
mitico personaggio romano è stato interpretato da Nino Manfredi nel noto film
di Luigi Magni: In nome del popolo
sovrano.
“Come
ti chiami? Angelo Brunetti, Eccellenza, detto Ciceruacchio: gonfaloniere de
Campo Marzio, di professione carrettiere (si sente da come parlo)... dice...
Allora perché ti sei impicciato de cose che non te riguardano? ... dico...
Perché… io so’ carrettiere ma a tempo perso so’ omo... e l’omo si impiccia
Eccellenza. Difatti vie’ Garibaldi e dice: “Famo l’Italia”, e io che fo’? Nun m’empiccio?
Io so’ romano, Eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano: è colpa? ...dice...
Sì… Ah! mo’ è colpa esse’ italiano?... No... dice lui. E’ colpa perché tu hai
difeso l’anarchia e la rivoluzione. Ma nossignore, Eccellenza! Io ho difeso
Roma, er paese mio. E lei ce lo sa meglio de me… Ma come, i francesi me pijano
a cannonate e io nun m’empiccio? Nun me riguarda? Insomma, Eccellenza, se
annamo a strigne, che avemo fatto de male? Sta creatura manco a dillo… ma io?
Io c’ho fatto? Ho voluto bene a Roma, embè? E da quanno in qua l’amor de patria
è diventato un delitto? Però se nella legge vostra è un delitto volé bene ar
paese proprio... allora io so’ corpevole... anzi so’ reo confesso... e m’offenderebbe
pure se me rimandaste assorto. Per cui, Eccellenza, spero che lei si sia
persuasa... e così voi che mi sembrate… Oh! Ma me state a sentì? No...
dicevo... spero che pure voi ve siete appersuasi… No ma che fate?… Il ragazzino
no!”
La
strage di Ca’ Tiepolo restò sconosciuta per molti anni. A Roma, circolarono
varie voci sulla sorte di Ciceruacchio. Chi lo voleva rifugiato a Marsiglia,
chi riparato in Crimea, intento al commercio. Certamente, fu creduto vivo, se
il tribunale della Sacra Consulta imbastì due processi contro di lui contumace.
Solo il 28 ottobre 1859, dopo che Giuseppe Garibaldi fece pubblicare sul Monitore di Bologna una lettera di don
Luigi Rivalta, cappellano di Goro, fu noto a tutta l’Italia il martirio subito
dall’ultimo TRIBUNO DEL POPOLO ROMANO.
Giuseppe
Garibaldi
È gran
tempo che una voce vaga e misteriosa aveva recato novella agli Italiani come
sulle rive dell’Adriatico avesse avuto luogo una luttuosa tragedia. Dicevasi,
infatti, come Ciceruacchio, l’egregio popolano di Roma, dopo la presa della
patria città si avviasse con due figli giovanetti alla volta di Venezia, e nell’atto
d’imbarcarsi fosse preso dagli Austriaci, e, insieme ai figli, barbaramente fucilato.
Non mancarono né allora né adesso giornali prezzolati dall’Austria o dai preti,
che negassero colla più sfacciata pertinacia il fatto surriferito, tentando di
mascherarlo colle più sottili menzogne. Alcuni, infatti, accertavano essere
Ciceruacchio annegato nell’Adriatico, mentre si recava a Venezia; altri, più
recentemente, assicurano che il mio sventurato compagno seguì le armate
guerreggianti in Crimea, facendo commercio di viveri.
Volendo
io svelare all’Europa un’ultima vergogna dell’Austria, e bramando con tutto il
cuore di conoscere la sorte di persona a me cara cotanto e sì lungamente
cercata, incito tutti coloro, che ne avessero contezza, a farmene partecipe.
In
replica alle mie premure, ricevo la seguente lettera, la quale sparge luce incontestabile
sul fatto in questione, e che raccomando alla vostra gentilezza di
pubblicare.
Giuseppe
Garibaldi
A Sua
Eccellenza il Generale Giuseppe Garibaldi.
Vostra Eccellenza
si compiacerà di far sapere a tutti coloro che hanno osato di scrivere che Angelo
Brunetti detto Ciceruacchio e i suoi figli erano in Crimea a fare i vivandieri,
ch’essi hanno troppo solennemente ingiuriato alla verità. Invece quei generosi
italiani furono senza alcun dubbio fucilati dagli austriaci a Ca’ Tiepolo.
Latitanti per alcuni giorni nel bosco di Mesola sette de’ vostri soldati, verso
i primi di agosto del 1849, riuscirono con l’aiuto di alcuni goresi a passare
il Po, e ad entrare nel Veneto coll’idea di recarsi a Venezia. Era tutto
disposto per condurveli, quando l’infame oste, che li aveva alloggiati, li
tradì, consegnandoli inermi nelle mani di un barbaro capitano austriaco, che li
fece immediatamente fucilare, subito che conobbe che erano vostri soldati. Vi
era fra essi un giovine di circa 15 anni e un prete. Questi da tutti i
connotati che potei rilevare, era il vostro cappellano Stefano Ramorino, nativo
del circondario di Genova, quello stesso che insieme al vostro segretario
capitano Guglielmo Cenni mi fece nominare dal campo presso Sarliano vostro
aggiunto all’Uditorato di Guerra. Nel mentre che col più profondo dolore del
mio cuore annunzio all’Eccellenza Vostra un fatto così barbaro, assicurandola
che il nome di quell’infame oste è già segno della comune esecrazione fra i
popolani di Cà Tiepolo e di Contarina, mi procuro il bene di proferirmi coi
sensi della più distinta considerazione dell’Eccellenza Vostra Illustrissima
devotissimo
ed affezionatissimo
don
Luigi dott. Rivalta
ex-arciprete
di San Martino presso Rovigo
cappellano
curato di Goro
Bologna,
lì 15 di ottobre 1859
Daniela Zini
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Chi
può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?