DALLA PARTE
DI ULTIMO
Ridate la scorta al
Colonnello Sergio De Caprio!
“Ho scelto Ultimo perché
vedevo che tutti volevano essere primi, volevano essere più bravi, più belli,
volevano emergere, ricevere prestigio. Mi facevano schifo perché credo che il lavoro
del carabiniere sia un donare e non un avere.”
Costruire un’azione sociale diretta, solidale e
autosufficiente per rendere forte quello che è fragile, per trasformare le
diversità in ricchezza etica ed economica, per sopravvivere e far sopravvivere.
Fuori dalla lotta per la sopravvivenza c’è l’opulenza, il mondo dello “spettacolo”
e del superfluo. Sulla frontiera della sopravvivenza si sviluppa la vera lotta
alla mafia, all’illegalità ed alla sopraffazione del violento sul mite, del
ricco sul povero, del parassita sullo sfruttato.
Questa è la nostra battaglia di sempre, questa è l’ultima
battaglia; per questo vi chiamo oggi come ieri sulla strada per costruire
insieme un volontariato
militare e militante aperto alla società civile ai
fratelli diversamente abili ed ai non
vedenti, ai detenuti che cercano
riscatto, ai senza famiglia e senza
tetto, ai richiedenti asilo di
tutte le etnie oppresse e sfruttate dai Grandi della Terra.
Un volontariato
fatto di azione sociale
diretta, per creare sulla strada una produttività di sopravvivenza che dalla miseria crei
ricchezza e sia l’inizio della fine dell’assistenzialismo dei partiti, del nepotismo e
della mafia delle Lobby del capitalismo perverso ed arrogante che dalla ricchezza crea miseria e disperazione.
L’uguaglianza di
tutti i militari di ogni ordine e grado di fronte al pericolo è il valore
fondamentale che rende i Soldati non “colleghi di lavoro” ma Fratelli nella
Lotta.
Oggi l’uguaglianza
di tutti i cittadini di fronte alla miseria, alla sopraffazione e alla
disperazione è il valore fondamentale che ci rende fratelli nella lotta sociale
di strada. Questo vuol dire essere militari militanti, questo vuol dire oggi
essere italiani, questa è la nostra vita e questa sarà la nostra Milizia
Sociale.
Ultimo
“Finché una tessera di
partito conterà più dello Stato,
non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto dalla Chiesa
In Democrazia bisogna rinunciare alla Verità pur di garantire la
Pace Civile?
La tesi dello scrittore è che la Verità sia indispensabile in
Politica, poiché senza la Verità la Democrazia perderebbe il suo volto umano e
la sua base partecipativa.
Non vi è più grande forza che dire la Verità.
Ma che cos’è la Verità?
Negli ultimi anni, la Democrazia come forma politica e sociale,
ma, anche, come forma di Vita, è venuta a trovarsi chiusa tra un economicismo
neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato, ha dovuto
fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si
spacciano per tali, e dall'altro, ha dovuto misurarsi con modelli economici che
la considerano un presunto ostacolo sulla strada di una economia mondiale
dominata dai colossi di Internet,
dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello
globale.
Vi sono, dunque, soprattutto, ragioni politiche per dedicarsi al
ruolo della Verità nella Democrazia.
Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le
convinzioni vere da quelle false, che rimangono, pertanto, sempre rivedibili,
che cosa ci rimane, allora?
Altro non resta nella forma di Vita eminentemente umana [Lebenswelt], se non affidarsi alla
pratica quotidiana del dare e prendere ragioni – empiriche e normative – che
sono, certamente, permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con
essa coincidenti.
Dire la Verità può essere scomodo, a volte, ma è l’unico modo
per cambiare il Mondo.
Per centinaia di Stragi di Mafia non vi è, ancora, Verità.
Restano “Misteri
Italiani”.
NESSUNA VERITA'!
Una mancanza di trasparenza che mina la fiducia nello Stato.
Io credo che uno scrittore abbia l’imperativo morale di dire e di dirsi la
Verità. E credo, anche, che, per uno scrittore, l’Onestà Intellettuale sia il
tesoro più inestimabile.
Fa scattare la scintilla...
Fa pensare: io debbo fare qualcosa...
E dentro di me è scattata quella scintilla, che mi fa
pensare:
Io debbo fare qualcosa!
Nel 1908, le tensioni etniche affiorano ovunque a New York e un tenente
della polizia di New York, uno dei primi detectives
italo-americani della polizia newyorkese, si presenta al sindaco della città e gli tiene, più o meno,
il seguente discorso:
“Di fronte allo straordinario numero di delitti di ogni
genere, dal taglieggiamento all’omicidio, che si verificano, ogni giorno, a
Brooklyn e dovunque vivano emigrati italiani, voi tirate in ballo una
misteriosa e fantomatica Mano Nera. I miei genitori erano entrambi siciliani,
quindi, la so abbastanza lunga. La Mano Nera esiste, soltanto, nella
immaginazione popolare, esattamente come l’Uomo Nero, inventato per spaventare
i bambini. In realtà, dietro i ricatti, le violenze e gli assassinii che ci preoccupano,
vi è una associazione a delinquere perfettamente organizzata, con solide
gerarchie e leggi precise. Si chiama Mafia. È squisitamente siciliana e non va
confusa con la Camorra di Napoli. Date retta a me, signor sindaco: se vogliamo
risolvere il problema, dobbiamo cominciare da Palermo.”
Quando i giornali
riferirono dell’intervento di Petrosino, l’opinione pubblica, particolarmente
la siculo-americana, sogghigna del coraggioso ufficiale e, in qualche caso, si
mostra addirittura offesa, scandalizzata.
“Non esiste delinquenza organizzata, negli Stati Uniti!”,
si grida.
“La Mafia è una favola!”
Solo il capo della Polizia
di New York, il generale Theodore A.
Bingham, avvocato, democratico e massone, dà credito alla tesi di
Petrosino, che, com’è noto, parte in missione segreta alla volta del capoluogo ligure, alle
16.00 del martedì 9 febbraio 1909.
L’Araldo
Italiano, il giornale per gli italiani d’America, strombazzava:
“Il Petrosino si reca in Italia per studiarvi quei regolamenti di pubblica
sicurezza. Si dice che a Bologna si fermerà per avere cognizioni sulla
criminologia, sulla pena di morte e sulle belle mortadelle. A Firenze si
tratterrà per osservare le carceri dell’antico palazzo del Bargello e il fiasco
paesano. A Napoli per la Camorra, la malavita e i maccheroni alle vongole. A
Palermo per la Mafia e le squisite cassate alla siciliana. A Torino si fermerà
per i Barabba e i grissini. A Milano per la Teppa e la busecca. A Venezia per i
terribili Piombi e la zucca barucca. A Roma per il Colosseo e l’abbacchio.”
Sulla Duca
di Genova, viaggia sotto il nome di Simone Velletri e alloggia nella cabina
di prima classe numero 10. Con sé due valigie nuove di cuoio giallo, in una
delle quali, la pistola di ordinanza, una Smith
& Wesson calibro 38.
Petrosino sbarca, a Genova, con circa 26 ore di ritardo, alle 6 della
domenica 21 febbraio 1909. Prende, poi, un treno per Roma, ove giunge alle
20.20 e fissa la camera numero 9, per 6 lire a notte, nell’Hotel Inghilterra, in via Bocca di Leone, con il nome di Gugliemo
Simone. Prende, quindi, contatto con il capo di gabinetto di Giovanni Giolitti,
Camillo Peano, e il capo della
polizia, Francesco Leonardi.
Il 26 febbraio, invia il primo rapporto
all’assessore Bingham:
Caro assessore Bingham, sono giunto a Roma alle 8.20 p.m. del 21 corr. ma
essendo l’anniversario della nascita di Washington e contemporaneamente la
festa del carnevale romano, che è durata due giorni, non ho potuto vedere
alcuna delle persone cui dovevo rivolgermi. Alfine, grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore
americano, ho potuto essere presentato al ministro degli Interni on. Peano, con
il quale ho avuto una conversazione sui criminali italiani e sulle loro
malefatte negli USA. Egli si è tanto interessato alla questione che ha dato
disposizione al capo della Polizia, S.E. Francesco Leonardi, di ordinare
tassativamente ai prefetti, sottoprefetti e sindaci di tutto il Regno di non
rilasciare passaporti ai criminali italiani diretti negli USA. Mi ha anche dato
una lettera indirizzata a tutti i questori della Sicilia, Calabria e Napoli,
con l’invito a facilitarmi in ogni modo nell’adempimento della mia missione.
Sia il Ministro sia il capo della Polizia, avevano già sentito parlare di me.
Ho anche mostrato loro l’orologio d’oro donatemi dal capo italiano, come
sapete.
Caro generale, il viaggio è stato molto brutto: per quasi tutta la durata
il tempo è stato cattivo. La nave ha avuto ventisei ore di ritardo e io non mi
sento troppo bene, per cui, prima di mettermi concretamente al lavoro, mi
prenderò un paio di giorni di riposo. Quando sarò a Palermo per iniziare il
“lavoro”, vi informerò costantemente dei risultati. Augurando una vita lunga e
felice a voi e al signor Woods rimango vostro devotissimo
Joseph Petrosino
La domenica 28 febbraio 1909, Petrosino arriva a Palermo, alle 8, con il postale proveniente da Napoli. Prende alloggio, sotto il falso nome di Simone
Valenti di Giudea, nella stanza numero 16 dell’Hotel de France, in Piazza Marina, e,
sospettando che la Mafia, spingendo i
suoi tentacoli tra il personale dell’albergo, gli intercetti la corrispondenza,
fissa il suo recapito postale presso la segreteria della Banca Commerciale, i cui impiegati sono, in prevalenza,
settentrionali.
Nonostante queste precauzioni, il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo fulminano il quarantanovenne poliziotto, a circa venti
metri dal monumento a Giuseppe Garibaldi, in Piazza Marina, nella zona
occidentale di Palermo.
Cinque giorni prima, Petrosino aveva fatto sapere
all’assessore Bingham che le sue indagini stavano approdando a risultati “sbalorditivi”.
Nel telegramma in cui il console statunitense William A. Bishop
ne annunciava la morte si leggeva:
“Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa
sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire.”,
quello che, in qualche modo, Joseph Petrosino
è stato.
Gli stati Uniti misero subito a disposizione la somma di 10mila
lire, corrispondenti a quasi 40mila Euro attuali, per chi avesse fornito
elementi utili a scoprire i suoi assassini. Ma la paura della Mafia fu più forte dell’attrazione esercitata
da quella elevata offerta di danaro. Le bocche rimasero chiuse. Alle esequie, a
New York, parteciparono circa 250mila persone, che affollarono le
vie della Piccola Italia.
Dunque, Petrosino, puntando il dito sulla Mafia, aveva visto giusto.
La sua morte ne è la riprova.
Si è dovuto attendere il Maxiprocesso,
istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e avviato il 10 febbraio 1986 , perché i processi di Mafia potessero essere accorpati e i giudici della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione,
potessero pronunciare, iI 30 gennaio 1992, alle ore 16.50, dopo dieci
giorni di camera di consiglio la sentenza che riconosceva, per la prima volta, Cosa Nostra “una struttura unitaria a direzione rigidamente verticistica e
piramidale e con epicentro in Palermo",
come la definiva Giovanni Falcone.
Per decenni, la Corte di Cassazione
aveva sentenziato che la Mafia non
esisteva e vi erano solo gruppi criminali, che agivano per proprio conto e per
proprio tornaconto.
Nel corso dell’Operazione Apocalisse, conclusasi con
95 arresti, il 23 giugno 2014, a distanza di oltre un secolo dall’assassinio di
Petrosino, veniva intercettata dal Nucleo Speciale Polizia Valutaria della
Guardia di Finanza di Palermo, una conversazione di
Domenico Palazzotto, pronipote di Paolo, che si vantava con gli amici dell’appartenenza
centenaria alla Mafia della sua
famiglia:
“Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto
l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe
Petrosino, per conto di Cascio Ferro.”
Paolo Palazzotto fu il primo a essere arrestato per l’omicidio
del coraggioso tenente, ma, poi, venne assolto per insufficienza di prove, come
il boss Vito Cascio Ferro di
Bisacquino.
Nel 1904, quando la Mano Nera, antesignana di Cosa
Nostra, si faceva conoscere ovunque negli Stati Uniti, l’FBI non esisteva ancora e le polizie
delle città come New York o Chicago non si avvicinavano troppo ai ghetti
italiani, che erano abbandonati a se stessi. Sorta con la dichiarata finalità della mutua
assistenza tra gli emigrati e della tutela degli stessi da forme di
sfruttamento o di aggressione da parte di altri gruppi di emigranti o di
cittadini statunitensi, la Mano Nera aveva
finito per taglieggiare, con il pretesto della protezione, proprio gli emigrati
italiani, ai quali si impose, anche, con la violenza.
Petrosino era un uomo onesto in un’epoca
in cui i poliziotti erano, in buona parte, corrotti. E, quando lanciò un
appello sul quotidiano The New York Times affinché i servizi segreti si unissero
nella sua lotta, gli viene risposto che, se gli italo-americani intendevano
essere protetti, avrebbero dovuto ingaggiare dei detectives privati.
Quella gente pagava le tasse, scavava le
gallerie della metropolitana, costruiva acquedotti per garantire l’acqua
potabile a tutti!
La vita degli immigrati italiani era
molto difficile. Arrivavano, a Ellis Island, con la valigia di fibra o di legno
e il bottiglione dell’olio e dovevano sopportare ogni genere di umiliazioni. Percepivano
salari più bassi rispetto ai loro concittadini “bianchi”. Il 90 % era
taglieggiato dalla Mano Nera.
Li chiamavano teste di brillantina per quei capelli lucidi e divisi dalla riga,
come li portava Rodolfo Valentino ne Il Figlio
dello Sceicco; dago, che vuol dire uno che viene
dall’Italia; o giazo, individuo di
razza latina; o macaroni, che non necessita
di spiegazioni.
Un ragazzo su cento andava a scuola; gli
altri crescevano sui marciapiedi a Hell’s Kitchen, picchiandosi con i polacchi
e gli irlandesi, andando a rubare alla ferrovia o ai carrettini della frutta.
Comprendevano, rapidamente, che, in
America, senza soldi non si era nessuno. Molti non sapevano né leggere né
scrivere, ma volevano molti dollari e subito. Gli italiani stavano insieme,
uniti e si aiutavano.
Lo scrittore statunitense Mario Puzo era
cresciuto nella 10° Strada di Manhattan. Ricordava che un vicino, inseguito
dagli agenti, aveva buttato una coperta piena di rivoltelle in casa sua e aveva
pregato sua madre di nasconderle. Lei aveva obbedito e lui le aveva evitato lo
sfratto perché il padrone non tollerava il cane. D’inverno, le faceva avere il
carbone gratuitamente e, nel Giorno del Ringraziamento, arrivavano, anche, due
ceste di cibarie. Quel signore lo chiamavano il Padrino o anche lo Zio
e somigliava tanto a don Vito Corleone, il personaggio reso celebre dal cinema
e dalla narrativa, “uno di quegli uomini saggi, capaci di assumersi responsabilità e di
comandare, ma che sono rimasti fuori dalla retta strada della società”.
Petrosino voleva che la sua gente avesse
una opportunità e non mancava mai, quando gli si presentava l’occasione, di
elogiare i meriti degli Italiani
sulla stampa, sostenendo che erano rispettosi, lavoratori, che amavano i propri
figli.
Ma, Petrosino, per essersi arruolato
nella polizia di New York, era considerato un traditore dai numerosi
italo-americani, qualcuno che aveva anteposto la propria ambizione alla sua
comunità.
Era una guerra e lui lo aveva compreso.
Era una zona di guerra, che ricorda il
Libano, nel suo periodo oscuro.
Il parallelo con la situazione attuale è
palese!
Nel secolo scorso, abbiamo appreso che la
malavita non è solo Mano Nera, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, la malavita è, anche quella, descritta da Gaetano Salvemini,
della politica e degli affari, che, ora, abbiamo imparato a riconoscere per le
sue affinità con la prima, per il suo linguaggio comune.
“[…] E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni
individuali, il rappresentante politico di una delle due Camorre di
professionisti affamati, che si contendono il potere amministrativo per
mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per
tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste
nell’impetrare l’acquiescenza della Prefettura, della Magistratura, della Questura,
alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la
fiducia al Governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e
da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza che le Province
settentrionali presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione
politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro
l’infezione della Città Eterna e bene o male, fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno
la corruzione propinata dal Governo centrale si accumula a quella che pullula
nella vita locale e tutto il Paese si sprofonda in una fetida palude di
anarchia intellettuale e morale e di volgarità. […]”
Il fascino della Mafia, perverso o no che sia, esiste.
E, nel capitalismo legale, nel mondo
legale degli affari vi è un malcelato senso di invidia e di ammirazione per le
organizzazioni mafiose che possono recare danno ai concorrenti, fare le cose
che ai concorrenti legali sono proibite, come uccidere.
Il potere di uccidere è banale, ma
risolutivo.
Non occorrono sentenze scritte, basta che
un boss dica:
“Chistu
s’av’ammazzare.”
Cosa vi è di più facile che ammazzare un
uomo indifeso, sparandogli alle spalle?
Cosa di più radicale?
Nessuna discussione, nessuna trattativa,
lo si ammazza e basta.
La Mafia
non vi rinuncia neppure quando uccidere può crearle problemi di sicurezza e di
segretezza: uccidere è la sua arma fondamentale. Il suo, uno Stato che non
rinuncerà MAI alla pena di morte.
Enzo Biagi, nel corso di una intervista,
aveva chiesto a Tommaso Buscetta, che conosceva bene i due mondi, se vi fosse
differenza tra Cosa Nostra siciliana
e Cosa Nostra di oltreoceano e
Buscetta aveva risposto:
“Nessuna. Il giuramento, le abitudini,
le gerarchie sono le stesse. Diverso è
il carattere etnico. Un ragazzo che è cresciuto negli Stati Uniti non può
pensare alla stessa maniera di uno che non si è mai mosso da Belmonte Mezzago.
Sono due mentalità differenti e, quindi, due maniere di pensare dissimili.”
Alla domanda di Biagi:
“È vero che quando la Mafia vuole fare
fuori qualcuno ci riesce sempre?”,
la risposta di Buscetta era stata:
“Vi riesce sempre, ma non ha premura. È
questo che gli organi dello Stato non hanno capito, che la Mafia è un agente
che non assomiglia a nessun bandito del mondo. La Mafia, Cosa Nostra è unica,
nessuno riesce a imitarla. La Mafia aspetta, la Mafia non ha premura.”
Nel raccontare le sue imprese, Giovanni Brusca ripeteva di fare “le cose con calma. Non avevo fretta e
quindi rimandai l’uccisione di Ignazio Salvo”, che poté, così, ricevere
Giulio Andreotti all’Hotel Zagarella di Santa Flavia.
La cultura mafiosa, la sua tradizione
mafiosa hanno il fascino di legare l’istinto e la sua casualità alla ragione,
di trovare il modus vivendi in un
mondo rimasto arcaico.
MAI, all’origine di una vocazione
mafiosa, vi è un principio morale, una scelta di campo etica.
Vi è, SEMPRE, un torto subito, una
vendetta familiare.
La Mafia
ammette e ostenta ciò che gli altri, i legali, debbono negare.
I due poteri di ricattare e di uccidere
esistono in quanto esiste il controllo del territorio, la chiudenda, il luogo dove agli altri il pascolo è negato.
Ecco perché la Mafia ne ha assoluto bisogno.
Il territorio conserva una importanza
animalesca, marcato con i suoi odori e i suoi segni.
Tutti devono sapere che è suo.
Al momento della cattura, Totò Riina
aveva sessantatre anni, in tasca 500mila lire, qualche spicciolo, una scatola
di pasticche per il mal di gola e, nel portafoglio, la foto della moglie
Ninetta Bagarella.
Chi aveva irriso di Riina contadino, ritratto
nel giorno dell’arresto, la prima immagine aggiornata del capo dei capi
di Cosa Nostra – quella precedente
era una vecchia immagine in bianco e nero che ritraeva un giovane uomo – si sbagliava!
Riina avrebbe dato una impressionante
prova che la Mafia è una “Cosa” seria
con rigide regole e con profonde radici, come sosteneva Falcone.
Incidentalmente, quel 15 gennaio 1993 era il primo giorno a Palermo del
nuovo procuratore antimafia, Giancarlo Caselli.
Un bel regalo di benvenuto dall’Arma!
La notizia della cattura venne data dal presidente della Repubblica, Oscar
Luigi Scalfaro, al presidente del Consiglio, Giuliano Amato, proprio durante
una seduta del Consiglio dei Ministri. Il ministro dell’interno, il democristiano
Nicola Mancino, sembrò, particolarmente, soddisfatto.
“Ora speriamo che Riina parli. La guerra contro la Mafia non è finita.”,
commentò.
Lui, Riina, aveva, immediatamente,
riaffermato il dogma dell’omertà mafiosa.
Belle le prime pagine dei quotidiani, il
16 gennaio 1993, di quelle da incorniciare!
Preso
Riina, decapitata la Mafia
titolava il Corriere della Sera.
Preso
Riina, Cosa Nostra decapitata
era la poco diversa apertura de La Stampa.
Dopo 24 anni finiva la latitanza di Totò u curtu, per un
blitz portato a termine dal Capitano Ultimo
e dai suoi Uomini del Raggruppamento Operativo
Speciale dell’Arma dei Carabinieri.
Riina era convinto di poter tornare in libertà, di potersi stabilire come
libero cittadino o come libero latitante nella sua proprietà a Corleone.
Spiegare la Mafia come una organizzazione di malavitosi è riduttivo; i suoi
doveri, i suoi fini sono diversi da quelli della società capitalistica, non
delinque solo per arricchire, ma per avere e mantenere il potere arcaico di
vita e di morte.
La Mafia
è una Società Segreta, non una Società per Azioni!
I tangentisti, una volta accusati,
arrestati non resistono più di dieci giorni, confessano, denunciano.
I mafiosi non parlano!
È questa diversità e separatezza, questa
fedeltà a un modello barbaro, misterioso, che conferma la forza della Mafia e la difficoltà di estirparla.
L’immaginario collettivo ha attribuito
ai mafiosi delle mutazioni di fondo che non vi sono mai state. I mafiosi non
hanno, mai, abbandonato la loro identità culturale e territoriale.
La prevenzione e la repressione statali
si prestano a seri dubbi.
Se non si conoscono gli intrecci delle
complicità certi fatti restano incomprensibili.
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità,
l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il
pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di
appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un comportamento armonico per
la vita di quegli stessi Esseri.
Nel suo discorso alla Costituente del
1947, il cattolico Guido Gonella ne prendeva atto:
“Bisogna finirla con l’aver due Stati,
uno legale e uno reale, uno scritto sulla carta e l’altro diverso,
contraddittori, assenti nelle istituzioni. Lo Stato reale liberticida dà per
primo l’esempio dell’inosservanza sistematica dei suoi impegni costituzionali.”
Oggi, la sconfitta di Mani Pulite e della Giustizia “giusta”
conferma che lo Stato reale continua a prevalere.
Se la Giustizia oggi è al centro del
dibattito politico, non è solo perché vi sono imprenditori potenti e politici
influenti che difendono la loro impunità, ma anche perché è sempre più
difficile adattare le leggi al capitalismo anarcoide e tenere a bada la potenza
irresistibile del danaro.
Non si tratta di essere giustizialisti,
ma di chiedersi che cosa riuscirà a tenere assieme questo Paese se per
garantismo si intende la licenza di continuare nei falsi di bilancio, nella
corruzione dei giudici e dei funzionari, nell’evasione delle tasse, nell’uso
diffamatorio dell’informazione.
RIDATE
LA SCORTA AL COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO!
LA MAFIA ASPETTA, NON HA PREMURA…
Daniela Zini