“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

giovedì 30 agosto 2018

DALLA PARTE DI ULTIMO: RIDATE LA SCORTA AL COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO! di Daniela Zini

DALLA PARTE DI ULTIMO

Ridate la scorta al Colonnello Sergio De Caprio!


“Ho scelto Ultimo perché vedevo che tutti volevano essere primi, volevano essere più bravi, più belli, volevano emergere, ricevere prestigio. Mi facevano schifo perché credo che il lavoro del carabiniere sia un donare e non un avere.”

Costruire un’azione sociale diretta, solidale e autosufficiente per rendere forte quello che è fragile, per trasformare le diversità in ricchezza etica ed economica, per sopravvivere e far sopravvivere.
Fuori dalla lotta per la sopravvivenza c’è l’opulenza, il mondo dello “spettacolo” e del superfluo. Sulla frontiera della sopravvivenza si sviluppa la vera lotta alla mafia, all’illegalità ed alla sopraffazione del violento sul mite, del ricco sul povero, del parassita sullo sfruttato.
Questa è la nostra battaglia di sempre,  questa è l’ultima battaglia; per questo vi chiamo oggi come ieri sulla strada per costruire insieme un volontariato militare e militante aperto alla società civile ai fratelli diversamente abili ed ai non vedenti, ai detenuti che cercano riscatto, ai senza famiglia e senza tetto, ai richiedenti asilo di tutte le etnie oppresse e sfruttate dai Grandi della Terra. 
Un volontariato fatto di azione sociale diretta, per creare sulla strada una produttività di sopravvivenza  che dalla miseria crei ricchezza e  sia linizio della fine  dell’assistenzialismo dei partiti, del nepotismo e della mafia delle Lobby del capitalismo perverso ed arrogante che dalla ricchezza crea miseria e disperazione.
L’uguaglianza di tutti i militari di ogni ordine e grado di fronte al pericolo è il valore fondamentale che rende i Soldati non “colleghi di lavoro” ma Fratelli nella Lotta.
Oggi l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla miseria, alla sopraffazione e alla disperazione è il valore fondamentale che ci rende fratelli nella lotta sociale di strada. Questo vuol dire essere militari militanti, questo vuol dire oggi essere italiani, questa è la nostra vita e questa sarà la nostra Milizia Sociale.

Ultimo




“Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, 
non riusciremo mai a battere la Mafia.”
Carlo Alberto dalla Chiesa


In Democrazia bisogna rinunciare alla Verità pur di garantire la Pace Civile?
La tesi dello scrittore è che la Verità sia indispensabile in Politica, poiché senza la Verità la Democrazia perderebbe il suo volto umano e la sua base partecipativa.
Non vi è più grande forza che dire la Verità.
Ma che cos’è la Verità?
Negli ultimi anni, la Democrazia come forma politica e sociale, ma, anche, come forma di Vita, è venuta a trovarsi chiusa tra un economicismo neoliberista e un nuovo fondamentalismo culturale: da un lato, ha dovuto fronteggiare attacchi di fanatici motivati su base religiosa, o che si spacciano per tali, e dall'altro, ha dovuto misurarsi con modelli economici che la considerano un presunto ostacolo sulla strada di una economia mondiale dominata dai colossi di Internet, dove tutti sono produttori e consumatori di beni e servizi scambiati a livello globale.
Vi sono, dunque, soprattutto, ragioni politiche per dedicarsi al ruolo della Verità nella Democrazia.
Ma, poiché non esiste un metodo sicuro per separare le convinzioni vere da quelle false, che rimangono, pertanto, sempre rivedibili, che cosa ci rimane, allora?
Altro non resta nella forma di Vita eminentemente umana [Lebenswelt], se non affidarsi alla pratica quotidiana del dare e prendere ragioni – empiriche e normative – che sono, certamente, permeate dalla razionalità scientifica, ma non sempre con essa coincidenti.
Dire la Verità può essere scomodo, a volte, ma è l’unico modo per cambiare il Mondo.
Per centinaia di Stragi di Mafia non vi è, ancora, Verità.
Restano “Misteri Italiani”.
NESSUNA VERITA'!
Una mancanza di trasparenza che mina la fiducia nello Stato.
Io credo che uno scrittore abbia l’imperativo morale di dire e di dirsi la Verità. E credo, anche, che, per uno scrittore, l’Onestà Intellettuale sia il tesoro più inestimabile.
Fa scattare la scintilla...
Fa pensare: io debbo fare qualcosa...
E dentro di me è scattata quella scintilla, che mi fa pensare:
Io debbo fare qualcosa!




Nel 1908, le tensioni etniche affiorano ovunque a New York e un tenente della polizia di New York, uno dei primi detectives italo-americani della polizia newyorkese, si presenta al sindaco della città e gli tiene, più o meno, il seguente discorso:
“Di fronte allo straordinario numero di delitti di ogni genere, dal taglieggiamento all’omicidio, che si verificano, ogni giorno, a Brooklyn e dovunque vivano emigrati italiani, voi tirate in ballo una misteriosa e fantomatica Mano Nera. I miei genitori erano entrambi siciliani, quindi, la so abbastanza lunga. La Mano Nera esiste, soltanto, nella immaginazione popolare, esattamente come l’Uomo Nero, inventato per spaventare i bambini. In realtà, dietro i ricatti, le violenze e gli assassinii che ci preoccupano, vi è una associazione a delinquere perfettamente organizzata, con solide gerarchie e leggi precise. Si chiama Mafia. È squisitamente siciliana e non va confusa con la Camorra di Napoli. Date retta a me, signor sindaco: se vogliamo risolvere il problema, dobbiamo cominciare da Palermo.”
Quando i giornali riferirono dell’intervento di Petrosino, l’opinione pubblica, particolarmente la siculo-americana, sogghigna del coraggioso ufficiale e, in qualche caso, si mostra addirittura offesa, scandalizzata.
“Non esiste delinquenza organizzata, negli Stati Uniti!”,
si grida.
“La Mafia è una favola!”
Solo il capo della Polizia di New York, il generale Theodore A.  Bingham, avvocato, democratico e massone, dà credito alla tesi di Petrosino, che, com’è noto, parte in missione segreta alla volta del capoluogo ligure, alle 16.00 del martedì 9 febbraio 1909.
L’Araldo Italiano, il giornale per gli italiani d’America, strombazzava:
“Il Petrosino si reca in Italia per studiarvi quei regolamenti di pubblica sicurezza. Si dice che a Bologna si fermerà per avere cognizioni sulla criminologia, sulla pena di morte e sulle belle mortadelle. A Firenze si tratterrà per osservare le carceri dell’antico palazzo del Bargello e il fiasco paesano. A Napoli per la Camorra, la malavita e i maccheroni alle vongole. A Palermo per la Mafia e le squisite cassate alla siciliana. A Torino si fermerà per i Barabba e i grissini. A Milano per la Teppa e la busecca. A Venezia per i terribili Piombi e la zucca barucca. A Roma per il Colosseo e l’abbacchio.”
Sulla Duca di Genova, viaggia sotto il nome di Simone Velletri e alloggia nella cabina di prima classe numero 10. Con sé due valigie nuove di cuoio giallo, in una delle quali, la pistola di ordinanza, una Smith & Wesson calibro 38.
Petrosino sbarca, a Genova, con circa 26 ore di ritardo, alle 6 della domenica 21 febbraio 1909. Prende, poi, un treno per Roma, ove giunge alle 20.20 e fissa la camera numero 9, per 6 lire a notte, nell’Hotel Inghilterra, in via Bocca di Leone, con il nome di Gugliemo Simone. Prende, quindi, contatto con il capo di gabinetto di Giovanni Giolitti, Camillo Peano, e il capo della polizia, Francesco Leonardi.
Il 26 febbraio, invia il primo rapporto all’assessore Bingham:

Caro assessore Bingham, sono giunto a Roma alle 8.20 p.m. del 21 corr. ma essendo l’anniversario della nascita di Washington e contemporaneamente la festa del carnevale romano, che è durata due giorni, non ho potuto vedere alcuna delle persone cui dovevo rivolgermi. Alfine, grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore americano, ho potuto essere presentato al ministro degli Interni on. Peano, con il quale ho avuto una conversazione sui criminali italiani e sulle loro malefatte negli USA. Egli si è tanto interessato alla questione che ha dato disposizione al capo della Polizia, S.E. Francesco Leonardi, di ordinare tassativamente ai prefetti, sottoprefetti e sindaci di tutto il Regno di non rilasciare passaporti ai criminali italiani diretti negli USA. Mi ha anche dato una lettera indirizzata a tutti i questori della Sicilia, Calabria e Napoli, con l’invito a facilitarmi in ogni modo nell’adempimento della mia missione. Sia il Ministro sia il capo della Polizia, avevano già sentito parlare di me. Ho anche mostrato loro l’orologio d’oro donatemi dal capo italiano, come sapete.
Caro generale, il viaggio è stato molto brutto: per quasi tutta la durata il tempo è stato cattivo. La nave ha avuto ventisei ore di ritardo e io non mi sento troppo bene, per cui, prima di mettermi concretamente al lavoro, mi prenderò un paio di giorni di riposo. Quando sarò a Palermo per iniziare il “lavoro”, vi informerò costantemente dei risultati. Augurando una vita lunga e felice a voi e al signor Woods rimango vostro devotissimo
Joseph Petrosino

La domenica 28 febbraio 1909, Petrosino arriva a Palermo, alle 8, con il postale proveniente da Napoli. Prende alloggio, sotto il falso nome di Simone Valenti di Giudea, nella stanza numero 16 dell’Hotel de France, in Piazza Marina, e, sospettando che la Mafia, spingendo i suoi tentacoli tra il personale dell’albergo, gli intercetti la corrispondenza, fissa il suo recapito postale presso la segreteria della Banca Commerciale, i cui impiegati sono, in prevalenza, settentrionali.
Nonostante queste precauzioni, il 12 marzo 1909, tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo fulminano il quarantanovenne poliziotto, a circa venti metri dal monumento a Giuseppe Garibaldi, in Piazza Marina, nella zona occidentale di Palermo.
Cinque giorni prima, Petrosino aveva fatto sapere all’assessore Bingham che le sue indagini stavano approdando a risultati “sbalorditivi”.
Nel telegramma in cui il console statunitense William A. Bishop ne annunciava la morte si leggeva:
Petrosino ucciso a revolverate nel centro della città questa sera. Gli assassini sconosciuti. Muore un martire.”,
quello che, in qualche modo, Joseph Petrosino è stato.
Gli stati Uniti misero subito a disposizione la somma di 10mila lire, corrispondenti a quasi 40mila Euro attuali, per chi avesse fornito elementi utili a scoprire i suoi assassini. Ma la paura della Mafia fu più forte dell’attrazione esercitata da quella elevata offerta di danaro. Le bocche rimasero chiuse. Alle esequie, a New York, parteciparono circa 250mila persone, che affollarono le vie della Piccola Italia.
Dunque, Petrosino, puntando il dito sulla Mafia, aveva visto giusto.
La sua morte ne è la riprova.
Si è dovuto attendere il Maxiprocesso, istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e avviato il 10 febbraio 1986 , perché i processi di Mafia potessero essere accorpati e i giudici della Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, potessero pronunciare, iI 30 gennaio 1992, alle ore 16.50, dopo dieci giorni di camera di consiglio la sentenza che riconosceva, per la prima volta, Cosa Nostra una struttura unitaria a direzione rigidamente verticistica e piramidale e con epicentro in Palermo", come la definiva Giovanni Falcone.
Per decenni, la Corte di Cassazione aveva sentenziato che la Mafia non esisteva e vi erano solo gruppi criminali, che agivano per proprio conto e per proprio tornaconto.
Nel corso dell’Operazione Apocalisse, conclusasi con 95 arresti, il 23 giugno 2014, a distanza di oltre un secolo dall’assassinio di Petrosino, veniva intercettata dal Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza di Palermo, una conversazione di Domenico Palazzotto, pronipote di Paolo, che si vantava con gli amici dell’appartenenza centenaria alla Mafia della sua famiglia:
“Lo zio di mio padre si chiamava Paolo Palazzotto, ha fatto l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino, per conto di Cascio Ferro.”
Paolo Palazzotto fu il primo a essere arrestato per l’omicidio del coraggioso tenente, ma, poi, venne assolto per insufficienza di prove, come il boss Vito Cascio Ferro di Bisacquino.
Nel 1904, quando la Mano Nera, antesignana di Cosa Nostra, si faceva conoscere ovunque negli Stati Uniti, l’FBI non esisteva ancora e le polizie delle città come New York o Chicago non si avvicinavano troppo ai ghetti italiani, che erano abbandonati a se stessi. Sorta con la dichiarata finalità della mutua assistenza tra gli emigrati e della tutela degli stessi da forme di sfruttamento o di aggressione da parte di altri gruppi di emigranti o di cittadini statunitensi, la Mano Nera aveva finito per taglieggiare, con il pretesto della protezione, proprio gli emigrati italiani, ai quali si impose, anche, con la violenza.
Petrosino era un uomo onesto in un’epoca in cui i poliziotti erano, in buona parte, corrotti. E, quando lanciò un appello sul quotidiano The New York Times  affinché i servizi segreti si unissero nella sua lotta, gli viene risposto che, se gli italo-americani intendevano essere protetti, avrebbero dovuto ingaggiare dei detectives privati.
Quella gente pagava le tasse, scavava le gallerie della metropolitana, costruiva acquedotti per garantire l’acqua potabile a tutti!
La vita degli immigrati italiani era molto difficile. Arrivavano, a Ellis Island, con la valigia di fibra o di legno e il bottiglione dell’olio e dovevano sopportare ogni genere di umiliazioni. Percepivano salari più bassi rispetto ai loro concittadini “bianchi”. Il 90 % era taglieggiato dalla Mano Nera.
Li chiamavano teste di brillantina per quei capelli lucidi e divisi dalla riga, come li portava Rodolfo Valentino ne Il Figlio dello Sceicco; dago, che vuol dire uno che viene dall’Italia; o giazo, individuo di razza latina; o macaroni, che non necessita di spiegazioni.
Un ragazzo su cento andava a scuola; gli altri crescevano sui marciapiedi a Hell’s Kitchen, picchiandosi con i polacchi e gli irlandesi, andando a rubare alla ferrovia o ai carrettini della frutta. 
Comprendevano, rapidamente, che, in America, senza soldi non si era nessuno. Molti non sapevano né leggere né scrivere, ma volevano molti dollari e subito. Gli italiani stavano insieme, uniti e si aiutavano.
Lo scrittore statunitense Mario Puzo era cresciuto nella 10° Strada di Manhattan. Ricordava che un vicino, inseguito dagli agenti, aveva buttato una coperta piena di rivoltelle in casa sua e aveva pregato sua madre di nasconderle. Lei aveva obbedito e lui le aveva evitato lo sfratto perché il padrone non tollerava il cane. D’inverno, le faceva avere il carbone gratuitamente e, nel Giorno del Ringraziamento, arrivavano, anche, due ceste di cibarie. Quel signore lo chiamavano il Padrino o anche lo Zio e somigliava tanto a don Vito Corleone, il personaggio reso celebre dal cinema e dalla narrativa, “uno di quegli uomini saggi, capaci di assumersi responsabilità e di comandare, ma che sono rimasti fuori dalla retta strada della società”.
Petrosino voleva che la sua gente avesse una opportunità e non mancava mai, quando gli si presentava l’occasione, di elogiare i meriti degli Italiani sulla stampa, sostenendo che erano rispettosi, lavoratori, che amavano i propri figli.
Ma, Petrosino, per essersi arruolato nella polizia di New York, era considerato un traditore dai numerosi italo-americani, qualcuno che aveva anteposto la propria ambizione alla sua comunità.
Era una guerra e lui lo aveva compreso.
Era una zona di guerra, che ricorda il Libano, nel suo periodo  oscuro.
Il parallelo con la situazione attuale è palese!
Nel secolo scorso, abbiamo appreso che la malavita non è solo Mano Nera, Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, la malavita è, anche quella, descritta da Gaetano Salvemini, della politica e degli affari, che, ora, abbiamo imparato a riconoscere per le sue affinità con la prima, per il suo linguaggio comune.

“[…] E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due Camorre di professionisti affamati, che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescenza della Prefettura, della Magistratura, della Questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al Governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia. Con questa differenza che le Province settentrionali presidiate da una borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna e bene o male, fanno la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal Governo centrale si accumula a quella che pullula nella vita locale e tutto il Paese si sprofonda in una fetida palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità. […]”
Gaetano Salvemini, Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita, La Voce, 3 gennaio 1909 [http://www.bibliotecaginobianco.it/?p=154&t=coc]

Il fascino della Mafia, perverso o no che sia, esiste.
E, nel capitalismo legale, nel mondo legale degli affari vi è un malcelato senso di invidia e di ammirazione per le organizzazioni mafiose che possono recare danno ai concorrenti, fare le cose che ai concorrenti legali sono proibite, come uccidere.
Il potere di uccidere è banale, ma risolutivo.
Non occorrono sentenze scritte, basta che un boss dica:
“Chistu s’av’ammazzare.”
Cosa vi è di più facile che ammazzare un uomo indifeso, sparandogli alle spalle?
Cosa di più radicale?
Nessuna discussione, nessuna trattativa, lo si ammazza e basta.
La Mafia non vi rinuncia neppure quando uccidere può crearle problemi di sicurezza e di segretezza: uccidere è la sua arma fondamentale. Il suo, uno Stato che non rinuncerà MAI alla pena di morte.
Enzo Biagi, nel corso di una intervista, aveva chiesto a Tommaso Buscetta, che conosceva bene i due mondi, se vi fosse differenza tra Cosa Nostra siciliana e Cosa Nostra di oltreoceano e Buscetta aveva risposto:
“Nessuna. Il giuramento, le abitudini, le gerarchie sono le stesse.  Diverso è il carattere etnico. Un ragazzo che è cresciuto negli Stati Uniti non può pensare alla stessa maniera di uno che non si è mai mosso da Belmonte Mezzago. Sono due mentalità differenti e, quindi, due maniere di pensare dissimili.”
Alla domanda di Biagi:
“È vero che quando la Mafia vuole fare fuori qualcuno ci riesce sempre?”,
la risposta di Buscetta era stata:
“Vi riesce sempre, ma non ha premura. È questo che gli organi dello Stato non hanno capito, che la Mafia è un agente che non assomiglia a nessun bandito del mondo. La Mafia, Cosa Nostra è unica, nessuno riesce a imitarla. La Mafia aspetta, la Mafia non ha premura.”
Nel raccontare le sue imprese, Giovanni Brusca ripeteva di fare “le cose con calma. Non avevo fretta e quindi rimandai l’uccisione di Ignazio Salvo”, che poté, così, ricevere Giulio Andreotti all’Hotel Zagarella di Santa Flavia.
La cultura mafiosa, la sua tradizione mafiosa hanno il fascino di legare l’istinto e la sua casualità alla ragione, di trovare il modus vivendi in un mondo rimasto arcaico.
MAI, all’origine di una vocazione mafiosa, vi è un principio morale, una scelta di campo etica.
Vi è, SEMPRE, un torto subito, una vendetta familiare.
La Mafia ammette e ostenta ciò che gli altri, i legali, debbono negare.
I due poteri di ricattare e di uccidere esistono in quanto esiste il controllo del territorio, la chiudenda, il luogo dove agli altri il pascolo è negato.
Ecco perché la Mafia ne ha assoluto bisogno.
Il territorio conserva una importanza animalesca, marcato con i suoi odori e i suoi segni.
Tutti devono sapere che è suo.
Al momento della cattura, Totò Riina aveva sessantatre anni, in tasca 500mila lire, qualche spicciolo, una scatola di pasticche per il mal di gola e, nel portafoglio, la foto della moglie Ninetta Bagarella.
Chi aveva irriso di Riina contadino, ritratto nel giorno dell’arresto, la prima immagine aggiornata del capo dei capi di Cosa Nostra – quella precedente era una vecchia immagine in bianco e nero che ritraeva un giovane uomo – si sbagliava!
Riina avrebbe dato una impressionante prova che la Mafia è una “Cosa” seria con rigide regole e con profonde radici, come sosteneva Falcone.
Incidentalmente, quel 15 gennaio 1993 era il primo giorno a Palermo del nuovo procuratore antimafia, Giancarlo Caselli.
Un bel regalo di benvenuto dall’Arma!
La notizia della cattura venne data dal presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, al presidente del Consiglio, Giuliano Amato, proprio durante una seduta del Consiglio dei Ministri. Il ministro dell’interno, il democristiano Nicola Mancino, sembrò, particolarmente, soddisfatto.
“Ora speriamo che Riina parli. La guerra contro la Mafia non è finita.”,
commentò.
Lui, Riina, aveva, immediatamente, riaffermato il dogma dell’omertà mafiosa.
Belle le prime pagine dei quotidiani, il 16 gennaio 1993, di quelle da incorniciare!
Preso Riina, decapitata la Mafia
titolava il Corriere della Sera.
Preso Riina, Cosa Nostra decapitata
era la poco diversa apertura de La Stampa




 


Dopo 24 anni finiva la latitanza di Totò u curtu, per un blitz portato a termine dal Capitano Ultimo e dai suoi Uomini del Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri. 
 

Riina era convinto di poter tornare in libertà, di potersi stabilire come libero cittadino o come libero latitante nella sua proprietà a Corleone.
Spiegare la Mafia come una organizzazione di malavitosi è riduttivo; i suoi doveri, i suoi fini sono diversi da quelli della società capitalistica, non delinque solo per arricchire, ma per avere e mantenere il potere arcaico di vita e di morte.
La Mafia è una Società Segreta, non una Società per Azioni!
I tangentisti, una volta accusati, arrestati non resistono più di dieci giorni, confessano, denunciano.
I mafiosi non parlano!
È questa diversità e separatezza, questa fedeltà a un modello barbaro, misterioso, che conferma la forza della Mafia e la difficoltà di estirparla.
L’immaginario collettivo ha attribuito ai mafiosi delle mutazioni di fondo che non vi sono mai state. I mafiosi non hanno, mai, abbandonato la loro identità culturale e territoriale.
La prevenzione e la repressione statali si prestano a seri dubbi.
Se non si conoscono gli intrecci delle complicità certi fatti restano incomprensibili.
Platone diceva:
“Conoscere è ricordare.”
Nell’epoca in cui si porta al massimo sviluppo l’individualità, l’Uomo ha, fortemente, bisogno di una conoscenza che, per sua natura, spinga il pensiero verso il cuore e di là verso l’azione, che svegli il senso di appartenenza a innumerevoli Esseri e, quindi, a un comportamento armonico per la vita di quegli stessi Esseri.
Nel suo discorso alla Costituente del 1947, il cattolico Guido Gonella ne prendeva atto:
“Bisogna finirla con l’aver due Stati, uno legale e uno reale, uno scritto sulla carta e l’altro diverso, contraddittori, assenti nelle istituzioni. Lo Stato reale liberticida dà per primo l’esempio dell’inosservanza sistematica dei suoi impegni costituzionali.”
Oggi, la sconfitta di Mani Pulite e della Giustizia “giusta” conferma che lo Stato reale continua a prevalere.
Se la Giustizia oggi è al centro del dibattito politico, non è solo perché vi sono imprenditori potenti e politici influenti che difendono la loro impunità, ma anche perché è sempre più difficile adattare le leggi al capitalismo anarcoide e tenere a bada la potenza irresistibile del danaro.
Non si tratta di essere giustizialisti, ma di chiedersi che cosa riuscirà a tenere assieme questo Paese se per garantismo si intende la licenza di continuare nei falsi di bilancio, nella corruzione dei giudici e dei funzionari, nell’evasione delle tasse, nell’uso diffamatorio dell’informazione. 
 
RIDATE LA SCORTA AL COLONNELLO SERGIO DE CAPRIO! 

LA MAFIA ASPETTA, NON HA PREMURA…

Daniela Zini