“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

mercoledì 28 agosto 2019

[TRADUCTION FRANÇAISE] Lady Gaga - Always Remember Us This Way

martedì 27 agosto 2019

PARIS ETAIT UNE FEMME PARIS ETAIT MOI de Assunta Daniela Veruschka Zini




« Dans les histoires de mes livres qui se rapportent à mon enfance, je ne sais plus tout à coup ce que j’ai évité de dire, ce que j’ai dit, je crois avoir dit l’amour que l’on portait à notre mère mais je ne sais pas si j’ai dit la haine qu’on lui portait aussi et l’amour qu’on se portait les uns aux autres, et la haine aussi, terrible, dans cette histoire commune de ruine et de mort qui était celle de cette famille dans tous les cas, dans celui de l’amour comme dans celui de la haine et qui échappe encore à tout mon entendement, qui m’est encore inaccessible, cachée au plus profond de ma chair, aveugle comme un nouveau-né au premier jour. Elle est le lieu au seuil de quoi le silence commence. Ce qui s’y passe c’est justement le silence, ce lent travail pour toute ma vie. Je suis encore là, devant ces enfants possédés, à la même distance du mystère. Je n’ai jamais écrit, croyant le faire, je n’ai jamais aimé croyant aimer, je n’ai jamais rien fait qu’attendre devant la porte fermée. »
Marguerite Duras, L’Amant

A dix-huit ans, rien derrière et tout devant, je quittais mon Pays, bien décidée à empoigner la vie…
Le coeur léger et le bagage mince, j'étais certaine de conquérir Paris…
Il est étrange au fond de fréquenter longuement un Auteur sans jamais se résoudre à lire ce qui est peut-être son livre le plus célèbre, son oeuvre la plus emblématique.
Il est venu un moment, donc, où il me fallait lire L’Amant. Et me trouver bouleversée à sa lecture. Bouleversée parce que l’écriture de Marguerite Duras n’a peut-être jamais été si frémissante, si émouvante, si fluide et musicale - et je dirais aussi, si je ne craignais, encore, de prêter à malentendu, si sensuelle. Bouleversée parce que le visage sur lequel s’ouvre L’Amant de Marguerite Duras n’est pas celui, si lisse et littéralement sans histoire, de Jane March, mais le visage, « dévasté », d’une vieille femme. Une vieille femme qui se souvient, revisite les images de son passé et s’arrête, longuement, sur certaines d’entre elles.


Je cherche le mot juste, mais je ne le trouve pas. Il y a longtemps que je cherche. Au début, je l’ai cherché en allemand, puis je me suis dit : assez, je ne le trouverai jamais, cette langue ne me servira pas, j’y nagerai dans les approximations romantiques et les euphémismes. Mais la langue française, en revanche, me paraissait si précise, trop précise même pour moi qui étais dans le vague.
Et pourtant il devrait bien exister ce mot, un mot précis, solide, acéré.
On dit qu’au siècle prochain, quand l’espérance de Vie sera de cent cinquante ans, on oubliera non seulement le nom de ses grands-parents, mais aussi de ses parents.
Si j’ai connu un jour le mot que je cherche, comment ai-je bien pu le perdre ?
Je me suis beaucoup déplacée.
Ma Vie, telle la Gaule de Jules César – même si nos préoccupations ne sont pas identiques – est divisée en trois parties. Mais si Jules César – ne croyez pas, mon Général, que j’aie l’audace de me comparer a Vous. Il ne manquerait que cela ! – s’occupa de l’espace, moi, qui écris ces lignes, j’ai été toute ma Vie préoccupée par le temps, qu’on ne saurait ni acheter, ni dérober, ni falsifier.
Il se peut donc que je l’aie connu et perdu en cours de route, ce mot qui me manque et qui devrait désigner un sentiment précis, précieux, semblable à une flamme, basse chez les uns, haute chez les autres.
Une flamme qui s’est maintenue pendant des millénaires, se moquant des tempêtes, des orages et des guerres.
Une flamme intrépide, belle, toujours à mesure humaine.
Or voici que soudain vient la découverte.
Oui, le mot juste, celui que je cherchais au commencement, il est venu à moi.
Et c’est NECESSITE.
La NECESSITE, Vous dis-je, le besoin que deux Etres ont souvent l’Un de l’Autre, même s’il n’y a sans doute jamais de totale égalité.
Une NECESSITE présente, pressante et solide comme le besoin de tendresse, de chaleur et de larmes.
Une NECESSITE profondément inscrite dans le secret des confessions, des silences, peut-être même de la volupté.
NECESSITE sous-tendue par une force créatrice, NECESSITE d’aimer et d’être aimé.
NECESSITE, dont, ici, je me réclame.

Il m’est arrivé, à divers moments de ma Vie, d’esquisser mes souvenirs, mais lorsque je parlai de moi, je ne me sentais pas tout à fait à l’aise, un peu comme si je voulais imposer à mon lecteur un personnage importun. Ma pensée vit à la fois dans le passé comme mémoire et dans le présent comme conscience de soi aux prises avec le temps. Quant au futur, il n’y en aura pas forcément un, ou peut-être sera-t-il bref et anodin.
Dans mon esprit, l’histoire de ma Vie a un début, un milieu et une fin.
On peut vivre pour l’Au-delà, pour les générations à venir ou dans le présent : personnellement, j’ai très tôt opté pour la féroce immanence, comme l’appelle Herzen.
Je me suis efforcée de rechercher le sens de la Vie, sans idée préconçue.
Je n’ai jamais été capable d’observer Autrui de façon aussi attentive et approfondie que moi-même. J’ai parfois essayé de le faire, surtout dans ma jeunesse, mais cela ne m’a guère réussi.  Il y a des gens qui en sont peut-être capables, mais je n’en ai pas connu. Toujours est-il que je n’ai jamais trouvé quelqu’un qui sache voir en moi plus loin que moi-même. La connaissance de soi a été une donnée constante de ma Vie, mais je ne saurai dire quand l’idée m’en est venue. Je me souviens très bien, par contre, quand j’ai su pour la première fois que la Terre était ronde, que toutes les grandes personnes avaient un jour été ENFANTS, que Lincoln avait libéré les Noirs. Pour autant que je m’en souvienne, j’ai toujours cherché à me connaître, de façon différente, bien sur, suivant mon âge. Tantôt cette préoccupation se mettait en veilleuse et ne survivait en moi que de manière confuse, comme entre mes vingt et trente ans, tantôt elle me guidait de façon ferme et claire, comme dans ma petite enfance et après la trentaine. Elle reste en moi plus forte et plus pressante que jamais.
Chacun a ses secrets.
Certains les traînent tout au long de leur Vie comme un fardeau, d’autres les chérissent et les conservent avec soin, comme une source de Vie jaillissante où ils puisent leurs forces vives jusqu’à la fin. Pour moi, ces secrets forment le trait d’union entre mon passé et mon présent. Je ne suis de ceux qui traînent derrière eux un poids mort qui les accable. Ce que j’ai jugé de garder, je l’ai laissé vivre et s’épanouir en moi. J’ai l’impression d’avoir su tirer de tous les embrouillaminis de la Vie, peu importait que cela fût gai ou triste. Si le prix a parfois été exorbitant, c’était là sans doute le prix qu’exigeait la Vie. Celui qui a peur de payer trop cher meurt à soi-même.
Je n’ai jamais senti d’hiatus entre moi et le Monde, ce dont j’ai pris conscience il y a une trentaine d’année déjà, à une époque où je ne soupçonnais même pas l’existence d’une identité de nature entre l’homme et la pierre, entre la matière organique et inorganique. L’énergie que je sens en moi comme une onde de chaleur qui me traverse quand je prononce le mot « JE » ne peut se dissocier de la totalité de l’énergie cosmique. Moi aussi, je suis une partie de l’Univers et parfois c’est celle-ci que je perçois plus intensément que le tout. Je me rends compte que j’ai reçu ce potentiel d’énergie à la naissance, un potentiel étonnamment puissant vu ma santé, ma personnalité et la faculté que j’ai gardée jusqu’à ce jour de me transformer. Mais je sais que l’instant même où il sera épuisé, ce sera fini.
J’ai voulu me connaître et aussi me transformer.
Apres avoir pris la mesure de moi-même, je voulais me libérer, atteindre un équilibre intérieur, trouver des réponses aux questions posées, défaire des noeuds et ramener le dessin confus et morcelé à quelques lignes simples. Je voulais parvenir à un état stable, dépasser le désordre émotionnel de la jeunesse, les jeux intellectuels, le mal du siècle qui s’éternise et les angoisses de la créature tremblante du XX siècle : plus de peurs, ni de superstitions, ni d’incertitudes, ni d’engouements passagers. Il fallait éliminer ces obsessions dont on n’a plus aucune chance de se libérer quand vient la vieillesse.
Tout cela doit paraître terriblement sérieux. Peut-être le lecteur a-t-il déjà devant les yeux l’image d’un visage sévère avec des lunettes, un dentier, des cheveux raides et grisonnants, et d’un stylo ennuyeux, ventru, intarissable que tient une main arthritique et sillonnée de veines bleues.
Ce portrait est inexact, mais ce n’est pas à moi de juger de mon aspect.
Je sais seulement que le front est devenu ferme et l’ovale du visage avec ses zones d’ombre exprime une Vie infiniment plus intense que sur mes photographies de jeunesse.
L’idée d’un Au-delà ne m’intéresse guère. Elle s’apparente un peu, à mes yeux, à l’opium du peuple, on l’exploite comme le gaz ou le pétrole. Dès l’instant où elle surgit, je suis sur mes gardes, elle n’apporte que de fausses vérités et des réponses faciles, mieux vaut s’en méfier.
Tout ce qui est grand dans le Christianisme, qui est l’un des éléments constitutifs de notre civilisation, se retrouve dans les autres religions.
Toujours et partout on a tué Dieu pour s’en nourrir.
Ni les Actes des Apôtres, ni l’Apocalypse, ni l’Eglise n’ont réussi à briser les chaînes de l’esclavage, le Nouveau Testament n’a pas soufflé mot de la désolation qui se lit dans le regard des ANIMAUX.
Vingt siècles après les Béatitudes, les hommes continuent à se moquer des bossus, des anormaux, des impuissants, des homosexuels, des maris trompés et des vieilles filles.
Le Christianisme, tout en libérant les hommes spirituellement, n’a pas réussi à les libérer socialement.
Le siècle qui m’a vue naître et grandir était le seul à pouvoir me convenir.
Je sais bien que beaucoup en jugent autrement.
Je ne parle pas ici du bien-être matériel ou du bonheur de vivre dans son propre pays, mais de quelque chose de plus essentiel.
Femme italienne, où et quand aurais-je pu être plus heureuse ?
Au XIX siècle avec les mamans et les demoiselles de la bourgeoisie naissante ou les pédantes championnes du Féminisme ?
Au XVIII siècle, ou à une époque encore plus lointaine lorsque, dans toute l’Europe, jeunes et vieux passaient leur temps à dormir, manger et prier ?
Tout était déjà en place quand je suis arrivée. Autour de moi s’étalaient des trésors, il n’y avait qu’à les ramasser.
Je vis au milieu d’un invraisemblable et indescriptible foisonnement de questions et de réponses et pour être tout à fait franche, les malheurs de mon siècle m’ont plutôt servi.
Je suis heureuse que les énigmes de ma jeunesse aient été élucidées.
Je ne fais jamais semblant d’être plus intelligente, plus belle, plus jeune, ni meilleure que je ne suis.
Je choisis mes Amis.
Je suis libre de vivre où et comme je veux, de lire, de penser ce que je veux, d’écouter qui je veux.
Je suis libre dans les rues des grandes villes lorsque, perdue dans la foule, je déambule sans but sous une pluie battant en marmonnant des vers, quand je me promène au bord de la mer dans une solitude bienheureuse, bercée par la Musique intérieure, quand je referme derrière moi la porte de ma chambre.  

Assunta Daniela Veruschka  Zini
Rome, le 13 décembre 2007
Copyright © 2013 ADZ


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mercoledì 14 agosto 2019

NEI SECOLI FEDELE! LETTERA APERTA AL CAPO DELLO STATO MATTARELLA E AL CAPO DEL GOVERNO CONTE di Daniela Zini



Che lo strumento delle petizioni on-line sia inflazionato è indubbio, e, purtroppo, questo danneggia, spesso, le stesse petizioni.
Il fastidio verso il numero eccessivo di petizioni on-line è molto sentito sulla Rete e contribuisce ad alimentare il pregiudizio sulla loro inutilità e sulla vacuità del cosiddetto click activism, quel presunto attivismo di chi si limita a fare click per sentirsi un individuo civilmente impegnato e partecipe.
Io per prima NON sono la fan numero 1 delle petizioni on-line, soprattutto, per l’invasività che possono raggiungere e per il costante dubbio che possano venire strumentalizzate.
In tempi, in cui il potere democratico dei semplici cittadini è estremamente limitato, le petizioni e altre forme di apparente Democrazia diretta possono dare a molti la sensazione di poter contare qualcosa.
Ma le petizioni on-line e la Democrazia partecipata servono…
E se servono!
Se non vi fossero state le petizioni on-line e la mobilitazione di blogs e di forums… noi oggi avremmo ACTA, SOPA, PIPA e CISPA … e le leggi in stile cinese, sfornate dai soliti politici censori…
Voglio ancora credere, nonostante tutto, che possano essere un buon mezzo per esprimere una opinione comune.
L’uomo del Novecento era meno protetto, meno ricco, meno forte, meno in salute rispetto a noi.
La durata della vita, la lotta contro il dolore, l’igiene media, l’alfabetizzazione, le comodità, i trasporti, il sostentamento sono tutti a nostro vantaggio; ma siamo più deboli nel sopportare il tempo, la vecchiaia e la morte, abbiamo trascurato, considerandole minori e sorpassate, le consolazioni per queste umane sventure.
E, poiché sappiamo sempre meno distinguere i doveri etici dai nostri interessi, poiché i valori vanno restringendosi fino a ridursi a quello del danaro, diveniamo Esseri a una sola dimensione, abbiamo perso interesse per la Vita, vista come qualcosa che non sappiamo trasformare in affare.


LETTERA APERTA
Nei secoli fedele!

 AL CAPO DELLO STATO SERGIO MATTARELLA
E
 AL CAPO DEL GOVERNO GIUSEPPE CONTE

Perché Vi scrivo, Signori Capo dello Stato e Capo del Governo?
Perché io sono di quelli che accorda importanza alla necessità di vedere i problemi dell’Italia, risolti dagli Italiani.
È per questo che ho scelto di restare nel mio Paese e, ogni volta, che me ne è stata data l’occasione, non ho, mai, mancato di portare il mio, seppure modesto, franco e leale contributo alla sua elevazione.
Questa opzione non è sinonimo di rassegnazione, trova il suo fondamento nell’amore, nel profondo attaccamento al mio Paese e nell’adesione al modello di Società, che la Costituzione propone al Popolo Italiano.
Io sono convinta, come molti altri Italiani, che nessuna Società possa vivere senza un ideale che la ispiri, né una conoscenza chiara dei principi che la guidino.
Ho notato che i periodi di grande civiltà sono, proprio, quelli in cui queste due condizioni sono, intimamente, riunite.
Gli Italiani provano un bisogno legittimo di comprendere.
Gli Italiani vogliono sapere secondo quali principi siano governati e verso quale avvenire si avviino.
Permettetemi, dunque, di fare uso di quella libertà democratica – che impegna tutte le forze vive del Paese, pubbliche e private, civili e militari, laiche e religiose – rivolgendomi, direttamente, a Voi, Signori Capo dello Stato e Capo del Governo.
Le riflessioni che seguono non sono né satira né processo e, poiché hanno carattere pubblico, ho ritenuto di dare alla presente la diffusione che merita. Sono, molto semplicemente, il risultato della mia preoccupazione quotidiana, degli interrogativi che ne conseguono.
Ragione per cui, preferisco optare per un linguaggio scevro da ogni ipocrisia e da ogni lusinga.
La Democrazia è una cosa che non si impone, è una pianta libera che cresce sui terreni fertili, nell’aria salubre.
Non mette radici sulle barricate.
Vi è, immediatamente, calpestata ai piedi del vincitore, quale che sia.
Le idee sono più potenti delle baionette.
Noi lo sappiamo, adesso!

L’ideologia rende sordi e ciechi.
Rifiuta di ascoltare ciò che non entra nel suo universo settario.
Gli uomini sono, in larga parte, sordi e ciechi ai problemi del mondo; fintanto che non cadono sulle loro teste, non se ne preoccupano. Non vedono neppure che hanno una incidenza diretta sulla loro vita.
In quanto entità sociale, il Popolo è inevitabilmente diviso, marcato dall’interdipendenza delle funzioni socio-economiche; gli interessi delle sue parti non sono gli stessi. Ciò non toglie che abbia interessi comuni, quali il bene pubblico, l’interesse generale, la solidarietà, il vivere bene insieme nella prosperità, la sicurezza e la pace.
È la Democrazia, in quanto struttura di espressione e di conciliazione, che fa emergere le finalità comuni, il progetto di Società.
La Democrazia non è una esigenza che noi dovremmo attenderci dalla Società o dallo Stato; è, innanzitutto, una esigenza interiore.
E io voglio credere che questo Paese conti ancora uomini sensati, che provino dolore e sconcerto nel vedere dei banditi ammantarsi del suo nome.
L’unità politica nel pluralismo non è un multiculturalismo di coesistenza, di coabitazione di comunità separate alla salsa anglosassone. Non è neppure l’assimilazione delle sottoculture alla salsa leghista, né l’integrazione alla moda socio-liberale.
L’unità politica vuole che tutti cooperino in relazione, contribuiscano al bene comune sulla base di leggi comuni, di principi comuni: neutralità dello Stato e laicità, risoluzione dei conflitti attraverso la discussione e la mediazione, ricerca della giustizia, interesse generale, mutuo rispetto, osservanza della legge “veramente democraticamente” elaborata.
Ne siamo molto lontani!

Da tre settimane, le Forze dell’Ordine sono al centro di un dibattito per un evento doloroso e sconvolgente che non ha lasciato nessuno indifferente: l’omicidio del Carabiniere Mario Cerciello Rega, nella notte tra il 25 e il 26 luglio, a Roma.
Al di là degli interrogativi e delle polemiche, al di là della speculazione politica, resta una vita perduta…
Una assenza che non potrà essere colmata…
Collera, recriminazione, risentimento, amarezza, avverto intorno a me.
Non è l’oggetto di questa lettera aperta.
E neppure sostenere gli Uomini e le Donne delle Forze dell’Ordine in quanto istituzione è l’oggetto di questa lettera aperta.
Oggi, particolarmente, io vorrei posare il mio sguardo sugli Uomini e sulle Donne che sono dietro la loro funzione.
Quegli Uomini e quelle Donne che indossano il loro giubbotto antiproiettile, ogni mattina.
Quegli Uomini e quelle Donne che posano le loro manette sul tavolo dell’ingresso, come noi lasciamo le nostre chiavi.
Quegli Uomini e quelle Donne che abbiamo conosciuto alle elementari, di cui siamo stati compagni al liceo o che abbiamo incrociato nelle aule di università.
Quegli Uomini e quelle Donne con i quali condividiamo una serata e, talvolta, anche una parte della nostra vita.
Quegli Uomini e quelle Donne non si sono allontanati da noi che per una scelta professionale. 
Quegli Uomini e quelle Donne vivono situazioni per noi inimmaginabili… e il loro quotidiano ci è, sovente, oscuro, tanto è anni luce distante dal nostro.
E così nel sentire che un carabiniere o un poliziotto sono stati uccisi, dimentichiamo che sono Esseri Umani a indossare l’uniforme.
Dimentichiamo che 1 + 1 non fa che una somma di 2 individui distinti con un punto in comune: avere poteri e doveri che noi non avremo mai.
E, di certo, per nostra grande fortuna, tanto sono gravosi da gestire. 
Tenere un’arma e scegliere di servirsene o no…
Essere bersagli permanenti…
Intervenire…
Quegli Uomini e quelle Donne che, nonostante gli insulti e i biasimi, gli scherni e gli sputi, rispondono, sempre, quando chiamiamo il 112.
Le situazioni di pericolo sono onnipresenti nel lavoro degli Uomini e delle Donne delle Forze dell’Ordine: rischiano di essere aggrediti durante gli arresti; assistono a scene di violenza; sono, talvolta, obbligati a utilizzare la forza o, ancora, a guidare ad alta velocità per rispondere a una chiamata urgente o inseguire un malvivente.
Anche quando sono di sorveglianza, sono in stato di allerta.
Interventi di routine apparentemente molto banali possono degenerare in situazioni drammatiche.
Gli Uomini e le Donne delle Forze dell’Ordine sono confrontati a situazioni estreme, brevi, che esigono una azione immediata e non lasciano che pochi secondi di riflessione.
Gli Uomini e le Donne delle Forze dell’Ordine sono chiamati laddove vi è pericolo.
Davanti a una minaccia, devono assicurare la loro sopravvivenza, quella dei loro colleghi e di chi è sotto la loro protezione.

Come essere un buon cittadino?
Come rendersi utile alla Società?
Come fare per fare del proprio Paese un Paese migliore in cui vivere?
Ogni Paese è retto da leggi che fissano ciò che si può fare, ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Ai diritti, infatti, si accompagnano dei doveri – a esempio, il diritto di libertà religiosa sancisce il dovere di rispettare la fede altrui – e, in eguale misura, ai diritti si accompagnano delle responsabilità verso l’insieme della comunità, a esempio, il diritto ai servizi sociali impone che si debbano pagare imposte che li finanzino. 
Conoscere la legge è responsabilità di ciascuno.
Conoscere i propri diritti permette di prendere il proprio destino in mano.
In Italia, vi è una sola Carta Costituzionale che si applica in tutto il Paese. Definisce e garantisce i diritti fondamentali della persona, ma nessuno di questi diritti fondamentali è assoluto. I diritti fondamentali non possono servire a compromettere i diritti fondamentali altrui.
In Italia, tutte le leggi sono rese pubbliche. Non vi sono leggi segrete. Se si infrange una legge, non è una difesa pretendere di non conoscere la legge che si è infranta.
Perché noi Italiani sentiamo il diritto-dovere di denunciare gli abusi di cui siamo vittima?
Perché noi Italiani crediamo fortemente nel primato del diritto e nell’eguaglianza. Noi Italiani rispettiamo le decisioni democratiche, le leggi e le politiche anche se non le condividiamo. E, come Italiani, abbiamo la responsabilità di sostenere la carta dei diritti, che significa difendere i nostri diritti e proteggere i diritti altrui.
Vi è anche una ragione pratica che ci induce a rispettare la legge. Quando il governo adotta leggi o programmi, cui noi assentiamo totalmente, noi vogliamo che anche gli Altri vi si conformino, anche se non li condividono. Se noi non rispettassimo che le leggi o i programmi che ci convengono, la nostra Società sarebbe, sempre, nel caos. Naturalmente, se noi dissentiamo da una legge o da un programma di governo particolare, noi abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per cambiarli, attraverso un processo democratico.
Ma il primato del diritto ha anche un altro significato. Quale che sia il nostro status nella Società, tutti, indistintamente, dobbiamo osservare le stesse leggi. Operai, imprenditori, impiegati, quadri, magistrati, politici, dobbiamo osservare la legge, come ogni altro cittadino italiano o di altra nazionalità.
Noi diamo ai nostri rappresentanti eletti il potere diretto di stabilire le leggi della nostra Società. Diversamente da altre Società, i nostri rappresentanti restano, sempre, responsabili di fronte a noi Italiani.
La responsabilità comporta, innanzitutto, che i nostri rappresentanti eletti debbano renderci conto delle loro azioni. Durante le campagne elettorali, i nostri rappresentanti eletti debbono, infatti, spiegare e giustificare le loro azioni, se vogliono che noi li rieleggiamo. Secondariamente, come cittadini, noi abbiamo il diritto di partecipare alla Democrazia, lavorando per incidere, in modo significativo, nell’elaborazione delle leggi e dei programmi di governo.
I cittadini debbono poter fare molto più che andare, semplicemente, a votare alle elezioni ogni quattro o cinque anni.

Io ho l’impressione che l’Italia non si dia, sempre, i mezzi sufficienti per mettere in opera un arsenale giuridico relativamente completo, che offra un alto livello di protezione in materia di tutela dei diritti.
Sembra così sussistere, in certi campi, un fossato che può rivelarsi molto largo tra ciò che enunciano i testi e la pratica.
Che cosa resta della giustizia degli uomini, se un atto - rilevante giuridicamente - non tanto non sia esistito, quanto non porti avanti la serie dei suoi effetti?
Questo per il diritto vuol dire la negazione: se al diritto si toglie la prevedibilità sicura di una serie di effetti, necessariamente innescati da un fatto o – ancor più – da un atto, se ne nega la stessa struttura, lo stesso metodo, quale supporto necessario di efficacia o – a un altro livello – di credibilità.
Se ne potrebbe dedurre che ogni fede nella giustizia umana sia vana…
Quanto, poi, alla Giustizia divina superiore e giusta ha i suoi tempi!
Non a caso una delle principali obiezioni laiche al Cristianesimo è l’“ingiustizia del mondo”.
Naturalmente, tutti i nostri diritti non possono essere garantiti dalla legge.
Regole fondamentali che concernono il rispetto degli Altri debbono, egualmente, essere un modo di vita per ognuno di noi. Anche quando i nostri diritti sono garantiti dalla legge, la legge sola non è sufficiente a proteggerli. Perché la Giustizia trionfi, tutti noi cittadini dobbiamo prendere un impegno personale verso i  valori democratici e metterli in pratica attivamente nella nostra vita quotidiana. Senza questo impegno, la legge che “garantisce” i nostri diritti perderebbe il suo spirito democratico.  
La vitalità della Giustizia in Italia dipende dall’impegno di tutti noi Italiani verso i valori democratici che noi condividiamo.  
La giustizia, quella umana, naturalmente, è molto FLOU.
L'Italia è un Paese “garantista”, si sa!
Perdonare sempre e comunque?
Nell’animo, sì, è doveroso non conservare rancore verso chiunque, ma è opportuno operare dei “DISTINGUO”.
Se non si pone un limite, che duri nel tempo, si rischia di perdere di vista ciò che è BENE e ciò che è MALE.
Con un “ATTEGGIAMENTO BUONISTA”, in pratica, è come dire:
“Fai pure, tanto per me va bene!”
Un lasciapassare, un assecondare comportamenti “NON ORTODOSSI”, in nome di un “BUONISMO” di maniera, che rischia di perpetuarsi.
È uno strano Paese questo Paese, che non estingue i “DOVERI” di un MORTO, ma ne estingue i DIRITTI!

Io, a volte, ho l’impressione di vivere ai margini della Società, da quando ho denunciato illeciti.
E ne ho pagato un prezzo altissimo.
Chi viene, direttamente, leso dalla commissione di un reato, patisce conseguenze anche in termini di pregiudizio fisico, patrimoniale e psicologico.
È orribile da vivere e ha distrutto la mia vita!
Come stupirsi, dunque, che vi sia così poca fiducia nella Giustizia?
Vorrei dire a chiunque di pensarvi due volte prima di farlo.
La tendenza è di archiviare, spesso de plano, senza svolgere alcun atto di indagine.
Ma, allo stesso tempo, SÌ, lo rifarei.
Perché vi sono cose inaccettabili nella vita, che si deve essere capaci di denunciare, per impedire che accadano ancora… ancora… e ancora…
L’aiuto e la vicinanza degli Uomini e delle Donne della Polizia di Stato sono stati determinanti nell’affrontare e nel gestire la mia vicenda personale.
Il loro operato è stato encomiabile e la mia gratitudine sarà imperitura.

Lo Stato Italiano si costituisca parte civile nel processo penale, lo deve a Rosa Maria, la giovane Vedova, e alla Famiglia Cerciello Rega, ma soprattutto lo deve a Mario, nei secoli fedele!




Roma, 14 agosto 2019

Daniela Zini