GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 – δεκαετία 390 ή 430]
Simon Wiesenthal [1908-2005]
di
Daniela Zini
GENOCIDIO
I. L’OLOCAUSTO DI UN ANTICO E FIERO POPOLO: GLI AMERINDI
di Daniela Zini
GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
1. HOLOCAUST
di Daniela Zini
GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
2. LA RISIERA DI SAN SABBA
di Daniela Zini
“Que le XXIe ne soit plus,
comme ce siècle
qui s’achève, le temps des
Etats criminels!”
à
mon Ange Gardien
Pour toujours et à jamais!
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì
rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015,
anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del
centenario
“dei genocidi armeno e assiro-caldeo e dei 40 anni della
presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di
cambogiani da parte dei Khmer Rossi – chi ha tentato di
analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente
alla lancinante domanda:
Perché?”
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese,
esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il
Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in
meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di
un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di
inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le
responsabilità dell’ONU nel genocidio
per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio,
anche l’Organizzazione per l’Unità Africana
[OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e
Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio
e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla
pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione
incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990,
quando i ribelli dell’FPR lanciarono
i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini
misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e
nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo
Dallaire,
comandante del contingente ONU UNAMIR,
in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di
pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano
la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del
presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire
aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati
regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i
rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.
La potenza più presente, dunque, la più
influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti d’America,
che avevano formato, nel 1990, il Fronte
Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili
del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto,
perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993,
e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di
rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione
delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come
mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto
accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la
Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale
dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della
competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto
internazionale”: la
pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali
infrazioni.
Il carattere “impensabile” degli orrori
del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.
“Nuovi concetti
richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una
Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per
descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla
parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e
corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”,
e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa, necessariamente,
l’immediata distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato
eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come
un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione
delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di
annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la
disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del
linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture
economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della
sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della
stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è
contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli
individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis
Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79
Vi era, infatti, il bisogno immediato di
concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”,
coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel
suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa
occupata], scritto all’ombra
dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare
interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il Processo di Norimberga e nei
dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin
alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva
che “in base
alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile
condanna” e approvava la Risoluzione
96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla
vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano
stati distrutti in tutto o in parte”.
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno
degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)
uccisione di membri del
gruppo;
b)
lesioni
gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)
il fatto di sottoporre
deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua
distruzione fisica, totale o parziale;
d)
misure miranti a impedire
nascite all’interno del gruppo;
e)
trasferimento forzato di
fanciulli da un gruppo a un altro.
Su insistenza russa e del blocco
sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che
mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva –
“di caratteri
distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare
nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo
generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali
gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere
stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione
di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento
psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo
caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed
eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico,
che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il
programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un
altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo
sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza
occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon
fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di
distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo
obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni
che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità
individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la
vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del
resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che
sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne
un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione
della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter
rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte
sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata.
Parimenti, quando vengono identificati i leaders
o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di
vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare
luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica
associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire
alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere
provata.
Un genocidio può essere compiuto senza
riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è
imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano
costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati
perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che
costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla
responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”
[Principi di Norimberga]
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti
principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha
pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza
Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale
Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha
pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per
fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4].
Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di
Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un
crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità.
La Comunità Internazionale è la sola in
diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si
deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i
massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e non si potrà essere sicuri di rimuovere una
minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle
vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà
complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una
forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda,
nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel
Timor Occidentale, era reale. Le milizie
massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una
forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò
un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito
serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica,
si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati
e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere
un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta,
pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi
tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo
decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un
genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di
intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare
la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan
Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe
permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe
funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito
a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati
istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni,
di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori
sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi
permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton,
a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo
sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono,
in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi
giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i
due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio
degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per
ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere
in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo
Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto
naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione
interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica
soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire
dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura
politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò,
puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella
forma precaria che aveva, allora, la Società
delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo
del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece,
un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla
fine del XVIII secolo, la Russia si era
data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di
intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto
di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente,
utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895
e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva
quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento
dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che
prese il potere, nel 1908. A
dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò,
rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al
fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione
di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli
armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di
tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale
Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il
crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro
strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra
che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano
divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che
congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli
interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna
possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la
condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton.
Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la
Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa,
alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare
un processo di prevenzione.
“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca
tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato
del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola
7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente
della religione cristiana e delle sue chiese.”
La prevenzione più efficace sarebbe la più
precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti
per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non
prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare
prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle
violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti
umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il
fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza
internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli
dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da
pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri
fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi,
annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale,
di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di
amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di
colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono
stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla
religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero
i Popoli cosiddetti selvaggi e
inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene
considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia
ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari,
slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani,
burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che
questo crimine sia endemico.
Sul continente americano, nell’America Centrale
e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non
essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare
queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse
immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere
per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare
lo spazio collettivo.
Non è una pratica compassionevole, ma un
atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!
II.
LA SHOAH
per
ricordare la vergogna dell’uomo
“Al
vincitore nessuno
chiederà mai conto
di quello che ha fatto.”
Adolf
Hitler
3. ANTISEMITISMO
IN GERMANIA
“Dove
il soldato tedesco mette piede, là resta!”
Adolf
Hitler
“Il segno più caratteristico del rapporto tra
gli ebrei e la cultura umana sta nel fatto che una cultura ebraica ebraica non
è mai esistita e che le due regine dell’arte, architettura e musica, non devono
niente di originale all’ebraismo. Ciò che l’ebreo produce in campo artistico è
o furto o paradosso. Gli mancano le qualità geniali delle razze dotate di
valori.”
Adolf Hitler
Monaco, 10
marzo 1933. L’avvocato ebreo Michael Siegel,
costretto a marciare in strada, da un drappello di SS, a piedi scalzi, testa rasata, senza pantaloni e con un cartello
dalla scritta:
“Non mi lamenterò più con la polizia.”
Un
giorno qualcuno chiese a Adolf Hitler di riassumere, in poche parole, il piano
generale di Mein Kampf. Hitler rifletté, un istante, poi, rispose
senza esitazione:
“Cancellare il 1789 dalla Storia.”
“Verrà un giorno in cui sarà più grande onore
avere il titolo di cittadino del Reich in qualità di spazzino che essere re in
uno Stato straniero, e questo giorno verrà certamente, poiché, in un mondo come
il nostro, che permette la mescolanza delle razze, uno Stato che dedica tutti i
suoi sforzi allo sviluppo dei migliori elementi razziali deve fatalmente
diventare il padrone del mondo.”
Adolf Hitler
“La
povertà e la spietata realtà mi
forzarono
a decidere prontamente.”
Adolf Hitler
Non
era una boutade, ma un programma
coerente con le concezioni della razza, proprie del nazismo.
Concezioni
che ripudiano, insieme al materialismo, tutta una tradizione che, attraverso
Denis Diderot e gli enciclopedisti, ha animato la Rivoluzione Francese e la
borghesia rivoluzionaria nella conquista della libertà dell’uomo, dei suoi
diritti e della sua dignità.
Certo,
la Rivoluzione Francese non ha, nella pratica, assicurato la libertà a tutti i
cittadini, ma solo alla parte più intraprendente della Nazione.
Nei
suoi limiti di classe, ha indicato, tuttavia, un modello.
Hitler
non solo è contrario al marxismo, ma vede in ogni forma di pensiero moderno un
affronto alla sacralità dello Stato.
Monaco, 2 agosto 1914. Adolf
Hitler esulta, tra la folla in Odeonplatz, alla notizia
dello scoppio della prima guerra mondiale.
La
razza, il sangue e non la dignità umana, suggeleranno il patto sociale.
Il rapido
e violento della predicazione hitleriana si colloca in un preciso momento di crisi
delle istituzioni repubblicane. Ma il messaggio stesso che Hitler porta alle
masse brutalizzate dalla crisi, dalla disoccupazione, dalla paura del domani, è
un messaggio antico, che suscita echi nei cuori germanici.
Non è,
infatti, la prima volta che, nel corso della Storia, si parla di razze
superiori e inferiori, attribuendo alle prime il diritto di comandare, alle
altre il dovere di obbedire.
Molto
prima di Adolf Hitler e dei razzisti tedeschi e austriaci, altri avevano
dissertato tenacemente, con sfoggio di ampie argomentazioni pseudo-semantiche –
e non solo in Germania, ma anche in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti
e in Italia –, sui presunti diritti degli uomini superiori – razzisticamente e
socialmente intesi – di servirsi, liberamente, dei componenti delle razze e
delle classi inferiori, o più deboli sul piano militare, e così pure di
limitarne la espansione demografica.
Erano,
chiaramente, teorie che avevano la funzione di mascherare un sopruso materiale:
erano valse, infatti, a giustificare le conquiste coloniali, la tratta degli
schiavi di pelle nera o le condizioni di arretratezza in cui venivano mantenute
alcune zone della Terra, per consentire il ritmo di sviluppo europeo. Erano, per
l’appunto, dottrine eurocentriche, teorie di comodo per potenze imperialiste o
per governi impegnati in una oppressiva politica interna in particolari momenti
della organizzazione o della ristrutturazione dello Stato. I razzisti tedeschi
si rifacevano, stravolgendone il senso, ai Discorsi
alla Nazione tedesca di Johann Gottlieb Fichte, scritti e pronunciati in
pubblico, nell’inverno tra il 1807 e il 1808, quando ancora i francesi
occupavano la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena. Il filosofo tedesco,
continuatore del pensiero di Immanuel Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco,
per incitare i propri compatrioti alla resistenza contro le armate di
Napoleone, sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco, un popolo
“metafisicamente predestinato”, che ha il diritto morale di realizzare il suo
destino, con ogni mezzo, anche con l’inganno e la forza, popolo che è l’autocoscienza
di Dio. E dopo Fichte, ecco Georg Wilhelm Friedrich Hegel
affermare la legittimità del diritto tedesco, contro il quale “il genio degli altri popoli è senza diritto; e poiché la
loro era è determinata, essi non contano più nella Storia”.
Hegel giunge a parlare di una “missione storica” tedesca. Per lui lo spirito si
incarna nel popolo germanico; per Friedrich Wilhelm von Giesebrecht
“la Germania ha il diritto del dominio perché è una
Nazione di élite”. Più concretamente, Friedrich-Albert Lange si
chiede se la Germania non abbia, infine, “la missione di
castigare e di guarire le depravazioni dei popoli che la circondano”,
concetto che sarà ripreso, nel 1914, perfino da Thomas Mann, quando in polemica
con Romain Rolland, definirà la Francia “urna di tutti i
mali”, quella che porta alla Germania la peggiore lue del mondo;
la democrazia, il livellamento dei valoro intellettuali, l’ipocrisia di una
falsa libertà. Mann, “duce protestante dei conservatori”, come lo definì, nel
1920, Lavinia Mazzucchetti, non è un pangermanista ottuso, ma si dimostra, ancora,
convinto della supremazia germanica, perché in essa sarebbe operante una
qualità relativamente migliore delle classi dirigenti in confronto alle masse
impreparate. Le considerazioni di un apolitico non si discostano molto, nel
primo dopoguerra, in fondo, dalle fanatiche dichiarazioni nazionalistiche di
Adolf Hitler: anche Thomas Mann vuole preservare il popolo germanico dalle
degenerazioni latine, europee.
“L’abilità ricettiva delle grandi masse è solo
molto limitata, la loro comprensione è piccola; d’altro lato la loro
smemoratezza è grande. Essendo così, tutta la propaganda efficace deve essere
limitata a pochissimi punti che a loro volta dovrebbero essere usati come
slogan finché l’ultimo uomo sia capace di immaginare che cosa significhino tali
parole.”
Adolf Hitler
“Provai profonda ammirazione per il grande uomo
a Sud delle Alpi, che pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a
patti con il nemico interno all’Italia, ma volle annientarlo con ogni mezzo.
Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi della Terra è la decisione di
non spartirsi l’Italia con il marxismo, ma di salvare la sua Patria dal
marxismo distruggendolo.”
Adolf Hitler
Adolf Hitler [1924]
“Più
grande la menzogna più grandi
le
probabilità che venga creduta.”
Adolf
Hitler
Sappiamo
che il grande scrittore, dopo un cammino lungo e doloroso, approderà alle
posizioni antinaziste dei Moniti all’Europa.
Ma è
indubbio che, nel frattempo, il terreno era stato concimato.
“In
un mondo imbastardito e negrizzato sarebbero persi i concetti dell’umanamente
bello e sublime.”
Adolf
Hitler
Le
farneticazioni di un Richard Wagner che reagiva alle teorie darwiniane,
affermando che sì, “tutti gli uomini provengono dalle scimmie,
ma gli ariano-tedeschi, per la loro origine, si riallacciano direttamente agli
dei”; di un Julius Langbehn, che scriveva un libro per
dimostrare che tutti i grandi uomini della Terra furono e saranno sempre e solo
di razza tedesca, anche se nati in Paesi lontanissimi dal sacro suolo; di un
Ludwig Woltmann che scopriva che i più grandi uomini italiani e francesi
sarebbero stati, in realtà, dei tedeschi camuffati: Dante Alighieri si sarebbe
chiamato Aigler o Aldighier; Giotto, Jothe; Michelangelo Buonarroti, Bohnradt;
Leonardo da Vinci, Wincke; Tasso, Dasso; Giuseppe Garibaldi, Kupoldt… tutte
queste stravaganti prove di nazionalismo accese non sono che il versante più
pittoresco di quanto affermava l’economista Friedrich List:
“Senza alcun dubbio la Germania è stata designata dalla
Provvidenza a risolvere un grande problema: dirigere il mondo.”
Altri
Paesi europei hanno avuto, nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento,
retori dello sciovinismo più esaltato, che hanno affermato più o meno cose del
genere. Ma sarebbe toccato a un oscuro caporale austriaco di realizzare il
programma di questi predecessori, in armonia con una precisa fase di
ristrutturazione del capitale finanziario tedesco, che ha bisogno di uno Stato
forte per realizzare senza impedimenti il profitto.
Intorno
al 1905, Ernst Rasse, scandalizzato perché una parte dell’eletto popolo tedesco
era costretto a occuparsi di lavori modesti, manuali, proponeva di portare al
più alto livello ogni membro della razza superiore, condannando al ruolo di
schiavi perpetui i polacchi, i cechi, gli ebrei, gli italiani.
Bastava
farli immigrare in Germania, e sfruttarli come lavoratori comuni!
Adolf
Hitler ha sedici anni.
È, già,
uno spostato che si occupa di politica da razzista frenetico.
Odia
la Monarchia Asburgica e tutte le razze non germaniche del plurinazionale
Impero Austro-Ungarico.
Ama
solo tutto ciò che è tedesco.
È
quello che rimarrà per tutta la vita: un fanatico nazionalista germanico. Ma
nelle sue vene non scorre, forse, sangue purissimo.
Il
nonno di Adolf, Johann Georg Hiedler, era un mugnaio ambulante che, nel 1842,
aveva sposato una contadina di quarantasette anni, Maria Anna Schicklgruber. La
donna, che, in passato, faceva la cuoca presso una famiglia ebrea di Linz, il 7
giugno 1837, aveva avuto un figlio illegittimo al quale aveva imposto il nome
di Alois.
Alois
è il padre di Adolf Hitler.
Chi fu
il padre di Alois?
Lo
studente ebreo presso cui la famiglia Maria Anna lavorava o Johan Georg Hiedler.
È un fatto che la famiglia ebraica passò, per lunghi anni, un
sussidio alla cameriera licenziata.
Ora, per ironia della sorte, una delle fonti della cultura
razzista di Adolf Hitler sarà costituita da I
Protocolli dei Savi di Sion, un falso volgare, un libello fabbricato, da
cima a fondo, nella Bibliothèque
Nationale di Parigi, nel 1897, su ordine del generale Christian Georgievic
Rakovskij, capo dell’Okhrana di
Parigi, la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso
gli ebrei nell’Impero Russo.
In Russia, nel clima di antisemitismo medioevale dello
zarismo, i Protocolli dei Savi di Sion
furono accolti dagli ufficiali, che, dopo la Rivoluzione di Ottobre, sarebbero
fuggiti in Germania, come la rivelazione di una diabolica congiura ebraica
contro la Cristianità.
E tutto ciò giunse fino a Hitler e all’ideologo razzista Alfred
Rosenberg.
Studi psicoanalitici avrebbero dimostrato che, all’origine
di certe scelte politiche di Adolf Hitler, vi sarebbe, inconfessato e
inconsapevole, il bisogno di liberarsi da un complesso di inferiorità da lui
nutrito nei confronti di quella famiglia di ebrei austriaci.
Naturalmente, questa spiegazione non vuole né può esaurire tutta
la problematica suscitata dalla mostruosa politica di annientamento, messa in
atto dal nazismo, sulla base di precise scelte e motivazioni economiche.
La storia personale, la cultura di Hitler serve semmai a
farci capire meglio certi particolari difficilmente interpretabili da un punto
di vista di stretta razionalità.
nondimeno, ci mette in contatto con la mente patologica di
uno dei più grandi assassini legali che la Storia dell’Umanità abbia, mai,
conosciuto.
Legali, perché i milioni di esseri umani sterminati nei Lager nazisti, i soldati tedeschi e di
altri Paesi, caduti sui campi di battaglia, le donne, i vecchi, i bambini
uccisi, nel corso dei bombardamenti aerei, sono morti, per ordine di capi impastati di farneticanti,
ma assai popolari ideologie millenariste e fanaticamente razzisti, capi giunti
al vertice dello Stato per avere ricevuto l’avallo di molti voti, burocrati con
cariche pubbliche dei più alti livelli che amministrano il potere per conto di
una classe, al servizio di una plutocrazia ristretta ed efficiente, che si
serve di Hitler e del nazismo per realizzare sovrapprofitti eccezionali in
tempi eccezionalmente brevi.
Hitler nacque alle diciotto e trenta del 20 aprile 1889, al
Gasthof zum Pommer, una modesta
locanda di Braunau sull’Inn, al di là della frontiera bavarese. Il luogo di
nascita sul confine austro-tedesco doveva assumere agli occhi del futuro
dittatore un particolare significato, giacché, fino dalla prima giovinezza, fu
ossessionato dall’idea che nessuna frontiera doveva dividere i due popoli di
lingua tedesca.
Il padre era un modesto doganiere austriaco.
Il giovane Adolf non raccolse a scuola particolari
consensi.
Anche con le donne i suoi rapporti non furono mai facili.
Negli Anni Venti, quando con i finanziamenti dei militari
ha, già, messo in piedi il suo movimento nazionalista e razzista, si vanta di
sapere riconoscere un ebreo a cinquanta metri.
Hitler è un uomo tormentato, in lui opera, forse, quell’odio
di sé che Hans Mayer ha individuato ne I
Diversi.
Dice di amare la Germania come sua madre, ma la condannerà,
in realtà, alla guerra più devastatrice che la Storia conosca.
Auschwitz, Buchenvald, Mauthausen sono i nomi dei campi di
lavoro e sterminio che costellano, dapprima, la cartina del Drittes Reich, e, successivamente, i
Paesi annessi o caduti sotto il protettorato germanico.
I nomi più noti, perché sarebbe quasi impossibile
rammentarli tutti. Schiavi-lavoratori forniscono braccia all’industria tedesca
a un costo irrisorio; e quando lo schiavo non rende più, si può tranquillamente
eliminare mandandolo nelle camere a gas.
Gelidi burocrati come Otto Adolf Eichmann intanto battono
le strade dell’Europa in cerca di nuove vittime, per rifornire i campi
incessantemente.
La produzione della morte, come quella delle armi, non deve
subire arresti.
Ma lo Stato germanico non rivela, immediatamente, a tutti
il suo carattere infernale.
Come tutti gli Stati moderni, ha bisogno di rispettabilità
e di consenso sociale.
Per questo Hitler, ormai saldo in sella, si libera dell’incomodo
e rissoso Ernst Julius Günther Röhm, che, in qualche modo, rappresenta certe
istanze grossolanamente populiste ed egualitarie del vecchio movimento nazista.
Con l’esclusione dei deputati comunisti, vittime, oltre che della violenza
avversaria, del loro stesso gioco, i nazionalsocialisti si trovano, oramai, a
disporre della maggioranza parlamentare.
Hitler si può, quindi, dedicare alla realizzazione del
programma.
Vuole “disintossicare” la scuola, la stampa, la radio, il
cinema, il teatro.
Fonti dell’ispirazione artistica devono essere il sangue,
la razza, l’eroismo, con cui il popolo si accinge a costruire la Patria
socialista.
Il governo rispetterà i diritti delle chiese, fattori della
massima importanza per la conservazione dello spirito tedesco: però conta, a
titolo di compenso, sulla loro riconoscenza.
Solo i socialdemocratici, tra i presenti in aula, si
dichiarano con fermezza contro la legge sui pieni poteri al governo voluta da
Hitler, e che passa con la complicità del centro e delle destre.
Tutto il potere è centralizzato.
Vengono annullate le tradizionali autonomie dei Länder; i funzionari dell’apparato statale vengono
nominati dal dittatore e le organizzazioni storiche dei lavoratori tedeschi, i
sindacati, le cooperative vengono tolti alla gestione dei lavoratori stessi e
consegnati ai gerarchi nazisti e dello Stato.
I campi di concentramento si
riempiono, in un primo tempo, di comunisti e di socialisti, che scontano, così,
amaramente, la loro incapacità di allearsi per sbarrare il passo a Hitler,
quando, ancora, erano in tempo.
I comunisti, anzi, sulla scorta
delle direttive dell’Internazionale dominata dalla burocrazia stalinista, in
alcune località, come nella Prussia Orientale, votano contro i socialisti,
unendo il loro voto a quello dei nazisti.
L’odio per la socialdemocrazia
facilita, infine, l’avvento di Hitler al potere, così come lo facilita l’odio
per il diverso [lo straniero, l’ebreo], che caratterizza le masse di lunghe
tradizioni contadine – come appunto quelle tedesche, tormentate dalla crisi del
1929, che la propaganda nazista sfrutta, aizzando cotro le Ddemocrazie –.
Tra gli operai delle grandi
città, invece, l’antisemitismo è poco diffuso. Anzi, proprio in Germania, le
organizzazioni operaie hanno avuto per tradizione dirigenti di origine ebraica,
come lo stesso Karl Marx e Ferdinand Lassalle e Eduard Bernstein.
Ma sarebbe un errore considerare
l’antisemitismo un fenomeno circoscritto alla Germania nazista.
Manifesto tedesco per
il film Süss l’ebreo [Jud
Süß], un film del 1940 di
propaganda antisemita, diretto da Veit Harlan. Fu uno dei maggiori successi di
tutti i tempi sugli schermi tedeschi. Dal 1940 al 1943 ebbe oltre 20 milioni di
spettatori. Era stato presentato in anteprima alla Mostra del cinema di
Venezia. «Non esitiamo a dire che, se questa è propaganda, allora ben venga la
propaganda… un film di perfetta unità ed equilibrio… di stupefacente maestria
l’episodio in cui Süss violenta la ragazza…», scrisse un giovane critico allora
ventottenne. Si chiamava Michelangelo Antonioni.
In effetti il film è ben
fatto. Per molti versi è un capolavoro. Un capolavoro di incitamento all’odio.
Era stato commissionato, anzi prodotto, da Goebbels, il ministro della
propaganda di Hitler. E diventò una delle più formidabili promozioni
pubblicitarie per lo sterminio.
Venne proiettato
contemporaneamente in una ventina di cinema di Berlino, in centinaia di sale in
tutto il Reich. Andare a vederlo divenne obbligatorio per i membri della
Gioventù hitleriana, praticamente tutti i giovani tedeschi. E poi in tutte le
capitali occupate, e persino in qualche paese neutrale. Venne doppiato in russo
e in ucraino. Lo proiettavano anche ad Auschwitz. Per incoraggiare gli aguzzini
e distruggere il morale delle vittime.
“Dovevate vedere che faccia avevano i prigionieri il giorno
dopo!”,
avrebbe testimoniato al
processo svoltosi nel 1961 una delle guardie.
Negli stessi anni, nell’Unione
Sovietica, la burocrazia, stretta attorno allo zar rosso Iosif Stalin non esita
a fare ricorso alle tradizioni antisemite proprie dello zarismo.
L’amico di Vladimir Lenin e
rivale di Stalin, Lev Davidovic Bronstejn, il creatore dell’Armata Rossa, che le masse rivoluzionarie conoscono e
amano, sotto il nome di battaglia di Lev Trockij, viene diffamato e additato all’odio di
quanti sono ignari dei giochi di potere, come l’ebreo Bronstejn.
E agli ebrei, sempre in quell’URSS,
che Lenin aveva voluto rispettosa dei
diritti delle minoranze etniche, alla minoranza ebraica vengono negati, in
pratica, numerosi diritti; mentre agli oppositori politici – comunisti compresi
– si spalancano, per ordine di Stalin, le porte dell’Arcipelago Gulag, sistema
di deportazione più grande di quello realizzato dai tedeschi.
Secondo le leggi razziali di
Norimberga, promulgate il 15 e il 16 settembre 1935, che dovevano fondare,
giuridicamente, la politica antisemita del Drittes Reich, veniva considerato “ebreo completo”, Volljude, chi aveva tre nonni
razzialmente ebrei.
Si precisava che “un nonno è
ebreo quando appartiene alla comunità religiosa ebraica”, Glaubenjude.
Una ordinanza del Ministero degli Interni del 17 gennaio
1937 precisò che la legislazione, che escludeva gli ebrei da certi settori dell’attività
nazionale, non si estendeva al settore privato. E il Ministero del Lavoro assicurò
che gli ebrei avrebbero goduto degli stessi diritti di cui godevano gli ariani.
I 500mila “ebrei completi”, censiti nel Drittes Reich, nel 1933, si sentirono
rassicurati e solo 37mila emigrarono subito dopo le prime persecuzioni.
Hitler voleva un esodo progressivo e alternava terrore a
garanzie formali.
Il fine era quello di non gravare sull’economia tedesca con
bruschi scossoni; ma il metodo non dette i risultati previsti.
Solo 20mila ebrei, infatti, lasciarono, annualmente, la
Germania, tra il 1934 e il 1937.
Anche le leggi razziali di Norimberga del 1935 non riuscirono
ad accelerare l’esodo.
Partirono, infatti, gli ebrei coinvolti in attività
politiche o che avevano grandi fortune all’estero. Chi non aveva i mezzi per
rifarsi una vita altrove fu costretto a restare.
E, alla fine del 1937, ebbe inizio la sistematica razzia
dei beni ebraici e, nel 1938, nell’indifferenza delle Democrazie europee, il
terrore che portò al Lager.
Daniela Zini
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Una delle caratteristiche più rilevanti
concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di
uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in
quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon
evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura
dello Stato:
“Se le circostanze sembrano
richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della
coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un
genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio.
Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti,
lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica,
possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e
ideologici, che permettono di
pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre
al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre
caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione
dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando;
essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può
pianificare con efficacia questo tipo di azione.
Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha
suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio
del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco
e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando
dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva
delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di
Washington.
“Il
presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione
hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu
massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e
giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del
Dipartimento di Stato americano Marie Harf.
Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha
commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio
cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva,
infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e
fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea
Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.
Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del
contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone
particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese
del 1994”.
Allo
scoppio della tragedia,
l’ONU decide di ritirare gran parte
del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si
oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive
al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
Il suo appello rimane inascoltato.
La
terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due
tentativi di suicidio.
Nel
2003, Dallaire pubblica Shake Hands with
the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro
fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con
l’ONU.
Dal 12
aprile 2011, a
Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di
tutto il Mondo di Milano.
La Storia dei crimini contro l’Umanità è
ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a
opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del
388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni
della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di
Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di ”digiuno” dai
sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo
dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere
esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la
ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii,
stupri, spergiuri e altri crimini “in
violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu
condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta
turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale
anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva
respinto l’ultimatum di Francia,
Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della
Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione
costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano,
avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno,
infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia
coincide con quella del Popolo stesso.