“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 27 luglio 2018

La Policía explota contra Marlaska por el coladero de Ceuta y Melilla

Ansturm auf Ceuta - Nachdenken über Asyl

Así es la DEVOLUCIÓN EN CALIENTE de un inmigrante en Ceuta

600 migrants franchissent la frontière de Ceuta

600 migrants reach Spain after storming border fence in Ceuta - Daily Mail

Hundreds of migrants break through border at Spanish exclave Ceuta

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mercoledì 25 luglio 2018

L’AGGHIACCIANTE LETTERA Degli OPERAI per SERGIO MARCHIONNE!

martedì 24 luglio 2018

Marine Le Pen sur l'affaire Benalla : "C'est l'Elysée qui doit apporter ...

Macron : Techno parade à l'Elysée, le déclin de la France

lunedì 23 luglio 2018

Affaire Benalla-Macron: audition de Gérard Collomb devant l'Assemblée Na...

AFFAIRE BENALLA : «MACRON DOIT S'EXPLIQUER»

MACRON: C'est le début de la fin !

Royaume-Uni : un enfant de 3 ans attaqué à l'acide

giovedì 19 luglio 2018

Intervista A Paolo Borsellino - Tsi Televisione Svizzera 1992 (completo)

Paolo Borsellino (2004)

I giorni di Giuda. L'ultimo intervento di Paolo Borsellino

"non si vuole scoperchiare la verità sulle stragi perché lo Stato dovreb...

Lettera a Borsellino di R.Scarpinato

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«Macron è pericoloso!»

Macron et les Pauvres

martedì 17 luglio 2018

Süss l'ebreo Sub Ita 1940

GENOCIDIO II. LA SHOAH 3. ANTISEMITISMO IN GERMANIA di Daniela Zini


GENOCIDIO

Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
πατία σεμνή, τῶν  λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς  σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 δεκαετία 390 ή 430]

 Simon Wiesenthal [1908-2005]

di
Daniela Zini


GENOCIDIO
I. L’OLOCAUSTO DI UN ANTICO E FIERO POPOLO: GLI AMERINDI
di Daniela Zini

GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
1. HOLOCAUST
di Daniela Zini

GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL’UOMO
2. LA RISIERA DI SAN SABBA
di Daniela Zini


 “Que le XXIe ne soit plus, comme ce siècle
qui s’achève, le temps des Etats criminels!”
Yves Ternon[1]
à mon Ange Gardien
Pour toujours et à jamais!
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario
dei genocidi armeno[2] e assiro-caldeo[3] e dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[4] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
Perché?”




Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire[5], comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.  
La potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti d’America, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il genocidio appartiene, incontestabilmente, a questa categoria “di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità” e minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo” [Preambolo dello Statuto di Roma,  http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti-ue/Documents/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf]. È il crimine più grave riconosciuto dal diritto internazionale, ma anche uno dei più dificili da provare da un punto di vista legale, perché si deve riuscire a provare questa intenzione specifica.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.

 “Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa, necessariamente, l’immediata distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79

Vi era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il Processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva che “in base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
2 anni dopo, il 9 dicembre 1948, alla vigilia dell’adozione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo [http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm], veniva approvata, dalla maggioranza dei rappresentanti degli Stati, la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19994549/201406110000/0.311.11.pdf], che all’articolo 2 recita:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)              uccisione di membri del gruppo;
b)              lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)               il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)              misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e)               trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:

“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”
[Principi di Norimberga]

A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità[6].
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e  non si potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale,  era reale. Le milizie massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò, puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva, allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del  XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel 1908. A dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò, rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione.

“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”

La prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i  Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.


In tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico.
Sul continente americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo.
Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!

II.                        LA SHOAH
per ricordare la vergogna dell’uomo

 “Al vincitore nessuno
chiederà mai conto
 di quello che ha fatto.”
Adolf Hitler

3. ANTISEMITISMO
IN GERMANIA

“Dove il soldato tedesco mette piede, là resta!”
Adolf Hitler

“Il segno più caratteristico del rapporto tra gli ebrei e la cultura umana sta nel fatto che una cultura ebraica ebraica non è mai esistita e che le due regine dell’arte, architettura e musica, non devono niente di originale all’ebraismo. Ciò che l’ebreo produce in campo artistico è o furto o paradosso. Gli mancano le qualità geniali delle razze dotate di valori.”
Adolf Hitler
Monaco, 10 marzo 1933. L’avvocato ebreo Michael Siegel, costretto a marciare in strada, da un drappello di SS, a piedi scalzi, testa rasata, senza pantaloni e con un cartello dalla scritta:
“Non mi lamenterò più con la polizia.”
 
Un giorno qualcuno chiese a Adolf Hitler di riassumere, in poche parole, il piano generale di Mein Kampf.  Hitler rifletté, un istante, poi, rispose senza esitazione:
“Cancellare il 1789 dalla Storia.”

“Verrà un giorno in cui sarà più grande onore avere il titolo di cittadino del Reich in qualità di spazzino che essere re in uno Stato straniero, e questo giorno verrà certamente, poiché, in un mondo come il nostro, che permette la mescolanza delle razze, uno Stato che dedica tutti i suoi sforzi allo sviluppo dei migliori elementi razziali deve fatalmente diventare il padrone del mondo.”
Adolf Hitler

“La povertà e la spietata realtà mi
forzarono a decidere prontamente.”
Adolf Hitler




Non era una boutade, ma un programma coerente con le concezioni della razza, proprie del nazismo.
Concezioni che ripudiano, insieme al materialismo, tutta una tradizione che, attraverso Denis Diderot e gli enciclopedisti, ha animato la Rivoluzione Francese e la borghesia rivoluzionaria nella conquista della libertà dell’uomo, dei suoi diritti e della sua dignità.
Certo, la Rivoluzione Francese non ha, nella pratica, assicurato la libertà a tutti i cittadini, ma solo alla parte più intraprendente della Nazione.
Nei suoi limiti di classe, ha indicato, tuttavia, un modello.
Hitler non solo è contrario al marxismo, ma vede in ogni forma di pensiero moderno un affronto alla sacralità dello Stato. 

Monaco, 2 agosto 1914. Adolf Hitler esulta, tra la folla in Odeonplatz, alla notizia dello scoppio della prima guerra mondiale.

La razza, il sangue e non la dignità umana, suggeleranno il patto sociale.
Il rapido e violento della predicazione hitleriana si colloca in un preciso momento di crisi delle istituzioni repubblicane. Ma il messaggio stesso che Hitler porta alle masse brutalizzate dalla crisi, dalla disoccupazione, dalla paura del domani, è un messaggio antico, che suscita echi nei cuori germanici.
Non è, infatti, la prima volta che, nel corso della Storia, si parla di razze superiori e inferiori, attribuendo alle prime il diritto di comandare, alle altre il dovere di obbedire.
Molto prima di Adolf Hitler e dei razzisti tedeschi e austriaci, altri avevano dissertato tenacemente, con sfoggio di ampie argomentazioni pseudo-semantiche – e non solo in Germania, ma anche in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Italia –, sui presunti diritti degli uomini superiori – razzisticamente e socialmente intesi – di servirsi, liberamente, dei componenti delle razze e delle classi inferiori, o più deboli sul piano militare, e così pure di limitarne la espansione demografica.
Erano, chiaramente, teorie che avevano la funzione di mascherare un sopruso materiale: erano valse, infatti, a giustificare le conquiste coloniali, la tratta degli schiavi di pelle nera o le condizioni di arretratezza in cui venivano mantenute alcune zone della Terra, per consentire il ritmo di sviluppo europeo. Erano, per l’appunto, dottrine eurocentriche, teorie di comodo per potenze imperialiste o per governi impegnati in una oppressiva politica interna in particolari momenti della organizzazione o della ristrutturazione dello Stato. I razzisti tedeschi si rifacevano, stravolgendone il senso, ai Discorsi alla Nazione tedesca di Johann Gottlieb Fichte, scritti e pronunciati in pubblico, nell’inverno tra il 1807 e il 1808, quando ancora i francesi occupavano la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena. Il filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Immanuel Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco, per incitare i propri compatrioti alla resistenza contro le armate di Napoleone, sosteneva la superiorità culturale del popolo tedesco, un popolo “metafisicamente predestinato”, che ha il diritto morale di realizzare il suo destino, con ogni mezzo, anche con l’inganno e la forza, popolo che è l’autocoscienza di Dio. E dopo Fichte, ecco Georg Wilhelm Friedrich Hegel affermare la legittimità del diritto tedesco, contro il quale “il genio degli altri popoli è senza diritto; e poiché la loro era è determinata, essi non contano più nella Storia”. Hegel giunge a parlare di una “missione storica” tedesca. Per lui lo spirito si incarna nel popolo germanico; per Friedrich Wilhelm von Giesebrecht “la Germania ha il diritto del dominio perché è una Nazione di élite”. Più concretamente, Friedrich-Albert Lange si chiede se la Germania non abbia, infine, “la missione di castigare e di guarire le depravazioni dei popoli che la circondano”, concetto che sarà ripreso, nel 1914, perfino da Thomas Mann, quando in polemica con Romain Rolland, definirà la Francia “urna di tutti i mali”, quella che porta alla Germania la peggiore lue del mondo; la democrazia, il livellamento dei valoro intellettuali, l’ipocrisia di una falsa libertà. Mann, “duce protestante dei conservatori”, come lo definì, nel 1920, Lavinia Mazzucchetti, non è un pangermanista ottuso, ma si dimostra, ancora, convinto della supremazia germanica, perché in essa sarebbe operante una qualità relativamente migliore delle classi dirigenti in confronto alle masse impreparate. Le considerazioni di un apolitico non si discostano molto, nel primo dopoguerra, in fondo, dalle fanatiche dichiarazioni nazionalistiche di Adolf Hitler: anche Thomas Mann vuole preservare il popolo germanico dalle degenerazioni latine, europee. 

“L’abilità ricettiva delle grandi masse è solo molto limitata, la loro comprensione è piccola; d’altro lato la loro smemoratezza è grande. Essendo così, tutta la propaganda efficace deve essere limitata a pochissimi punti che a loro volta dovrebbero essere usati come slogan finché l’ultimo uomo sia capace di immaginare che cosa significhino tali parole.”
Adolf Hitler

“Provai profonda ammirazione per il grande uomo a Sud delle Alpi, che pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti con il nemico interno all’Italia, ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi della Terra è la decisione di non spartirsi l’Italia con il marxismo, ma di salvare la sua Patria dal marxismo distruggendolo.”
Adolf Hitler



Adolf Hitler [1924]

“Più grande la menzogna più grandi
le probabilità che venga creduta.”
Adolf Hitler

Sappiamo che il grande scrittore, dopo un cammino lungo e doloroso, approderà alle posizioni antinaziste dei Moniti all’Europa.
Ma è indubbio che, nel frattempo, il terreno era stato concimato.

“In un mondo imbastardito e negrizzato sarebbero persi i concetti dell’umanamente bello e sublime.”
Adolf Hitler

Le farneticazioni di un Richard Wagner che reagiva alle teorie darwiniane, affermando che sì, “tutti gli uomini provengono dalle scimmie, ma gli ariano-tedeschi, per la loro origine, si riallacciano direttamente agli dei”; di un Julius Langbehn, che scriveva un libro per dimostrare che tutti i grandi uomini della Terra furono e saranno sempre e solo di razza tedesca, anche se nati in Paesi lontanissimi dal sacro suolo; di un Ludwig Woltmann che scopriva che i più grandi uomini italiani e francesi sarebbero stati, in realtà, dei tedeschi camuffati: Dante Alighieri si sarebbe chiamato Aigler o Aldighier; Giotto, Jothe; Michelangelo Buonarroti, Bohnradt; Leonardo da Vinci, Wincke; Tasso, Dasso; Giuseppe Garibaldi, Kupoldt… tutte queste stravaganti prove di nazionalismo accese non sono che il versante più pittoresco di quanto affermava l’economista Friedrich List:
“Senza alcun dubbio la Germania è stata designata dalla Provvidenza a risolvere un grande problema: dirigere il mondo.”
Altri Paesi europei hanno avuto, nell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, retori dello sciovinismo più esaltato, che hanno affermato più o meno cose del genere. Ma sarebbe toccato a un oscuro caporale austriaco di realizzare il programma di questi predecessori, in armonia con una precisa fase di ristrutturazione del capitale finanziario tedesco, che ha bisogno di uno Stato forte per realizzare senza impedimenti il profitto.  
Intorno al 1905, Ernst Rasse, scandalizzato perché una parte dell’eletto popolo tedesco era costretto a occuparsi di lavori modesti, manuali, proponeva di portare al più alto livello ogni membro della razza superiore, condannando al ruolo di schiavi perpetui i polacchi, i cechi, gli ebrei, gli italiani.
Bastava farli immigrare in Germania, e sfruttarli come lavoratori comuni!
Adolf Hitler ha sedici anni.
È, già, uno spostato che si occupa di politica da razzista frenetico.
Odia la Monarchia Asburgica e tutte le razze non germaniche del plurinazionale Impero Austro-Ungarico.
Ama solo tutto ciò che è tedesco. 
È quello che rimarrà per tutta la vita: un fanatico nazionalista germanico. Ma nelle sue vene non scorre, forse, sangue purissimo.
Il nonno di Adolf, Johann Georg Hiedler, era un mugnaio ambulante che, nel 1842, aveva sposato una contadina di quarantasette anni, Maria Anna Schicklgruber. La donna, che, in passato, faceva la cuoca presso una famiglia ebrea di Linz, il 7 giugno 1837, aveva avuto un figlio illegittimo al quale aveva imposto il nome di Alois.
Alois è il padre di Adolf Hitler.
Chi fu il padre di Alois?
Lo studente ebreo presso cui la famiglia Maria Anna lavorava o Johan Georg Hiedler.
È un fatto che la famiglia ebraica passò, per lunghi anni, un sussidio alla cameriera licenziata.
Ora, per ironia della sorte, una delle fonti della cultura razzista di Adolf Hitler sarà costituita da I Protocolli dei Savi di Sion, un falso volgare, un libello fabbricato, da cima a fondo, nella Bibliothèque Nationale di Parigi, nel 1897, su ordine del generale Christian Georgievic Rakovskij, capo dell’Okhrana di Parigi, la polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero Russo.
In Russia, nel clima di antisemitismo medioevale dello zarismo, i Protocolli dei Savi di Sion furono accolti dagli ufficiali, che, dopo la Rivoluzione di Ottobre, sarebbero fuggiti in Germania, come la rivelazione di una diabolica congiura ebraica contro la Cristianità.
E tutto ciò giunse fino a Hitler e all’ideologo razzista Alfred Rosenberg.
Studi psicoanalitici avrebbero dimostrato che, all’origine di certe scelte politiche di Adolf Hitler, vi sarebbe, inconfessato e inconsapevole, il bisogno di liberarsi da un complesso di inferiorità da lui nutrito nei confronti di quella famiglia di ebrei austriaci.
Naturalmente, questa spiegazione non vuole né può esaurire tutta la problematica suscitata dalla mostruosa politica di annientamento, messa in atto dal nazismo, sulla base di precise scelte e motivazioni economiche.
La storia personale, la cultura di Hitler serve semmai a farci capire meglio certi particolari difficilmente interpretabili da un punto di vista di stretta razionalità.
nondimeno, ci mette in contatto con la mente patologica di uno dei più grandi assassini legali che la Storia dell’Umanità abbia, mai, conosciuto.
Legali, perché i milioni di esseri umani sterminati nei Lager nazisti, i soldati tedeschi e di altri Paesi, caduti sui campi di battaglia, le donne, i vecchi, i bambini uccisi, nel corso dei bombardamenti aerei, sono morti,  per ordine di capi impastati di farneticanti, ma assai popolari ideologie millenariste e fanaticamente razzisti, capi giunti al vertice dello Stato per avere ricevuto l’avallo di molti voti, burocrati con cariche pubbliche dei più alti livelli che amministrano il potere per conto di una classe, al servizio di una plutocrazia ristretta ed efficiente, che si serve di Hitler e del nazismo per realizzare sovrapprofitti eccezionali in tempi eccezionalmente brevi.
Hitler nacque alle diciotto e trenta del 20 aprile 1889, al Gasthof zum Pommer, una modesta locanda di Braunau sull’Inn, al di là della frontiera bavarese. Il luogo di nascita sul confine austro-tedesco doveva assumere agli occhi del futuro dittatore un particolare significato, giacché, fino dalla prima giovinezza, fu ossessionato dall’idea che nessuna frontiera doveva dividere i due popoli di lingua tedesca.
Il padre era un modesto doganiere austriaco.
Il giovane Adolf non raccolse a scuola particolari consensi.
Anche con le donne i suoi rapporti non furono mai facili.
Negli Anni Venti, quando con i finanziamenti dei militari ha, già, messo in piedi il suo movimento nazionalista e razzista, si vanta di sapere riconoscere un ebreo a cinquanta metri.
Hitler è un uomo tormentato, in lui opera, forse, quell’odio di sé che Hans Mayer ha individuato ne I Diversi.
Dice di amare la Germania come sua madre, ma la condannerà, in realtà, alla guerra più devastatrice che la Storia conosca.


Auschwitz, Buchenvald, Mauthausen sono i nomi dei campi di lavoro e sterminio che costellano, dapprima, la cartina del Drittes Reich, e, successivamente, i Paesi annessi o caduti sotto il protettorato germanico.
I nomi più noti, perché sarebbe quasi impossibile rammentarli tutti. Schiavi-lavoratori forniscono braccia all’industria tedesca a un costo irrisorio; e quando lo schiavo non rende più, si può tranquillamente eliminare mandandolo nelle camere a gas.
Gelidi burocrati come Otto Adolf Eichmann intanto battono le strade dell’Europa in cerca di nuove vittime, per rifornire i campi incessantemente.
La produzione della morte, come quella delle armi, non deve subire arresti.
Ma lo Stato germanico non rivela, immediatamente, a tutti il suo carattere infernale.
Come tutti gli Stati moderni, ha bisogno di rispettabilità e di consenso sociale.
Per questo Hitler, ormai saldo in sella, si libera dell’incomodo e rissoso Ernst Julius Günther Röhm, che, in qualche modo, rappresenta certe istanze grossolanamente populiste ed egualitarie del vecchio movimento nazista. Con l’esclusione dei deputati comunisti, vittime, oltre che della violenza avversaria, del loro stesso gioco, i nazionalsocialisti si trovano, oramai, a disporre della maggioranza parlamentare.
Hitler si può, quindi, dedicare alla realizzazione del programma.
Vuole “disintossicare” la scuola, la stampa, la radio, il cinema, il teatro.
Fonti dell’ispirazione artistica devono essere il sangue, la razza, l’eroismo, con cui il popolo si accinge a costruire la Patria socialista.
Il governo rispetterà i diritti delle chiese, fattori della massima importanza per la conservazione dello spirito tedesco: però conta, a titolo di compenso, sulla loro riconoscenza.
Solo i socialdemocratici, tra i presenti in aula, si dichiarano con fermezza contro la legge sui pieni poteri al governo voluta da Hitler, e che passa con la complicità del centro e delle destre.
Tutto il potere è centralizzato.
Vengono annullate le tradizionali autonomie dei Länder; i funzionari dell’apparato statale vengono nominati dal dittatore e le organizzazioni storiche dei lavoratori tedeschi, i sindacati, le cooperative vengono tolti alla gestione dei lavoratori stessi e consegnati ai gerarchi nazisti e dello Stato.
I campi di concentramento si riempiono, in un primo tempo, di comunisti e di socialisti, che scontano, così, amaramente, la loro incapacità di allearsi per sbarrare il passo a Hitler, quando, ancora, erano in tempo.
I comunisti, anzi, sulla scorta delle direttive dell’Internazionale dominata dalla burocrazia stalinista, in alcune località, come nella Prussia Orientale, votano contro i socialisti, unendo il loro voto a quello dei nazisti.
L’odio per la socialdemocrazia facilita, infine, l’avvento di Hitler al potere, così come lo facilita l’odio per il diverso [lo straniero, l’ebreo], che caratterizza le masse di lunghe tradizioni contadine – come appunto quelle tedesche, tormentate dalla crisi del 1929, che la propaganda nazista sfrutta, aizzando cotro le Ddemocrazie –.
Tra gli operai delle grandi città, invece, l’antisemitismo è poco diffuso. Anzi, proprio in Germania, le organizzazioni operaie hanno avuto per tradizione dirigenti di origine ebraica, come lo stesso Karl Marx e Ferdinand Lassalle e Eduard Bernstein.
Ma sarebbe un errore considerare l’antisemitismo un fenomeno circoscritto alla Germania nazista.


Manifesto tedesco per il film Süss l’ebreo [Jud Süß], un film del 1940 di propaganda antisemita, diretto da Veit Harlan. Fu uno dei maggiori successi di tutti i tempi sugli schermi tedeschi. Dal 1940 al 1943 ebbe oltre 20 milioni di spettatori. Era stato presentato in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia. «Non esitiamo a dire che, se questa è propaganda, allora ben venga la propaganda… un film di perfetta unità ed equilibrio… di stupefacente maestria l’episodio in cui Süss violenta la ragazza…», scrisse un giovane critico allora ventottenne. Si chiamava Michelangelo Antonioni.

In effetti il film è ben fatto. Per molti versi è un capolavoro. Un capolavoro di incitamento all’odio. Era stato commissionato, anzi prodotto, da Goebbels, il ministro della propaganda di Hitler. E diventò una delle più formidabili promozioni pubblicitarie per lo sterminio.
Venne proiettato contemporaneamente in una ventina di cinema di Berlino, in centinaia di sale in tutto il Reich. Andare a vederlo divenne obbligatorio per i membri della Gioventù hitleriana, praticamente tutti i giovani tedeschi. E poi in tutte le capitali occupate, e persino in qualche paese neutrale. Venne doppiato in russo e in ucraino. Lo proiettavano anche ad Auschwitz. Per incoraggiare gli aguzzini e distruggere il morale delle vittime.
“Dovevate vedere che faccia avevano i prigionieri il giorno dopo!”,
avrebbe testimoniato al processo svoltosi nel 1961 una delle guardie.

Negli stessi anni, nell’Unione Sovietica, la burocrazia, stretta attorno allo zar rosso Iosif Stalin non esita a fare ricorso alle tradizioni antisemite proprie dello zarismo.
L’amico di Vladimir Lenin e rivale di Stalin, Lev Davidovic Bronstejn, il creatore dell’Armata Rossa, che le masse rivoluzionarie conoscono e amano, sotto il nome di battaglia di Lev Trockij, viene diffamato e additato all’odio di quanti sono ignari dei giochi di potere, come l’ebreo Bronstejn.
E agli ebrei, sempre in quell’URSS, che Lenin  aveva voluto rispettosa dei diritti delle minoranze etniche, alla minoranza ebraica vengono negati, in pratica, numerosi diritti; mentre agli oppositori politici – comunisti compresi – si spalancano, per ordine di Stalin, le porte dell’Arcipelago Gulag, sistema di deportazione più grande di quello realizzato dai tedeschi.
Secondo le leggi razziali di Norimberga, promulgate il 15 e il 16 settembre 1935, che dovevano fondare, giuridicamente, la politica antisemita del Drittes Reich, veniva considerato “ebreo completo”, Volljude, chi aveva tre nonni razzialmente ebrei.
Si precisava che “un nonno è ebreo quando appartiene alla comunità religiosa ebraica”, Glaubenjude.
Una ordinanza del Ministero degli Interni del 17 gennaio 1937 precisò che la legislazione, che escludeva gli ebrei da certi settori dell’attività nazionale, non si estendeva al settore privato. E il Ministero del Lavoro assicurò che gli ebrei avrebbero goduto degli stessi diritti di cui godevano gli ariani.
I 500mila “ebrei completi”, censiti nel Drittes Reich, nel 1933, si sentirono rassicurati e solo 37mila emigrarono subito dopo le prime persecuzioni.
Hitler voleva un esodo progressivo e alternava terrore a garanzie formali.
Il fine era quello di non gravare sull’economia tedesca con bruschi scossoni; ma il metodo non dette i risultati previsti.
Solo 20mila ebrei, infatti, lasciarono, annualmente, la Germania, tra il 1934 e il 1937.
Anche le leggi razziali di Norimberga del 1935 non riuscirono ad accelerare l’esodo.
Partirono, infatti, gli ebrei coinvolti in attività politiche o che avevano grandi fortune all’estero. Chi non aveva i mezzi per rifarsi una vita altrove fu costretto a restare.
E, alla fine del 1937, ebbe inizio la sistematica razzia dei beni ebraici e, nel 1938, nell’indifferenza delle Democrazie europee, il terrore che portò al Lager.

Daniela Zini
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[1] Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e ideologici,  che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo di azione.

[2] Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

[3] Nel 2015, abbiamo commemorato, i 100 anni del genocidio armeno, ma il genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].

[4] Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.

[5] Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese del 1994”.
Allo scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
 Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due tentativi di suicidio.
Nel 2003, Dallaire pubblica Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano.

[6] La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di  ”digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno, infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide con quella del Popolo stesso.