“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

martedì 10 luglio 2018

GENOCIDIO II. LA SHOAH 2. 75 ANNI FA LA RISIERA DI SAN SABBA di Daniela Zini



GENOCIDIO

Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
πατία σεμνή, τῶν  λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς  σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 δεκαετία 390 ή 430]

 
 Simon Wiesenthal [1908-2005]


Simon Wiesenthal [1908-2005]


di
Daniela Zini





GENOCIDIO
I. L'OLOCAUSTO DI UN ANTICO E FIERO POPOLO: GLI AMERINDI
di Daniela Zini

GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL'UOMO 
1. HOLOCAUST
di Daniela Zini



 
“Que le XXIe ne soit plus,
comme ce siècle qui s’achève, 
le temps des Etats criminels!”
Yves Ternon[1]

al mio Angelo Guardiano

Amai trite parole che non uno
Osava. M’incantò la rima fiore
Amore,
La più antica difficile del mondo.
Amai la verità che giace al fondo,
Quasi un sogno obliato, che il dolore
Riscopre amica. Con paura il cuore
Le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi ascolti e la mia buona
Carta lasciata al fine del mio gioco.
Umberto Saba

Ho deciso di non avere cassetti.
Solo mensole.
Così, i Sogni li tengo bene a vista...

La menzogna può essere di due tipi: bianca o nera.
È nera quando affermiamo qualcosa che sappiamo essere falso.
È bianca quando affermiamo qualcosa che non è in se stesso falso, ma omettiamo una parte importante di Verità. Che sia bianca non rende la menzogna meno mendace né meno deplorevole. Le menzogne bianche possono risultare altrettanto nocive di quelle nere.
Il governo che, attraverso la censura, nasconde al Popolo notizie importanti non è certo più democratico di quello che gli propina delle notizie false.
Poiché sembra meno grave, la menzogna bianca è la più diffusa e, poiché è, anche, spesso la più difficile da smascherare è, talvolta, più nociva di quella nera.
La menzogna bianca è considerata per lo più socialmente accettabile e, perfino, opportuna, per non urtare la suscettibilità del prossimo.
Di solito, si giustifica questa mancanza di sincerità con il desiderio di difendere e di proteggere gli Altri da inutili preoccupazioni.
Il più delle volte, tuttavia, questa protezione è superflua.
Il risultato, pertanto, non è una protezione, ma una mancanza.
E, quando il nostro desiderio di totale onestà contrasta con il bisogno di protezione di certe pesone, può scatenarsi un reale conflitto.
Se dicessimo, sempre, tutto ciò che pensiamo su tutto e su tutti, saremmo considerati degli insolenti dal nostro prossimo, in generale, e degli insubordinati dai nostri superiori.
Nel corso delle nostre relazioni con il prossimo dobbiamo, pertanto, spesso, trattenerci dal manifestare le nostre opinioni, le nostre idee, i nostri sentimenti.
Ma quali regole deve, dunque, seguire chi si è consacrato alla Verità?
Primo, non dire mai il falso.
Secondo, ricordare che l’omissione della Verità è, sempre, una potenziale menzogna e ci impone di prendere una importante decisione morale.
Terzo, la decisione di omettere parte della Verità non deve essere, mai, dettata da un interesse personale.
Quarto, tale decisione, al contrario, deve, sempre, essere presa nell’interesse della persona o delle persone, alle quali intendiamo tacere la verità.
Quinto, la valutazione dell’interesse altrui è un atto così complesso che può essere compiuto solo se si nutre un genuino Amore per gli Altri.
Sesto, il fattore primario nella valutazione dell’altrui interesse è la valutazione della capacità altrui di utilizzare la Verità per la propria crescita spirituale.
E, infine, nel fare questa ultima valutazione dobbiamo tenere, sempre, presente che noi tendiamo a sottovalutare, anziché a sopravvalutare negli Altri tale capacità.
Chissà quante persone sono prigioniere di una falsa fede?
Persone che si recano a messa la domenica solo perché è necessario farlo e perché la gente per bene lo fa.
Persone che ricevono la comunione, ma non sanno sorridere agli Altri.
Accade in certi periodi di non riuscire a stabilire la priorità tra tutte le cose che dobbiamo fare: siamo frastornati e ansiosi, svuotati, alle prese con una sequela incessante di problemi.
Vi sono rami che è illusorio tagliare!
Senza vincoli si resta soli.
Un albero senza rami non è più un albero, ma un palo.
E fossero secchi!
Sono rami verdi, giovani, assetati di vita, attenzione, energia.
Eppure non si può non condividere che anche questi rami disperdono linfa vitale, appesantiscono il passo, sottraggono tempo fecondo, incupiscono il pensiero, distraggono lo sguardo, smorzano la creatività.
Come fare tagli giusti, decisi e nel tempo opportuno, quando non è facile districarsi tra la diversa vitalità dei rami?
Quando la partita non è tra secco e verde, ma tra gradi diversi di verde?
Più l’Uomo cresce in disciplina, amore ed esperienza, più ampia diviene la sua visione del mondo.
E, poiché ciascuno cresce in misura diversa, ciascuno ha un suo personale concetto della Vita.
Questo personale concetto della Vita è la nostra religione.
Poiché tutti possediamo una personale visione del mondo, non importa se limitata, primitiva o inesatta, tutti abbiamo una religione.
Questo fatto, di cui pochi si rendono conto, è importantissimo: Tutti abbiamo una religione.
Noi diamo, in genere, una definizione troppo angusta della religione. Siamo per lo più convinti che la religione comporti necessariamente la fede in Dio, delle pratiche ritualistiche o l’appartenenza a una setta.
Di chi non va, regolarmente, in chiesa o non crede in un essere superiore diciamo infatti:
“Non è religioso.”
Ho sentito affermare da persone erudite:
“Il buddismo non è una vera religione.”,
oppure:
“Gli unitariani hanno escluso la religione dalla propria fede.”,
o ancora:
“Il misticismo è più filosofia che una religione.”
Tendiamo, insomma a considerare la religione come un monolito ricavato da un unico blocco di pietra e ci sorprendiamo che due persone del tutto diverse tra loro si considerino entrambe cristiane o ebree, o che un ateo possieda più carità cristiana di un cattolico, che va regolarmente a messa la domenica.
In genere, noi non ci rendiamo esattamente conto di quale sia il nostro vero concetto di Vita.
Vi sono, perfino, persone che credono di avere un certo tipo di religione, mentre, in realtà, la loro religione è tutt’altra.
Ma da dove nasce la nostra visione del mondo?
Come si sviluppa la nostra personale religione?
Le determinazioni sono infinite e qui non possiamo esaminarle tutte.
Ci basterà dire che il fattore principale è la cultura cui apparteniamo.
Se siamo europei siamo portati a ritenere che Cristo fosse bianco, se siamo africani che fosse nero.
Un indiano nato a Bombay o a Benares diverrà, senza dubbio alcuno, induista e avrà una visione del mondo pessimistica.
Noi siamo portati a credere in ciò in cui credono le persone che ci circondano e ad accettare come Verità ciò che queste persone ci dicono sulla natura del mondo.
Meno ovvio è il fatto che la cultura ci viene, soprattutto, dalla famiglia e che i genitori ne sono i capiscuola. Inoltre, questa nostra cultura si forma non tanto attraverso ciò che i genitori ci raccontano su Dio e la natura delle cose, ma attraverso ciò che loro fanno, il loro modo di comportarsi l’uno verso l’altro, verso i nostri fratelli e, soprattutto, verso noi stessi.
In altri termini, ciò che noi apprendiamo nella infanzia sulla natura del mondo è determinato dalla natura della nostra esperienza nel microcosmo della famiglia.
Noi siamo, in realtà, come i tre ciechi del proverbio, ciascuno tocca una certa parte dell’elefante e ciascuno pretende di conoscere la vera natura dell’animale.
Così, noi ci azzuffiamo sulle nostre microcosmiche visioni del mondo e tutte le guerre sono Guerre Sante.

“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015, anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario
dei genocidi armeno[2] e assiro-caldeo[3] e dei 40 anni della presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di cambogiani da parte dei Khmer Rossi[4] – chi ha tentato di analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente alla lancinante domanda:
Perché?”


Ricordiamo tutti il genocidio ruandese, esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le responsabilità dell’ONU nel genocidio per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio, anche l’Organizzazione per l’Unità Africana [OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990, quando i ribelli dell’FPR lanciarono i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo Dallaire[5], comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.  
La potenza più presente, dunque, la più influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti d’America, che avevano formato, nel 1990, il Fronte Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto, perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993, e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto internazionale”: la pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali infrazioni.
Il genocidio appartiene, incontestabilmente, a questa categoria “di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità” e minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo” [Preambolo dello Statuto di Roma,  http://www.integrazionemigranti.gov.it/Normativa/documenti-ue/Documents/Statuto%20di%20Roma%20della%20Corte%20Penale%20Internazionale.pdf]. È il crimine più grave riconosciuto dal diritto internazionale, ma anche uno dei più dificili da provare da un punto di vista legale, perché si deve riuscire a provare questa intenzione specifica.
Il carattere “impensabile” degli orrori del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.

“Nuovi concetti richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”, e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa, necessariamente, l’immediata distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79

Vi era, infatti, il bisogno immediato di concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”, coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], scritto all’ombra dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il Processo di Norimberga e nei dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva che “in base alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile condanna” e approvava la Risoluzione 96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.
2 anni dopo, il 9 dicembre 1948, alla vigilia dell’adozione della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo [http://www.interlex.it/testi/dichuniv.htm], veniva approvata, dalla maggioranza dei rappresentanti degli Stati, la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio [https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19994549/201406110000/0.311.11.pdf], che all’articolo 2 recita:

Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)              uccisione di membri del gruppo;
b)              lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)               il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d)              misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e)               trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro.

Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva – “di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico, che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata. Parimenti, quando vengono identificati i leaders o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere provata.
Un genocidio può essere compiuto senza riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati perpetrati:

“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”
[Principi di Norimberga]

A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4]. Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità[6].
La Comunità Internazionale è la sola in diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e  non si potrà essere sicuri di rimuovere una minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda, nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel Timor Occidentale,  era reale. Le milizie massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica, si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta, pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni, di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton, a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono, in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò, puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella forma precaria che aveva, allora, la Società delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece, un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla fine del  XVIII secolo, la Russia si era data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente, utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895 e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che prese il potere, nel 1908. A dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò, rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton. Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa, alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare un processo di prevenzione.

“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola 7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente della religione cristiana e delle sue chiese.”
 
La prevenzione più efficace sarebbe la più precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi, annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale, di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero i  Popoli cosiddetti selvaggi e inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari, slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani, burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che questo crimine sia endemico.
Sul continente americano, nell’America Centrale e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare lo spazio collettivo.
Non è una pratica compassionevole, ma un atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!



   II.                  
LA SHOAH
per ricordare la vergogna dell’uomo
 https://www.youtube.com/watch?v=afoSWxHAnrU
Grido di disperazione e ammonimento all’Umanità sia per sempre questo luogo dove i nazisti uccisero un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari Paesi d’Europa.
Auschwitz - Birkenau 1940-1945

2. 75 anni fa
LA RISIERA DI SAN SABBA
Trieste – La Risiera di San Sabba

“Su quello stesso piazziale, tra l’infermeria e il luogo dove poche ore prima sorgeva la forca, comincia l’opera sacra della Giustizia.”
Enea Fergnani

Dopo l’8 Settembre 1943, la Risiera di San Sabba cambia nome e diviene STALAG 339, un campo di detenzione e di smistamento, ma anche un campo di sterminio, in cui trovano la morte prigionieri politici, partigiani ed ebrei.
 
Trieste – La Risiera di San Sabba

Trieste – La Risiera di San Sabba
Nel settembre del 1943, i nazisti occupano l’ex-Osterreichisches Küstenland. Poi, tra il 16 e il 29 ottobre, sbarcano, a Trieste, i primi 92 specialisti dell’Einsatzkommando Reinhard, un gruppo di pronto intervento, composto da personale altamente specializzato, addetto a compiti particolari, che non aveva alcuna dipendenza dai comandi della Wehrmacht, almeno su un piano gerarchico.
Innegabilmente, è rilevante il fatto che, a capo di tutta l’organizzazione di polizia e antiguerriglia, sia stato posto Odilo Globlocnik, già Brigadeführer SS nel distretto di Lublino, che è vissuto a Trieste fino al 1923, poi, trasferitosi a Klagenfurt, è, spesso, tornato, negli Anni Trenta, nella sua città.  
Operativamente, era necessario trovare un punto di appoggio militare e tale base logistica è la Risiera di San Sabba, edificata, agli inizi del ‘900, per la pilatura del riso e in disuso, negli Anni Quaranta, che offre la struttura e i locali adatti.
Si tratta di un comprensorio, vasto circa 7mila metri quadrati con altri 4mila metri quadrati aggiunti a Sud, verso il mare, nel centro cittadino di Trieste, la città giuliana entrata a fare parte, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, della cosiddetta “zona di operazione del Litorale Adriatico”, sotto il diretto controllo del Drittes Reich, unitamente alle province di Udine, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana.
La Risiera, all’inizio Polizeilager e centro di partenza e di rifornimento per i capisaldi tedeschi in Istria, si trasforma, rapidamente, in un campo di concentramento e di transito per i deportati diretti ai lager di Buchenwald, Dachau e Auschwitz e, dall’inizio del 1944, con l’edificazione di un forno crematorio, collegato alla preesistente ciminiera, e di alcune celle, destinate ai condannati, in un Vernichtungslager, un luogo di sterminio sistematico di una parte dei prigionieri catturati a Fiume, a Trieste, nel Friuli, nel Veneto, sul Carso e in Istria.
Molto spesso, i prigionieri politici vengono sottoposti a torture o usati come ostaggi da eliminare in caso di rappresaglie.
I prigionieri vengono soppressi con il gas dei motori di camion e con colpi di pistola alla nuca. Gli ebrei passano per la Risiera nella rotta verso Auschwitz, e solo alcuni, considerati “non trasportabili”, vengono uccisi a Trieste.
Prima di essere uccisi, i prigionieri sono costretti a spogliarsi.
“Da un calcolo dei vestiti messi in deposito da un prigioniero,”
 scrive Tristano Matta,
“la Corte d’Assise di Trieste stabilisce […] che le vittime sono state non meno di 2mila, esclusi gli ebrei, ma altre fonti italiane e iugoslave danno cifre di 3-4mila.”
Ceneri e ossa del forno vengono gettate in mare. 

Nella notte tra il 29 ed il 30 aprile del 1945, quando ormai i reparti partigiani jugoslavi del IX Korpus hanno, praticamente, conquistato la città, l'edificio del forno crematorio e la ciminiera vengono fatti saltare con la dinamite dai nazisti in fuga per eliminare le prove dei loro crimini, secondo una prassi seguita in altri campi, al momento del loro abbandono.

Nel Dopoguerra, la Risiera è occupata dalle truppe alleate, adibita a campo profughi, e, infine, lasciata in stato d'abbandono.

Dal 1965, la Risiera di San Sabba è divenuta Monumento Nazionale per decreto del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, dal 1975, ristrutturata su progetto dell'architetto Romano Boico, è Civico Museo della Risiera di San Sabba.
Nel 1976, viene celebrato, presso la Corte di Assise di Trieste, il processo a carico di uno dei criminali nazisti che hanno gestito il lager, Joseph Oberhauser, comandante della Risiera e August Dietrich Allers, già comandante dell’Einsatzkommando Reinhard, che muore durante la fase istruttoria.
Oberhauser viene condannato all’ergastolo, in contumacia.
Il processo di Trieste, resta, non solo per questo, un processo “parziale […] quanto alla sua capacità di individuare e punire tutti i responsabili, ma anche perché circoscritto per scelta della pubblica accusa, condivisa dallo stesso magistrato inquirente, “ai soli fatti di soppressione di persone che per certo non avevano avuto ad esplicare attività contraria agli interessi militari dell’Autorità occupante”. Limitato, quindi, alle sole vittime definite “innocenti”, con esclusione delle numerose vittime “non innocenti”, vale a dire “implicate in attività militari o politiche”, in sostanza, partigiani e detenuti politici.
Pressoché tutta la documentazione compromettente è stata bruciata nel crematorio, il 28 aprile 1945.
Complessivamente, in circa 18 mesi di esistenza, il Campo di San Sabba avrebbe ospitato 25mila prigionieri. Almeno il 95% dei prigionieri sono morti: o trucidati a San Sabba [circa il 25%], o nei campi dove venivano avviati, prima ad Auschwitz, poi, con l’approssimarsi dei sovietici, essenzialmente a Dachau e a Buchenwald.
Solo circa 1500 detenuti transitati da San Sabba sono riusciti a tornare alle proprie case.

 



Il tramonto di Fossoli
Primo Levi

Io so cosa vuol dire non tornare
A traverso il filo spinato 
Ho visto il sole scendere e morire; 
Ho sentito lacerarmi la carne 
Le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e tornare:
A noi, quando la breve luce è spenta,
Una notte infinita è da dormire.”

7 febbraio 1946

Trieste – La Risiera di San Sabba
“Egli vide un milite delle SS di statura gigantesca che stava conducendo per mano, nel secondo cortile davanti alle prigioni, un bamberottolino bruno e ricciuto [certo un ebreo] che zampettava appena. Il bambino incespicò e cadde in avanti; il milite, lanciando una bestemmia, lo colpì al capo col tacco del suo scarpone. La testa scoppiò letteralmente. Ad anni di distanza quell’amico non riusciva a liberarsi dall’incubo del tonfo provocato dalla povera testolina.”
Carlo Schiffrer, La Risiera


Diego de Henriquez
Diego de Henriquez è uno dei personaggi più interessanti e misteriosi della Trieste del Dopoguerra. Nato a Trieste, il 20 febbraio 1909, da Diego de Henriquez e da Maria Micheluzzi, aveva passato la propria esistenza a raccogliere armi e attrezzature militari di ogni tipo per creare un museo che, proprio esponendo apparecchiature di guerra, fosse un monito per la pace.
E a questo museo volle dare la seguente dicitura:
“Centro internazionale abolizione guerre e per la fratellanza universale e per l’abolizione del male e della morte dal passato e dal futuro, a mezzo dell’invenzione del tempo quale conseguenza dello svincolamento dallo spazio-tempo.”
Nella sua lunga vita di collezionista, iniziata ancora prima del secondo conflitto mondiale, de Henriquez, raccolse anche una infinità di documenti di argomento storico e trascrisse, in una miriade di quaderni, le testimonianze che raccoglieva e le scritte murali che lo colpivano, perfino, quelle nei vespasiani.
In questi quaderni di appunti, noti come i suoi Diari [http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2011/01/09/NZ_23_APRE.html], riportò, anche, le scritte sui muri della Risiera di San Sabba.
Immediatamente dopo la guerra, de Henriquez si era, infatti, tuffato nell’opera di documentazione dei messaggi graffiti sui muri dai deportati.
“L’avevano lasciato prendere i suoi appunti”,
racconta in una intervista Adele Fajon, dopo la misteriosa morte del marito,
“perché i responsabili del tempo, il Governo Militare Alleato di Trieste, vedeva in lui uno studioso. Poi, però, qualcuno ci deve avere ripensato. Doveva essere la fine di luglio o i primi giorni di agosto 1945, mio marito è rimasto nella Risiera tre giorni di seguito. Lavorava anche di notte a lume di candela. Si concedeva soltanto pochi momenti di riposo per dormire. E non posso dimenticare il suo rammarico, la sua delusione quando è tornato a casa dopo tre giorni. Adele mi ha detto, hanno cancellato tutto quello che era scritto sui muri. Quando mi sono svegliato stamani ho trovato una squadra di imbianchini che ha ricoperto tutto con strati di calce. Non ho potuto portare a termine il mio lavoro. Chi lo sa perché lo hanno fatto.” [http://moked.it/blog/2015/10/25/quel-vuoto-che-ci-interroga/]
Durante il Governo Militare Alleato [G.M.A.], che durò fino al mese di ottobre del 1954, de Henriquez ottenne il rilascio di permessi speciali per poter recuperare, in diversi luoghi, anche beni militari e incrementare, così, le sue collezioni.
Con l’autorizzazione della Soprintendenza, potè recarsi a Pola per prelevare materiali e documenti di notevole interesse museale, inclusi quelli relativi alle ormai distrutte fortificazioni della città.

Buona parte dell’archivio di de Henriquez è bruciato insieme a lui, il 2 maggio 1974, nell’incendio, divampato, misteriosamente, nel magazzino di via San Maurizio 13, che, da tempo, era divenuto la sua dimora. Dormiva in una bara di legno con un pesante elmo tedesco calato sulla testa e una maschera da samurai sul viso.

“Così i miei pensieri notturni non mi sfuggono. Risvegliandomi, li ritrovo là, sotto l’elmo e la maschera.”

aveva più volte spiegato agli amici. L'incendio devastò il suo corpo e cancellò gli eventuali segni din una aggressione subita.

Gianfranco Fermo, il secondo giudice istruttore che si occupò della morte di de Henriquez, dichiarò che a suo giudizio “era stato un errore non disporre subito l'autopsia; ho la sensazione impalpabile che qualcosa sia sfuggito ai primi inquirenti”.

L’autopsia fu eseguita a sei mesi dalla morte.

Sulle motivazioni di tanta violenza le indagini hanno dovuto fermarsi. Ma la pista più a lungo battuta porta agli aguzzini e ai boia che hanno operato tra il 1944 e il 1045 alla Risiera di San Sabba.
“Ho raccolto le scritte nelle celle. L’ho fatto poco dopo la fine della guerra, quando queste iscrizioni erano ancora leggibili sulle pareti di celle e cameroni.”,
si compiaceva de Henriquez nel 1964.
Le scritte raccolte erano oltre seicento, tracciate da detenuti ebrei, croati, sloveni, italiani rinchiusi in attesa della morte o dello smistamento verso altri lager del Drittes Reich. Su quelle pareti il professore aveva raccolto nomi, date, disegni e diari murali. Poi i muri erano stati ridipinti e le scritte erano scomparse. Ma lui ne conservava la “MEMORIA” nel suo magazzino: avrebbero potuto smascherare qualche collaborazionista dei nazisti, rimasto indisturbato in città.
In quegli anni, un magistrato, Sergio Serbo, stava indagando sui responsabili di quei crimini e più di uno aveva iniziato a temere di essere smascherato. L'incendio del magazzino di via San Maurizio e la morte di de Henriquez potrebbero essere direttamente collegate al tentativo di far sparire le trascrizioni delle 600 scritte annotate nella Risiera dal professore sul suo taccuino.
Una delle ipotesi che, più spesso, torna, quando si parla di de Henriquez, è che la sua morte, archiviata come “accidentale”, possa essere collegata alla Risiera. Suo figlio Alfonso sosteneva, infatti, che il padre fosse stato ucciso perché, nell’imminenza del processo della Risiera, non rendesse pubblico quanto sapeva[7]. Aveva iniziato a parlare con Il Meridiano di un elenco di collaborazionisti e di alcune foto scattate nel campo di sterminio, che ritraevano accanto ai nazisti un centinaio di italiani che lavoravano alle direttive delle SS.

Il colonnello in congedo Vittorio Cerceo [http://www.lavoceditrieste.net/2011/06/30/6791/, https://www.youtube.com/watch?v=NMvawV4IP_E&feature=share, https://www.youtube.com/watch?v=Ius4UaCV0Ag&feature=share], che ha annotato le sue esperienze nella Guardia di Finanza in un memoriale depositato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, ha preso visione di alcuni di questi Diari, ne ha ricopiato delle parti ed estratto degli appunti:
“Quando, dopo l’8 settembre 1943, i nazisti crearono il Litorale Adriatico e ne elessero Trieste capitale, la popolazione di questa città, nel suo complesso, non dimostrò particolare animosità, purtroppo, contro gli occupanti.
A parte la collaborazione fornita a livello istituzionale dalla élite borghese locale, è significativo annotare quanto scrive de Henriquez: secondo lui, una buona metà della popolazione della città, in quel tremendo biennio, ebbe modo di interagire, in un modo o nell’altro, con gli occupanti in maniera occasionale o stabile.”
Un buon diario, deve essersi detto, vale più di cento cannoni!
Vittorio Cerceo riporta nelle sue note, anche, episodi più spinti, a esempio la storia de “l’avvocato T. Z., fascista convinto e già vice federale nel periodo prebellico”, che dopo le leggi razziali compilò una lista di 40 ebrei e la consegnò al comando SS di piazza Oberdan.
“[Diego] de Henriquez rimase perplesso: il nome era molto conosciuto nella borghesia cittadina. Una conferma, però, gli giunse da fonte inoppugnabile: la dattilografa dell’avvocato gli confidò di aver battuto a macchina lei stessa quell’elenco!”
Quarantaquattro anni dopo, l’omicidio del collezionista è, ancora, insoluto.
I suoi Diari hanno, tuttavia, continuato a parlare.
Dei Diari che si salvarono dal rogo, il giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni[8] ne utilizzò 354. Vi trovò elementi decisivi per illuminare l’inchiesta su Argo 16 [l’aereo militare precipitato, nel 1974, in circostanze sospette, proc. pen. n. 318/87 A.G.I.], la Strage di Peteano [http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/07/26/per-la-strage-di-peteano-condannati-due.html, http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2014/06/02/news/il-procuratore-scrittore-trieste-e-un-iceberg-da-scoprire-1.9340827][9] e la fase costitutiva di Gladio, l’organizzazione paramilitare clandestina che ha operato, per anni, sulla frontiera contro il pericolo slavo-comunista.
Il collezionista era, infatti, in contatto con i neofascisti del movimento Fiamma.
VENEZIA - Il giudice Carlo Mastelloni ha accusato un agente della CIA, il servizio segreto USA, di avere avuto un ruolo nella Strage di Peteano dove, nel ‘72, morirono dilaniati da una bomba tre carabinieri. Il magistrato ha inviato un rapporto alla Procura della Repubblica di Venezia e a quella di Trieste in cui ipotizza per Edward Mac Gettigam, in servizio al centro di Roma nei primi anni Settanta, il reato di concorso in strage. A collegare l’agente segreto americano all’attentato per il quale sono già stati condannati all’ergastolo i neofascisti Vinciguerra e Cicuttini, sarebbe il deposito di armi di Gladio di Aurisina. E per lo stesso motivo il giudice cita i nomi anche di tre ufficiali del servizio segreto italiano, i generali Fortunato, Serravalle e Cavataio, all’epoca responsabili delle strutture del SID cui faceva riferimento Gladio.
Strage di Peteano accusata la CIA, la Repubblica, 8 novembre 1994

Scrive Cerceo:
“Grazie ai contatti di de Henriquez con mercanti di armi antiche e moderne il gruppo riuscì ad entrare in possesso di armi: e qui il figlio del professore dice che lo stesso Carlo Cicuttini avrebbe acquistato in tal modo una pistola. Quando avvenne l’attentato di Peteano, così avrebbe detto Diego de Henriquez: “credo di conoscere gli elementi ultimi coinvolti in questa strage (…) io li ho sempre aiutati a fin di bene e mai a fin di male”.”

All’inizio del 1988, il capitano dei carabinieri Ferdinando Musella, che all’epoca comandava la Compagnia carabinieri di via Hermet e stava indagando su illeciti amministrativi commessi nell’ambito della gestione del costruendo museo “di guerra per la pace”. Nel suo rapporto era arrivato alla conclusione che l’incendio non potesse essere stato scatenato da un cortocircuito, ma era dovuto a un’azione dolosa, in base alle dichiarazioni dell’elettricista Sergio Lanza, all’epoca custode del museo. È interessante rilevare che Lanza, deceduto nel 1990 – non era stato sentito dagli inquirenti nel corso delle prime due inchieste.  Fu mentre era in corso questa inchiesta che arrivò la lettera che ipotizzava il collegamento tra la morte di de Henriquez ed il delitto Perusini. Questa possibilità fu però esclusa dal capitano, che fu poi quasi subito promosso e quindi trasferito ad altro servizio.
Lo scrittore tedesco, triestino di adozione, Veit Heinichen ha presentato, nel 2005, un lungometraggio nel quale racconta in prima persona le ricerche da lui condotte per la stesura del suo romanzo Der Tod wirft lange Schatten [La morte getta lunghe ombre], ispirato anche in parte al mistero della morte di de Henriquez [https://www.youtube.com/watch?v=cibeLk7kftU].
Lo scrittore ipotizza un collegamento tra la morte di de Henriquez ed un’altra morte misteriosa, quella del docente di Storia delle tradizioni popolari, il conte Gaetano Perusini[10], ucciso tre anni dopo da ignoti nella propria casa triestina, nella notte tra il 12 e il 13 giugno del 1977. Un delitto che fu archiviato come tragico finale di un “gioco” sessuale al quale si sarebbe prestato l’insegnante, notoriamente omosessuale.

  
“All’occorrenza salterò nella fossa ridendo perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione”.
Otto Adolf Eichmann [1906-1962]

È l’inizio del 1944.
Un ometto in borghese dall’aria dimessa scende dalla Volkswagen militare che si è inerpicata per le strade in salita del quartiere di San Sabba, a Trieste, ed entra nella Risiera, un complesso di edifici in mattoni, che deve il suo nome per essere stato, in passato, centro di ammasso e pilatura per il riso, di cui l’Impero Austro-Ungarico si approvvigionava in Oriente.
Unita Trieste all’Italia, produttrice di riso, la funzione del complesso si è esaurita e ora la Risiera è divenuta un deposito misto della Wehrmacht, in cui, unitamente al materiale bellico, vengono ammassati i bottini dei saccheggi, e una prigione speciale della Gestapo e delle SS.
L’ometto si intrufola ovunque, guarda, ispeziona, prende misure.
La sua attenzione si concentra, in particolare, sul forno per la pilatura, sull’alta ciminiera che svetta in un angolo del cortile.
Infine, l’ometto fa un cenno affermativo con la testa e sussurra:
“Man kann machen.”
[“Si può fare.”]    
A quel cenno, a quella frase, Trieste deve un triste privilegio: quello di essere stata sede dell’unico campo di sterminio nazista in Italia, l’unico in Europa Meridionale, l’unico, infine, in funzione entro il perimetro urbano di una città. 
 
Erwin Hermann Lambert [1909-1976]

L’ometto, infatti, è Erwin Hermann Lambert, il principale tecnico del Drittes Reich nel settore dei forni crematori – quello di Treblinka porta la sua firma – e l’ispezione da lui compiuta ha confermato che il forno della Risiera può essere, agevolmente, adattato a una funzione diversa: l’incenerimento dei cadaveri. 
 

Già, poche settimane dopo, in marzo, i triestini di San Sabba notarono con stupore, vedendo le dense volute di fumo grigio-giallognolo che si levavano dalla ciminiera, che il forno della Risiera aveva ripreso a fnzionare. Ma quando l’odore di quel fumo arrivò alle loro nari, lo stupore si trasformò in raccapriccio: quel fumo puzzava di morte.  
  

 
Perché proprio a Trieste un campo di sterminio?
La risposta a questa domanda si ricava dalla particolare situazione politica, in cui tutto il territorio della Venezia Giulia si era venuto a trovare, dopo l’8 settembre 1943: la zona, considerata Lebensraum, spazio vitale, perché assicurava al Drittes Reich un corridoio verso l’Adriatico, era stata, completamente, sottratta al controllo del Governo di Salò e annessa, di fatto, al blocco tedesco, con il nome di Adriatisches Küstenland, Litorale Adriatico.
 

Alla grande importanza strategica che il Drittes Reich attribuiva al Litorale Adriatico, faceva da contrappunto un’attività partigiana particolarente intensa, poiché nella zona operavano, anche se senza alcuna coordinazione, gruppi italiani, sloveni e croati.
Per sbaragliarne le formazioni, viene inviato, a Trieste, uno dei maggiori specialisti del Drittes Reich: il Gruppenführer SS Odilo Globocnik.

Odilo Globocnik [1904-1945]

Carissimo a Heinrich Luitpold Himmler, luogotenente di Otto Adolf Eichmann in Polonia, Globocnik aveva sul suo stato di servizio un’altra nota che lo rendeva particolarmente adatto alla bisogna: figlio di un funzionario dell’amministrazione postale austriaca e di una ungherese, era nato, nel 1902, a Trieste e vi era vissuto fino alla maggiore età.

Heinrich Luitpold Himmler [1900-1945]

Quando Globocnik assunse il comando nella regione, chiamò, a Trieste, tutti i suoi collaboratori della campagna polacca: Gottlieb Hering; Josef Oberhauser; Georg Michaelsen, che aveva svolto funzioni di comando a Belzec, Treblinka e Majdanek; Franz Stangl, che aveva, già, lavorato all’Aktion T4 – lo sterminio di oltre 100mila invalidi malati di mente –, e che comandava Treblinka al momento della rivolta dei prigionieri, e Christian Wirth, il maggiore citato da Simon Wiesenthal quale capo di una tristemente famosa “scuola per omicidi”. 
 
Otto Adolf Eichmann
Otto Adolf Eichmann, come altri fuoriusciti nazisti, nel giugno del 1948 venne munito dal vicario di Bressanone, Alois Pompanin, di documenti di identità falsi a nome Riccardo Klement, rilasciati dal Comune di Termeno.
Nel 2007, veniva rinvenuto, tra i documenti coperti dal segreto di Stato in Argetina, il passaporto falso con il quale Eichmann lasciò l’Italia, nel 1950: era intestato a Riccardo Klement, altoatesino, e rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra, in base alla testimonianza del padre francescano Edoardo Domoter.
Adolf Eichmann salpò alla volta del Sud America con la speranza di lasciarsi il passato alle spalle, ma con il sogno di poter fare un giorno ritorno in Germania.
Nel 1960, dopo un lungo periodo di preparazione, il servizio segreto israeliano organizzò un’operazione che portò al rapimento e al segreto trasferimento – nel sistema giuridico argentino l’estradizione non era prevista - di Eichmann in Israele, affinché venisse sottoposto a processo per i crimini di cui si era reso responsabile durante la guerra.
Il processo Eichmann, tenuto nel 1961, a quindici anni da quello di Norimberga, fu il primo processo a un criminale nazista tenutosi in Israele.
Furono presentate diverse richieste di grazia, tutte respinte dall'allora presidente d’Israele, Yitzhak Ben-Zvi.
Adolf Eichmann fu condannato a morte per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei” e fu impiccato nel carcere di Ramla, pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962.
Questa è rimasta l'unica esecuzione capitale di un civile eseguita in Israele.
Eichmann non volle un prete perchè “non aveva tempo da perdere”, non si pentì perché ”il pentimento è per i bambini”, rifiutò anche la cena chiedendo, invece, un pacchetto di sigarette e una bottiglia di Carmel rosso. Ne consumò mezza bottiglia e andò, così, incontro al suo destino, completamente padrone di sé stesso.
Percorse i cinquanta metri che dalla sua cella portavano alla stanza dell’esecuzione, a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie, chiese che non stringessero troppo, in modo da poter rimanere in piedi.
“Non ve ne è bisogno.”,
obiettò quando gli offrirono il cappuccio nero.
“Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.”
Furono le sue ultime parole.


Globocnik e i suoi avevano il compito di portare a termine, in Venezia Giulia, l’Operazione Renhardt – in sigla R1 –, vale a dire l’eliminazione di tutti i nemici del Reich e la confisca dei loro beni. E il principale strumento a disposizione dell’Einsatzkommando di Globocnik per adempiere all’incarico era, appunto, la Risiera.
Non si conosce il numero esatto dei corpi inceneriti alla Risiera: qualcuno, perfino, nega che vi si siano, mai, attuate cremazioni e sostiene che il forno serviva unicamente a eliminare i resti degli animali che vi venivano macellati per nutrire la truppa e i prigionieri – questo giustificherebbe anche l’odore inconfondibile del fumo –. Ma questa tesi ottimistica e non disinteressata è, inconfutabilmente, smentita  da un documento del 1945, nel quale si fa esplicito riferimento ai resti inceneriti di tre corpi umani rinvenuti tra le macerie del forno che i tedeschi si erano preoccupati di far saltare prima di ritirarsi da Trieste.
Carlo Schiffrer scrive che la Risiera è stata soltanto una “modesta officina artigiana di fronte ai grandi stabilimenti industriali” della morte, riferendosi ai campi di sterminio di Dachau, Buchenwald e Mauthausen, ma ciò non toglie che, in meno di un anno di funzionamento, il suo forno crematorio abbia ingoiato, secondo le stime più caute, almeno 3mila corpi umani. La cifra è desunta dal numero – alcune migliaia – di carte di identità rinvenute, dopo la Liberazione, in Risiera, raccolte in alcuni grossi sacchi di iuta. Se è vero che non tutti i proprietari dei documenti siano stati uccisi – o almeno uccisi là – è anche vero che non tutti i prigionieri che sono passati dalla Risiera vi erano giunti “con le carte in regola”: tutti coloro, a esempio, che venivano trasferiti in Risiera dal Coroneo, il carcere ufficiale di Trieste, avevano, già, lasciato alla prima tappa del loro calvario i documenti di identificazione.


Circa 20mila, tuttavia, dovrebbero essere stati, sempre in quell’anno scarso, i prigionieri avvicendatisi alla Risiera.
Molti tra loro gli ebrei.
Ma pochissimi vi trovarono la morte.
Per loro, infatti, la Risiera era soltanto un centro di smistamento, dal quale venivano avviati ai campi di sterminio tedeschi e polacchi.
I 3mila morti della Risiera furono, invece, per la maggior parte, partigiani – o sicuramente antinazisti – italiani, croati e sloveni.


 Non si conosce neppure, tanto meticolosa è stata la cura dei tedeschi di cancellare ogni traccia dei loro crimini, di distruggere ogni documento, come le vittime venissero uccise: si parla di fucilazione, si parla di una mazza di legno con la quale un sottufficiale SS avrebbe colpito alla nuca i predestinati, dopo averli attesi in agguato dietro una porta; ma la presenza, rilevata da alcuni sopravvissuti, di uno strano furgone postale, ermeticamente chiuso, in coincidenza con ogni esecuzione, avvalora, anche, l’ipotesi che i prigionieri venissero uccisi con il gas: il furgone, in questo caso, sarebbe stato una vera e propria camera a gas mobile.


È certo che le uccisioni avvenivano di notte e che, per coprirne quali che fossero, i rumori all’orecchio delle case vicine, le SS facevano rombare i motori di tutti i loro automezzi, aizzavano i cani perché abbaiassero e trasmettevano, al massimo del volume di un sistema di altoparlanti che copriva tutto il campo, allegre marcette militari.
Vi era alla Risiera, anche una forca, ma l’interprete ufficiale del campo, Augusta Reiss, processata e condannata a 13 anni per collaborazionismo, che viveva a Trieste, intervistata da un periodico locale, Il meridiano, sosteneva che si trattasse, invece, di un paranco per sollevare i motori dei veicoli in riparazione.
I prigionieri, alla Risiera, erano rinchiusi negli edifici che si affacciano sul secondo cortile, nel quale circolavano soltanto le SS tedesche e ausiliari cosacchi e ucraini dell’esercito di Vlassov, mentre vi era, tassativamente, vietato l’accesso al personale italiano: i più ammassati in grandi cameroni, al piano terra e al primo piano, ma alcuni, quelli ritenuti più pericolosi o meritevoli di una punizione più severa, letteralmente stipati fino a 5 o 6 per ognuna delle 17 cellette progettate per ospitare una sola persona e ventilate soltanto per mezzo di un piccolo buco nella porta di legno, buco che gli aguzzini potevano chiudere, a loro piacimento, dall’esterno.
Da queste 17 cellette, in prevalenza, venivano prelevati, in media due volte alla settimana, i condannati a morte.
Poi, la notte stessa, la ciminiera iniziava a fumare.
E i disgraziati, rinchiusi nelle cellette o nei cameroni, quando l’aria, già, irrespirabile per la sporcizia, per la  promiscuità, per l’afrore dei corpi, sentivano aggiungersi, agli altri tanfi, quello della carne bruciata, intuivano che, ancora una volta, la morte era passata loro accanto.
La mattina dopo, due SS caricavano su una carriola grossi sacchi di carta da cemento e, attraverso quello che i prigionieri chiamavano “il sentiero delle ceneri”, andavano a vuotarne il contenuto in mare, a poche centinaia di metri.
Dei delitti, delle centinaia, migliaia di delitti, non restava, così, nessuna traccia.
Tra le vittime certe della Risiera vi furono anche alcuni rappresentanti di primo piano della Resistenza in Venezia Giulia: i dirigenti comunisti Luigi Fransin  [medaglia d’oro] e Vincenzo Gigante; Ottorino Pesenti e Luciano Manli di Giustizia e Libertà; Virginia Tonelli e Cecilia Deganutti, eroine della Resistenza friulana; Lorenzo Vidali, capo dell’ufficio politico della Brigata Garibaldi Trieste; Paolo Reti, segretario del CLN.



Il caso di Reti è esemplare per quanto riguarda l’assoluto arbitrio e la segretezza con cui le SS compivano le loro “operazioni di polizia”. Dalla Risiera, Reti riuscì a fare uscire un biglietto, in cui chiedeva di informare del suo arresto il vescovo di Trieste. Il messaggio arrivò a destinazione, ma quando monsignor Antonio Santin si presentò a un ufficiale della Risiera per avere notizie di Reti, ottenne una risposta laconica, ma esauriente:
“Er würde ershossen.”
“È stato fucilato.”
Il 27 aprile 1945, all’approssimarsi del tracollo tedesco, il forno della Risiera fu fatto saltare e tutti i documenti relativi alla triste attività che vi si svolgeva, vennero dati alle fiamme.
Tutto quello che ci resta, pertanto, per ricostruire le vicende del campo di sterminio italiano, sono le testimonianze dei sopravvissuti e i graffiti che alcuni prigionieri, poi scomparsi, sono riusciti a lasciare impressi –, spesso, con nessun altro strumento che le proprie unghie – sui muri delle celle, i biglietti che sono riusciti a nascondere in crepe, interstizi, fessure. Particolarmente toccante, un biglietto scritto da una donna veneziana.
Poche scarne parole in cui è contenuto il calvario e l’olocausto di una intera famiglia: 

Arrestato il 21 settembre 1944 – Venezia – marito Aldo Sereni, nato il 19-12-1894 – Partito [per il lager] 12 ottobre – Moglie Giannina Bordignon Sereni, 24-5-1896 – Figli Ugo Sereni, 6-1-1925, Paolo Sereni, 24-5-1927, Elena Sereni, 30-3-1930 – Che Iddio protegga la mia famiglia.
Ugo, Paolo ed Elena partiti per la Germania, 11-1-1945. La madre. Che Iddio benedica i miei figli e mio marito. Sono desolata. Giannina Sereni Bordignon.

Di tutta la famiglia Sereni, soltanto Paolo è sopravvissuto ai campi di sterminio.   
Il processo per i crimini commessi alla Risiera di San Sabba iniziò il 16 febbraio 1976, a oltre 30 anni dalla fine della Secoda Guerra Mondiale, dinanzi alla Corte di Assise di Trieste: presidente Domenico Maltese; giudice a latere Vincenzo D’Amato; pubblico ministero Claudio Coassin.
Al processo erano presenti soltanto i giudici, i testimoni e i legali.
Si svolse, dopo un lungo periodo di silenzio giudiziario sui crimini nazisti in Italia, che avevano avuto una prima sanzione nei procedimenti contro Herbert Kappler [Roma 1948] e Walter Reder [Bologna 1951].
Solo la caparbia volontà di un gruppo di ex-deportati e di familiari di vittime del lager, con l’appoggio dell’ANED e dell’Unione delle Comunità ebraiche, ha imposto lo svolgimento del processo, apertamente osteggiato dalle autorità tedesche [http://www.radioparole.it/risiera/risiera.html].
Nella formulazione originaria il capo di accusa coinvolgeva 14 persone tra ufficiali e subalterni delle SS, tutti tedeschi e ucraini.
L’esclusione dal rinvio a giudizio di 9 subalterni perché non identificati e di 3 ufficiali, Christian Wirth, Franz Stangl, Gottlieb Hering, perché da tempo deceduti, e, poi, la morte di Dietrich Allers, avvenuta a pochi mesi dal dibattimento, ridussero il numero degli imputati effettivamente all’unico rimasto in vita, Joseph Oberhauser, che non poté venire estradato a causa degli accordi italo-tedeschi, che prevedevano tale istituto solo per i crimini commessi dopo il 1948, e continuò a gestire una birreria, a Monaco, fino alla sua morte, all’età di 65 anni, il 22 novembre 1979.
L’azione giudiziaria avviata dalla Corte di Assise di Trieste contribuì
a fare chiarezza
sui crimini commessi dall’occupante tedesco tra le mura della Risiera di San Sabba, dal 1943 al 1945; ma il processo non poteva essere fatto al nazismo o al fascismo, solo alla responsabilità personale. Un processo parziale, dunque, quanto alla sua capacità di individuare e punire tutti i responsabili, ma anche perché circoscritto per scelta della pubblica accusa, condivisa dallo stesso magistrato inquirente, “ai soli fatti di soppressione di persone che per certo non avevano avuto ad esplicare attività contraria agli interessi militari dell’Autorità occupante”.

Il dibattimento si concluse, il 29 aprile 1976, con la condanna all’ergastolo dell’unico responsabile allora identificato e vivente, Joseph Oberhauser.
La condanna venne confermata dalla Corte di Appello, nel 1978.
Un processo inutile, dunque?
Non secondo Simon Wiesenthal, che ha dedicato tutta la sua vita a fare luce sui crimini nazisti:
“Non è solo un’esigenza di giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti. Chiunque pensasse ad un nuovo nazismo o a un nuovo fascismo deve sapere che, alla fine, sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente.”


Daniela Zini
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[1] Una delle caratteristiche più rilevanti concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura dello Stato:
“Se le circostanze sembrano richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di Stato.”
Infatti, lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica, possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e ideologici,  che permettono di pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando; essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può pianificare con efficacia questo tipo di azione.

[2] Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di Washington.
“Il presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento di Stato americano Marie Harf.

[3] Nel 2015, abbiamo commemorato, i 100 anni del genocidio armeno, ma il genocidio di un’altra comunità cristiana, nella stessa epoca, da parte dell’Impero Ottomano, è molto meno conosciuto. Tra i 250mila e i 350mila assiro-caldei, vale a dire più della metà della comunità, sono periti tra il 1915 e il 1918 [http://www.lemondedesreligions.fr/actualite/le-genocide-meconnu-des-assyro-chaldeens-sous-l-empire-ottoman-21-05-2015-4735_118.php].

[4] Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva, infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.

[5] Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese del 1994”.
Allo scoppio della tragedia, l’ONU decide di ritirare gran parte del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
 Il suo appello rimane inascoltato.
La terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due tentativi di suicidio.
Nel 2003, Dallaire pubblica Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con l’ONU.
Dal 12 aprile 2011, a Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di tutto il Mondo di Milano.

[6] La Storia dei crimini contro l’Umanità è ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del 388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica, che costò all’imperatore Teodosio un anno di  ”digiuno” dai sacramenti, impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii, stupri, spergiuri e altri crimini “in violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva respinto l’ultimatum di Francia, Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano, avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno, infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia coincide con quella del Popolo stesso.

[7] Vi è una affermazione di Alfonso de Henriquez, fatta nel corso della presentazione del libro di Silvio Maranzana Le armi per Trieste italiana, nel gennaio 2004, che, se corrisponde al vero, rappresenta un ulteriore tassello per avvalorare l’ipotesi di un complotto. Alfonso de Henriquez sosteneva che la notte in cui suo padre trovò la morte, il proprio numero di telefono fosse stato cambiato, senza che gli fosse stata data comunicazione, infatti chi cercò di avvertirlo della disgrazia non riuscì a farlo fino al mattino successivo.

[8] Vi sarebbe inoltre un filo che lega Diego de Henriquez alla Strage di  Peteano, stando almeno a quanto dichiarato in fase istruttoria al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni da Alfonso de Henriquez:
“Per quanto riguarda le persone legate più strettamente a mio padre nell’ambito della ricerca, studio e rimessa a punto dell’armamento grande e piccolo, ricordo di Franco Potossi […] e di tale Serdi […] conosciuti da mio padre agli inizi degli anni Sessanta allorché i predetti si costituirono in gruppo operativo per verificare i siti dei depositi di mio padre; peraltro i predetti erano già da me conosciuti quali militanti del movimento Fiamma che si riuniva in piazza Goldoni, movimento operante anche all’epoca della collaborazione con mio padre, forti della propria conoscenza armeologica e speleologica. Io li avevo conosciuti nel 1947 ed avevo io insegnato loro la tecnica di andare in grotta e poi nel 1954 sono andato in Inghilterra […] Con il passare del tempo ed ascoltando mio padre ho capito che lui era strumentalizzato da detto gruppo che aveva cominciato a collaborare con papà nel 1961, 1962”. 

[9] La Strage di Peteano, nella quale, il 31 maggio 1972, persero la vita 3 carabinieri, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni e altri 2, Angelo Tagliari e Giuseppe Zazzaro, rimasero feriti, si inserisce in un momento storico particolarmente difficile per il nostro Paese.
È un atto terroristico, che si colloca in un preciso e delicato contesto storico-politico, accompagnato da temuti tentativi di colpo di Stato. Proprio all’inizio di quel mese, il 7 maggio, si erano svolte, in Italia, le elezioni politiche anticipate in un clima di tensione e di grande contrapposizione tra le forze politiche e che avevano assegnato la guida del Paese a un nuovo esecutivo, presieduto da Giulio Andreotti, mentre il 17 maggio si era verificato l’omicidio del commissario Luigi Calabresi.

[10] Alla fine tragica di de Henriquez seguì quella del professor Gaetano Perusini [1910-1977], amico di De Henriquez e possidente dei vigneti di Rocca Bernarda che, durante la Seconda Guerra Mondiale fu un punto di incontro di partigiani.
Va ricordato che furono tre le inchieste aperte e, poi, archiviate per la morte di de Henriquez. Nel corso della prima indagine il procuratore di turno non richiese neppure l’autopsia, che verrà effettuata appena sette mesi dopo nel corso della riapertura dell’inchiesta seguita a una serie di articoli di stampa, che avevano sollevato dei sospetti sulla morte dello studioso.
La terza inchiesta fu aperta, nel 1988, da un ufficiale dei Carabinieri che stava indagando su illeciti amministrativi commessi nell’ambito della gestione del costruendo museo. Fu mentre era in corso questa inchiesta che arrivò una lettera che ipotizzava il collegamento con il delitto Perusini, circostanza questa che fu, tuttavia, smentita dall’indagante, poi trasferito ad altro servizio.
In tale modo anche questa inchiesta si concluse senza alcun risultato.

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