GENOCIDIO
Ὅταν βλέπω σε , προσκυνῶ, καί τούς λόγους,
τῆς παρθένου τόν οἶκον ἀστρῶον βλέπων
εἰς οὐρανόν γαρ ἐστί σου τά πράγματα,
Ὑπατία σεμνή, τῶν λόγων εὐμορφία,
ἄχραντον ἄστρον τῆς σοφῆς παιδεύσεως.
Παλλαδάς [319 ή το 360 – δεκαετία 390 ή 430]
Simon Wiesenthal [1908-2005]
Simon Wiesenthal [1908-2005]
di
Daniela Zini
GENOCIDIO
I. L'OLOCAUSTO DI UN ANTICO E FIERO POPOLO: GLI AMERINDI
di Daniela Zini
GENOCIDIO
II. LA SHOAH PER RICORDARE LA VERGOGNA DELL'UOMO
1. HOLOCAUST
di Daniela Zini
“Que le XXIe ne soit plus,
comme ce siècle qui s’achève,
le temps des
Etats criminels!”
al
mio Angelo Guardiano
Amai trite parole
che non uno
Osava. M’incantò la rima fiore
Amore,
La più antica difficile del mondo.
Amai la verità che
giace al fondo,
Quasi un sogno obliato, che il dolore
Riscopre amica. Con paura il cuore
Le si accosta, che più non l’abbandona.
Amo te che mi
ascolti e la mia buona
Carta lasciata al fine del mio gioco.
Umberto Saba
Ho deciso di non avere cassetti.
Solo mensole.
Così, i Sogni li tengo bene a vista...
La menzogna può essere di due tipi: bianca o nera.
È nera quando affermiamo qualcosa che sappiamo essere falso.
È bianca quando affermiamo qualcosa
che non è in se stesso falso, ma omettiamo una parte importante di Verità. Che
sia bianca non rende la menzogna meno mendace né meno deplorevole. Le menzogne
bianche possono risultare altrettanto nocive di quelle nere.
Il governo che, attraverso
la censura, nasconde al Popolo notizie importanti non è certo più democratico
di quello che gli propina delle notizie false.
Poiché sembra meno grave, la
menzogna bianca è la più diffusa e, poiché è, anche, spesso la più difficile da
smascherare è, talvolta, più nociva di quella nera.
La menzogna bianca è
considerata per lo più socialmente accettabile e, perfino, opportuna, per non
urtare la suscettibilità del prossimo.
Di solito, si giustifica
questa mancanza di sincerità con il desiderio di difendere e di proteggere gli
Altri da inutili preoccupazioni.
Il più delle volte, tuttavia, questa protezione è
superflua.
Il risultato, pertanto, non
è una protezione, ma una mancanza.
E, quando il nostro desiderio di totale onestà
contrasta con il bisogno di protezione di certe pesone, può scatenarsi un reale
conflitto.
Se dicessimo, sempre, tutto ciò che pensiamo su
tutto e su tutti, saremmo considerati degli insolenti dal nostro prossimo, in
generale, e degli insubordinati dai nostri superiori.
Nel corso delle nostre relazioni con il prossimo
dobbiamo, pertanto, spesso, trattenerci dal manifestare le nostre opinioni, le
nostre idee, i nostri sentimenti.
Ma quali regole deve,
dunque, seguire chi si è consacrato alla Verità?
Primo, non dire mai il
falso.
Secondo, ricordare che l’omissione
della Verità è, sempre, una potenziale menzogna e ci impone di prendere una
importante decisione morale.
Terzo, la decisione di
omettere parte della Verità non deve essere, mai, dettata da un interesse
personale.
Quarto, tale decisione, al
contrario, deve, sempre, essere presa nell’interesse della persona o delle
persone, alle quali intendiamo tacere la verità.
Quinto, la valutazione dell’interesse
altrui è un atto così complesso che può essere compiuto solo se si nutre un
genuino Amore per gli Altri.
Sesto, il fattore primario
nella valutazione dell’altrui interesse è la valutazione della capacità altrui
di utilizzare la Verità per la propria crescita spirituale.
E, infine, nel fare questa
ultima valutazione dobbiamo tenere, sempre, presente che noi tendiamo a
sottovalutare, anziché a sopravvalutare negli Altri tale capacità.
Chissà quante persone sono prigioniere di una falsa fede?
Persone che si recano a messa la domenica solo perché è
necessario farlo e perché la gente per bene lo fa.
Persone che ricevono la comunione, ma non sanno sorridere agli
Altri.
Accade in certi periodi di
non riuscire a stabilire la priorità tra tutte le cose che dobbiamo fare: siamo
frastornati e ansiosi, svuotati, alle prese con una sequela incessante di
problemi.
Vi sono rami che è illusorio tagliare!
Senza vincoli si resta soli.
Un albero senza rami non è
più un albero, ma un palo.
E fossero secchi!
Sono rami verdi, giovani,
assetati di vita, attenzione, energia.
Eppure non si può non condividere che anche questi
rami disperdono linfa vitale, appesantiscono il passo, sottraggono tempo
fecondo, incupiscono il pensiero, distraggono lo sguardo, smorzano la
creatività.
Come fare tagli giusti,
decisi e nel tempo opportuno, quando non è facile districarsi tra la diversa
vitalità dei rami?
Quando la partita non è tra
secco e verde, ma tra gradi diversi di verde?
Più l’Uomo cresce in disciplina, amore ed esperienza, più ampia
diviene la sua visione del mondo.
E, poiché ciascuno cresce in misura diversa, ciascuno ha un suo
personale concetto della Vita.
Questo personale concetto della Vita è la nostra religione.
Poiché tutti possediamo una personale visione del mondo, non importa se
limitata, primitiva o inesatta, tutti abbiamo una religione.
Questo fatto, di cui pochi si rendono conto, è importantissimo: Tutti abbiamo
una religione.
Noi diamo, in genere, una definizione troppo angusta della
religione. Siamo per lo più convinti che la religione comporti necessariamente
la fede in Dio, delle pratiche ritualistiche o l’appartenenza a una setta.
Di chi non va, regolarmente, in chiesa o non crede in un essere
superiore diciamo infatti:
“Non è religioso.”
Ho sentito affermare da persone erudite:
“Il buddismo non è una vera religione.”,
oppure:
“Gli unitariani hanno escluso la religione dalla propria fede.”,
o ancora:
“Il misticismo è più filosofia che una religione.”
Tendiamo, insomma a considerare la religione come un monolito
ricavato da un unico blocco di pietra e ci sorprendiamo che due persone del
tutto diverse tra loro si considerino entrambe cristiane o ebree, o che un ateo
possieda più carità cristiana di un cattolico, che va regolarmente a messa la
domenica.
In genere, noi non ci rendiamo esattamente conto di quale sia il
nostro vero concetto di Vita.
Vi sono, perfino, persone che credono di avere un certo tipo di
religione, mentre, in realtà, la loro religione è tutt’altra.
Ma da dove nasce la nostra visione del mondo?
Come si sviluppa la nostra personale religione?
Le determinazioni sono infinite e qui non possiamo esaminarle
tutte.
Ci basterà dire che il fattore principale è la cultura cui
apparteniamo.
Se siamo europei siamo portati a ritenere che Cristo fosse bianco, se siamo
africani che fosse nero.
Un indiano nato a Bombay o a Benares diverrà, senza dubbio
alcuno, induista e avrà una visione del mondo pessimistica.
Noi siamo portati a credere in ciò in cui credono le persone che
ci circondano e ad accettare come Verità ciò che queste persone ci dicono sulla
natura del mondo.
Meno ovvio è il fatto che la cultura ci viene, soprattutto,
dalla famiglia e che i genitori ne sono i capiscuola. Inoltre, questa nostra cultura
si forma non tanto attraverso ciò che i genitori ci raccontano su Dio e la
natura delle cose, ma attraverso ciò che loro fanno, il loro modo di
comportarsi l’uno verso l’altro, verso i nostri fratelli e, soprattutto, verso
noi stessi.
In altri termini, ciò che noi apprendiamo nella infanzia sulla
natura del mondo è determinato dalla natura della nostra esperienza nel
microcosmo della famiglia.
Noi siamo, in realtà, come i tre ciechi del proverbio, ciascuno
tocca una certa parte dell’elefante e ciascuno pretende di conoscere la vera
natura dell’animale.
Così, noi ci azzuffiamo sulle nostre microcosmiche visioni del
mondo e tutte le guerre sono Guerre Sante.
“Hier ist kein Warm!”
“Qui non vi è Perché!”
si sentì
rispondere Primo Levi, al suo arrivo ad Auschwitz.
Nel 2015,
anno di commemorazione dei 70 anni della liberazione dei campi nazisti, del centenario
“dei genocidi armeno e assiro-caldeo e dei 40 anni della
presa di Phnom Penh – che apriva la via al massacro di 1,7 milione di
cambogiani da parte dei Khmer Rossi – chi ha tentato di
analizzare la Storia non è, ancora, riuscito a dare una risposta soddisfacente
alla lancinante domanda:
Perché?”
Ricordiamo tutti il genocidio ruandese,
esploso nella primavera del 1994.
Come dimenticare un simile orrore?
Dei 7 milioni di abitanti che contava il
Ruanda, nel 1994, non meno di 800mila furono soppressi, in modo sistematico, in
meno di 100 giorni.
Oggi, noi sappiamo che vi è di peggio di
un genocidio: sapere che si sarebbe potuto evitare un genocidio.
Il 16 gennaio 2000, la commissione di
inchiesta delle Nazioni Unite sul Ruanda, dopo otto mesi di indagini, denunciò le
responsabilità dell’ONU nel genocidio
per non essere intervenuta dall’inizio delle violenze. Nel mese di luglio,
anche l’Organizzazione per l’Unità Africana
[OUA] pubblicò un rapporto che accusava la Francia [François Mitterand e
Edouard Balladur], gli Stati Uniti [Bill Clinton e Madeleine Allbright], il Belgio
e le Nazioni Unite di non aver impedito il massacro. In seguito alla
pubblicazione di questo rapporto, il governo ruandese nominò una commissione
incaricata di censire le vittime del genocidio, partendo dall’ottobre del 1990,
quando i ribelli dell’FPR lanciarono
i primi attacchi al regime di Juvénal Habyarimana. Le successive indagini
misero in luce anche il coinvolgimento di personalità religiose negli scontri e
nei massacri di gruppo.
Nel 1993, il generale canadese Roméo
Dallaire,
comandante del contingente ONU UNAMIR,
in Ruanda, era stato incaricato di sorvegliare e monitorare il processo di
pace, avviato con gli Accordi di Arusha del 1993-1994. Tali accordi prevedevano
la formazione di un governo di transizione, in cui convivessero il partito del
presidente Juvénal Habyarimana, al potere da oltre 20 anni, e il Fronte Patriottico Ruandese. Dallaire
aveva denunciato importanti acquisti illegali di armi da parte dei soldati
regolari, dei miliziani Interahamwe e della popolazione civile, segnalando i
rischi di nuove violenze.
Il famoso telegramma all’ONU, nel gennaio del 1994, rimase inascoltato.
La potenza più presente, dunque, la più
influente in Ruanda, la Francia, se ne lavò le mani. Accusava gli Stati Uniti d’America,
che avevano formato, nel 1990, il Fronte
Patriottico Ruandese [FPR], costituito da Tutsi, di essere i responsabili
del genocidio. Gli Stati Uniti negarono il genocidio, anche quando era in atto,
perché gli americani erano, ancora, turbati dall’esperienza somala, nel 1993,
e, dopo la morte di dieci soldati, spalleggiati dal Belgio, decisero di
rimpatriare il loro contingente, con il pretesto di mettere fine alla Missione
delle Nazioni Unite UNAMIR, mentre i Tutsi cadevano come
mosche.
Noi sapevamo che persone morivano.
Credevamo di sapere!
Non sapevamo nulla…
I media non ci hanno, mai, informato su quanto
accadeva e non lo abbiamo saputo che qualche anno dopo il genocidio.
Sulla scia delle efferatezze perpetrate, durante la
Seconda Guerra Mondiale, certi atti, che determinano la responsabilità penale
dei singoli colpevoli e l’applicazione nei loro confronti del principio della
competenza universale, sono assurti al rango eccezionale di “crimini di diritto
internazionale”: la
pirateria e la tratta degli schiavi costituiscono i primi esempi di tali
infrazioni.
Il carattere “impensabile” degli orrori
del 1945, spiega, forse, perché occorresse un nuovo termine per designare i crimini commessi dai nazisti.
“Nuovi concetti
richiedono nuovi termini. Per “genocidio” intendiamo la distruzione di una
Nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata dall’autore per
descrivere una pratica antica nel suo moderno sviluppo, è costituita dalla
parola greca antica genos [popolo, gente] e dal latino caedo [uccido] e
corrisponde nella sua formulazione a “tirannicidio”, “omicidio”, “infanticidio”,
e così via. Generalmente parlando, un genocidio non significa, necessariamente,
l’immediata distruzione di una Nazione, a eccezione di quando viene effettuato
eliminando in massa tutti i membri di una Nazione. È da intendersi piuttosto
come un “piano coordinato”, costituito da differenti azioni mirate alla
distruzione delle fondamenta dell’esistenza di gruppi nazionali, con l’intento
di annichilirli. Gli obiettivi di un simile piano possono essere la
disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del
linguaggio, dei sentimenti nazionali, della religione e delle strutture
economiche di un determinato gruppo nazionale, nonché la distruzione della
sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e anche della
stessa vita degli individui che fanno parte di questo gruppo. Il genocidio è
contro il gruppo nazionale in quanto entità e le azioni sono dirette contro gli
individui non nella loro identità, ma in quanto membri di quella nazionalità.”
Raphael Lemkin, Axis
Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa occupata], 1944, p. 79
Vi era, infatti, il bisogno immediato di
concettualizzare quell’orrore e coprì questo bisogno il termine “genocidio”,
coniato, nel 1944, dal giurista polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, nel
suo libro Axis Rule in occupied Europe [Il ruolo dell’Asse nell’Europa
occupata], scritto all’ombra
dell’Olocausto nazista, chiaro caso di un regime che tentava di sterminare
interi gruppi, la loro cultura e la vita di tutti i loro membri.
Durante il Processo di Norimberga e nei
dibattiti post-bellici, il termine genocidio divenne di uso comune.
In breve, passò dalle pagine di Lemkin
alla legislazione internazionale.
L’11 dicembre 1946, infatti, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconosceva
che “in base
alla legge internazionale il genocidio è un crimine che tutto il mondo civile
condanna” e approvava la Risoluzione
96-I, che condannava il genocidio come “una negazione del diritto alla
vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano
stati distrutti in tutto o in parte”.
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno
degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
a)
uccisione di membri del
gruppo;
b)
lesioni
gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c)
il fatto di sottoporre
deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua
distruzione fisica, totale o parziale;
d)
misure miranti a impedire
nascite all’interno del gruppo;
e)
trasferimento forzato di
fanciulli da un gruppo a un altro.
Su insistenza russa e del blocco
sovietico, nella definizione approvata, erano scomparsi i gruppi politici, che
mancavano – secondo il delegato polacco, intervenuto nella stesura conclusiva –
“di caratteri
distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare
nella definizione”. Tuttavia, atti similari – commessi in modo
generale e sistematico e nel quadro di una politica – contro i membri di tali
gruppi sono, senza dubbio alcuno, crimini contro l’Umanità.
Due elementi essenziali debbono essere
stabiliti per una accusa di genocidio: un elemento materiale, vale a dire l’esecuzione
di uno qualsiasi degli atti enumerati nel sopracitato articolo 2 e un elemento
psicologico, costituito, generalmente, dall’intenzione colpevole, in questo
caso particolare, “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo
nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
La violenza genocidaria è formulata ed
eseguita da individui, ma gli atti debbono integrarsi in un piano sistematico,
che miri alla distruzione di un gruppo. Non è necessario ricondurre il
programma di distruzione alla politica di uno Stato, può colmare questo ruolo un
altro gruppo organizzato – una organizzazione internazionale, un governo
sub-nazionale, una milizia, una organizzazione terrorista, una potenza
occupante – che disponga dei mezzi necessari per condurre l’impresa a buon
fine. L’atto deve, inoltre, essere compiuto nell’intento esplicito di
distruggere il gruppo e concepito per favorire la realizzazione di questo
obiettivo. Il genocidio è diretto contro il gruppo in quanto entità: le azioni
che provoca sono condotte contro individui, non in ragione delle loro qualità
individuali, ma unicamente in quanto membri del gruppo. In tale modo, la
vittima ultima del crimine non è l’individuo, ma il gruppo. Quest’ultimo, del
resto, è, il più sovente, definito e circoscritto dagli aggressori, senza che
sia necessario manifestare il senso di appartenenza o anche sceglierne o negarne
un nesso.
Non è affatto necessario pianificare l’eradicazione
della popolazione scelta nel suo insieme o su scala mondiale. Si deve poter
rilevare l’intenzione di eliminarne, se non l’insieme, almeno una parte
sostanziale, al di là della quale l’esistenza del gruppo è minacciata.
Parimenti, quando vengono identificati i leaders
o le autorità socio-culturali più ragguardevoli.
Non è fissata una soglia quantitativa di
vittime: così, è possibile che l’assassinio di una sola persona possa dare
luogo a una accusa di genocidio, se si può provare l’intenzione specifica
associata alla sua esecuzione; diversamente, un massacro di massa può sfuggire
alla qualifica di genocidio, se questa intenzione è assente o non può essere
provata.
Un genocidio può essere compiuto senza
riguardo alle contingenze – in tempo di pace come in tempo di guerra – ed è
imprescrittibile. È ininfluente, altresì, che gli atti punibili non abbiano
costituito una violazione del diritto interno del Paese, dove sono stati
perpetrati:
“Il fatto che il diritto interno non punisca un atto che
costituisce un crimine di diritto internazionale non solleva dalla
responsabilità in diritto internazionale chi lo abbia commesso.”
[Principi di Norimberga]
A oggi, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda [TPIR], creato dalle Nazioni Unite per giudicare i presunti
principali responsabili del genocidio del 1994, in Ruanda, ha
pronunciato 27 condanne e 5 assoluzioni. Secondo l’ONU, il genocidio ha fatto circa 800mila morti, essenzialmente di minoranza
Tutsi. Diversamente, il Tribunale Penale
Internazionale per l’ex-Jugoslavia, per il massacro di Srebrenica, non ha
pronunciato, che una condanna – confermata in appello, il 14 aprile 2004 –, per
fatti di genocidio, contro il generale bosniaco Radislav Krstic, [http://www.icty.org/case/krstic/4].
Vidoje Blagojevic è stato il secondo condannato per complicità nel genocidio di
Srebrenica.
Come espresso dal Segretario Generale dell’ONU, il genocidio è un nome nuovo per un
crimine antico, vecchio quanto la Storia dell’Umanità.
La Comunità Internazionale è la sola in
diritto di intervenire per prevenire un genocidio ed è in questa ottica che si
deve considerare la prevenzione. Se si interverrà con urgenza, quando i
massacri sono iniziati, molto sovente, sarà troppo tardi e non si potrà essere sicuri di rimuovere una
minaccia di genocidio, anche se si avrà la soddisfazione di avere salvato delle
vite umane. Se non si interverrà e un genocidio sarà perpetrato, si diverrà
complici. Si diverrà complici in eguale misura, se non maggiore, qualora il Consiglio di Sicurezza ponga in essere una
forza di dissuasione e la ritiri a genocidio iniziato, ciò che è accaduto in Ruanda,
nell’aprile del 1994.
Nel 1998, la minaccia di un genocidio, nel
Timor Occidentale, era reale. Le milizie
massacravano e deportavano la popolazione civile. La messa in campo di una
forza internazionale di interposizione, mantenuta fintanto che fu necessario, evitò
un massacro genocidario, perfino, un genocidio.
In Kosovo, la situazione era diversa. L’esercito
serbo e le milizie serbe avevano un pesante passato criminale. Dopo Srebrenica,
si poteva temere il peggio, vale a dire un genocidio. I massacri erano iniziati
e le deportazioni di albanesi erano massive.
Era legittimo intervenire!
Ma l’occupazione del Kosovo fece emergere
un problema latente, in parte sottostimato: la criminalità dell’UCK.
I franchi tiratori erano, a loro volta,
pronti a massacrare!
La conclusione che si può trarre da questi
tre casi – Ruanda, Timor Orientale e Kosovo, che si situano nell’ultimo
decennio del XX secolo – è che, intervenendo per prevenire un massacro o un
genocidio, si diviene parte nel conflitto e si deve mantenere la forza di
intervento sul posto fintanto che la minaccia non sia, realmente, rimossa.
Di fatto, sarebbe più efficace considerare
la prevenzione prima, dal momento in cui uno Stato viola i diritti umani.
Nel 1982, Israel W. Charny [1931] e Chanan
Rapaport [1928] proposero di attuare un sistema di allarme precoce – early warning system – che avrebbe
permesso di individuare il rischio di insorgenza di assassinio collettivo e avrebbe
funzionato come un apparecchio di controllo fisiologico, un biofeedback system, che avrebbe reagito
a un insieme di informazioni. Il principio fu accreditato e furono creati
istituti di prevenzione, di cui il primo fu l’International Alert di Leo Kuper.
Io non mi ripeterò su queste realizzazioni,
di cui Gregory Stanton fu l’iniziatore, né mi dilungherò sugli indicatori
sociali, che permettono di localizzare un ambito genocidario. Nondimeno mi
permetterò di rilevare che le otto tappe del genocidio, individuate da Stanton,
a complemento delle proposte iniziali di Leo Kuper, non sempre si realizzano: lo
sterminio degli ebrei tedeschi fu paventato fino dal 1933 e gli stadi si susseguirono,
in quel caso; ma lo sterminio degli ebrei, nell’Unione Sovietica, iniziò dai primi
giorni della occupazione.
In tale prospettiva, possiamo esaminare i
due casi più indicativi del XX secolo: il genocidio degli ebrei e il genocidio
degli armeni.
Dal 30 gennaio 1933, era evidente, per
ogni osservatore, che un regime potenzialmente criminale avesse preso il potere
in Germania. Molto prima delle leggi scellerate del settembre del 1935, lo
Stato nazista aveva promulgato decreti e leggi che infrangevano il diritto
naturale e il diritto delle persone, ma, poiché aveva spezzato ogni opposizione
interna, rifiutava ogni ingerenza e si preparava, apertamente, a riarmarsi, l’unica
soluzione per evitare catastrofi future, sarebbe stata quella di intervenire
dall’esterno per rovesciare il regime: una ipotesi inconcepibile nella congiuntura
politica tra le due guerre mondiali. Non si poté, dunque, impedire ciò che si verificò,
puntualmente, dal 1940: l’Aktion T4, che annunciava la Shoah, e il genocidio degli zingari. La Comunità Internazionale, nella
forma precaria che aveva, allora, la Società
delle Nazioni, non aveva né la volontà, né i mezzi per impedire lo sviluppo
del mostro.
Il caso del genocidio armeno pone, invece,
un’altra questione: l’utilizzo della ingerenza come pretesto politico. Dalla
fine del XVIII secolo, la Russia si era
data, con il Trattato di Küçük Kaynarca del 21 luglio 1774, il diritto di
intervenire nell’Impero Ottomano per proteggere le minoranze ortodosse.
Nel corso del XIX secolo, questo diritto
di intervento fu esteso agli altri cristiani dell’Impero e fu, largamente,
utilizzato dalle potenze europee.
Durante i massacri degli armeni, nel 1895
e nel 1896, il sultano Abdul Hamid II dosò le carneficine: le interrompeva
quando le Potenze minacciavano di intervenire. Il declino, poi, lo smembramento
dell’Impero Ottomano, contribuirono all’emergenza di un nazionalismo turco, che
prese il potere, nel 1908. A
dispetto delle sue promesse di tolleranza, il nuovo regime si orientò,
rapidamente, verso un panturchismo fanatico. L’impegno dell’Impero Ottomano al
fianco delle potenze centrali, nel novembre del 1914, fornì ai Giovani Turchi l’occasione
di regolare, definitivamente, la “Questione Armena” con lo sterminio degli
armeni, attuato nel 1915 e nel 1916.
Ma era la guerra!
L’Intesa minacciò i Giovani Turchi di
tradurre i colpevoli davanti a un Tribunale
Penale Internazionale. La Germania e l’Austria-Ungheria denunciarono il
crimine; ma si guardarono bene dal rompere una alleanza funzionale alla loro
strategia di isolamento della Russia. Una analisi del periodo 1878-1914 mostra
che le potenze, che rappresentavano, allora, la Comunità Internazionale, erano
divise e che ciascuna tutelava i propri interessi. Le alleanze non erano che
congiunturali e la decisione di intervento era pensata in funzione degli
interessi di ogni Nazione. In questo contesto di cinismo politico, non vi era
alcuna possibilità di prevenire un genocidio.
La volontà comune degli Stati è la
condizione primaria nella prevenzione, come sottolineava Gregory Stanton.
Questa volontà suppone che l’etica prevalga sulla politica e che, quando la
Comunità Internazionale è confrontata a una minaccia di omicidio di massa,
alcuna considerazione politica possa essere avanzata per rinunciare ad avviare
un processo di prevenzione.
“Qui il 21 luglio 1774 fu firmato il Trattato di Küçük Kaynarca
tra l’inviato di Caterina la Grande, il conte Pietro Rumjancev, e l’uomo fidato
del sultano Abdul Hamid I, il gran visir Musul Zade Mehmed Pascià. La clausola
7 di questo trattato recita: La Porta Sublime promette la protezione permanente
della religione cristiana e delle sue chiese.”
La prevenzione più efficace sarebbe la più
precoce, un sistema di allerta che raccolga indizi e, successivamente, li tratti
per determinare se una soglia critica sia stata superata. La prima reazione non
prevederebbe un intervento militare. Vi sono altri strumenti da utilizzare
prima di giungere a una soluzione estrema: la mediazione; la denuncia delle
violazioni dei principi elementari, sui quali riposa la civiltà dei diritti
umani; le pressioni diplomatiche e le ritorsioni economiche. Solo dopo il
fallimento di questi mezzi, potrà essere considerato l’intervento di una forza
internazionale; ma si dovrà essere chiari sulla sua opportunità e consapevoli
dei suoi limiti. La minaccia di genocidio non deve, infatti, servire né da
pretesto, né da giustificativo morale a una impresa militare che serva altri
fini.
I Popoli vincitori hanno, in tutti i tempi,
annientato i vinti, senza distinzione di sesso, di età, di estrazione sociale,
di razza o di condizione economica.
Nessuno sa esattamente quanti milioni di
amerindi siano periti dopo la scoperta dell’America e il processo di
colonizzazione.
Analogamente, in Africa, dove i neri sono
stati cacciati, per essere condotti verso altre terre quali schiavi.
Tali pratiche erano ammesse dal diritto e dalla
religione, perché si considerava legittimo che i Popoli sedicenti civilizzati annientassero
i Popoli cosiddetti selvaggi e
inculcassero loro i principi della propria civiltà e della propria religione.
In tempi più recenti, allorché il diritto viene
considerato la sola norma che debba reggere la condotta degli uomini, la Storia
ci ricorda che milioni di esseri umani – armeni, ucraini, ebrei, zingari,
slavi, russi, cinesi, igbo, bengalesi, cambogiani, ruandesi, nord-coreani,
burundesi, sudanesi, ugandesi – sono stati vittime di genocidi.
In Africa e in Asia, si può dire che
questo crimine sia endemico.
Sul continente americano, nell’America Centrale
e del Sud, regimi militari hanno annientato milioni di Uomini, colpevoli di non
essersi assoggettati agli stessi regimi o di professare idee opposte alle loro.
Ma sono necessarie, queste querelles lessicali, per qualificare
queste atrocità?
Sì!
Meno per le Vittime che per la Storia Collettiva.
Non si giudica la Storia con lo sguardo dell’interesse
immediato delle Vittime. Altrimenti, come pensano alcuni, si dovrebbe tacere
per non riaprire le ferite.
Si deve permettere ai Morti di reintegrare
lo spazio collettivo.
Non è una pratica compassionevole, ma un
atto politico di rifiuto della cancellazione.
È il senso della Memoria Collettiva!
per
ricordare la vergogna dell’uomo
https://www.youtube.com/watch?v=afoSWxHAnrU
Grido di
disperazione e ammonimento all’Umanità sia per sempre questo luogo dove i
nazisti uccisero un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente
ebrei, da vari Paesi d’Europa.
Auschwitz -
Birkenau 1940-1945
2. 75 anni fa
LA RISIERA DI
SAN SABBA
Trieste – La Risiera di San
Sabba
“Su quello stesso piazziale, tra l’infermeria e
il luogo dove poche ore prima sorgeva la forca, comincia l’opera sacra della
Giustizia.”
Enea
Fergnani
Dopo l’8 Settembre 1943, la
Risiera di San Sabba cambia nome e diviene STALAG 339, un campo di detenzione
e di smistamento, ma anche un campo di sterminio, in cui trovano la morte
prigionieri politici, partigiani ed ebrei.
Trieste – La Risiera di San
Sabba
Trieste – La Risiera di San
Sabba
Nel settembre del 1943, i
nazisti occupano l’ex-Osterreichisches
Küstenland. Poi, tra il 16 e il 29 ottobre, sbarcano, a Trieste, i primi 92
specialisti dell’Einsatzkommando Reinhard,
un gruppo di pronto intervento, composto da personale altamente specializzato,
addetto a compiti particolari, che non aveva alcuna dipendenza dai comandi
della Wehrmacht, almeno su un piano
gerarchico.
Innegabilmente, è rilevante
il fatto che, a capo di tutta l’organizzazione di polizia e antiguerriglia, sia
stato posto Odilo Globlocnik, già Brigadeführer
SS nel distretto di Lublino, che è vissuto a Trieste fino al 1923, poi,
trasferitosi a Klagenfurt, è, spesso, tornato, negli Anni Trenta, nella sua
città.
Operativamente, era
necessario trovare un punto di appoggio militare e tale base logistica è la
Risiera di San Sabba, edificata, agli inizi del ‘900, per la pilatura del riso
e in disuso, negli Anni Quaranta, che offre la struttura e i locali adatti.
Si tratta di un
comprensorio, vasto circa 7mila metri quadrati con altri 4mila metri quadrati
aggiunti a Sud, verso il mare, nel centro cittadino di Trieste, la città
giuliana entrata a fare parte, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, della
cosiddetta “zona di operazione del Litorale Adriatico”, sotto il diretto
controllo del Drittes Reich, unitamente
alle province di Udine, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana.
La Risiera, all’inizio Polizeilager e centro di partenza e di
rifornimento per i capisaldi tedeschi in Istria, si trasforma, rapidamente, in
un campo di concentramento e di transito per i deportati diretti ai lager di Buchenwald, Dachau e Auschwitz
e, dall’inizio del 1944, con l’edificazione di un forno crematorio, collegato
alla preesistente ciminiera, e di alcune celle, destinate ai condannati, in un Vernichtungslager, un luogo di sterminio
sistematico di una parte dei prigionieri catturati a Fiume, a Trieste, nel
Friuli, nel Veneto, sul Carso e in Istria.
Molto spesso, i prigionieri
politici vengono sottoposti a torture o usati come ostaggi da eliminare in caso
di rappresaglie.
I prigionieri vengono
soppressi con il gas dei motori di camion
e con colpi di pistola alla nuca. Gli ebrei passano per la Risiera nella rotta
verso Auschwitz, e solo alcuni, considerati “non trasportabili”, vengono uccisi
a Trieste.
Prima di essere uccisi, i
prigionieri sono costretti a spogliarsi.
“Da un calcolo dei vestiti messi in deposito da un prigioniero,”
scrive Tristano Matta,
“la Corte d’Assise di Trieste stabilisce […] che le vittime sono
state non meno di 2mila, esclusi gli ebrei, ma altre fonti italiane e iugoslave
danno cifre di 3-4mila.”
Ceneri e ossa del forno
vengono gettate in mare.
Nella notte tra il 29 ed il
30 aprile del 1945, quando ormai i reparti partigiani jugoslavi del IX
Korpus hanno, praticamente, conquistato la città, l'edificio del
forno crematorio e la ciminiera vengono fatti saltare con la dinamite dai
nazisti in fuga per eliminare le prove dei loro crimini, secondo una prassi
seguita in altri campi, al momento del loro abbandono.
Nel Dopoguerra, la Risiera è
occupata dalle truppe alleate, adibita a campo profughi, e, infine, lasciata in
stato d'abbandono.
Dal 1965, la Risiera di San
Sabba è divenuta Monumento Nazionale per decreto del Presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat, dal 1975, ristrutturata su progetto
dell'architetto Romano Boico, è Civico Museo della Risiera di San Sabba.
Nel 1976, viene celebrato,
presso la Corte di Assise di Trieste, il processo a carico di uno dei criminali
nazisti che hanno gestito il lager,
Joseph Oberhauser, comandante della Risiera e August Dietrich Allers, già
comandante dell’Einsatzkommando Reinhard,
che muore durante la fase istruttoria.
Oberhauser viene condannato
all’ergastolo, in contumacia.
Il processo di Trieste,
resta, non solo per questo, un processo “parziale
[…] quanto alla sua capacità di individuare e punire tutti i responsabili, ma
anche perché circoscritto per scelta della pubblica accusa, condivisa dallo
stesso magistrato inquirente, “ai soli fatti di soppressione di persone che per
certo non avevano avuto ad esplicare attività contraria agli interessi militari
dell’Autorità occupante”. Limitato, quindi, alle sole vittime definite
“innocenti”, con esclusione delle numerose vittime “non innocenti”, vale a dire
“implicate in attività militari o politiche”, in sostanza, partigiani e
detenuti politici.
Pressoché tutta la
documentazione compromettente è stata bruciata nel crematorio, il 28 aprile
1945.
Complessivamente, in circa
18 mesi di esistenza, il Campo di San Sabba avrebbe ospitato 25mila
prigionieri. Almeno il 95% dei prigionieri sono morti: o trucidati a San Sabba
[circa il 25%], o nei campi dove venivano avviati, prima ad Auschwitz, poi, con
l’approssimarsi dei sovietici, essenzialmente a Dachau e a Buchenwald.
Solo circa 1500 detenuti
transitati da San Sabba sono riusciti a tornare alle proprie case.
Il tramonto di Fossoli
Primo Levi
Io so cosa vuol dire non
tornare
A traverso il filo
spinato
Ho visto il sole scendere e
morire;
Ho sentito lacerarmi la
carne
Le parole del vecchio poeta:
“Possono i soli cadere e
tornare:
A noi, quando la breve luce è
spenta,
Una notte infinita è da
dormire.”
7 febbraio 1946
Trieste – La Risiera di San
Sabba
“Egli vide un milite delle SS di statura
gigantesca che stava conducendo per mano, nel secondo cortile davanti alle
prigioni, un bamberottolino bruno e ricciuto [certo un ebreo] che zampettava
appena. Il bambino incespicò e cadde in avanti; il milite, lanciando una
bestemmia, lo colpì al capo col tacco del suo scarpone. La testa scoppiò letteralmente.
Ad anni di distanza quell’amico non riusciva a liberarsi dall’incubo del tonfo
provocato dalla povera testolina.”
Carlo Schiffrer, La Risiera
Diego de Henriquez
Diego de Henriquez è uno dei
personaggi più interessanti e misteriosi della Trieste del Dopoguerra. Nato a
Trieste, il 20 febbraio 1909, da Diego de Henriquez e da Maria Micheluzzi, aveva
passato la propria esistenza a raccogliere armi e attrezzature militari di ogni
tipo per creare un museo che, proprio esponendo apparecchiature di guerra,
fosse un monito per la pace.
E a questo museo volle dare
la seguente dicitura:
“Centro internazionale abolizione guerre e per la fratellanza
universale e per l’abolizione del male e della morte dal passato e dal futuro,
a mezzo dell’invenzione del tempo quale conseguenza dello svincolamento dallo
spazio-tempo.”
Nella sua lunga vita di
collezionista, iniziata ancora prima del secondo conflitto mondiale, de
Henriquez, raccolse anche una infinità di documenti di argomento storico e
trascrisse, in una miriade di quaderni, le testimonianze che raccoglieva e le
scritte murali che lo colpivano, perfino, quelle nei vespasiani.
Immediatamente dopo la guerra, de Henriquez si era, infatti, tuffato
nell’opera di documentazione dei messaggi graffiti sui muri dai deportati.
“L’avevano lasciato
prendere i suoi appunti”,
racconta in una intervista Adele Fajon, dopo la misteriosa morte
del marito,
“perché i responsabili
del tempo, il Governo Militare Alleato di Trieste, vedeva in lui uno studioso.
Poi, però, qualcuno ci deve avere ripensato. Doveva essere la fine di luglio o
i primi giorni di agosto 1945, mio marito è rimasto nella Risiera tre giorni di
seguito. Lavorava anche di notte a lume di candela. Si concedeva soltanto pochi
momenti di riposo per dormire. E non posso dimenticare il suo rammarico, la sua
delusione quando è tornato a casa dopo tre giorni. Adele mi ha detto, hanno
cancellato tutto quello che era scritto sui muri. Quando mi sono svegliato
stamani ho trovato una squadra di imbianchini che ha ricoperto tutto con strati
di calce. Non ho potuto portare a termine il mio lavoro. Chi lo sa perché lo
hanno fatto.” [http://moked.it/blog/2015/10/25/quel-vuoto-che-ci-interroga/]
Durante il Governo Militare
Alleato [G.M.A.], che durò fino al mese di ottobre del 1954, de Henriquez ottenne
il rilascio di permessi speciali per poter recuperare, in diversi luoghi, anche
beni militari e incrementare, così, le sue collezioni.
Con l’autorizzazione della
Soprintendenza, potè recarsi a Pola per prelevare materiali e documenti di
notevole interesse museale, inclusi quelli relativi alle ormai distrutte
fortificazioni della città.
Buona parte dell’archivio di
de Henriquez è bruciato insieme a lui, il 2 maggio 1974, nell’incendio, divampato,
misteriosamente, nel magazzino di via San Maurizio 13, che, da tempo, era
divenuto la sua dimora. Dormiva
in una bara di legno con un pesante elmo tedesco calato sulla testa e una
maschera da samurai sul viso.
“Così i miei pensieri notturni non mi sfuggono. Risvegliandomi,
li ritrovo là, sotto l’elmo e la maschera.”
aveva più volte spiegato agli amici. L'incendio
devastò il suo corpo e cancellò gli eventuali segni din una aggressione subita.
Gianfranco Fermo, il secondo giudice istruttore che
si occupò della morte di de Henriquez, dichiarò che a suo giudizio “era
stato un errore non disporre subito l'autopsia; ho la sensazione impalpabile
che qualcosa sia sfuggito ai primi inquirenti”.
L’autopsia fu eseguita a sei mesi dalla morte.
Sulle motivazioni di tanta violenza le indagini
hanno dovuto fermarsi. Ma la pista più a lungo battuta porta agli aguzzini e ai
boia che hanno operato tra il 1944 e il 1045 alla Risiera di San Sabba.
“Ho raccolto le scritte nelle celle. L’ho fatto poco dopo la
fine della guerra, quando queste iscrizioni erano ancora leggibili sulle pareti
di celle e cameroni.”,
si compiaceva de Henriquez nel 1964.
Le scritte raccolte erano oltre seicento, tracciate
da detenuti ebrei, croati, sloveni, italiani rinchiusi in attesa della morte o
dello smistamento verso altri lager del Drittes Reich. Su quelle
pareti il professore aveva raccolto nomi, date, disegni e diari murali. Poi i
muri erano stati ridipinti e le scritte erano scomparse. Ma lui ne conservava la
“MEMORIA” nel suo magazzino: avrebbero potuto smascherare qualche collaborazionista
dei nazisti, rimasto indisturbato in città.
In quegli anni, un magistrato, Sergio Serbo, stava
indagando sui responsabili di quei crimini e più di uno aveva iniziato a temere
di essere smascherato. L'incendio del magazzino di via San Maurizio e la morte
di de Henriquez potrebbero essere direttamente collegate al tentativo di far
sparire le trascrizioni delle 600 scritte annotate nella Risiera dal professore
sul suo taccuino.
Una delle ipotesi che, più spesso, torna, quando si
parla di de Henriquez, è che la sua morte, archiviata come “accidentale”,
possa essere collegata alla Risiera. Suo figlio Alfonso sosteneva, infatti, che il padre
fosse stato ucciso perché, nell’imminenza del processo della Risiera, non
rendesse pubblico quanto sapeva.
Aveva iniziato a parlare con Il Meridiano
di un elenco di collaborazionisti e di alcune foto scattate nel campo di
sterminio, che ritraevano accanto ai nazisti un centinaio di italiani che
lavoravano alle direttive delle SS.
“Quando, dopo l’8 settembre 1943, i
nazisti crearono il Litorale Adriatico e ne elessero Trieste capitale, la
popolazione di questa città, nel suo complesso, non dimostrò particolare
animosità, purtroppo, contro gli occupanti.
A parte la collaborazione fornita a
livello istituzionale dalla élite borghese locale, è significativo annotare
quanto scrive de Henriquez: secondo lui, una buona metà della popolazione della
città, in quel tremendo biennio, ebbe modo di interagire, in un modo o
nell’altro, con gli occupanti in maniera occasionale o stabile.”
Un
buon diario, deve essersi detto, vale più di cento cannoni!
Vittorio
Cerceo riporta nelle sue note, anche, episodi più spinti, a esempio la storia
de “l’avvocato T. Z., fascista convinto e
già vice federale nel periodo prebellico”, che dopo le leggi razziali
compilò una lista di 40 ebrei e la consegnò al comando SS di piazza Oberdan.
“[Diego] de Henriquez rimase
perplesso: il nome era molto conosciuto nella borghesia cittadina. Una conferma,
però, gli giunse da fonte inoppugnabile: la dattilografa dell’avvocato gli
confidò di aver battuto a macchina lei stessa quell’elenco!”
Quarantaquattro
anni dopo, l’omicidio del collezionista è, ancora, insoluto.
I
suoi Diari hanno, tuttavia, continuato
a parlare.
Il
collezionista era, infatti, in contatto con i neofascisti del movimento Fiamma.
VENEZIA - Il giudice Carlo Mastelloni ha accusato un agente
della CIA, il servizio segreto USA, di avere avuto un ruolo nella Strage di
Peteano dove, nel ‘72, morirono dilaniati da una bomba tre carabinieri. Il
magistrato ha inviato un rapporto alla Procura della Repubblica di Venezia e a
quella di Trieste in cui ipotizza per Edward Mac Gettigam, in servizio al
centro di Roma nei primi anni Settanta, il reato di concorso in strage. A
collegare l’agente segreto americano all’attentato per il quale sono già stati
condannati all’ergastolo i neofascisti Vinciguerra e Cicuttini, sarebbe il
deposito di armi di Gladio di Aurisina. E per lo stesso motivo il giudice cita i
nomi anche di tre ufficiali del servizio segreto italiano, i generali
Fortunato, Serravalle e Cavataio, all’epoca responsabili delle strutture del
SID cui faceva riferimento Gladio.
Strage di
Peteano accusata la CIA, la Repubblica, 8 novembre 1994
Scrive
Cerceo:
“Grazie ai contatti di de Henriquez
con mercanti di armi antiche e moderne il gruppo riuscì ad entrare in possesso
di armi: e qui il figlio del professore dice che lo stesso Carlo Cicuttini
avrebbe acquistato in tal modo una pistola. Quando avvenne l’attentato di Peteano,
così avrebbe detto Diego de Henriquez: “credo di conoscere gli elementi ultimi
coinvolti in questa strage (…) io li ho sempre aiutati a fin di bene e mai a
fin di male”.”
All’inizio del 1988, il capitano
dei carabinieri Ferdinando Musella, che
all’epoca comandava la Compagnia carabinieri di via Hermet e stava
indagando su illeciti amministrativi commessi nell’ambito della gestione del
costruendo museo “di guerra per la pace”. Nel suo rapporto era arrivato alla
conclusione che l’incendio non potesse essere stato scatenato da un
cortocircuito, ma era dovuto a un’azione dolosa, in base alle dichiarazioni
dell’elettricista Sergio Lanza, all’epoca custode del museo. È interessante
rilevare che Lanza, deceduto nel 1990 – non era stato sentito dagli inquirenti
nel corso delle prime due inchieste. Fu
mentre era in corso questa inchiesta che arrivò la lettera che ipotizzava il
collegamento tra la morte di de Henriquez ed il delitto Perusini. Questa
possibilità fu però esclusa dal capitano, che fu poi quasi subito promosso e
quindi trasferito ad altro servizio.
Lo
scrittore tedesco, triestino di adozione, Veit Heinichen ha presentato, nel
2005, un lungometraggio nel quale racconta in prima persona le ricerche da lui
condotte per la stesura del suo romanzo Der
Tod wirft lange Schatten [La morte getta lunghe ombre], ispirato anche in
parte al mistero della morte di de Henriquez [https://www.youtube.com/watch?v=cibeLk7kftU].
Lo
scrittore ipotizza un collegamento tra la morte di de Henriquez ed un’altra
morte misteriosa, quella del docente di Storia delle tradizioni popolari, il
conte Gaetano Perusini,
ucciso tre anni dopo da ignoti nella propria casa triestina, nella notte tra il
12 e il 13 giugno del 1977. Un delitto che fu archiviato come tragico finale di
un “gioco” sessuale al quale si sarebbe prestato l’insegnante, notoriamente
omosessuale.
“All’occorrenza salterò nella fossa ridendo perché la
consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso
di grande soddisfazione”.
Otto Adolf Eichmann [1906-1962]
È l’inizio
del 1944.
Un
ometto in borghese dall’aria dimessa scende dalla Volkswagen militare che si è inerpicata per le strade in salita del
quartiere di San Sabba, a Trieste, ed entra nella Risiera, un complesso di
edifici in mattoni, che deve il suo nome per essere stato, in passato, centro
di ammasso e pilatura per il riso, di cui l’Impero Austro-Ungarico si
approvvigionava in Oriente.
Unita
Trieste all’Italia, produttrice di riso, la funzione del complesso si è
esaurita e ora la Risiera è divenuta un deposito misto della Wehrmacht, in cui, unitamente al
materiale bellico, vengono ammassati i bottini dei saccheggi, e una prigione
speciale della Gestapo e delle SS.
L’ometto
si intrufola ovunque, guarda, ispeziona, prende misure.
La sua
attenzione si concentra, in particolare, sul forno per la pilatura, sull’alta
ciminiera che svetta in un angolo del cortile.
Infine,
l’ometto fa un cenno affermativo con la testa e sussurra:
“Man kann machen.”
[“Si può fare.”]
A quel
cenno, a quella frase, Trieste deve un triste privilegio: quello di essere
stata sede dell’unico campo di sterminio nazista in Italia, l’unico in Europa
Meridionale, l’unico, infine, in funzione entro il perimetro urbano di una
città.
Erwin Hermann Lambert [1909-1976]
L’ometto,
infatti, è Erwin Hermann Lambert, il principale tecnico del Drittes Reich nel settore dei forni
crematori – quello di Treblinka porta la sua firma – e l’ispezione da lui
compiuta ha confermato che il forno della Risiera può essere, agevolmente,
adattato a una funzione diversa: l’incenerimento dei cadaveri.
Già,
poche settimane dopo, in marzo, i triestini di San Sabba notarono con stupore,
vedendo le dense volute di fumo grigio-giallognolo che si levavano dalla
ciminiera, che il forno della Risiera aveva ripreso a fnzionare. Ma quando l’odore
di quel fumo arrivò alle loro nari, lo stupore si trasformò in raccapriccio:
quel fumo puzzava di morte.
Perché
proprio a Trieste un campo di sterminio?
La
risposta a questa domanda si ricava dalla particolare situazione politica, in
cui tutto il territorio della Venezia Giulia si era venuto a trovare, dopo l’8
settembre 1943: la zona, considerata Lebensraum,
spazio vitale, perché assicurava al Drittes
Reich un corridoio verso l’Adriatico, era stata, completamente, sottratta
al controllo del Governo di Salò e annessa, di fatto, al blocco tedesco, con il
nome di Adriatisches Küstenland, Litorale
Adriatico.
Alla grande importanza
strategica che il Drittes Reich attribuiva al Litorale Adriatico, faceva
da contrappunto un’attività partigiana particolarente intensa, poiché nella
zona operavano, anche se senza alcuna coordinazione, gruppi italiani, sloveni e
croati.
Per sbaragliarne le
formazioni, viene inviato, a Trieste, uno dei maggiori specialisti del Drittes
Reich: il Gruppenführer SS Odilo Globocnik.
Odilo Globocnik [1904-1945]
Carissimo a Heinrich
Luitpold Himmler, luogotenente di Otto Adolf Eichmann in Polonia, Globocnik
aveva sul suo stato di servizio un’altra nota che lo rendeva particolarmente
adatto alla bisogna: figlio di un funzionario dell’amministrazione postale
austriaca e di una ungherese, era nato, nel 1902, a Trieste e vi era vissuto
fino alla maggiore età.
Heinrich Luitpold Himmler
[1900-1945]
Quando Globocnik assunse
il comando nella regione, chiamò, a Trieste, tutti i suoi collaboratori della
campagna polacca: Gottlieb Hering; Josef Oberhauser; Georg Michaelsen, che
aveva svolto funzioni di comando a Belzec, Treblinka e Majdanek; Franz Stangl,
che aveva, già, lavorato all’Aktion T4 – lo sterminio di oltre 100mila
invalidi malati di mente –, e che comandava Treblinka al momento della rivolta dei
prigionieri, e Christian Wirth, il maggiore citato da Simon Wiesenthal quale capo
di una tristemente famosa “scuola per omicidi”.
Otto Adolf Eichmann
Otto Adolf Eichmann, come
altri fuoriusciti nazisti, nel giugno del 1948 venne munito dal vicario di Bressanone,
Alois Pompanin, di documenti di identità falsi a nome Riccardo Klement, rilasciati
dal Comune di Termeno.
Nel 2007, veniva rinvenuto,
tra i documenti coperti dal segreto di Stato in Argetina, il passaporto falso
con il quale Eichmann lasciò l’Italia, nel 1950: era intestato a Riccardo
Klement, altoatesino, e rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra, in base alla
testimonianza del padre francescano Edoardo Domoter.
Adolf Eichmann salpò alla
volta del Sud America con la speranza di lasciarsi il passato alle spalle, ma
con il sogno di poter fare un giorno ritorno in Germania.
Nel 1960, dopo un lungo
periodo di preparazione, il servizio segreto israeliano organizzò un’operazione
che portò al rapimento e al segreto trasferimento – nel sistema giuridico
argentino l’estradizione non era prevista - di Eichmann in Israele, affinché
venisse sottoposto a processo per i crimini di cui si era reso responsabile
durante la guerra.
Il processo Eichmann, tenuto
nel 1961, a quindici anni da quello di Norimberga, fu il primo processo a un
criminale nazista tenutosi in Israele.
Furono presentate diverse
richieste di grazia, tutte respinte dall'allora presidente d’Israele, Yitzhak
Ben-Zvi.
Adolf Eichmann fu condannato
a morte “per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei”
e fu impiccato nel carcere di Ramla, pochi minuti prima della mezzanotte di
giovedì 31 maggio 1962.
Questa è rimasta l'unica
esecuzione capitale di un civile eseguita in Israele.
Eichmann non volle un prete
perchè “non aveva tempo da
perdere”, non si pentì perché ”il pentimento è per i bambini”, rifiutò anche
la cena chiedendo, invece, un pacchetto di sigarette e una bottiglia di Carmel
rosso. Ne consumò mezza bottiglia e andò, così, incontro al suo destino,
completamente padrone di sé stesso.
Percorse i cinquanta metri
che dalla sua cella portavano alla stanza dell’esecuzione, a testa alta, con le
mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie,
chiese che non stringessero troppo, in modo da poter rimanere in piedi.
“Non ve ne è bisogno.”,
obiettò quando gli
offrirono il cappuccio nero.
“Tra breve, signori, ci
rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva
l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.”
Furono le sue ultime parole.
Globocnik e i suoi
avevano il compito di portare a termine, in Venezia Giulia, l’Operazione
Renhardt – in sigla R1 –, vale a dire l’eliminazione di tutti i nemici del
Reich e la confisca dei loro beni. E il principale strumento a disposizione
dell’Einsatzkommando di Globocnik per adempiere all’incarico era,
appunto, la Risiera.
Non si conosce il numero
esatto dei corpi inceneriti alla Risiera: qualcuno, perfino, nega che vi si
siano, mai, attuate cremazioni e sostiene che il forno serviva unicamente a
eliminare i resti degli animali che vi venivano macellati per nutrire la truppa
e i prigionieri – questo giustificherebbe anche l’odore inconfondibile del fumo
–. Ma questa tesi ottimistica e non disinteressata è, inconfutabilmente,
smentita da un documento del 1945, nel
quale si fa esplicito riferimento ai resti inceneriti di tre corpi umani
rinvenuti tra le macerie del forno che i tedeschi si erano preoccupati di far
saltare prima di ritirarsi da Trieste.
Carlo Schiffrer scrive
che la Risiera è stata soltanto una “modesta
officina artigiana di fronte ai grandi stabilimenti industriali” della morte, riferendosi ai campi di sterminio di
Dachau, Buchenwald e Mauthausen, ma ciò non toglie che, in meno di un anno di
funzionamento, il suo forno crematorio abbia ingoiato, secondo le stime più
caute, almeno 3mila corpi umani. La cifra è desunta dal numero – alcune
migliaia – di carte di identità rinvenute, dopo la Liberazione, in Risiera,
raccolte in alcuni grossi sacchi di iuta. Se è vero che non tutti i proprietari
dei documenti siano stati uccisi – o almeno uccisi là – è anche vero che non
tutti i prigionieri che sono passati dalla Risiera vi erano giunti “con le
carte in regola”: tutti coloro, a esempio, che venivano trasferiti in Risiera
dal Coroneo, il carcere ufficiale di Trieste, avevano, già, lasciato alla prima
tappa del loro calvario i documenti di identificazione.
Circa 20mila, tuttavia,
dovrebbero essere stati, sempre in quell’anno scarso, i prigionieri
avvicendatisi alla Risiera.
Molti tra loro gli ebrei.
Ma pochissimi vi
trovarono la morte.
Per loro, infatti, la
Risiera era soltanto un centro di smistamento, dal quale venivano avviati ai
campi di sterminio tedeschi e polacchi.
I 3mila morti della Risiera
furono, invece, per la maggior parte, partigiani – o sicuramente antinazisti –
italiani, croati e sloveni.
Non si conosce neppure,
tanto meticolosa è stata la cura dei tedeschi di cancellare ogni traccia dei
loro crimini, di distruggere ogni documento, come le vittime venissero uccise:
si parla di fucilazione, si parla di una mazza di legno con la quale un
sottufficiale SS avrebbe colpito alla nuca i predestinati, dopo averli attesi
in agguato dietro una porta; ma la presenza, rilevata da alcuni sopravvissuti,
di uno strano furgone postale, ermeticamente chiuso, in coincidenza con ogni
esecuzione, avvalora, anche, l’ipotesi che i prigionieri venissero uccisi con
il gas: il furgone, in questo caso, sarebbe stato una vera e propria camera a
gas mobile.
È certo che le uccisioni
avvenivano di notte e che, per coprirne quali che fossero, i rumori all’orecchio
delle case vicine, le SS facevano rombare i motori di tutti i loro
automezzi, aizzavano i cani perché abbaiassero e trasmettevano, al massimo del
volume di un sistema di altoparlanti che copriva tutto il campo, allegre
marcette militari.
Vi era alla Risiera, anche
una forca, ma l’interprete ufficiale del campo, Augusta Reiss, processata e
condannata a 13 anni per collaborazionismo, che viveva a Trieste, intervistata
da un periodico locale, Il meridiano, sosteneva che si trattasse,
invece, di un paranco per sollevare i motori dei veicoli in riparazione.
I prigionieri, alla
Risiera, erano rinchiusi negli edifici che si affacciano sul secondo cortile,
nel quale circolavano soltanto le SS tedesche e ausiliari cosacchi e
ucraini dell’esercito di Vlassov, mentre vi era, tassativamente, vietato
l’accesso al personale italiano: i più ammassati in grandi cameroni, al piano
terra e al primo piano, ma alcuni, quelli ritenuti più pericolosi o meritevoli
di una punizione più severa, letteralmente stipati fino a 5 o 6 per ognuna
delle 17 cellette progettate per ospitare una sola persona e ventilate soltanto
per mezzo di un piccolo buco nella porta di legno, buco che gli aguzzini
potevano chiudere, a loro piacimento, dall’esterno.
Da queste 17 cellette, in
prevalenza, venivano prelevati, in media due volte alla settimana, i condannati
a morte.
Poi, la notte stessa, la
ciminiera iniziava a fumare.
E i disgraziati,
rinchiusi nelle cellette o nei cameroni, quando l’aria, già, irrespirabile per
la sporcizia, per la promiscuità, per
l’afrore dei corpi, sentivano aggiungersi, agli altri tanfi, quello della carne
bruciata, intuivano che, ancora una volta, la morte era passata loro accanto.
La mattina dopo, due SS
caricavano su una carriola grossi sacchi di carta da cemento e, attraverso
quello che i prigionieri chiamavano “il sentiero delle ceneri”, andavano a
vuotarne il contenuto in mare, a poche centinaia di metri.
Dei delitti, delle
centinaia, migliaia di delitti, non restava, così, nessuna traccia.
Tra le
vittime certe della Risiera vi furono anche alcuni rappresentanti di primo
piano della Resistenza in Venezia Giulia: i dirigenti comunisti Luigi Fransin [medaglia d’oro] e Vincenzo Gigante; Ottorino
Pesenti e Luciano Manli di Giustizia e
Libertà; Virginia Tonelli e Cecilia Deganutti, eroine della Resistenza
friulana; Lorenzo Vidali, capo dell’ufficio politico della Brigata Garibaldi
Trieste; Paolo Reti, segretario del CLN.
Il
caso di Reti è esemplare per quanto riguarda l’assoluto arbitrio e la
segretezza con cui le SS compivano le
loro “operazioni di polizia”. Dalla Risiera, Reti riuscì a fare uscire un
biglietto, in cui chiedeva di informare del suo arresto il vescovo di Trieste.
Il messaggio arrivò a destinazione, ma quando monsignor Antonio Santin si
presentò a un ufficiale della Risiera per avere notizie di Reti, ottenne una
risposta laconica, ma esauriente:
“Er würde ershossen.”
“È stato fucilato.”
Il 27
aprile 1945, all’approssimarsi del tracollo tedesco, il forno della Risiera fu
fatto saltare e tutti i documenti relativi alla triste attività che vi si
svolgeva, vennero dati alle fiamme.
Tutto
quello che ci resta, pertanto, per ricostruire le vicende del campo di
sterminio italiano, sono le testimonianze dei sopravvissuti e i graffiti che
alcuni prigionieri, poi scomparsi, sono riusciti a lasciare impressi –, spesso,
con nessun altro strumento che le proprie unghie – sui muri delle celle, i biglietti
che sono riusciti a nascondere in crepe, interstizi, fessure. Particolarmente
toccante, un biglietto scritto da una donna veneziana.
Poche
scarne parole in cui è contenuto il calvario e l’olocausto di una intera
famiglia:
Arrestato il 21 settembre 1944 – Venezia – marito Aldo Sereni,
nato il 19-12-1894 – Partito [per il lager] 12 ottobre – Moglie Giannina
Bordignon Sereni, 24-5-1896 – Figli Ugo Sereni, 6-1-1925, Paolo Sereni,
24-5-1927, Elena Sereni, 30-3-1930 – Che Iddio protegga la mia famiglia.
Ugo, Paolo ed Elena partiti per la Germania, 11-1-1945. La
madre. Che Iddio benedica i miei figli e mio marito. Sono desolata. Giannina
Sereni Bordignon.
Di
tutta la famiglia Sereni, soltanto Paolo è sopravvissuto ai campi di sterminio.
Il
processo per i crimini commessi alla Risiera di San Sabba iniziò il 16 febbraio
1976, a oltre 30 anni dalla fine della Secoda Guerra Mondiale, dinanzi alla
Corte di Assise di Trieste: presidente Domenico Maltese; giudice a latere
Vincenzo D’Amato; pubblico ministero Claudio Coassin.
Al
processo erano presenti soltanto i giudici, i testimoni e i legali.
Si
svolse, dopo un lungo periodo di silenzio giudiziario sui crimini nazisti in
Italia, che avevano avuto una prima sanzione nei procedimenti contro Herbert
Kappler [Roma 1948] e Walter Reder [Bologna 1951].
Solo
la caparbia volontà di un gruppo di ex-deportati e di familiari di vittime del lager, con l’appoggio dell’ANED e dell’Unione
delle Comunità ebraiche, ha imposto lo svolgimento del processo, apertamente
osteggiato dalle autorità tedesche [http://www.radioparole.it/risiera/risiera.html].
Nella
formulazione originaria il capo di accusa coinvolgeva 14 persone tra ufficiali
e subalterni delle SS, tutti tedeschi
e ucraini.
L’esclusione dal rinvio a giudizio di 9 subalterni perché non identificati e di
3 ufficiali, Christian Wirth, Franz Stangl, Gottlieb Hering, perché da tempo
deceduti, e, poi, la morte di Dietrich Allers, avvenuta a pochi mesi dal
dibattimento, ridussero il numero degli imputati effettivamente all’unico
rimasto in vita, Joseph Oberhauser, che non poté venire estradato a causa degli
accordi italo-tedeschi, che prevedevano tale istituto solo per i crimini
commessi dopo il 1948, e continuò a gestire una birreria, a Monaco, fino alla
sua morte, all’età di 65 anni, il 22 novembre 1979.
L’azione
giudiziaria avviata dalla Corte di Assise di Trieste contribuì
a fare chiarezza sui crimini commessi
dall’occupante tedesco tra le mura della Risiera di San Sabba, dal 1943 al 1945;
ma il processo non poteva essere fatto al nazismo o al
fascismo, solo alla responsabilità personale. Un processo parziale, dunque,
quanto alla sua capacità di individuare e punire tutti i responsabili, ma anche
perché circoscritto per scelta della pubblica accusa, condivisa dallo stesso
magistrato inquirente, “ai
soli fatti di soppressione di persone che per certo non avevano avuto ad
esplicare attività contraria agli interessi militari dell’Autorità occupante”.
Il
dibattimento si concluse, il 29 aprile 1976, con la condanna all’ergastolo dell’unico
responsabile allora identificato e vivente, Joseph Oberhauser.
La
condanna venne confermata dalla Corte di Appello, nel 1978.
Un
processo inutile, dunque?
Non secondo
Simon Wiesenthal, che ha dedicato tutta la sua vita a fare luce sui crimini
nazisti:
“Non è solo un’esigenza di
giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come
questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti. Chiunque
pensasse ad un nuovo nazismo o a un nuovo fascismo deve sapere che, alla fine,
sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano
lentamente.”
Daniela Zini
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Una delle caratteristiche più rilevanti
concernenti il genocidio è rappresentata dal fatto che questo crimine è possibile solo se perpetrato da parte di
uno Stato, il genocidio è, esclusivamente, un crimine di Stato che, in
quanto sovrano, si erige a fonte del diritto. L’analisi di Yves Ternon
evidenzia la stretta connessione tra azioni che portano al genocidio e natura
dello Stato:
“Se le circostanze sembrano
richiederlo, [lo Stato] si pone al disopra della morale e al di fuori della
coscienza per disporre della vita degli indesiderabili. Se dispone un
genocidio, guida il gioco, fissa le regole e controlla lo svolgimento
dell’omicidio. Un cordone ombelicale collega pratica genocidiaria e potere di
Stato.”
Infatti,
lo Stato possiede, anche, i mezzi tecnici per attuare una tale pratica,
possiede un apparato burocratico, il monopolio dei mezzi militari e
ideologici, che permettono di
pianificare e premeditare il genocidio.
Oltre
al ruolo fondamentale ricoperto dallo Stato, si possono individuare altre
caratteristiche peculiari del genocidio, la programmazione e la premeditazione
dell’azione. Uno Stato, infatti, non può agire di impulso, improvvisando;
essendo il detentore della legalità e avendo il monopolio della violenza, può
pianificare con efficacia questo tipo di azione.
Il 12 aprile scorso, papa Francesco I ha
suscitato grande emozione, ricordando il massacro degli armeni, “generalmente considerato il primo genocidio
del XX secolo”. Il presidente islamico turco Recep Tayyip Erdogan aveva “condannato” le parole di papa Francesco
e lo aveva “avvertito” di non “ripetere questo errore”.
“Quando
dirigenti politici, religiosi, assumono il compito degli storici, ne deriva
delirio, non fatti.”
E, nella serata, era arrivato l’affondo di
Washington.
“Il
presidente [Barack Obama, n.d.r.] e altri alti esponenti dell’amministrazione
hanno più volte riconosciuto come un fatto storico che 1,5 milione di armeni fu
massacrato negli ultimi giorni dell’Impero Ottomano e che un pieno, franco e
giusto riconoscimento dei fatti è nell’interesse di tutti.”,
aveva riferito la portavoce del Dipartimento
di Stato americano Marie Harf.
Il 17 aprile 2015, la Cambogia ha
commemorato una data decisiva della sua Storia, la qualifica di genocidio
cambogiano suscita, ancora, polemiche. Il 17 aprile 1975, Phnom Penh cadeva,
infatti, nelle mani dei Khmer Rossi e
fino alla loro capitolazione, il 6 gennaio 1979, i leaders di Kampuchea
Democratica causarono la morte di circa il 20 % della popolazione.
Nel 1993, Roméo Dallaire è comandante del
contingente ONU UNAMIR, in Ruanda, dove è “testimone
particolarissimo”, secondo il giornalista Luciano Scalettari, “degli eventi relativi al genocidio ruandese
del 1994”.
Allo
scoppio della tragedia,
l’ONU decide di ritirare gran parte
del contingente, riducendolo a 300 militari. A questa scelta Dallaire si
oppone:
“Raddoppiatemi gli uomini a disposizione,”,
scrive
al comando ONU,
“fermerò il genocidio.”
Il suo appello rimane inascoltato.
La
terribile esperienza di assistere impotente a questa tagedia lo porta a due
tentativi di suicidio.
Nel
2003, Dallaire pubblica Shake Hands with
the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, che ispira un documentario, l’anno successivo. Il libro
fa luce su molti punti rimasti oscuri delle sue scelte e dei suoi rapporti con
l’ONU.
Dal 12
aprile 2011, a
Roméo Dallaire sono dedicati un albero e un cippo nel Giardino dei Giusti di
tutto il Mondo di Milano.
La Storia dei crimini contro l’Umanità è
ancora più antica della Storia dei diritti. Si va dalla strage degli iloti a
opera degli spartani, avvenuta durante la guerra del Peloponneso, a quella del
388 d.C., avvenuta a Callinico sull’Eufrate e compiuta dai cristiani ai danni
della comunità ebraica; alla crudele repressione della ribellione di Tessalonica,
che costò all’imperatore Teodosio un anno di ”digiuno” dai sacramenti,
impostogli dal vescovo Ambrogio.
Nel 1474, Peter von Hagenbach, gran balivo
dell’Alsazia, fu trascinato in giudizio da Sigismondo di Asburgo, per avere
esercitato il potere in modo tirannico e crudele, provocando in tale modo la
ribellione della città di Breisach. Lo accusarono di avere commesso assassinii,
stupri, spergiuri e altri crimini “in
violazione alle leggi di Dio e degli uomini”, e, per tali malefatte, fu
condannato a morte.
Il 20 ottobre 1827, la flotta
turco-egiziana venne attaccata senza preavviso e distrutta dalla squadra navale
anglo-franco-russa, in quanto, il 16 agosto dello stesso anno, il sultano aveva
respinto l’ultimatum di Francia,
Regno Unito e Russia di porre fine alle persecuzioni nei confronti dei greci.
Nel 1860-61, l’intervento militare della
Francia impose al sultano di concedere l’autonomia al Libano. L’operazione
costituì una punizione per i drusi che, con la complicità dell’Impero Ottomano,
avevano compiuto massacri nei confronti della popolazione maronita.
Vanno,
infine, considerate le persecuzioni nei confronti degli ebrei, la cui Storia
coincide con quella del Popolo stesso.
La Strage di Peteano, nella quale, il 31
maggio 1972, persero la vita 3 carabinieri, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e
Franco Dongiovanni e altri 2, Angelo Tagliari e Giuseppe Zazzaro, rimasero
feriti, si inserisce in un momento storico
particolarmente difficile per il nostro Paese.
È un atto terroristico, che si colloca in
un preciso e delicato contesto storico-politico, accompagnato da temuti
tentativi di colpo di Stato. Proprio all’inizio di quel mese, il 7 maggio, si
erano svolte, in Italia, le elezioni politiche anticipate in un clima di
tensione e di grande contrapposizione tra le forze politiche e che avevano
assegnato la guida del Paese a un nuovo esecutivo, presieduto da Giulio Andreotti,
mentre il 17 maggio si era verificato l’omicidio del commissario Luigi
Calabresi.
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