Percorrendo il mondo e osservando la evoluzione delle
organizzazioni mafiose, mi sono convinta che la criminalità è organizzata in diversi
strati. Allo strato più basso – sovente, legato, geograficamente, alle zone più
povere del mondo – si occupa di reperire danaro dalla strada in attività
classiche, quali la prostituzione, il traffico di droga o di armi, il racket.
È il regno della violenza più feroce.
Chi vince è il più forte dal punto di vista militare.
Dall’Europa dell’Est all’Estremo Oriente, dall’Africa all’America
del Sud, si deve, ancora, scrivere la Storia dello sviluppo sistematico del
ricorso alla violenza. Nella vecchia Europa, non si sono sentiti che gli echi
di ciò che è accaduto agli uomini e alle donne in quei Paesi. Tutte le mafie si
sono mondializzate, sono divenute multinazionali e, di conseguenza, hanno
cancellato le regole che, un tempo, determinavano l’equilibrio tra crimine e
società.
L’Europa è divenuta un territorio da saccheggiare!
Da un lato, si finge di combattere l’infiltrazione delle
mafie nell’economia legale. In Italia – quarto paradiso fiscale al mondo dopo
le isole Cayman, gli Stati Uniti e la Russia –, la sola industria prospera è la
criminalità, che fattura 250 miliardi di euro, l’anno. Secondo l’International
Monetary Fund [IMF], dalle
mafie internazionali provengono 55 miliardi di dollari, l’anno. Tutto questo
danaro è riciclato in attività legali e, oggi, si sa che il danaro mafioso sostiene,
in parte, il costo della crisi. Ma, dall’altro lato, i Paesi europei sono
divenuti, da più di venti anni, le filiali delle mafie internazionali. Dalla
mafia nigeriana alla mafia serba, passando attraverso le mafie turche e
colombiane, hanno tutte bisogno delle nostre banche e delle nostre imprese per
riciclare danaro sporco. E hanno tutte costruito una rete molto fitta di
attività criminali. Una delle più remunerative è il traffico di esseri umani.
Spinti dalla guerra e dalla miseria, gli uomini e le donne, che attraversano il
Mediterraneo e sbarcano sulle nostre coste, sono, totalmente, gestiti dalla
criminalità organizzata. Le donne, in questa nuova dimensione criminale, sono
quelle che hanno più da perdere, sono ridotte in schiavitù, stuprate e vendute.
Ovunque situazioni e realtà di una gravità senza
precedenti!
Come Stendhal, che, spesso, tornava sulla storia della sua vita “senza
illusioni in proposito”, in
quegli scritti segreti destinati alla posterità, anche noi dovremmo essere
curiosi di sapere chi eravamo.
Quanto
a me, sono decisa a rimediare a questa lacuna.
Il Passato
– diciamo “il lascito culturale”, poiché è,
fondamentalmente, di ciò che si tratta – non è una identità prefabbricata e
fissata una volta per tutte. È una identità in
divenire a pari titolo del Presente. Ogni epoca e ogni
gruppo umano legge il Passato in funzione dei propri bisogni. E se un gruppo umano di una qualunque epoca si mostra
incapace di leggere il proprio Passato in funzione dei propri bisogni, la colpa
non ricade sul Passato, ma sullo stesso gruppo umano. In generale, la colpa è
di non conoscere il proprio Passato e, quindi, di non essere in grado di riconoscere ciò di cui si avrebbe bisogno. E, anche
quando ciò di cui si avesse bisogno fosse fare tabula rasa, non si farebbe ignorando il Passato o fingendo di
ignorarlo. Quanto a noi italiani, se mai vi è colpa, non è certo nostra, ma di
chi avrebbe dovuto elaborare i programmi delle scuole e non dimenticare, con
tanta disattenzione, quanto è accaduto in Italia, sui monti, nelle valli e
nelle città, dagli albori della nostra Storia unitaria.
La
fondamentale caratteristica dell’insegnamento della Storia deve essere quella di
fornire, in primo luogo, la conoscenza dei dati sui quali, poi, esercitare lo
spirito critico degli studenti, il quale, per destarsi seriamente, ha bisogno
di essere messo a diretto contatto con i testi che possano fornirgli quei dati.
Né ciò è necessario soltanto agli studenti. Anche i docenti hanno l’indispensabile
esigenza di ricorrere al documento per ottenere una maggiore precisione nella
presentazione dei fatti e delle idee e per conferire vivezza al loro
insegnamento: un testo, ogni volta che si legge – sia l’editto di Teodorico o
un canone del Concilio Vaticano II o un discorso di Mao Tze-tung – è una
riscoperta, sollecita, sempre, a nuove considerazioni. Prima di parlare della
teocrazia di Innocenzo III o del conflitto cino-sovietico, sarebbe bene sapere,
con una certa precisione, di cosa si tratti.
La Storia
d’Italia non ha avuto solo Enrico Toti, ha avuto qualcuno e qualcosa di più del
lancio di una stampella: ha avuto chi ha fatto l’Eroe non perché avesse
ricevuto la cartolina precetto, ma perché “in prima linea” è andato di sua
spontanea volontà, per “salvare la faccia”, se non altro di fronte ai mafiosi
che “la facevano” da padroni e ai politici che “la facevano” da servi.
Tommaso Buscetta avvertiva Giovanni Falcone:
“Dopo questo interrogatorio lei
diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e
professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che
ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di
interrogarmi?”,
e gli confidava:
“Non mi chiedete chi sono i politici
compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo
Stato.”
Quanto a Giuseppe Fava, giornalista
assassinato – uno di più –, nell’intervista a Enzo Biagi, ammoniva, già, dagli
anni 1980:
“I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre
assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i
mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai
vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo…, cioè non
si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia
sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità
che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le
città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è
un problema di vertice della gestione della Nazione ed è un problema che
rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’Italia.”
Dalla metà degli anni 1970, la mafia ha cessato
di servirsi, semplicemente, della politica e dei politici, per rivendicare una
propria autonomia e divenire protagonista, a pieno titolo, della vita politica
italiana: non più serbatoio di voti, ma finanziatore delle campagne, perfino, sponsor – è il caso di dirlo – di questo
o di quel candidato.
L’impegno politico della mafia è legato, in
linea retta, con la sua decisione, sempre intorno alla metà degli anni 1970, di
lanciarsi nel mercato della droga. Una scelta che ha avuto come conseguenza di
accrescere, in modo esponenziale, la potenza finanziaria dell’organizzazione
mafiosa. Da qui, la necessità di
trovare, costantemente, nuovi sbocchi per riciclare i miliardi di narcodollari
e di moltiplicare, conseguentemente, i contatti con la politica.
Dovremmo chiederci che se ne faccia la
mafia di una tale eccessività di danaro?
Semplice!
Investe in tutto ciò che è legale…
In questo periodo di crisi generalizzata,
in cui gli imprenditori mancano, crudelmente, di liquidità e in cui le banche chiudono
i cordoni della borsa, la mafia viene in soccorso delle imprese in difficoltà
con le sue valigie piene di milioni.
E vi “mette un piede dentro”!
Poi, come per gli iniziati o quelli che “si
mettono a disposizione”, è per sempre…
Da qui, pezzi interi dell’economia sempre
più “inquinati” dai capitali mafiosi, che non risparmiano nessun settore
industriale: dall’energia alla sanità, dalle infrastrutture all’edilizia, dai
trasporti ai rifiuti.
È evidente che una forza politico-economica
anche potente, come la mafia, impatta, in profondità, il tessuto sociale che corrompe,
in termini di rappresentazione sociale, perfino di status sociale…
Quando la Grande Encyclopédie riferisce che “lo stato attuale della
proprietà, la miseria generale dei lavoratori assicurano alla mafia le loro
simpatie”, ci dice una grande verità, che è, anche, una grande colpa: quella
della politica di mantenere, sistematicamente, il popolo in condizioni di
miseria e di ignoranza per meglio manipolarlo. Un popolo ignorante e misero
esprime poche pretese “democratiche” e realizzare i primi livelli della
piramide dei bisogni di Abraham Harold Maslow
gli è più che sufficiente. Le sue priorità
vanno, raramente, al di là del terzo grado, perché come pensare all’autostima e
alla realizzazione personale quando non si ha neppure di che soddisfare i
propri bisogni fisiologici, mangiare, bere, dormire, respirare… la sicurezza
del corpo, dell’impiego, della salute, della proprietà… l’appartenenza, Amore, Amicizia,
Intimità, Famiglia…?
Senza contare che un popolo privo di
cultura e di mezzi fornisce un bacino di manodopera inesauribile, dalla quale
la mafia può reclutare a volontà i candidati per i lavori bassi. Prendete dei
giovani senza alcuna speranza di avvenire e fate loro luccicare la possibilità
di avere danaro, influenza, potere; l’appartenenza alla mafia diverrà status sociale, idealmente, capace di
colmare i gradi superiori della piramide.
Gianni Palagonia spiega, molto bene, tutto
ciò nei suoi due libri: Il silenzio e
Nelle mani di nessuno.
È così che la visibilità sociale della
mafia è sotto gli occhi di tutto un Popolo, in negativo o in positivo, ma ben
presente!
A esempio, ciò accade, quando una società
fa appello ai servizi dell’organizzazione mafiosa senza neppure essere stata
minacciata, una tale circostanza indica che la mafia è un “attore sociale”
riconosciuto.
Quando dei cittadini si raggruppano, inveendo
contro i poliziotti che “ardiscono” arrestare un boss mafioso, esprimono un “consenso sociale”, che è diretto verso
la mafia e non verso l’ordine costituito. Un consenso che testimonia del vero
livello di penetrazione sociale della mafia, diffuso, profondo, perché è, da
lungo tempo, che la presenza mafiosa ha superato le sole regioni del Sud, per penetrare
e colonizzare il Centro e il Nord dell’Italia: una constatazione che solo i
politici continuano a negare con tutte le loro forze, a dispetto del buon senso
e di una realtà largamente osservabile. Un consenso, infine, che esprime l’adesione
alla cultura mafiosa, ai suoi codici comportamentali, ai suoi codici
linguistici, perché, per più di un secolo e mezzo di esistenza, la mafia ha
potuto e ha saputo elaborare un ricco patrimonio culturale, che si ritrova
mescolato al Costume, al Folklore, alla Storia, alla Letteratura e anche al Diritto…
La mafia è anche Cultura e ogni Cultura
passa per la Lingua: il “codice linguistico”.
Immaginiamo, per un secondo, che la nostra
vita dipenda, a ogni istante, dalle parole che noi pronunciamo!
Personalmente, io sono affascinata dalla
lingua mafiosa, in ciò che è capace di esprimere, in poche parole, una verità annegata
in mezzo a un oceano di menzogne. Il problema per gli interlocutori è di sapere,
costantemente, distinguere tra verità e menzogna… sotto pena di morte, perché
la sanzione ultima delle parole e dei discorsi mafiosi è la morte.
A poco a poco, ho imparato anche io a
esprimermi in una specie di linguaggio in codice, a interpretare le inflessioni
di voce, a non chiedere e, soprattutto, a non dire mai troppo. Proprio come Gianni
Palagonia con i presunti mafiosi. O come i mafiosi tra loro, sempre sul chi
vive nel loro quotidiano lavoro di decifrazione di segnali. È una attività
intellettuale appassionante, che dimostra la vacuità di lunghe digressioni e
incoraggia a risparmiare parole.
Il verbo ha una tale carica di densità da
corrispondere all’azione più plateale!
E, paradossalmente, tutto ciò che si conosce,
oggi, sulla natura e le forme della cultura mafiosa, noi lo sappiamo grazie
alla parola dei pentiti.
Una bomba che i politici di destra e di sinistra,
hanno tentato di disinnescare con una serie di leggi [http://www.nocensura.com/2013/07/collusione-pd-pdl-le-80-leggi-della.html],
che vanno nel senso delle rivendicazioni mafiose, perché è il quarto dei dodici
punti menzionati nel “papello”, consegnato, nel 1992, da Totò Riina ai suoi
referenti politici e istituzionali con le richieste della mafia allo Stato in
cambio della fine delle stragi:
4. riforma legge pentiti.
L’11 marzo 1999, Silvio Berlusconi aveva
dichiarato:
“Presenteremo un progetto di legge che
impone ai pentiti di mafia di dire tutto nel primo mese, poi basta.”
In altre parole, tutto ciò che avrebbero
raccontato dal trentunesimo giorno non avrebbe avuto più alcun valore.
Come se un pentito potesse raccontare
decenni di mafia, di crimini e di contatti in un mese!
Attualmente, il termine è di sei mesi.
La legge Fassino sui pentiti – legge n. 45
del 13 febbraio 2001 [http://www.camera.it/parlam/leggi/01045l.htm]
–, modificava, infatti, la precedente disciplina, in
materia di collaboratori e testimoni di giustizia, contenuta nel decreto legge
n. 8 del 15 gennaio 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 82 del 15
marzo 1991, e decideva di cucire la bocca ai mafiosi, per dare modo a chi si
fosse pentito di essersi pentito di ritrattare tutto.
Si era
deciso che i pentiti fossero troppi.
Non i
mafiosi, i 30mila mafiosi irriducibili, no!
Erano
troppi i 1200/1300 pentiti…
E,
quindi, si dovevano sfoltire…
E,
furono sfoltiti…
Inutile
dire che da allora non si è pressoché più pentito nessuno!
È evidente che la parola fa paura, perché è
il solo antidoto alla cultura del silenzio, che condividono mafiosi e politici
corrotti.
Il
presidente della commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema
di lotta alla criminalità organizzata,
Nicola Gratteri, magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, che ha
annunciato, il mese scorso:
Se non fosse che, in questo caso, la posta
è la vita o la morte!
Giovanni Falcone confidava a Marcelle
Padovani:
“La mafia, lo ripeto ancora una volta, non
è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi
con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo,
grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a
tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra
con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli
o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della
popolazione.”
Una società che permette ciò senza reagire
è una società che ha abdicato di fronte al male, rinunciando alla sua libertà,
alla sua dignità e alla sua responsabilità, una società che, detto chiaramente,
non merita la Democrazia che proclama di volere nelle parole, ma che allontana
e rigetta negli atti.
La nostra società avrà gli anticorpi
sufficienti per curarsi e guarire?
Vi è, sempre, stata una gigantesca
ambiguità sull’Antimafia in Italia, perché, in ogni tempo, mafiosi e corrotti
si sono uniti per delegittimare, diffamare e discreditare gli Eroi dell’Antimafia.
Talvolta, aiutati in questo compito da intellettuali in buona fede o non,
coscienti o incoscienti, giornalisti o scrittori, come Leonardo Sciascia, che
pubblicò, il 10 gennaio 1987, sul quotidiano, Il Corriere della Sera, un articolo dal titolo I professionisti dell’antimafia [http://www.italialibri.net/dossier/mafia/professionistiantimafia.html],
che criticava, tra le righe, il sindaco della primavera palermitana, Leoluca
Orlando, e accusava, esplicitamente, Paolo Borsellino di profittare della sua popolarità,
quale giudice Antimafia, per favorire la
sua carriera!
Come se essere un professionista dell’Antimafia
avesse anche i suoi vantaggi!
E, si è, infatti, visto come si è conclusa
la carriera di Paolo Borsellino…
Molto è
stato scritto sulla Mafia, eppure, dopo aver letto solo una parte di questa
letteratura, in continuo incremento, ho notato, con un senso di vivo rammarico,
come abbondi di errori di fatto e di interpretazione.
Naturalmente, la perfetta verità storica è un fuoco fatuo, ma vedo chiaramente
che l’era mediatica incombe anche sul campo
letterario e che gli errori vengono raccolti, ripetuti
e accresciuti dalla presente generazione di storici. Tanto
più necessario, dunque, che qualcuno di noi ripeta quello che veramente
avvenne, prima che l’errore metta radici così salde da non permettere più ai
posteri di distinguere la realtà dalla fantasia. Certo, nessuno può
pretendere di essere il portavoce autorizzato di una intera generazione. L’idea
stessa di generazione è un mero artificio mentale, non si sa neppure dove inizi
la propria generazione o dove finisca, né se sia stata “perduta” o “trovata” e,
tuttavia, i nostri ricordi di testimoni personali possono offrire utili
documentazioni sul movimento delle idee in un dato periodo.
Dopo aver pubblicato, nel 2007, Il
silenzio, Gianni Palagonia recidiva, un anno dopo, nello stesso genere polar, con Nelle mani di nessuno.
Anche se le inchieste poliziesche mi annoiano mortalmente, debbo ammettere che
Gianni Palagonia è uno scrittore senza eguali. La sua penna molto abile ci
permette di penetrare i meandri dell’illegalità, tipicamente siciliana,
nel più generale senso di impotenza di tutta un’isola, dal passato, a volte,
torbido e dalle diverse ferite accumulate. Se siete, dunque, amanti di polars, di intrighi polizieschi, di
assassinii, di inchieste, farciti di un pizzico di humour e di dialoghi ben ritmati, avvertirete la più elettrica scarica di adrenalina. Questi libri vi
terranno, letteralmente, con il fiato sospeso per tutta la lettura. Non è
necessario aver letto il primo romanzo per apprezzare il secondo. Ma quelli che
avranno gustato l’uno saranno, sicuramente, tentati di assaporare l’altro.
È
tempo, per evitare che la banalizzazione della mafia
guadagni ancora terreno, che si restituiscano alle vittime le loro vere
identità. Quanti hanno vissuto quegli eventi e ne sono stati segnati nell’anima
e nella carne, leggeranno, con sempre la rabbia nel cuore, le pagine di Gianni
Palagonia. Gli altri vi troveranno materia di riflessione, perché sarebbe un
errore credere che questi due libri parlino di ieri: parlano di oggi e anche di
domani.
Del
nostro prossimo avvenire…
Due libri che graveranno, pesantemente, sulle nostre coscienze, perché non
sono i libri di un vinto, scritti per vinti, ma la spiegazione impietosa ed
esaltante di una disfatta per futuri combattenti. Naturalmente, i
libri si potrebbero ricevere come un pugno allo stomaco. Ma lo
choc che vogliono provocare è molto più profondo.
Chi
ha l’illusione di conoscere, già, la mafia, dovrà abbandonare i propri
preconcetti, se vuole cogliere la realtà.
Chi non
ne pensa niente, dovrà fare uno sforzo per penetrare tutti gli arcani di una organizzazione, in effetti, “segreta”.
Le
motivazioni politiche non bastano a spiegare né l’Autore, né i suoi personaggi.
E pro o contro l’Autore e il suo libro, pro o contro la Mafia, si dovrà,
innanzitutto, far tacere i propri sentimenti se si vorrà abbracciare l’insieme.
Tutto ciò è, forse, chiedere molto, ma tali sono le esigenze della Storia, quando chi l’ha fatta e chi l’ha scritta hanno
mostrato lo stesso talento.
Coloro
che sanno, leggendo Gianni Palagonia, diranno:
“È
proprio quanto è accaduto!”
Gli
altri, e, in particolare, i lettori metropolitani, lobotomizzati
da anni di menzogne, saranno, si può sperarlo, “risvegliati” da questi due testi
senza concessioni al pret-à-penser.
Allora
allacciate le cinture, ça va tanguer.
Recensire
un libro non è, mai, un compito facile, figurarsi due!
Se,
poi, i libri sono scritti da un Autore, per il quale nutriamo stima e
considerazione, pur ignorandone il nome e non conoscendone il volto, siamo come
tétanisés dall’onore che ci
è fatto.
Vi è l’Autore.
E vi è
il Soggetto che ha scelto di trattare.
“Altri due libri sui
crimini di mafia, due libri di più!”
diranno
alcuni,
“Erano, veramente, necessari?”
“Sì.”
Queste
“altre due storie di mafia” non sono “due libri di più sui crimini di mafia”,
ennesime versioni più o meno delatrici.
I due
libri di Gianni Palagonia sono “due altre storie di mafia”.
“Due
altre storie” perché sono uno sguardo particolare e personale, che porta su un
periodo tragico, di cui continuiamo a pagare le
conseguenze. Sono la mafia senza il lato romantico di The Godfather di Francis Ford Coppola, senza l’aspetto soffocante e
opprimente di Gomorra di Roberto
Saviano.
Si
entra nel cuore della criminalità, dei traffici immobiliari o di armi, dei
furti e dei rackets, che
cercano di controllare un territorio, di affermare un dominio.
Ci si rende conto a quale punto la mafia si sviluppi
fuori dello Stato…
Poggi sullo Stato…
La mafia non vive accanto alla società, di cui ha bisogno
per operare e far prosperare il proprio commercio. È il
rovescio negativo della società. La mafia vive come ogni società, non esiste
che grazie a clienti che acquistano la sua merce e che, quindi, le consentono
di operare e di prosperare.
Senza clienti stenterebbe a sopravvivere!
Dall’alba dell’Umanità, il crimine ha,
sempre, fatto parte integrante della società. La forza della mafia, è di aver
saputo organizzare il crimine. E, soprattutto, di averlo organizzato
efficacemente.
Molto efficacemente!
Il 19 luglio 2010, un pentito mafioso di
primo piano, Gaspare Spatuzza, nel suo memoriale, inviato al giornalista de l’Espresso, Lirio Abbate, scriveva:
“Oggi tutti che parlano di mafia, ma cos’è
la mafia? La mafia è il sistema più funzionante che ci sia naturalmente
parlando della mia conoscenza che si è formulata da un bel po’ esempio: se devo
uscire un certificato di residenza, ecc vado da chi di dovere certamente non è
lo Stato che prima di mezzogiorno mi viene recapitato direttamente a casa.”
Ecco la parola chiave: “sistema”!
Lo stesso termine che designa la camorra,
come ci ricorda Roberto Saviano in Gomorra.
Sistema di potere, articolazione di potere,
metafora di potere, patologia di potere, la mafia si fa Stato laddove lo Stato
è tragicamente assente.
La mafia, sistema economico, implicata, da
sempre, nelle attività illegali, redditizie e che possono essere sfruttate in
modo metodico.
La mafia, organizzazione criminale, che usa
e abusa dei valori siciliani tradizionali.
La mafia in un mondo, in cui la nozione di
cittadinanza tende a diluirsi, mentre la logica dell’appartenenza tende a
rafforzarsi, un mondo in cui i cittadini, con i loro diritti e i loro doveri, sono
annullati davanti ai clans e al
clientelismo.
Una mafia che si fa impresa, dopo essersi
fatta politica, non impresa illegale ma impresa con una attività ben avviata!
Una mafia, le cui giovani generazioni hanno
studiato nei collegi più esclusivi, frequentato le più prestigiose università,
in Italia o all’estero, per divenire analisti finanziari, medici, avvocati e
così via… colletti bianchi tra i colletti bianchi, di fronte ai quali nessun
concorrente può opporre resistenza…
Antonio Ingroia lo riconosce:
“La mafia oggi è soprattutto mafia
finanziaria, mafia degli affari, che ha moltiplicato la sua presenza nell’economia
legale.”
e aggiunge una dichiarazione che mi
colpisce più particolarmente ancora:
“Abbiamo oggi una mafia più civile e una
società più mafiosa. Una mafia sempre più in giacca e cravatta e una società
che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma,
abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli
comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi.”
Dichiarazioni inquietanti, che significano,
soprattutto, che la società italiana, nel suo insieme, si è talmente
compromessa con la mafia e la corruzione che il male finisce per prevalere sul
bene, mentre, in una società normale, sono le parti sane che dovrebbero riuscire
a debellare le parti malate.
La mafia si presenta, dunque, come una
organizzazione dall’avvenire assicurato, il cui impatto politico ne fa, senza
alcun dubbio, una alternativa al sistema democratico. Un sistema criminale il
cui fine si rinnova, costantemente, sempre identico a se stesso: conquistare il
potere e il danaro.
Con tutti i mezzi.
Illeciti e… leciti!
Ma quante persone sono coscienti, oggi, del
pericolo che la mafia rappresenta per la Democrazia?
Noi abbiamo un cancro – la mafia – le cui
metastasi visibili e invisibili colonizzano il corpo sociale, nello spazio e
nel tempo.
I governi si compiacciono dei successi
senza precedenti, ottenuti nella lotta contro la mafia, dimenticando un po’ in
fretta – di proposito – che quei successi sono dovuti, innanzitutto, all’impegno
dei giudici e delle forze dell’ordine in prima linea; ma soprattutto che la
cattura dei capi militari lascia intatta la capacità dell’idra mafiosa di
rigenerare le sue teste all’infinito, ciò che porta a curarne gli effetti senza
eliminarne le cause…
I sequestri di beni e di risorse sono,
evidentemente, indispensabili – il danaro è, sempre, il nervo della guerra – ma
la legislazione è talmente piena di lacune che i benefici ottenuti da una mano
sono, negativamente, compensati dalle elargizioni accordate dall’altra…
È notorio che la mafia abbia varcato le
frontiere italiane, da lungo tempo, per estendere il suo potere,
potenzialmente, in tutti gli angoli del globo.
La sua prima terra di conquista è stata l’America.
Ma, poi, la mafia è sciamata in Australia,
in Canada, ovunque in Europa e, da ultimo, nell’Europa dell’Est e nei Paesi
satelliti dell’ex-URSS…
Peraltro, laddove non arriva, si allea con
le mafie locali dell’Asia o dell’America del Sud o con la politica corrotta,
come in Africa.
Una propensione naturale alla
globalizzazione, che le apre luminose prospettive per il Futuro: le attività
illegali hanno dinanzi a loro un grande Futuro, fanno interamente parte del
“nuovo ordine mondiale”, con gravi rischi per la società civile. In questo panorama,
il destino di una organizzazione singolare diviene secondario, l’attenzione si
sposta sulla crescita dell’accumulazione illegale e sulla formazione di gruppi
criminali sempre più ramificati e sempre più potenti.
Un anno dopo la decodifica che fa Saviano
dei “dialoghi” della camorra, Gianni Palagonia ci mostra una lingua che noi
ignoriamo anche se ne conosciamo le parole. Una lingua che attinge sia alla
tradizione sia alla modernità, in cui tutto è codice, fatto di detti e
non-detti, di silenzi e segnali. Un lessico di gesti e mezzi-gesti, che
sostituiscono, talvolta, le parole, perfino di sguardi che punteggiano le
frasi, in cui tutto ha un significato preciso, in cui tutto è simbolo, in cui
tutto è legato a un disegno logico.
E tutto ciò non si apprende sui libri, ma
in strada!
A Gianni Palagonia parlarne è sembrato indispensabile.
Nei suoi romanzi, descrive la feccia della nostra società, la parte criminale,
corrotta e i suoi personaggi riproducono, fedelmente, questi ambienti. Sono tutti
oltraggiosamente bastardi, sprovvisti di ogni traccia di umanità e di morale e in
più vincono.
Bisogna abituarsi all’idea che la globalizzazione della
criminalità abbia prodotto una mutazione antropologica: è peggiore di un tempo!
La globalizzazione dell’economia
ha aperto, infatti, nuovi mercati per le culture mafiose, dal riciclaggio
clandestino dei rifiuti tossici e nucleari al traffico di alimenti e medicinali
sofisticati. Ma la vera nuova sfida, sono le liaisons dangereuses, che la necessità di riciclare enormi
quantitativi di danaro sporco ha creato tra la criminalità organizzata e i tre
settori portanti dell’economia e della società: impresa, finanza e politica. L’Università
di Oxford ha coniato un termine per definire questo ambiente: criminalità
terziaria. Senza il sostegno di questi gruppi trasversali, le mafie avrebbero
molta difficoltà a espandersi e a introdurre la loro economia illegale nell’economia
legale.
Il vero problema di questi
ultimi anni è la corruzione che prospera e apre la via all’infiltrazione
mafiosa.
Nei suoi romanzi, Gianni Palagonia descrive la relazione sempre più intima,
tra crimine e società.
Gianni Palagonia è un nome
fittizio, ma i suoi racconti sono autentici, romanzati proprio quanto basta, il
cui oggetto non è meno devastante di un rapporto… della sua vita passata di
poliziotto.
Sono una cartografia molto dettagliata delle potenze oscure,
invisibili ai comuni mortali, ma che minano, inesorabilmente, le fondamenta di
una Democrazia stanca e impotente a contenerle.
Certo, vorremmo che questo mondo non fosse che l’espressione
di una paranoia letteraria.
Ma puzza fortemente di reale!
Dire che
sembra ieri o che non sembra vero, non è soltanto l’indulgente luogo comune
suggerito dall’inganno della Memoria. Per molti di noi quella situazione di
speranze disattese e di novità procrastinate sopravvive, attuale, nelle
promesse e nelle incertezze di cui sembra gravida la tensione politica del
nostro tempo. Anche per questo, oggi, la commemorazione delle stragi, per quel
tanto di conclusivo e remoto che si accompagna a tutti gli anniversari, deve
sembrare impropria a quella generazione di Italiani
che la vissero e sopravvissero loro senza vederne realizzate le grandi promesse
civili. Ma la rievocazione, nelle parole e nelle immagini
di Gianni Palagonia, vuole tenere conto soltanto del dovere di ricordare:
restituire alla Storia volti e momenti di un tempo in cui noi non
eravamo.
Per
coloro che comprenderanno, alcuna spiegazione è necessaria.
Per
coloro che non comprenderanno, alcuna spiegazione è possibile.
Libri
di rabbia,
tonificanti, ben documentati, ben scritti, libri utili, perfino indispensabili.
Da
consumare senza moderazione!
E, al termine di questo percorso, io vorrei
lasciarvi con le parole di Giovanni Falcone:
“Si muore generalmente perché si è soli o
perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si
dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la
mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere.”,
e io aggiungerei:
“E che lo Stato non ha voluto proteggere!”
Un grazie a Gianni Palagonia e al piacere
di rileggerlo!
Daniela Zini
Copyright © 10 ottobre 2014 ADZ
Tra il 1943 e il 1954, lo psicologo statunitense Abraham Harold Maslow concepì
il concetto di hierarchy of needs [gerarchia dei bisogni o necessità], che
divulgò nel libro Motivation and Personality del 1954.
Questa
scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari
[necessari alla sopravvivenza dell’individuo] ai più complessi [di carattere
sociale]. L’individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali debbono
essere soddisfatti in modo progressivo. Questa scala è, internazionalmente
conosciuta come La piramide di Maslow.
I livelli di bisogno concepiti sono:
-
bisogni fisiologici [fame, sete, ecc.];
-
bisogni di salvezza, sicurezza e
protezione;
-
bisogni di appartenenza [affetto,
identificazione];
-
bisogni di stima, di prestigio, di
successo;
-
bisogni di realizzazione di sé
[realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una
posizione soddisfacente nel gruppo sociale].
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