“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

venerdì 10 ottobre 2014

LA MEMORIA È L'AVVENIRE DEL PASSATO di Daniela Zini



LA MEMORIA
È
L’AVVENIRE DEL PASSATO


recensione ai libri di Gianni Palagonia:
Il silenzio
Nelle mani di nessuno
di
Daniela Zini



 

Straniera sono in Sicilia; ma questa regione mi è cara
 Più d’ogni altra: ora col nome di Aretusa ho qui la mia dimora,
Questa è la mia terra, e tu, che sai essere così mite, risparmiala!
Perché mi sia trasferita lungo la vastità del mare
Per giungere in Ortigia, verrà il momento opportuno
Di narrarlo quando avrai superato questa angoscia
E più sereno sarà il tuo volto. Per farmi passare, la terra
Mi schiude un cammino ed io scorrendo nei suoi profondi abissi,
Qui riemergo a rivedere le stelle quasi dimenticate.

Ovidio, Le Metamorfosi, Libro Quinto



“Tutto oggi dovendo dipendere dalla volontà della maggioranza dei mandatari degli elettori, ogni studio, ogni sforzo degli uomini politici, di coloro che di fatto hanno in mano il governo, si riassume nel predisporre gli organi dello Stato e tutti gl’istituti politici che da loro possono dipendere, in guisa da poter lusingare o costringere il responso degli elettori a seguire la via da essi indicata e nel vincolare intanto la volontà della maggioranza della Camera con le lusinghe personali e con le minacce di schierare contro ogni singolo deputato nel suo collegio tutta la batteria delle influenze governative ed ufficiali. E d’altro canto ogni studio, ogni sforzo dei singoli deputati si concentra nell’assicurarsi la rielezione, cioè nel soddisfare lì per lì in qualsiasi modo il maggior numero di interessi e di brame dei singoli elettori. Onde disprezzo dell’elettore per il deputato, di cui si serve e che lo serve; disprezzo della Nazione pel Governo, e per le istituzioni stesse di cui esso è il prodotto visibile. Ogni idealità di Stato viene a mancare; ogni tradizione di governo rimane interrotta; il principio dell’autorità perde ogni prestigio; e la Nazione si disamora sempre più degli ordinamenti che la reggono, condannando tutto e tutti in massa, e persone, e istituti, e princìpi. I Governi misti, complessi, composti di vari istituti autonomi, con attribuzioni proprie e distinte, presuppongono, per regolare la loro azione, che ciascun potere, ciascun istituto vigili alla conservazione dei propri diritti ed alla integrità delle funzioni affidategli.
In Italia, invece, lo ripeto, è sorto un potere nuovo, parassita e ibrido, dallo Statuto non contemplato, il quale facendosi strumento e sgabello delle pretese dottrinarie e delle crescenti usurpazioni della Camera dei deputati, che vorrebbe arrogare a sé sola il diritto di parlare come interprete della volontà della nazione, è riuscito col dichiararsi a sua volta la emanazione legittima e autorizzata della rappresentanza nazionale, ad una progressiva ed effettiva usurpazione di quasi tutte le funzioni normali della Corona, facendone altrettante funzioni direttamente da sé dipendenti, e tende sempre più a mettere nell’ombra il Principe; mentre al tempo stesso ha, d’altro canto, snaturate o distrutte le funzioni proprie della Camera elettiva. La Camera, avendo voluto invadere le competenze altrui e governare, è venuta invece a prendere anche di fatto l’esercizio libero della stessa funzione legislativa, attribuitela dallo Statuto; e si trova, ogni giorno di più, mancipia del Ministero.”
Sideney Sonnino, Torniamo allo Statuto
Il famoso articolo di Sidney Sonnino, Torniamo allo Statuto, segna il momento conclusivo delle critiche al parlamentarismo, prima delle sanguinose giornate del 1898 e dei tentaivi, nel 1899, di governo autoritario del generale Louis Jérôme Pelloux.   


“Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fanno produrre gli avvenimenti; un gruppo un po’ più importante che veglia alla loro esecuzione e assiste al loro compimento e, infine, una vasta maggioranza che giammai saprà ciò che, in realtà, è accaduto.”




Percorrendo il mondo e osservando la evoluzione delle organizzazioni mafiose, mi sono convinta che la criminalità è organizzata in diversi strati. Allo strato più basso – sovente, legato, geograficamente, alle zone più povere del mondo – si occupa di reperire danaro dalla strada in attività classiche, quali la prostituzione, il traffico di droga o di armi, il racket.
È il regno della violenza più feroce.
Chi vince è il più forte dal punto di vista militare.
Dall’Europa dell’Est all’Estremo Oriente, dall’Africa all’America del Sud, si deve, ancora, scrivere la Storia dello sviluppo sistematico del ricorso alla violenza. Nella vecchia Europa, non si sono sentiti che gli echi di ciò che è accaduto agli uomini e alle donne in quei Paesi. Tutte le mafie si sono mondializzate, sono divenute multinazionali e, di conseguenza, hanno cancellato le regole che, un tempo, determinavano l’equilibrio tra crimine e società.   
L’Europa è divenuta un territorio da saccheggiare!
Da un lato, si finge di combattere l’infiltrazione delle mafie nell’economia legale. In Italia – quarto paradiso fiscale al mondo dopo le isole Cayman, gli Stati Uniti e la Russia –, la sola industria prospera è la criminalità, che fattura 250 miliardi di euro, l’anno. Secondo l’International Monetary Fund [IMF], dalle mafie internazionali provengono 55 miliardi di dollari, l’anno. Tutto questo danaro è riciclato in attività legali e, oggi, si sa che il danaro mafioso sostiene, in parte, il costo della crisi. Ma, dall’altro lato, i Paesi europei sono divenuti, da più di venti anni, le filiali delle mafie internazionali. Dalla mafia nigeriana alla mafia serba, passando attraverso le mafie turche e colombiane, hanno tutte bisogno delle nostre banche e delle nostre imprese per riciclare danaro sporco. E hanno tutte costruito una rete molto fitta di attività criminali. Una delle più remunerative è il traffico di esseri umani. Spinti dalla guerra e dalla miseria, gli uomini e le donne, che attraversano il Mediterraneo e sbarcano sulle nostre coste, sono, totalmente, gestiti dalla criminalità organizzata. Le donne, in questa nuova dimensione criminale, sono quelle che hanno più da perdere, sono ridotte in schiavitù, stuprate e vendute.
Ovunque situazioni e realtà di una gravità senza precedenti! 
Come Stendhal, che, spesso, tornava sulla storia della sua vita “senza illusioni in proposito”, in quegli scritti segreti destinati alla posterità, anche noi dovremmo essere curiosi di sapere chi eravamo.
Quanto a me, sono decisa a rimediare a questa lacuna.
Il Passato – diciamo “il lascito culturale”, poiché è, fondamentalmente, di ciò che si tratta – non è una identità prefabbricata e fissata una volta per tutte. È una identità in divenire a pari titolo del Presente. Ogni epoca e ogni gruppo umano legge il Passato in funzione dei propri bisogni. E se un gruppo umano di una qualunque epoca si mostra incapace di leggere il proprio Passato in funzione dei propri bisogni, la colpa non ricade sul Passato, ma sullo stesso gruppo umano. In generale, la colpa è di non conoscere il proprio Passato e, quindi, di non essere in grado di riconoscere ciò di cui si avrebbe bisogno. E, anche quando ciò di cui si avesse bisogno fosse fare tabula rasa, non si farebbe ignorando il Passato o fingendo di ignorarlo. Quanto a noi italiani, se mai vi è colpa, non è certo nostra, ma di chi avrebbe dovuto elaborare i programmi delle scuole e non dimenticare, con tanta disattenzione, quanto è accaduto in Italia, sui monti, nelle valli e nelle città, dagli albori della nostra Storia unitaria.
La fondamentale caratteristica dell’insegnamento della Storia deve essere quella di fornire, in primo luogo, la conoscenza dei dati sui quali, poi, esercitare lo spirito critico degli studenti, il quale, per destarsi seriamente, ha bisogno di essere messo a diretto contatto con i testi che possano fornirgli quei dati. Né ciò è necessario soltanto agli studenti. Anche i docenti hanno l’indispensabile esigenza di ricorrere al documento per ottenere una maggiore precisione nella presentazione dei fatti e delle idee e per conferire vivezza al loro insegnamento: un testo, ogni volta che si legge – sia l’editto di Teodorico o un canone del Concilio Vaticano II o un discorso di Mao Tze-tung – è una riscoperta, sollecita, sempre, a nuove considerazioni. Prima di parlare della teocrazia di Innocenzo III o del conflitto cino-sovietico, sarebbe bene sapere, con una certa precisione, di cosa si tratti.     
La Storia d’Italia non ha avuto solo Enrico Toti, ha avuto qualcuno e qualcosa di più del lancio di una stampella: ha avuto chi ha fatto l’Eroe non perché avesse ricevuto la cartolina precetto, ma perché “in prima linea” è andato di sua spontanea volontà, per “salvare la faccia”, se non altro di fronte ai mafiosi che “la facevano” da padroni e ai politici che “la facevano” da servi.  
Tommaso Buscetta avvertiva Giovanni Falcone:
“Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”,
e gli confidava:
“Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato.”
Quanto a Giuseppe Fava, giornalista assassinato – uno di più –, nell’intervista a Enzo Biagi, ammoniva, già, dagli anni 1980:
I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della Nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo…, cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della Nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l’Italia.”
Dalla metà degli anni 1970, la mafia ha cessato di servirsi, semplicemente, della politica e dei politici, per rivendicare una propria autonomia e divenire protagonista, a pieno titolo, della vita politica italiana: non più serbatoio di voti, ma finanziatore delle campagne, perfino, sponsor – è il caso di dirlo – di questo o di quel candidato.
L’impegno politico della mafia è legato, in linea retta, con la sua decisione, sempre intorno alla metà degli anni 1970, di lanciarsi nel mercato della droga. Una scelta che ha avuto come conseguenza di accrescere, in modo esponenziale, la potenza finanziaria dell’organizzazione mafiosa. Da qui, la necessità di trovare, costantemente, nuovi sbocchi per riciclare i miliardi di narcodollari e di moltiplicare, conseguentemente, i contatti con la politica.
Dovremmo chiederci che se ne faccia la mafia di una tale eccessività di danaro?
Semplice!
Investe in tutto ciò che è legale…
In questo periodo di crisi generalizzata, in cui gli imprenditori mancano, crudelmente, di liquidità e in cui le banche chiudono i cordoni della borsa, la mafia viene in soccorso delle imprese in difficoltà con le sue valigie piene di milioni.
E vi “mette un piede dentro”!
Poi, come per gli iniziati o quelli che “si mettono a disposizione”, è per sempre…
Da qui, pezzi interi dell’economia sempre più “inquinati” dai capitali mafiosi, che non risparmiano nessun settore industriale: dall’energia alla sanità, dalle infrastrutture all’edilizia, dai trasporti ai rifiuti.
È evidente che una forza politico-economica anche potente, come la mafia, impatta, in profondità, il tessuto sociale che corrompe, in termini di rappresentazione sociale, perfino di status sociale…
Quando la Grande Encyclopédie riferisce che “lo stato attuale della proprietà, la miseria generale dei lavoratori assicurano alla mafia le loro simpatie”, ci dice una grande verità, che è, anche, una grande colpa: quella della politica di mantenere, sistematicamente, il popolo in condizioni di miseria e di ignoranza per meglio manipolarlo. Un popolo ignorante e misero esprime poche pretese “democratiche” e realizzare i primi livelli della piramide dei bisogni di Abraham Harold Maslow[1] gli è più che sufficiente. Le sue priorità vanno, raramente, al di là del terzo grado, perché come pensare all’autostima e alla realizzazione personale quando non si ha neppure di che soddisfare i propri bisogni fisiologici, mangiare, bere, dormire, respirare… la sicurezza del corpo, dell’impiego, della salute, della proprietà… l’appartenenza, Amore, Amicizia, Intimità, Famiglia…?
Senza contare che un popolo privo di cultura e di mezzi fornisce un bacino di manodopera inesauribile, dalla quale la mafia può reclutare a volontà i candidati per i lavori bassi. Prendete dei giovani senza alcuna speranza di avvenire e fate loro luccicare la possibilità di avere danaro, influenza, potere; l’appartenenza alla mafia diverrà status sociale, idealmente, capace di colmare i gradi superiori della piramide. 
Gianni Palagonia spiega, molto bene, tutto ciò nei suoi due libri: Il silenzio e Nelle mani di nessuno.
È così che la visibilità sociale della mafia è sotto gli occhi di tutto un Popolo, in negativo o in positivo, ma ben presente!
A esempio, ciò accade, quando una società fa appello ai servizi dell’organizzazione mafiosa senza neppure essere stata minacciata, una tale circostanza indica che la mafia è un “attore sociale” riconosciuto. 
Quando dei cittadini si raggruppano, inveendo contro i poliziotti che “ardiscono” arrestare un boss mafioso, esprimono un “consenso sociale”, che è diretto verso la mafia e non verso l’ordine costituito. Un consenso che testimonia del vero livello di penetrazione sociale della mafia, diffuso, profondo, perché è, da lungo tempo, che la presenza mafiosa ha superato le sole regioni del Sud, per penetrare e colonizzare il Centro e il Nord dell’Italia: una constatazione che solo i politici continuano a negare con tutte le loro forze, a dispetto del buon senso e di una realtà largamente osservabile. Un consenso, infine, che esprime l’adesione alla cultura mafiosa, ai suoi codici comportamentali, ai suoi codici linguistici, perché, per più di un secolo e mezzo di esistenza, la mafia ha potuto e ha saputo elaborare un ricco patrimonio culturale, che si ritrova mescolato al Costume, al Folklore, alla Storia, alla Letteratura e anche al Diritto…
La mafia è anche Cultura e ogni Cultura passa per la Lingua: il “codice linguistico”.
Immaginiamo, per un secondo, che la nostra vita dipenda, a ogni istante, dalle parole che noi pronunciamo!
Personalmente, io sono affascinata dalla lingua mafiosa, in ciò che è capace di esprimere, in poche parole, una verità annegata in mezzo a un oceano di menzogne. Il problema per gli interlocutori è di sapere, costantemente, distinguere tra verità e menzogna… sotto pena di morte, perché la sanzione ultima delle parole e dei discorsi mafiosi è la morte.
A poco a poco, ho imparato anche io a esprimermi in una specie di linguaggio in codice, a interpretare le inflessioni di voce, a non chiedere e, soprattutto, a non dire mai troppo. Proprio come Gianni Palagonia con i presunti mafiosi. O come i mafiosi tra loro, sempre sul chi vive nel loro quotidiano lavoro di decifrazione di segnali. È una attività intellettuale appassionante, che dimostra la vacuità di lunghe digressioni e incoraggia a risparmiare parole.
Il verbo ha una tale carica di densità da corrispondere all’azione più plateale!
E, paradossalmente, tutto ciò che si conosce, oggi, sulla natura e le forme della cultura mafiosa, noi lo sappiamo grazie alla parola dei pentiti.
Una bomba che i politici di destra e di sinistra, hanno tentato di disinnescare con una serie di leggi [http://www.nocensura.com/2013/07/collusione-pd-pdl-le-80-leggi-della.html], che vanno nel senso delle rivendicazioni mafiose, perché è il quarto dei dodici punti menzionati nel “papello”, consegnato, nel 1992, da Totò Riina ai suoi referenti politici e istituzionali con le richieste della mafia allo Stato in cambio della fine delle stragi:
4. riforma legge pentiti.



L’11 marzo 1999, Silvio Berlusconi aveva dichiarato:
“Presenteremo un progetto di legge che impone ai pentiti di mafia di dire tutto nel primo mese, poi basta.”
In altre parole, tutto ciò che avrebbero raccontato dal trentunesimo giorno non avrebbe avuto più alcun valore.
Come se un pentito potesse raccontare decenni di mafia, di crimini e di contatti in un mese!
Attualmente, il termine è di sei mesi.
La legge Fassino sui pentiti – legge n. 45 del 13 febbraio 2001 [http://www.camera.it/parlam/leggi/01045l.htm] –, modificava, infatti, la precedente disciplina, in materia di collaboratori e testimoni di giustizia, contenuta nel decreto legge n. 8 del 15 gennaio 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 82 del 15 marzo 1991, e decideva di cucire la bocca ai mafiosi, per dare modo a chi si fosse pentito di essersi pentito di ritrattare tutto.
Si era deciso che i pentiti fossero troppi.
Non i mafiosi, i 30mila mafiosi irriducibili, no!
Erano troppi i 1200/1300 pentiti…
E, quindi, si dovevano sfoltire…
E, furono sfoltiti…
Inutile dire che da allora non si è pressoché più pentito nessuno!
È evidente che la parola fa paura, perché è il solo antidoto alla cultura del silenzio, che condividono mafiosi e politici corrotti. 
Il presidente della commissione per l’elaborazione di proposte normative in tema di lotta alla criminalità organizzata, Nicola Gratteri, magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, che ha annunciato, il mese scorso:
“Io lo posso dire aboliamo la Dia” [http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/06/gratteri-io-lo-posso-dire-aboliamo-la-dia-per-risparmiare-no-a-tagli-lineari/1112644/] ripete, sovente, che nessuna emozione debba, assolutamente, trasparire dal viso del giudice che interroga un mafioso, proprio come in una partita a poker, in cui i giocatori debbono mostrarsi impenetrabili ai sentimenti, alle emozioni.
Se non fosse che, in questo caso, la posta è la vita o la morte!
Giovanni Falcone confidava a Marcelle Padovani[2]:
“La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.”
Una società che permette ciò senza reagire è una società che ha abdicato di fronte al male, rinunciando alla sua libertà, alla sua dignità e alla sua responsabilità, una società che, detto chiaramente, non merita la Democrazia che proclama di volere nelle parole, ma che allontana e rigetta negli atti.
La nostra società avrà gli anticorpi sufficienti per curarsi e guarire?
Vi è, sempre, stata una gigantesca ambiguità sull’Antimafia in Italia, perché, in ogni tempo, mafiosi e corrotti si sono uniti per delegittimare, diffamare e discreditare gli Eroi dell’Antimafia. Talvolta, aiutati in questo compito da intellettuali in buona fede o non, coscienti o incoscienti, giornalisti o scrittori, come Leonardo Sciascia, che pubblicò, il 10 gennaio 1987, sul quotidiano, Il Corriere della Sera, un articolo dal titolo I professionisti dell’antimafia [http://www.italialibri.net/dossier/mafia/professionistiantimafia.html], che criticava, tra le righe, il sindaco della primavera palermitana, Leoluca Orlando, e accusava, esplicitamente, Paolo Borsellino di profittare della sua popolarità, quale  giudice Antimafia, per favorire la sua carriera!
Come se essere un professionista dell’Antimafia avesse anche i suoi vantaggi!
E, si è, infatti, visto come si è conclusa la carriera di Paolo Borsellino…
Molto è stato scritto sulla Mafia, eppure, dopo aver letto solo una parte di questa letteratura, in continuo incremento, ho notato, con un senso di vivo rammarico, come abbondi di errori di fatto e di interpretazione. Naturalmente, la perfetta verità storica è un fuoco fatuo, ma vedo chiaramente che l’era mediatica incombe anche sul campo letterario e che gli errori vengono raccolti, ripetuti e accresciuti dalla presente generazione di storici. Tanto più necessario, dunque, che qualcuno di noi ripeta quello che veramente avvenne, prima che l’errore metta radici così salde da non permettere più ai posteri di distinguere la realtà dalla fantasia. Certo, nessuno può pretendere di essere il portavoce autorizzato di una intera generazione. L’idea stessa di generazione è un mero artificio mentale, non si sa neppure dove inizi la propria generazione o dove finisca, né se sia stata “perduta” o “trovata” e, tuttavia, i nostri ricordi di testimoni personali possono offrire utili documentazioni sul movimento delle idee in un dato periodo. 
Dopo aver pubblicato, nel 2007, Il silenzio, Gianni Palagonia recidiva, un anno dopo, nello stesso genere polar, con Nelle mani di nessuno.
Anche se le inchieste poliziesche mi annoiano mortalmente, debbo ammettere che Gianni Palagonia è uno scrittore senza eguali. La sua penna molto abile ci permette di penetrare i meandri dell’illegalità, tipicamente siciliana, nel più generale senso di impotenza di tutta un’isola, dal passato, a volte, torbido e dalle diverse ferite accumulate. Se siete, dunque, amanti di polars, di intrighi polizieschi, di assassinii, di inchieste, farciti di un pizzico di humour e di dialoghi ben ritmati, avvertirete la più elettrica scarica di adrenalina. Questi libri vi terranno, letteralmente, con il fiato sospeso per tutta la lettura. Non è necessario aver letto il primo romanzo per apprezzare il secondo. Ma quelli che avranno gustato l’uno saranno, sicuramente, tentati di assaporare l’altro.
È tempo, per evitare che la banalizzazione della mafia guadagni ancora terreno, che si restituiscano alle vittime le loro vere identità. Quanti hanno vissuto quegli eventi e ne sono stati segnati nell’anima e nella carne, leggeranno, con sempre la rabbia nel cuore, le pagine di Gianni Palagonia. Gli altri vi troveranno materia di riflessione, perché sarebbe un errore credere che questi due libri parlino di ieri: parlano di oggi e anche di domani.
Del nostro prossimo avvenire…
Due libri che graveranno, pesantemente, sulle nostre coscienze, perché non sono i libri di un vinto, scritti per vinti, ma la spiegazione impietosa ed esaltante di una disfatta per  futuri combattenti. Naturalmente, i libri si potrebbero ricevere come un pugno allo stomaco. Ma lo choc che vogliono provocare è molto più profondo.
Chi ha l’illusione di conoscere, già, la mafia, dovrà abbandonare i propri preconcetti, se vuole cogliere la realtà.
Chi non ne pensa niente, dovrà fare uno sforzo per penetrare tutti gli arcani di una organizzazione, in effetti, “segreta”.
Le motivazioni politiche non bastano a spiegare né l’Autore, né i suoi personaggi. E pro o contro l’Autore e il suo libro, pro o contro la Mafia, si dovrà, innanzitutto, far tacere i propri sentimenti se si vorrà abbracciare l’insieme. Tutto ciò è, forse, chiedere molto, ma tali sono le esigenze della Storia, quando chi l’ha fatta e chi l’ha scritta hanno mostrato lo stesso talento.
Coloro che sanno, leggendo Gianni Palagonia, diranno:
“È  proprio quanto è accaduto!”
Gli altri, e, in particolare, i lettori metropolitani, lobotomizzati da anni di menzogne, saranno, si può sperarlo, “risvegliati” da questi due testi senza concessioni al pret-à-penser.
Allora allacciate le cinture, ça va tanguer
Recensire un libro non è, mai, un compito facile, figurarsi due!
Se, poi, i libri sono scritti da un Autore, per il quale nutriamo stima e considerazione, pur ignorandone il nome e non conoscendone il volto, siamo come tétanisés dall’onore che ci è fatto.
Vi è l’Autore.
E vi è il Soggetto che ha scelto di trattare.
“Altri due libri sui crimini di mafia, due libri di più!”
diranno alcuni,
“Erano, veramente, necessari?”
“Sì.”
Queste “altre due storie di mafia” non sono “due libri di più sui crimini di mafia”, ennesime versioni più o meno delatrici.
I due libri di Gianni Palagonia sono “due altre storie di mafia”.
“Due altre storie” perché sono uno sguardo particolare e personale, che porta su un periodo tragico, di cui continuiamo a pagare le conseguenze. Sono la mafia senza il lato romantico di The Godfather di Francis Ford Coppola, senza l’aspetto soffocante e opprimente di Gomorra di Roberto Saviano.
Si entra nel cuore della criminalità, dei traffici immobiliari o di armi, dei furti e dei rackets, che cercano di controllare un territorio, di affermare un dominio.
Ci si rende conto a quale punto la mafia si sviluppi fuori dello Stato…
Poggi sullo Stato…
La mafia non vive accanto alla società, di cui ha bisogno per operare e far prosperare il proprio commercio. È il rovescio negativo della società. La mafia vive come ogni società, non esiste che grazie a clienti che acquistano la sua merce e che, quindi, le consentono di operare e di prosperare.
Senza clienti stenterebbe a sopravvivere!
Dall’alba dell’Umanità, il crimine ha, sempre, fatto parte integrante della società. La forza della mafia, è di aver saputo organizzare il crimine. E, soprattutto, di averlo organizzato efficacemente.
Molto efficacemente! 
Il 19 luglio 2010, un pentito mafioso di primo piano, Gaspare Spatuzza, nel suo memoriale, inviato al giornalista de l’Espresso, Lirio Abbate, scriveva:
“Oggi tutti che parlano di mafia, ma cos’è la mafia? La mafia è il sistema più funzionante che ci sia naturalmente parlando della mia conoscenza che si è formulata da un bel po’ esempio: se devo uscire un certificato di residenza, ecc vado da chi di dovere certamente non è lo Stato che prima di mezzogiorno mi viene recapitato direttamente a casa.”
Ecco la parola chiave: “sistema”!
Lo stesso termine che designa la camorra, come ci ricorda Roberto Saviano in Gomorra.
Sistema di potere, articolazione di potere, metafora di potere, patologia di potere, la mafia si fa Stato laddove lo Stato è tragicamente assente.
La mafia, sistema economico, implicata, da sempre, nelle attività illegali, redditizie e che possono essere sfruttate in modo metodico.
La mafia, organizzazione criminale, che usa e abusa dei valori siciliani tradizionali.
La mafia in un mondo, in cui la nozione di cittadinanza tende a diluirsi, mentre la logica dell’appartenenza tende a rafforzarsi, un mondo in cui i cittadini, con i loro diritti e i loro doveri, sono annullati davanti ai clans e al clientelismo.
Una mafia che si fa impresa, dopo essersi fatta politica, non impresa illegale ma impresa con una attività ben avviata!
Una mafia, le cui giovani generazioni hanno studiato nei collegi più esclusivi, frequentato le più prestigiose università, in Italia o all’estero, per divenire analisti finanziari, medici, avvocati e così via… colletti bianchi tra i colletti bianchi, di fronte ai quali nessun concorrente può opporre resistenza…
Antonio Ingroia lo riconosce:
“La mafia oggi è soprattutto mafia finanziaria, mafia degli affari, che ha moltiplicato la sua presenza nell’economia legale.”
e aggiunge una dichiarazione che mi colpisce più particolarmente ancora:
“Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa. Una mafia sempre più in giacca e cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi.”
Dichiarazioni inquietanti, che significano, soprattutto, che la società italiana, nel suo insieme, si è talmente compromessa con la mafia e la corruzione che il male finisce per prevalere sul bene, mentre, in una società normale, sono le parti sane che dovrebbero riuscire a debellare le parti malate.
La mafia si presenta, dunque, come una organizzazione dall’avvenire assicurato, il cui impatto politico ne fa, senza alcun dubbio, una alternativa al sistema democratico. Un sistema criminale il cui fine si rinnova, costantemente, sempre identico a se stesso: conquistare il potere e il danaro.
Con tutti i mezzi.
Illeciti e… leciti!
Ma quante persone sono coscienti, oggi, del pericolo che la mafia rappresenta per la Democrazia?
Noi abbiamo un cancro – la mafia – le cui metastasi visibili e invisibili colonizzano il corpo sociale, nello spazio e nel tempo.
I governi si compiacciono dei successi senza precedenti, ottenuti nella lotta contro la mafia, dimenticando un po’ in fretta – di proposito – che quei successi sono dovuti, innanzitutto, all’impegno dei giudici e delle forze dell’ordine in prima linea; ma soprattutto che la cattura dei capi militari lascia intatta la capacità dell’idra mafiosa di rigenerare le sue teste all’infinito, ciò che porta a curarne gli effetti senza eliminarne le cause… 
I sequestri di beni e di risorse sono, evidentemente, indispensabili – il danaro è, sempre, il nervo della guerra – ma la legislazione è talmente piena di lacune che i benefici ottenuti da una mano sono, negativamente, compensati dalle elargizioni accordate dall’altra…
È notorio che la mafia abbia varcato le frontiere italiane, da lungo tempo, per estendere il suo potere, potenzialmente, in tutti gli angoli del globo.
La sua prima terra di conquista è stata l’America.
Ma, poi, la mafia è sciamata in Australia, in Canada, ovunque in Europa e, da ultimo, nell’Europa dell’Est e nei Paesi satelliti dell’ex-URSS…
Peraltro, laddove non arriva, si allea con le mafie locali dell’Asia o dell’America del Sud o con la politica corrotta, come in Africa.
Una propensione naturale alla globalizzazione, che le apre luminose prospettive per il Futuro: le attività illegali hanno dinanzi a loro un grande Futuro, fanno interamente parte del “nuovo ordine mondiale”, con gravi rischi per la società civile. In questo panorama, il destino di una organizzazione singolare diviene secondario, l’attenzione si sposta sulla crescita dell’accumulazione illegale e sulla formazione di gruppi criminali sempre più ramificati e sempre più potenti.
Un anno dopo la decodifica che fa Saviano dei “dialoghi” della camorra, Gianni Palagonia ci mostra una lingua che noi ignoriamo anche se ne conosciamo le parole. Una lingua che attinge sia alla tradizione sia alla modernità, in cui tutto è codice, fatto di detti e non-detti, di silenzi e segnali. Un lessico di gesti e mezzi-gesti, che sostituiscono, talvolta, le parole, perfino di sguardi che punteggiano le frasi, in cui tutto ha un significato preciso, in cui tutto è simbolo, in cui tutto è legato a un disegno logico.
E tutto ciò non si apprende sui libri, ma in strada!
A Gianni Palagonia parlarne è sembrato indispensabile. Nei suoi romanzi, descrive la feccia della nostra società, la parte criminale, corrotta e i suoi personaggi riproducono, fedelmente, questi ambienti. Sono tutti oltraggiosamente bastardi, sprovvisti di ogni traccia di umanità e di morale e in più vincono.
Bisogna abituarsi all’idea che la globalizzazione della criminalità abbia prodotto una mutazione antropologica: è peggiore di un tempo!
La globalizzazione dell’economia ha aperto, infatti, nuovi mercati per le culture mafiose, dal riciclaggio clandestino dei rifiuti tossici e nucleari al traffico di alimenti e medicinali sofisticati. Ma la vera nuova sfida, sono le liaisons dangereuses, che la necessità di riciclare enormi quantitativi di danaro sporco ha creato tra la criminalità organizzata e i tre settori portanti dell’economia e della società: impresa, finanza e politica. L’Università di Oxford ha coniato un termine per definire questo ambiente: criminalità terziaria. Senza il sostegno di questi gruppi trasversali, le mafie avrebbero molta difficoltà a espandersi e a introdurre la loro economia illegale nell’economia legale.
Il vero problema di questi ultimi anni è la corruzione che prospera e apre la via all’infiltrazione mafiosa.
Nei suoi romanzi, Gianni Palagonia descrive la relazione sempre più intima, tra crimine e società.
Gianni Palagonia è un nome fittizio, ma i suoi racconti sono autentici, romanzati proprio quanto basta, il cui oggetto non è meno devastante di un rapporto… della sua vita passata di poliziotto.
Sono una cartografia molto dettagliata delle potenze oscure, invisibili ai comuni mortali, ma che minano, inesorabilmente, le fondamenta di una Democrazia stanca e impotente a contenerle.
Certo, vorremmo che questo mondo non fosse che l’espressione di una paranoia letteraria.
Ma  puzza fortemente di reale!
Dire che sembra ieri o che non sembra vero, non è soltanto l’indulgente luogo comune suggerito dall’inganno della Memoria. Per molti di noi quella situazione di speranze disattese e di novità procrastinate sopravvive, attuale, nelle promesse e nelle incertezze di cui sembra gravida la tensione politica del nostro tempo. Anche per questo, oggi, la commemorazione delle stragi, per quel tanto di conclusivo e remoto che si accompagna a tutti gli anniversari, deve sembrare impropria a quella generazione di Italiani che la vissero e sopravvissero loro senza vederne realizzate le grandi promesse civili. Ma la rievocazione, nelle parole e nelle immagini di Gianni Palagonia, vuole tenere conto soltanto del dovere di ricordare: restituire alla Storia volti e momenti di un tempo in cui noi non eravamo. 
Per coloro che comprenderanno, alcuna spiegazione è necessaria.
Per coloro che non comprenderanno, alcuna spiegazione è possibile.
Libri di rabbia, tonificanti, ben documentati, ben scritti, libri utili, perfino indispensabili.
Da consumare senza moderazione!
E, al termine di questo percorso, io vorrei lasciarvi con le parole di Giovanni Falcone:
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”,
e io aggiungerei:
“E che lo Stato non ha voluto proteggere!”

Un grazie a Gianni Palagonia e al piacere di rileggerlo!


Daniela Zini
Copyright © 10 ottobre 2014 ADZ




[1] Tra il 1943 e il 1954, lo psicologo statunitense Abraham Harold Maslow concepì il concetto di hierarchy of needs [gerarchia dei bisogni o necessità], che divulgò nel libro Motivation and Personality del 1954.
Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari [necessari alla sopravvivenza dell’individuo] ai più complessi [di carattere sociale]. L’individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali debbono essere soddisfatti in modo progressivo. Questa scala è, internazionalmente conosciuta come La piramide di Maslow. I livelli di bisogno concepiti sono:
-           bisogni fisiologici [fame, sete, ecc.];
-           bisogni di salvezza, sicurezza e protezione;
-           bisogni di appartenenza [affetto, identificazione];
-           bisogni di stima, di prestigio, di successo;
-           bisogni di realizzazione di sé [realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale].

[2] Cose di Cosa Nostra, Giovanni Falcone e Marcelle Padovani.

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