“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 22 dicembre 2014

Buon Natale! di Daniela Zini





Buon Natale!
Scrivi. Carta e penna fanno miracoli. 
Curano i dolori, consolidano i sogni, restituiscono la speranza.

Paulo Coelho

D


https://www.youtube.com/watch?v=qTOdUaU8vYI

“Se mai vi feci ridere, dite…

Una parola amica in memoria di me.”

Nosside








Nuit de veille
Daniela Zini

O Nuit aux flancs arrondis,
Nuit propice au plaisir, à l’oubli,
C’est à moi seule à qui ce bien est dû,
Pour tant de larmes et tant de temps perdu.

O Rossignol que mon cœur attendait,
Rossignol de la nuit, aux ailerons mouillés,
Viens à moi sans peur et sans prudence,
Pour toute joie et toute connaissance.

Je ne possède rien mais je T’aime.
Je vis distante de moi-même,
Par moi-même désertée,
Morte d’avoir été.

Ce moi-même perdu, là quelque part,
Dans un coin, un endroit de hasard,
Ce moi-même si rompu, si amer,
Sauve-le de l’orgueil, du regret.





Recentemente, è accaduto uno di quei piccoli incidenti personali, che, quando accadono, richiedono che io mi fermi, mi interroghi e mi risponda.
Nulla di grave, se non fosse che io, caratterialmente, aborrisca discutere e trovi inquietante che mi sia lasciata trascinare in una diatriba sterile e inutile, mio malgrado.
E, mentre ero così impegnata, nel mondo, accadevano cose… gravi cose.
In questo mondo virtuale fatto di tasti battuti e caratteri letti, non vi è spazio per le espressioni verbali, per gli sguardi incrociati e (sfortunatamente!) per mostrare i denti a chi lo meriterebbe.
Certo, abbiamo inventato gli emoticons, ma l’impatto emotivo è del tutto irrilevante.
La mancanza di verbalità, di tattilità è a tal punto percepibile, che, a volte, il mondo dall’altra parte del monitor ci sembra Fantasilandia, un luogo solo nella nostra testa, dove ciò che accade non è, tangibilmente, reale.
A Fantasilandia, gli Altri sono nicknames, fantasmi virtuali, e neppure noi, in fondo, siamo noi.
A Fantasilandia non esistono emozioni, se non quelle veicolate da emoticons.
Realmente, per sopravvivere, abbiamo bisogno di fantasmi virtuali, che, in fondo, sono là solo per darci la illusione di non essere soli?
Quanto a me, io non mi sento più a mio agio in questo mondo di fantasmi e di ombre. Ho bisogno di carne da cucire addosso ai fantasmi per dare spessore alle ombre.
Innumerevoli sono le persone che vorrei ringraziare, qui, giacché sono stati tanti coloro che mi hanno offerto con toccante generosità qualcosa di utile, a volte, di prezioso. Mi riferisco agli Amici, vecchi e nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il mondo, con i quali ho scambiato, nel corso di questi sette anni, una infinità di lettere e di mails, spesso, del massimo interesse per me. Non posso, con grande rammarico, menzionarli tutti a rischio di dimenticarne qualcuno; tuttavia, posso garantire che tutti sono e saranno, sempre, nel mio cuore.



Q
uesta lettera, Amici miei, sarà lunghissima.
Non mi piace troppo scrivere. Ho notato, sovente, che le parole tradiscono il pensiero, ma mi sembra che le parole scritte lo tradiscano anche di più. Scrivere è una scelta perpetua tra mille espressioni, nessuna delle quali, avulsa dalle altre, mi soddisfa completamente. Una lettera anche la più lunga, costringe a semplificare ciò che non sarebbe dovuto essere semplificato.
Si è, sempre, così poco chiari, quando si tenta di essere esaurienti…
Perché nessuno si inganni, avverto che non è un manifesto!
Ciò che vi chiedo è di non saltare alcuna di queste righe che mi saranno tanto costate. Se è difficile vivere, è ancora più difficile spiegare la propria vita. Ho disperso le mie energie, nella vita, ho fatto troppe cose differenti e non ho la sensazione che arriverò a un punto qualsiasi. Sono ancora molto promettente e lo sarò fino al giorno della mia morte.
Ma quante gioie mi hanno procurato le mie varie esperienze, quanto interesse!
So che sono troppo volubile, troppo fluida; ma pochi hanno saputo estrarre tanta felicità dalla mutevolezza. E, se mi volgo indietro a contemplare la mia vita, questa mi appare come un prato alpino, variegato di fiori di ogni colore.
Sarei, forse, più felice se mi fossi dedicata a coltivare solo trifogli o erba medica?
No!
La concezione dello scrittore che vive su un’isola deserta, nelle catacombe, nella sua torre di avorio, di mattoni o di altra cosa, o ancora su un iceberg in mezzo all’oceano, che porta il suo talento, come il gobbo la sua gobba, suggerisce una serie di immagini, certamente, seducenti, ma che dissimulano una visione romantica del creatore, sterile e, mortalmente, pericolosa. Fintanto che il mio cuore non cederà, prenderà il partito del debole. Tale è il ruolo di una coscienza che non è impegnata da alcun interesse personale in interessi di partito.
Un uomo o una donna che scrive non appartiene più al suo sesso.
Sfugge perfino all’umano.
Per alcuni scrivere è una vocazione, un dovere, una sorta di missione, un modo di dare voce a chi non ne ha. È una testimonianza necessaria, un modo di aiutare perché la Storia non si ripeta.
Io cerco un nuovo modo di scrivere.
In quanto donna.
Per le donne.
La creazione della donna deve scaturire dal sangue, nutrito del proprio latte.
Mi hanno chiesto, un giorno, cosa pensassi degli uomini che piangono, ho risposto di amarli, perché dimostrano, con le lacrime, la loro sensibilità.
Se un uomo scrive sugli uomini, scrive sulla condizione umana; se una donna scrive sulla donna, fa della letteratura femminile. Non si chiede mai a un uomo di situare il suo atto creatore a partire dal suo sesso; di definirsi in quanto uomo che scrive; di trovare nella sua mascolinità le radici anche del suo sesso; di definirsi in quanto uomo che scrive; di trovare nella sua mascolinità le radici del suo desiderio di creazione.
A una donna si domanda, sempre, si domanda, si domanda, incessantemente, come se nell’incanto solare della creazione la donna eclissasse lo scrittore, come se la sua opera fosse, per sempre, sessuata da un femminile onnipresente o da un rifiuto del femminile egualmente significativo. 
Per anni, ho dovuto difendermi dall’essere, innanzitutto, una donna che scrive.
Per anni, ho dovuto affermare che, rifiutando di essere una donna che scrive, ero, innanzitutto, uno scrittore.
Per anni, non un incontro pubblico, in cui non sia stata fatta esplicita allusione, in un modo o in un altro, al fatto che ero, innanzitutto, una donna… non un incontro pubblico che non si sia chiuso con la famosa domanda:
“Esiste una scrittura femminile?”
È affrontando il soggetto nella sua prospettiva storica che si definiranno meglio i contorni. E si vedrà che esiste una scrittura femminile non perché è, immediatamente, sessuata come secreta da una donna, ma, al contrario, perché partecipa, sovente, di un rifiuto del femminile ed è una lenta e difficile conquista di una espressione percepita, essenzialmente, come maschile.
Rara ed emarginata nella sua Storia, la donna scrittore è, oggi, mediatizzata in quanto donna. Come se l’atto di scrivere fosse, ancora, giudicato eccezionale; mentre si banalizza, nella realtà e nelle sue rappresentazioni simboliche. La donna scrittore è divenuta un personaggio di saga o di feuilleton che ha sostituito i ruoli, tradizionalmente gratificanti, della “donna che cura”, l’infermiera, il medico, il chirurgo. Nell’immaginario popolare contemporaneo, la donna che scrive tiene un posto equivalente alla donna di affari. I nuovi ruoli femminili si definiscono intorno alla potenza, all’autorità, al potere.
La donna scrittore detiene sia un potere intellettuale sia un potere economico.
È, sempre, rappresentata come un autore di best-seller:
“Ho appena terminato il mio best-seller…”
“Sto scrivendo il mio best-seller…”
“Il mio editore attuale...”
“Il mio nuovo best-seller…”
E tiene testa alla donna capo di impresa.
Come lei, è una executive woman.
Come lei, non ha rinunciato ad alcuna delle armi di lotta, perché tutto nel suo atteggiamento rivela che conduce una lotta, quella della femminilità.
Deve essere bella, giovane, elegante, seducente e seduttrice. È un emblema della donna superiore e il suo libro appare il simbolo di uno strumento della conquista del mondo maschile. Ciò che è curioso è che, in questo campo, mentre la rappresentazione si pensa rivoluzionaria o di avanguardia, niente sembra essere cambiato dall’origine del libro e dello scritto.
A lungo, l’ambizione della donna si è limitata a conquistare l’istruzione per acquisire strumenti propri e sopravvivere nel mondo dello scritto, volendo rientrare ad armi pari nel mondo dei nuovi saperi così gratificanti.
Si diffida della donna scrittore che, due volte fuorilegge, tradisce la norma culturale e la norma sessuale.
Divenendo scrittore, una donna si traveste e si arruola tra gli uomini.
E, subito, la punizione cade.
La donna scrittore perde il suo posto, in una epoca, in cui conoscere il proprio posto, rispettare il proprio posto sociale e sessuale è capitale.
Cade nella emarginazione.
Né uomo né donna – uomini e donne riuniti contro di lei – la donna scrittore è cacciata dal paradiso sociale, espulsa dalla felicità tradizionale.
Scrivere supera l’uomo.
Più ancora di un figlio, è l’ultimo bastione contro la morte…
Sopravvive all’uomo.
Io non sono né totalmente donna né totalmente uomo.
Tutto dipende dalle stagioni del cuore.
Un giorno sono donna, il giorno dopo sono uomo; ma oltre a queste forze che mi dominano, sono prigioniera della mia scrittura e questo spiega tutto ciò che faccio.
Il mio irresistibile bisogno di scrivere nasce, probabilmente, da un desiderio di rivalsa sulla mia atipica sessualità. Scrivere mi procura quel senso di equilibrio, di ordine, di appagamento, di cui la mia confusione sessuale mi ha defraudato. E quello che più conta, anche se può sembrare inverosimile, scrivere è per me una esperienza sessuale. Qualsiasi contatto con i miei personaggi mi elettrizza, mi emoziona, scrivendo raggiungo quell’estasi che non ho conosciuto tra le braccia di un uomo. È per questo, credo che i miei scritti abbiano, sempre, una forte carica emotiva.
Contengono la parte migliore di me.
Sono uno scrigno ricco di tesori di una donna che non invecchierà mai.
Portano con sé parole che non rinasceranno mai e le conservano intatte.
Ma dopo Sigmund Freud, è una banalità dirlo!
So che il corso del mondo è il tessuto stesso della mia vita e ne seguo con attenzione il movimento. Per nascita, educazione e caso, ho potuto, in certa misura, sfuggire alle pressioni della società.
Sono una privilegiata.
Io non ho fatto l’esperienza del freddo e della fame.
Io non ho subito la tortura.
Io non ho conosciuto la schiavitù.
En bonne fille de mon Père, je me dissocie clairement des femmes et surtout des féministes.
Io ho una concezione diversa della Libertà. Per me, la Libertà passa meno per la rivendicazione che per una tranquilla affermazione di sé.
Perché scrivo?
Mi terrò alla risposta di Saint-John Perse:
“Pour mieux vivre.”
Per quanto ricordi, io ho, sempre, amato scrivere.
Scrivevo le parole che mi rifiutavo di pronunciare e che mi restavano bloccate nella gola…
Scrivevo il mio mal di vivere…
Le mie pene, i miei dilemmi; ma anche le mie speranze, le mie gioie, i miei primi Amori.
Ho, anche, scritto la mia vita. 
Sono persuasa che la scrittura sia la forma più sottile e più nobile di esorcismo.
Scrivere per distruggere.
Scrivere per cancellare.
Nominare le cose per allontanarle.
È questo il segreto!
E io lo ho compreso molto presto… dalla mia più tenera infanzia, istintivamente.
Scrivere mi ha tenuto in vita, mi ha tenuto i piedi ben piantati a terra, seppure permettendomi di evadere in contrade sconosciute o totalmente immaginarie.
Scrivere ha il posto più importante nella mia vita.
Da bambina, quando iniziavano le vacanze estive, ero felice di non avere più compiti da fare, essere libera di correre ai miei boschi e restare sdraiata sul limitare del querceto della Macédoine, da cui si scorgeva tutta la vallata, con il vento caldo in volto e quasi morta di piacere e di pigrizia. Ma, dopo cinque giorni di scorrerie, la nostalgia della scuola mi riprendeva. La campagna mi colmava di felicità come a cinque anni, come a dodici e l’azzurro bastava a riempire il cielo. Sapevo che cosa mi prometteva l’odore del caprifoglio, che cosa significava la rugiada del mattino. Mi perdevo nell’infinito pur restando me stessa, sentivo sulle palpebre il calore del sole che brillava per tutti, ma che là, in quell’istante, non accarezzava che me. Desideravo, solo, una intimità sempre più profonda con il mondo ed esprimere questo mondo in un libro.
Quando a  otto anni scrissi sull’album di una Amica le predilezioni e i progetti che avrebbero dovuto definire la mia profondità, alla domanda:
“Che cosa vuoi fare da grande?”
Risposi di getto:
“Essere una scrittore.”
A proposito del musicista preferito, del fiore prediletto, avevo inventato gusti più o meno fittizi, ma su quel punto non avevo dubbi: agognavo questo avvenire a esclusione di qualsiasi altro.
A quel tempo mi confrontavo, per la prima volta, con il mondo. Avevo scoperto di essere graziosa, scoperta straordinariamente importante per una donna. La volubilità mi era perfettamente congeniale, tanto che iniziavo a chiedermi se fossi adatta al matrimonio. Una infima parte della mia natura sembrava spingermi a quella scelta. Ma la mia brama di vivere appariva così intensa che il matrimonio mi sembrava un oltraggio alla essenza stessa del mio essere. Non ero disposta a rinunciare alle mie aspirazioni. Il matrimonio mi faceva paura. Mia Nonna mi aveva detto che i mariti si stancano presto del loro ruolo di amanti.
E io non mi sono sentita di disilluderla!
Di tanto in tanto, quando mi sento debole e scoraggiata, desidero posare la testa sulla spalla di un marito… in ogni caso, dotato di una notevole levatura mentale.
E, poi, confessare che non è vero…
Ho rinunciato a tante illusioni.
La figlia perfetta.
La moglie ideale.
La musa generosa.
Mi sento così straordinariamente libera, non sento alcun limite in me, né muri, né timori. Ho conquistato sicurezza. La vita parigina mi ha insegnato a essere disinvolta.
Tutto mi appare limpido, oggi: la nascita, l’amore, la vita, la vecchiaia…
È meraviglioso invecchiare, si conquista maggiore autentiticità! 
Ogni scrittore ha una sua mistica.
Io ho elaborato la mia molto presto, mescolando prosa e poesia, sacro e profano, sogno e realtà, piacere e tormento, facendo della Francia un Paradiso e di mio Padre un Dio.
L’introspezione è un mostro. Bisogna nutrirlo con materia abbondante, con molte esperienze, molte persone, molti luoghi, molti amori; solo così cessa di nutrirsi di noi.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono allontanata dalla scrittura, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi alle mani, rattrappite e aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad andarmene a fondo. Confesso che, di quando in quando, l’aria intorno a me perdeva l’umidità e la permeabilità al suono; il secchio, calato nel pozzo, non produceva un piacevole spruzzo, ma un colpo secco contro la pietra e aveva inizio, in genere, una asfissia che durava anni. Presentare le parole tra loro, far scontrare le parole tra loro, adesso, è divenuto usuale. Ciò che era arditezza, con gli anni, suona come una banalità. Ma vi è un altro percorso, ancora più importante: l’esattezza, cosicché ogni parola stia al proprio posto, come se vi fosse, già, da mille anni; ma il lettore la sentisse, per la prima volta, nella sua vita. È un percorso molto difficile, ma quando riesce le persone dicono:
“Mi riguarda; è come se fosse scritto da me.”
Io stessa, molto raramente, provo questo sentimento nella lettura o nell’ascolto di altri scrittori.
È qualcosa come l’invidia, ma più nobile.
Scrissi la prima poesia alla età di otto anni, era orribile; ma, già prima, mio Padre mi chiamava, chissà perché, poetessa decadente. Per quanto mi sia dato ricordare, in famiglia, nessuno scriveva versi. Mi ostinai a scrivere versi, apponendovi sopra dei numeri, cosa di cui si ignorava il fine. I versi affluivano senza sosta, ma li cacciavo, finché non ne ascoltavo uno autentico.
E a chi mi domandava se scrivere versi fosse facile o difficile, io rispondevo:
“O qualcuno li detta, e, allora, è assolutamente facile; ma quando non sono dettati, è semplicemente impossibile.”
I tentativi di scrivere i ricordi evocano, inaspettatamente, profondi strati di passato; la memoria si acutizza quasi dolorosamente: voci, suoni, odori, persone e così via, senza fine.
Da tutto questo bisogna salvaguardare i versi!
In questi ultimi giorni, sento, di continuo, che da qualche parte mi accadrà qualcosa. Non è ancora chiaro lungo quale linea. O a Roma o da qualche parte ancora, qualcosa mi attrae, come l’aria ardente di una enorme stufa o l’elica di una nave.
Sono felice di essere vissuta in questi anni e di avere vissuto avvenimenti che non hanno avuto eguali!
Secondo Anais Nin:
“Nous ne voyons jamais les choses telles qu’elles sont, nous les voyons telles que nous sommes.”
È interessante quando si rapporta alla scrittura. Noi abbiamo tutti una visione del mondo. Solo lo scrivere ci toglie la maschera e ci rivela il volto.
Scrivere aiuta anche ad annotare le tappe.
Si scrive, si rilegge, è uno specchio mobile, che aiuta a comprendere il proprio percorso.
Ieri, eravamo qui; ma, oggi, le nostre prospettive cambiano…
È un tracciato per noi stessi del nostro itinerario.
È un momento di costruzione, senza testimoni, un modo di far vivere l’anello dimenticando la catena.
Scrivere di sé è un millefoglie di contraddizioni, di cui si è soli testimoni.
Io non scrivo per risvegliare le coscienze, non è il mio ruolo.
Io non scrivo per sollevare le folle a colpi di promesse di liberazione sociale o nazionale.
Le parole sono pericolose per chi non sa leggerle!
La Storia ci ha insegnato che le idee, che noi credevamo così belle, hanno potuto partorire eccidi efferati.  
Io non scrivo neppure per far sognare i miei lettori, mi rifiuto di essere un mistificatore e di abbeverarli di false speranze. Io diffido degli imbonitori, di coloro che ci riempiono di parole.
Ma io scrivo.
Io scrivo per disturbare le vostre menti.
Io scrivo per mostrarvi il mondo qual è e non quale voi lo vorreste.
Io scrivo per farvi ridere o piangere… di rabbia, di tristezza o di gioia.
Io scrivo per digustarvi fino a farvi rivoltare le budella.
Io scrivo per infiammare i vostri occhi di ripugnanza o di piacere.
Io scrivo, anche, perché il mio nome resti al di là di una pietra tombale, ultimo ricordo di una vita da niente. 
Io scrivo, infine, per il piacere del gioco delle parole e condividerlo con voi.
Io scrivo come un anelito di vita, perché, nonostante tutto il male che io pensi di certi scrittori, scrivere resta la più bella occupazione del mondo e, con la prostituzione e l’usura, una delle più antiche.
Sì, lo so, le malelingue faranno degli accostamenti…
In questi sette anni, io ho scritto diverse cose diverse, ma sentivo il bisogno di scrivere un nuovo romanzo. Io non so come spiegarvi. Tutto ciò che posso dirvi è che, in un dato momento, le cose iniziano a volatilizzarsi come fumo, la memoria, gli Amici, la stessa vita e le sole cose che hanno una possibilità di restare sono quelle scritte.
Io amo scrivere.
La scrittura è un immenso piacere, ma è anche un tormento quotidiano.
I migliori luoghi per scrivere, per me, in ogni caso, sono le camere di albergo francesi, ma non vi saprei dire perché. Hanno su di me un effetto letteralmente e letterariamente afrodisiaco.   
Altrimenti, ho bisogno di essere sola, in silenzio.
È fantastico dedicare la propria vita a ciò che si sa fare bene!
Da qualche tempo, tuttavia, mi accade di provare la sensazione di non appartenermi più. Ammettiamo che io faccia parte del paesaggio. Ma che ci si aspetti da me che io resti tranquilla.
Se tu soffri, io soffro.
Allora, vi sono momenti in cui ciò grida in me, perché il male degli Altri, veramente, diviene il mio.
Ho, sempre, avuto l’idea di fuggire dalla mia casa, dalla mia scuola, dal mio lavoro, dalle mie responsabilità. Meraviglioso essere viaggiatore non legato a una routine, poter salire su un treno e partire, diretto ovunque, perché uno scrittore può lavorare ovunque.
L’idea di questo viaggio è andata formandosi nella mia mente, nel 2003.
All’inizio avevo pensato di recarmi in qualche luogo remoto e straniero; ma non vi era alcun motivo di recarmi in un luogo remoto e straniero. Mi sono, così, decisa a tornare in Francia, un Paese che amo e ove sono stata felice. Ne ho una nostalgia struggente e una parte di me prende una povera prima colazione in un caffè di Parigi.
In questo momento, cari Amici, sento quanto siano necessari i rifugi contro i quali mi sono, sempre, ribellata.
Vi sono eventi che ci separano dagli uomini per sempre.
Ho trovato, perfino, una specie di inattesa soddisfazione nella pienezza del mio affanno, e mi sono accorta, con un moto di gioia, che il dolore non è, come il piacere, un sentimento che si possa esaurire.
Quando sento le tempeste rumoreggiare e gli uccelli sbattere le ali alla mia finestra, penso alla fortuna che ho avuto a trovare un rifugio contro la tempesta.
Sono ancora qui, tra quelli che vivono e mi parlano, sono viva.
Sono più felice di quanto chiunque non abbia mai ritenuto possibile.
La vita, che trovavo scialba e monotona, è divenuta, improvvisamente, eccitante e preziosa.
Per la prima volta, mi sento importante per me stessa.
Ho preso coscienza della mia esistenza e tutte le cose banali che costituiscono questa esistenza hanno acquistato importanza a loro volta.
Tornerò a essere felice.
Si apprende a vivere con il passato…
Questo passato, che mi ha fatto molto soffrire, mi ha anche molto elargito.
Senza questo passato, io non sarei, oggi, quella che sono…
In questo momento, io mi dico che non mi conosco veramente.
Mi si sovrastima, non si sa chi io sia e io per prima…
Non vi sono dubbi…
Io non sono all’altezza delle belle individualità intorno a me.
Io cerco, io mi faccio violenza; ma certe insicurezze sono come una seconda pelle per me.
I miei tormenti sono, inderogabilmente, più forti di me.
Di più, credo sia io a non volermene liberare.
Ho l’impressione che questi ultimi sette anni io abbia vissuto tra parentesi…
Si mettono, sempre, le cose che non hanno, veramente, posto nella frase tra parentesi e si lasciano là, senza veramente occuparsene.
Io attendo di avere il mio posto in questa frase.  
Io attendo che i miei verbi non si coniughino più al passato.
A lungo, mi sono creduta protetta dalla mia innocenza.
Io non avevo che passioni confessabili e intenzioni banali.
Io mi sapevo una donna semplice.
Io pensavo che tutti potessero distinguere l’immagine pubblica dalla mia verità personale. Io vivevo con il mio doppio di carta. Una donna portava il mio nome, aveva preso il mio volto; ma non mi somigliava. Questo personaggio fittizio, fabbricato a colpi di eco confidenziali o di ritratti compiacenti, mi era estraneo. Io alzavo le spalle davanti al potere che mi si accordava. Io mi divertivo, talvolta, alle strategie complesse che mi si attribuivano.
Io sapevo chi ero, da dove venivo e dove andavo.
Gli Amici mi riferivano voci che circolavano sul web.
Noi non viviamo nel migliore dei mondi possibili, dove la verità prevale, sempre, sul calcolo. La mediatizzazione è un processo implacabile, soprattutto per coloro che la subiscono senza cercarla. Io so, ormai, che il mio doppio mi ha soppiantata nello sguardo degli Altri. Ciascuno dei miei gesti è interpretato in funzione dell’immagine virtuale che è stata creata.
Anche per gli Amici che mi conoscono da anni…
È divenuto difficile fare la parte del diavolo!
Chi, cosa arriverà a salvarmi da queste acque agitate nelle quali io nuoto?
Nessuno è, qui, ad aiutarmi. 
Forse, perché io non lascio avvicinare nessuno abbastanza per soccorrermi.
A che pro?
Si parte come si viene, soli…
No?
La vita non è che una serie di scadenze più o meno piacevoli da vivere, con una finalità sempre identica.
Io non ho, mai, saputo vivere le fini, allora, io anticipo fuggendo…
È vile certo; ma nettamente meno penoso da vivere…
Mi perdonerete, ne sono certa, se sorvolerò su alcuni fatti di questo ultimo anno, ma i miei sentimenti non riguardano e non commuovono che me sola.
Preferisco conservare per me i ricordi intimi.
E ora vi dico a Dio…

Buon Natale di cuore a voi e alle vostre Famiglie!
 
Daniela Zini                                                                                                               


                                                                                                          

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