“Scrivi. Carta e penna fanno miracoli.
Curano i
dolori, consolidano i sogni, restituiscono la speranza.”
Paulo Coelho
D
https://www.youtube.com/watch?v=qTOdUaU8vYI
“Se mai vi feci ridere, dite…
Una parola amica in memoria di me.”
Nosside
Nuit de veille
Daniela Zini
O Nuit aux flancs
arrondis,
Nuit propice au
plaisir, à l’oubli,
C’est à moi seule
à qui ce bien est dû,
Pour tant de
larmes et tant de temps perdu.
O Rossignol que
mon cœur attendait,
Rossignol de la
nuit, aux ailerons mouillés,
Viens à moi sans
peur et sans prudence,
Pour toute joie et
toute connaissance.
Je ne possède rien
mais je T’aime.
Je vis distante de
moi-même,
Par moi-même
désertée,
Morte d’avoir été.
Ce moi-même perdu,
là quelque part,
Dans un coin, un
endroit de hasard,
Ce moi-même si
rompu, si amer,
Sauve-le de l’orgueil,
du regret.
Recentemente, è accaduto uno
di quei piccoli incidenti personali, che, quando accadono, richiedono che io mi
fermi, mi interroghi e mi risponda.
Nulla di grave, se non fosse
che io, caratterialmente, aborrisca discutere e trovi inquietante che mi sia
lasciata trascinare in una diatriba sterile e inutile, mio malgrado.
E, mentre ero così
impegnata, nel mondo, accadevano cose… gravi cose.
In questo mondo virtuale
fatto di tasti battuti e caratteri letti, non vi è spazio per le espressioni
verbali, per gli sguardi incrociati e (sfortunatamente!) per mostrare i denti a
chi lo meriterebbe.
Certo, abbiamo inventato gli
emoticons, ma l’impatto emotivo è del
tutto irrilevante.
La mancanza di verbalità, di
tattilità è a tal punto percepibile, che, a volte, il mondo dall’altra parte
del monitor ci sembra Fantasilandia,
un luogo solo nella nostra testa, dove ciò che accade non è, tangibilmente, reale.
A Fantasilandia, gli Altri
sono nicknames, fantasmi virtuali, e
neppure noi, in fondo, siamo noi.
A Fantasilandia non esistono
emozioni, se non quelle veicolate da emoticons.
Realmente, per sopravvivere,
abbiamo bisogno di fantasmi virtuali, che, in fondo, sono là solo per darci la
illusione di non essere soli?
Quanto a me, io non mi sento
più a mio agio in questo mondo di fantasmi e di ombre. Ho bisogno di carne da
cucire addosso ai fantasmi per dare spessore alle ombre.
Innumerevoli sono le persone che vorrei ringraziare, qui,
giacché sono stati tanti coloro che mi hanno offerto con toccante generosità
qualcosa di utile, a volte, di prezioso. Mi riferisco agli Amici, vecchi e
nuovi, reali e virtuali, sparsi in tutto il mondo, con i quali ho scambiato,
nel corso di questi sette anni, una infinità di lettere e di mails, spesso, del massimo
interesse per me. Non posso, con grande rammarico, menzionarli tutti a rischio
di dimenticarne qualcuno; tuttavia, posso garantire che tutti sono e saranno,
sempre, nel mio cuore.
uesta lettera, Amici miei, sarà
lunghissima.
Non mi piace troppo scrivere. Ho
notato, sovente, che le parole tradiscono il pensiero, ma mi sembra che le
parole scritte lo tradiscano anche di più. Scrivere è una scelta perpetua tra
mille espressioni, nessuna delle quali, avulsa dalle altre, mi soddisfa
completamente. Una lettera anche la più lunga, costringe a semplificare ciò che
non sarebbe dovuto essere semplificato.
Si è, sempre, così poco chiari,
quando si tenta di essere esaurienti…
Perché nessuno si inganni, avverto che non è un
manifesto!
Ciò che vi chiedo è di non
saltare alcuna di queste righe che mi saranno tanto costate. Se è difficile
vivere, è ancora più difficile spiegare la propria vita. Ho disperso le mie
energie, nella vita, ho fatto troppe cose differenti e non ho la sensazione che
arriverò a un punto qualsiasi. Sono ancora molto promettente e lo sarò fino al
giorno della mia morte.
Ma quante gioie mi hanno
procurato le mie varie esperienze, quanto interesse!
So che sono troppo volubile,
troppo fluida; ma pochi hanno saputo estrarre tanta felicità dalla mutevolezza.
E, se mi volgo indietro a contemplare la mia vita, questa mi appare come un
prato alpino, variegato di fiori di ogni colore.
Sarei, forse, più felice se mi
fossi dedicata a coltivare solo trifogli o erba medica?
No!
La concezione dello scrittore che vive su un’isola
deserta, nelle catacombe, nella sua torre di avorio, di mattoni o di altra
cosa, o ancora su un iceberg in mezzo
all’oceano, che porta il suo talento, come il gobbo la sua gobba, suggerisce
una serie di immagini, certamente, seducenti, ma che dissimulano una visione
romantica del creatore, sterile e, mortalmente, pericolosa. Fintanto che il mio
cuore non cederà, prenderà il partito del debole. Tale è il ruolo di una
coscienza che non è impegnata da alcun interesse personale in interessi di
partito.
Un uomo o una donna che scrive non appartiene più
al suo sesso.
Sfugge perfino all’umano.
Per alcuni scrivere è una
vocazione, un dovere, una sorta di missione, un modo di dare voce a chi non ne
ha. È una testimonianza necessaria, un modo di aiutare perché la Storia non si
ripeta.
Io cerco un nuovo modo di
scrivere.
In quanto donna.
Per le donne.
La creazione della donna deve
scaturire dal sangue, nutrito del proprio latte.
Mi hanno chiesto, un giorno, cosa
pensassi degli uomini che piangono, ho risposto di amarli, perché dimostrano,
con le lacrime, la loro sensibilità.
Se un uomo scrive sugli uomini,
scrive sulla condizione umana; se una donna scrive sulla donna, fa della
letteratura femminile. Non si chiede mai a un uomo di situare il suo atto
creatore a partire dal suo sesso; di definirsi in quanto uomo che scrive; di
trovare nella sua mascolinità le radici anche del suo sesso; di definirsi in
quanto uomo che scrive; di trovare nella sua mascolinità le radici del suo
desiderio di creazione.
A una donna si domanda, sempre,
si domanda, si domanda, incessantemente, come se nell’incanto solare della
creazione la donna eclissasse lo scrittore, come se la sua opera fosse, per
sempre, sessuata da un femminile onnipresente o da un rifiuto del femminile
egualmente significativo.
Per anni, ho dovuto difendermi
dall’essere, innanzitutto, una donna che scrive.
Per anni, ho dovuto affermare
che, rifiutando di essere una donna che scrive, ero, innanzitutto, uno
scrittore.
Per anni, non un incontro
pubblico, in cui non sia stata fatta esplicita allusione, in un modo o in un
altro, al fatto che ero, innanzitutto, una donna… non un incontro pubblico che
non si sia chiuso con la famosa domanda:
“Esiste una scrittura
femminile?”
È affrontando il soggetto nella
sua prospettiva storica che si definiranno meglio i contorni. E si vedrà che
esiste una scrittura femminile non perché è, immediatamente, sessuata come
secreta da una donna, ma, al contrario, perché partecipa, sovente, di un
rifiuto del femminile ed è una lenta e difficile conquista di una espressione
percepita, essenzialmente, come maschile.
Rara ed emarginata nella sua
Storia, la donna scrittore è, oggi, mediatizzata in quanto donna. Come se l’atto
di scrivere fosse, ancora, giudicato eccezionale; mentre si banalizza, nella
realtà e nelle sue rappresentazioni simboliche. La donna scrittore è divenuta
un personaggio di saga o di feuilleton che ha sostituito i ruoli, tradizionalmente
gratificanti, della “donna che cura”, l’infermiera, il medico, il chirurgo.
Nell’immaginario popolare contemporaneo, la donna che scrive tiene un posto
equivalente alla donna di affari. I nuovi ruoli femminili si definiscono
intorno alla potenza, all’autorità, al potere.
La donna scrittore detiene sia un
potere intellettuale sia un potere economico.
È, sempre, rappresentata come un
autore di best-seller:
“Ho appena terminato il
mio best-seller…”
“Sto scrivendo il mio
best-seller…”
“Il mio editore attuale...”
“Il mio nuovo
best-seller…”
E tiene testa alla donna capo di
impresa.
Come lei, è una executive woman.
Come lei, non ha rinunciato ad
alcuna delle armi di lotta, perché tutto nel suo atteggiamento rivela che
conduce una lotta, quella della femminilità.
Deve essere bella, giovane,
elegante, seducente e seduttrice. È un emblema della donna superiore e il suo
libro appare il simbolo di uno strumento della conquista del mondo maschile.
Ciò che è curioso è che, in questo campo, mentre la rappresentazione si pensa
rivoluzionaria o di avanguardia, niente sembra essere cambiato dall’origine del
libro e dello scritto.
A lungo, l’ambizione della donna
si è limitata a conquistare l’istruzione per acquisire strumenti propri e
sopravvivere nel mondo dello scritto, volendo rientrare ad armi pari nel mondo
dei nuovi saperi così gratificanti.
Si diffida della donna scrittore
che, due volte fuorilegge, tradisce la norma culturale e la norma sessuale.
Divenendo scrittore, una donna si
traveste e si arruola tra gli uomini.
E, subito, la punizione cade.
La donna scrittore perde il suo
posto, in una epoca, in cui conoscere il proprio posto, rispettare il proprio
posto sociale e sessuale è capitale.
Cade nella emarginazione.
Né uomo né donna – uomini e donne
riuniti contro di lei – la donna scrittore è cacciata dal paradiso sociale,
espulsa dalla felicità tradizionale.
Scrivere
supera l’uomo.
Più
ancora di un figlio, è l’ultimo bastione
contro la morte…
Sopravvive
all’uomo.
Io non sono né totalmente
donna né totalmente uomo.
Tutto dipende dalle
stagioni del cuore.
Un giorno sono donna, il
giorno dopo sono uomo; ma oltre a queste forze che mi dominano, sono
prigioniera della mia scrittura e questo spiega tutto ciò che faccio.
Il mio irresistibile
bisogno di scrivere nasce, probabilmente, da un desiderio di rivalsa sulla mia
atipica sessualità. Scrivere mi procura quel senso di equilibrio, di ordine, di
appagamento, di cui la mia confusione sessuale mi ha defraudato. E quello che
più conta, anche se può sembrare inverosimile, scrivere è per me una esperienza
sessuale. Qualsiasi contatto con i miei personaggi mi elettrizza, mi emoziona,
scrivendo raggiungo quell’estasi che non ho conosciuto tra le braccia di un
uomo. È per questo, credo che i
miei scritti abbiano, sempre, una forte carica emotiva.
Contengono la parte
migliore di me.
Sono uno scrigno ricco di
tesori di una donna che non invecchierà mai.
Portano con sé parole che
non rinasceranno mai e le conservano intatte.
Ma dopo Sigmund Freud, è una
banalità dirlo!
So che il corso del mondo è il tessuto stesso della
mia vita e ne seguo con attenzione il movimento. Per nascita, educazione e
caso, ho potuto, in certa misura, sfuggire alle pressioni della società.
Sono una privilegiata.
Io non ho fatto l’esperienza del freddo e della
fame.
Io non ho subito la tortura.
Io non ho conosciuto la schiavitù.
En bonne fille de mon Père, je
me dissocie clairement des femmes et surtout des féministes.
Io ho una concezione diversa della Libertà. Per me,
la Libertà passa meno per la rivendicazione che per una tranquilla affermazione
di sé.
Perché scrivo?
Mi terrò alla risposta di
Saint-John Perse:
“Pour mieux vivre.”
Per quanto ricordi, io ho,
sempre, amato scrivere.
Scrivevo le parole che mi
rifiutavo di pronunciare e che mi restavano bloccate nella gola…
Scrivevo il mio mal di vivere…
Le mie pene, i miei dilemmi; ma
anche le mie speranze, le mie gioie, i miei primi Amori.
Ho, anche, scritto la mia
vita.
Sono persuasa che la scrittura
sia la forma più sottile e più nobile di esorcismo.
Scrivere per distruggere.
Scrivere per cancellare.
Nominare le cose per
allontanarle.
È questo il segreto!
E io lo ho compreso molto presto…
dalla mia più tenera infanzia, istintivamente.
Scrivere mi ha tenuto in vita, mi ha tenuto i piedi ben piantati a terra, seppure permettendomi
di evadere in contrade sconosciute o totalmente immaginarie.
Scrivere ha il posto più importante nella mia vita.
Da bambina, quando iniziavano le
vacanze estive, ero felice di non avere più compiti da fare, essere libera
di correre ai miei boschi e restare sdraiata sul limitare del querceto della
Macédoine, da cui si scorgeva tutta la vallata, con il vento caldo
in volto e quasi morta di piacere e di pigrizia. Ma, dopo cinque giorni di
scorrerie, la nostalgia della scuola mi riprendeva. La campagna mi colmava di
felicità come a cinque anni, come a dodici e l’azzurro bastava a riempire il
cielo. Sapevo che cosa mi prometteva l’odore del caprifoglio, che cosa
significava la rugiada del mattino. Mi perdevo nell’infinito pur restando me
stessa, sentivo sulle palpebre il calore del sole che brillava per tutti,
ma che là, in quell’istante, non accarezzava che me. Desideravo, solo, una intimità
sempre più profonda con il mondo ed esprimere questo mondo in un libro.
Quando a otto anni scrissi sull’album di
una Amica le predilezioni e i progetti che avrebbero dovuto definire la mia
profondità, alla domanda:
“Che cosa vuoi fare da
grande?”
Risposi di getto:
“Essere una scrittore.”
A proposito del musicista
preferito, del fiore prediletto, avevo inventato gusti più o meno fittizi, ma
su quel punto non avevo dubbi: agognavo questo avvenire a esclusione di
qualsiasi altro.
A quel tempo mi confrontavo, per
la prima volta, con il mondo. Avevo scoperto di essere graziosa, scoperta
straordinariamente importante per una donna. La volubilità mi era perfettamente
congeniale, tanto che iniziavo a chiedermi se fossi adatta al matrimonio. Una
infima parte della mia natura sembrava spingermi a quella scelta. Ma la mia
brama di vivere appariva così intensa che il matrimonio mi sembrava un
oltraggio alla essenza stessa del mio essere. Non ero disposta a rinunciare
alle mie aspirazioni. Il matrimonio mi faceva paura. Mia Nonna mi aveva detto
che i mariti si stancano presto del loro ruolo di amanti.
E io non mi sono sentita di
disilluderla!
Di tanto in tanto, quando mi sento debole e
scoraggiata, desidero posare la testa sulla spalla di un marito… in ogni caso, dotato
di una notevole levatura mentale.
E, poi, confessare che non è vero…
Ho rinunciato a tante illusioni.
La figlia perfetta.
La moglie ideale.
La musa generosa.
Mi sento così straordinariamente libera, non sento
alcun limite in me, né muri, né timori. Ho conquistato sicurezza. La vita
parigina mi ha insegnato a essere disinvolta.
Tutto mi appare limpido, oggi: la nascita, l’amore,
la vita, la vecchiaia…
È meraviglioso invecchiare, si conquista maggiore
autentiticità!
Ogni scrittore ha una sua
mistica.
Io ho elaborato la mia molto
presto, mescolando prosa e poesia, sacro e profano, sogno e realtà, piacere e
tormento, facendo della Francia un Paradiso e di mio Padre un Dio.
L’introspezione è un mostro.
Bisogna nutrirlo con materia abbondante, con molte esperienze, molte persone, molti
luoghi, molti amori; solo così cessa di nutrirsi di noi.
Pro domo mea dirò che mai, né in volo, né strisciando, mi sono
allontanata dalla scrittura, sebbene ripetutamente, con forti colpi di remi
alle mani, rattrappite e aggrappatesi al bordo della barca, fossi invitata ad
andarmene a fondo. Confesso che, di quando in quando, l’aria intorno a me
perdeva l’umidità e la permeabilità al suono; il secchio, calato nel pozzo, non
produceva un piacevole spruzzo, ma un colpo secco contro la pietra e aveva
inizio, in genere, una asfissia che durava anni. Presentare le parole tra loro,
far scontrare le parole tra loro, adesso, è divenuto usuale. Ciò che era
arditezza, con gli anni, suona come una banalità. Ma vi è un altro percorso,
ancora più importante: l’esattezza, cosicché ogni parola stia al proprio posto,
come se vi fosse, già, da mille anni; ma il lettore la sentisse, per la prima volta,
nella sua vita. È un percorso molto difficile, ma quando riesce le persone
dicono:
“Mi riguarda; è
come se fosse scritto da me.”
Io stessa, molto raramente, provo questo sentimento
nella lettura o nell’ascolto di altri scrittori.
È qualcosa come l’invidia, ma più nobile.
Scrissi la prima poesia alla età di otto anni, era
orribile; ma, già prima, mio Padre mi chiamava, chissà perché, poetessa
decadente. Per quanto mi sia dato ricordare, in famiglia, nessuno scriveva
versi. Mi ostinai a scrivere versi, apponendovi sopra dei numeri, cosa di cui
si ignorava il fine. I versi affluivano senza sosta, ma li cacciavo, finché non
ne ascoltavo uno autentico.
E a chi mi domandava se scrivere versi fosse
facile o difficile, io rispondevo:
“O qualcuno li
detta, e, allora, è assolutamente facile; ma quando non sono dettati, è
semplicemente impossibile.”
I tentativi di scrivere i ricordi evocano,
inaspettatamente, profondi strati di passato; la memoria si acutizza quasi
dolorosamente: voci, suoni, odori, persone e così via, senza fine.
Da tutto questo bisogna salvaguardare i versi!
In questi ultimi giorni, sento, di continuo, che
da qualche parte mi accadrà qualcosa. Non è ancora chiaro lungo quale linea. O
a Roma o da qualche parte ancora, qualcosa mi attrae, come l’aria ardente di
una enorme stufa o l’elica di una nave.
Sono felice di essere vissuta in questi anni e di
avere vissuto avvenimenti che non hanno avuto eguali!
Secondo
Anais Nin:
“Nous
ne voyons jamais les choses telles qu’elles sont, nous les voyons telles que
nous sommes.”
È
interessante quando si rapporta alla scrittura. Noi abbiamo tutti una visione
del mondo. Solo lo scrivere ci toglie la maschera e ci rivela il volto.
Scrivere
aiuta anche ad annotare le tappe.
Si
scrive, si rilegge, è uno specchio mobile, che aiuta a comprendere il proprio percorso.
Ieri, eravamo
qui; ma, oggi, le nostre prospettive cambiano…
È un
tracciato per noi stessi del nostro itinerario.
È un
momento di costruzione, senza testimoni, un modo di far vivere l’anello dimenticando
la catena.
Scrivere
di sé è un millefoglie di contraddizioni, di cui si è soli testimoni.
Io non scrivo per risvegliare le
coscienze, non è il mio ruolo.
Io non scrivo per sollevare le
folle a colpi di promesse di liberazione sociale o nazionale.
Le parole sono pericolose per chi
non sa leggerle!
La Storia ci ha insegnato che le
idee, che noi credevamo così belle, hanno potuto partorire eccidi efferati.
Io non scrivo neppure per far
sognare i miei lettori, mi rifiuto di essere un mistificatore e di abbeverarli di
false speranze. Io diffido degli imbonitori, di coloro che ci riempiono di
parole.
Ma io scrivo.
Io scrivo per disturbare le vostre
menti.
Io scrivo per mostrarvi il mondo
qual è e non quale voi lo vorreste.
Io scrivo per farvi ridere o
piangere… di rabbia, di tristezza o di gioia.
Io scrivo per digustarvi fino a
farvi rivoltare le budella.
Io scrivo per infiammare i vostri
occhi di ripugnanza o di piacere.
Io scrivo, anche, perché il mio
nome resti al di là di una pietra tombale, ultimo ricordo di una vita da
niente.
Io scrivo, infine, per il piacere
del gioco delle parole e condividerlo con voi.
Io scrivo come un anelito di vita,
perché,
nonostante tutto il male che io pensi di certi scrittori, scrivere resta la più
bella occupazione del mondo e, con la prostituzione e l’usura, una delle più
antiche.
Sì, lo
so, le malelingue faranno degli accostamenti…
In
questi sette anni, io ho scritto diverse cose diverse, ma sentivo il bisogno di
scrivere un nuovo romanzo. Io non so come spiegarvi. Tutto ciò che posso dirvi
è che, in un dato momento, le cose iniziano a volatilizzarsi come fumo, la
memoria, gli Amici, la stessa vita e le sole cose che hanno una possibilità di
restare sono quelle scritte.
Io amo
scrivere.
La
scrittura è un immenso piacere, ma è anche un tormento quotidiano.
I
migliori luoghi per scrivere, per me, in ogni caso, sono le camere di albergo
francesi, ma non vi saprei dire perché. Hanno su di me un effetto letteralmente
e letterariamente afrodisiaco.
Altrimenti,
ho bisogno di essere sola, in silenzio.
È fantastico dedicare la propria
vita a ciò che si sa fare bene!
Da qualche tempo, tuttavia, mi accade di provare la
sensazione di non appartenermi più. Ammettiamo che io faccia parte del
paesaggio. Ma che ci si aspetti da me che io resti tranquilla.
Se tu soffri, io soffro.
Allora, vi sono momenti in cui ciò grida in me, perché il
male degli Altri, veramente, diviene il mio.
Ho, sempre, avuto l’idea di
fuggire dalla mia casa, dalla mia scuola, dal mio lavoro, dalle mie
responsabilità. Meraviglioso essere
viaggiatore non legato a una routine,
poter salire su un treno e partire, diretto ovunque, perché uno scrittore può
lavorare ovunque.
L’idea di questo viaggio è andata formandosi nella mia mente, nel 2003.
All’inizio avevo pensato di recarmi in qualche luogo remoto e straniero;
ma non vi era alcun motivo di recarmi in un luogo remoto e straniero. Mi sono, così,
decisa a tornare in Francia, un Paese che amo e ove sono stata felice. Ne ho
una nostalgia struggente e una parte di me prende una povera prima colazione in
un caffè di Parigi.
In questo momento, cari Amici, sento quanto siano necessari i rifugi
contro i quali mi sono, sempre, ribellata.
Vi sono eventi che ci separano dagli uomini per sempre.
Ho trovato, perfino, una specie di inattesa soddisfazione nella
pienezza del mio affanno, e mi sono accorta, con un moto di gioia, che il
dolore non è, come il piacere, un sentimento che si possa esaurire.
Quando sento le tempeste
rumoreggiare e gli uccelli sbattere le ali alla mia finestra, penso alla
fortuna che ho avuto a trovare un rifugio contro la tempesta.
Sono ancora qui, tra quelli che
vivono e mi parlano, sono viva.
Sono più felice di quanto
chiunque non abbia mai ritenuto possibile.
La vita, che trovavo scialba e
monotona, è divenuta, improvvisamente, eccitante e preziosa.
Per la prima volta, mi sento
importante per me stessa.
Ho preso coscienza della mia
esistenza e tutte le cose banali che costituiscono questa esistenza hanno
acquistato importanza a loro volta.
Tornerò a essere felice.
Si apprende a vivere con il passato…
Questo passato, che mi ha fatto molto soffrire, mi ha
anche molto elargito.
Senza questo passato, io non sarei, oggi, quella che
sono…
In questo momento, io mi dico che non mi conosco
veramente.
Mi si sovrastima, non si sa chi io sia e io per prima…
Non vi sono dubbi…
Io non sono all’altezza delle belle individualità intorno
a me.
Io cerco, io mi faccio violenza; ma certe insicurezze
sono come una seconda pelle per me.
I miei tormenti sono, inderogabilmente, più forti di me.
Di più, credo sia io a non volermene liberare.
Ho l’impressione che questi ultimi sette anni io abbia
vissuto tra parentesi…
Si mettono, sempre, le cose che non hanno, veramente,
posto nella frase tra parentesi e si lasciano là, senza veramente occuparsene.
Io attendo di avere il mio posto in questa frase.
Io attendo che i miei verbi non si coniughino più al
passato.
A lungo, mi sono creduta protetta
dalla mia innocenza.
Io non avevo che passioni
confessabili e intenzioni banali.
Io mi sapevo una donna semplice.
Io pensavo che tutti potessero
distinguere l’immagine pubblica dalla mia verità personale. Io vivevo con il
mio doppio di carta. Una donna portava il mio nome, aveva preso il mio volto; ma
non mi somigliava. Questo personaggio fittizio, fabbricato a colpi di eco
confidenziali o di ritratti compiacenti, mi era estraneo. Io alzavo le spalle
davanti al potere che mi si accordava. Io mi divertivo, talvolta, alle
strategie complesse che mi si attribuivano.
Io sapevo chi ero, da dove venivo
e dove andavo.
Gli Amici mi riferivano voci che
circolavano sul web.
Noi non viviamo nel migliore dei
mondi possibili, dove la verità prevale, sempre, sul calcolo. La
mediatizzazione è un processo implacabile, soprattutto per coloro che la
subiscono senza cercarla. Io so, ormai, che il mio doppio mi ha soppiantata
nello sguardo degli Altri. Ciascuno dei miei gesti è interpretato in funzione
dell’immagine virtuale che è stata creata.
Anche per gli Amici che mi
conoscono da anni…
È divenuto difficile fare la
parte del diavolo!
Chi, cosa arriverà a salvarmi da queste acque agitate
nelle quali io nuoto?
Nessuno è, qui, ad aiutarmi.
Forse, perché io non lascio avvicinare nessuno abbastanza
per soccorrermi.
A che pro?
Si parte come si viene, soli…
No?
La vita non è che una serie di scadenze più o meno
piacevoli da vivere, con una finalità sempre identica.
Io non ho, mai, saputo vivere le fini, allora, io
anticipo fuggendo…
È vile certo; ma nettamente meno penoso da vivere…
Mi perdonerete, ne sono certa, se
sorvolerò su alcuni fatti di questo ultimo anno, ma i miei sentimenti non
riguardano e non commuovono che me sola.
Preferisco conservare per me i
ricordi intimi.
E ora vi dico a Dio…
Buon
Natale di cuore a voi e alle vostre Famiglie!
Daniela Zini
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