“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 17 novembre 2014

QUARTO POTERE DOV'E' IL QUARTO POTERE? LA VERITA' E' COSI' INEFFABILE? TERZA PARTE di Daniela Zini

BUON TERZO TWITTERANNIVERSARIO A ME! 


QUARTO POTERE
   
“Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un’autorità su come far pensare la gente. Ci sono i giornali per esempio, sono proprietario di molti giornali da New York a San Francisco.”

ai Miei Magnifici Quattro Amici Invisibili
“Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes. The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo. You can quote them, disagree with them, glorify or vilify them. About the only thing you can’t do is ignore them. Because they change things. They push the human race forward. And while some may see them as the crazy ones, we see genius. Because the people who are crazy enough to think they can change the world, are the ones who do.”
 “Dedicato ai folli, agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, specie i regolamenti, e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro, potete glorificarli o denigrarli, ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perché fanno progredire l’Umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.”
Steve Jobs




DOV’E’ IL QUARTO POTERE?
LA VERITA’ E’ COSI’ INEFFABILE?






di
Daniela Zini




La pratica del giornalismo è oscurata dallo sviluppo dei media, nati dalle nuove tecnologie.
È il risvolto di Internet!
Vi sono tante fonti di notizie quanti individui nei social networks e più informatori “dilettanti” che professionisti dell’informazione.
I veri giornalisti debbono rivedere al rialzo i criteri di esigenza della loro professione.
Il giornalista non milita che per valori universali.
Il giornalista è un attore, ma non è un attore politico, nel senso comune del termine, quantunque il suo ruolo sociale abbia un impatto politico.
I valori che formano lo zoccolo della sua azione professionale sono i valori dell’universalismo: la Pace, la Democrazia, la Libertà, la Solidarietà, la Eguaglianza, la Educazione, i Diritti dell’Uomo, i Diritti della Donna, i Diritti dell’Infanzia, il Progresso Sociale.
I suoi scritti contribuiscono, dunque, alle trasformazioni sociali e politiche.  
Se milita in nome di questi valori universali, il giornalista non milita, mai, in favore di interessi categoriali, settoriali, individuali o partigiani.
Se non cade nella confusione dei generi, se abdica alla sua libertà, compromette il credito di fiducia che i lettori attribuiscono alla sua indipendenza.
Se aderisce a un partito – ciò che è un suo diritto di cittadino – deve rifiutarsi di mettere la sua funzione al servizio del suo partito e, in particolare, di ritrasmettere, nel suo giornale, le prese di posizione del suo partito.   
Le carte editoriali impediscono le derive, escludendo, in particolare, che un giornalista, membro di un partito o di un sindacato, possa intervenire nel trattamento di informazioni relative a quel partito o a quel sindacato.
Il giornalismo di opinione non fa eccezione alla regola. 
Accade, sovente, che il giornalista, “visionario” militante dei valori umanisti e individualisti, sia portato a opporsi apertamente a poteri che li beffano o li negano.
E paghi, a volte, con la vita!
Ma, anche nei casi di tensioni estreme, non saprebbe liberarsi dalle regole deontologiche che gli impongono di rispettare tutte le convinzioni, tutte le confessioni, tutte le forme di espressione, anche quelle che pretendono di imbavagliare le sue.
Il giornalista militante, legato ai valori universali mette, in particolare, un punto di onore a dare la parola ai suoi avversari e a dare prova di tolleranza nei loro riguardi, nelle sue analisi e nei suoi commenti. 
“La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto.”[1]
Il giornalista – come Pompea Silla, la seconda moglie di Cesare, ripudiata per una semplice “chiacchiera” di adulterio – deve essere al di sopra di ogni sospetto.
La sua responsabilità sociale esige che la sua integrità professionale non possa essere messa in dubbio. Questa esigenza include non solo il rispetto della vita privata, il rispetto della dignità degli individui, il rifiuto di metodi sleali, il rifiuto di promuovere interessi privati contrari all’interesse generale, ma anche il divieto di ogni connivenza e di ogni compromesso. 
È mettere in alto la barra del giornalismo professionista, ma è ciò che fa la grandezza della professione giornalistica, almeno secondo Seneca:
“Magnam fortunam magnus animus decet, qui, nisi se ad illam extulit et altior stetit, illam quoque infra ad terram deducit; magni autem animi proprium est placidum esse tranquillumque et iniurias atque offensiones superne despicere.”
A una grande fortuna si addice un animo grande, poiché, se l’animo non si innalza fino ad essa e non la domina, scende al contrario al di sotto di essa. Ma è proprio di un animo grande essere sereno e tranquillo e guardare dall’alto le ingiurie e le offese.”

 

- PARTE TERZA -
THEODORE ROOSEVELT LI CHIAMÒ 
“RASTRELLATORI DI LETAME”
MA DIVENNERO IL QUARTO POTERE


Alcune famose “penne” contribuirono, divulgando quelle che “Teddy” definiva “pubbliche vergogne”, a far varare salutari riforme sociali, che portarono un ventata di Giustizia in certi settori della vita pubblica della Nazione, inquinati dalla malavita. La stampa doveva, poi, assumere una importanza sempre maggiore per gli americani, fino a ricoprire un ruolo prestigioso. 

Lettera aperta ai  giornalisti italiani
Lettera aperta di un cane sciolto in nome della libertà di abbaiare
di Daniela Zini

Dov’è il Quarto Potere? La Verità è così ineffabile?
Parte Prima
di Daniela Zini

Dov’è il Quarto Potere? La Verità è così ineffabile?
Parte Seconda
di Daniela Zini

Quando la menzogna si traveste da Verità  
La fabbrica della verità mediatica tra menzogna e verosimiglianza
di Daniela Zini
 
“La libertà di stampa è garantita solo

a coloro che ne possiedono una.”
Abbott Joseph Liebling

Si racconta che Theodore Roosevelt sedesse, una mattina del 1906, davanti a una abbondante colazione a base di salsicce, sfogliando un libro fresco di stampa.



L’autore, Upton Sinclair, non era tra i suoi preferiti e il presidente girava svogliatamente, le pagine del suo romanzo, The Jungle [La Giungla], che descriveva le malsane condizioni di lavoro, cui erano costretti gli operai dei macelli di Chicago, quando, la sua attenzione si soffermò sul seguente passo:
“Vi erano vecchi salumi spediti indietro dall’Europa dove nessuno li aveva voluti: erano bianchi e ammuffiti e venivano adulterati con acido borico e glicerina e poi riconfezionati per essere venduti in America. In altri locali, vi era anche carne ammassata in grandi mucchi: dai tetti pieni di fessure gocciolava acqua e i topi vi correvano sopra. Questi locali erano molto bui e non si riusciva a vedere bene ma se uno avesse passato una mano su quei mucchi di carne l’avrebbe ritratta piena di sterco di topi. In effetti, i roditori erano un vero problema, così gli operai mettevano in giro dei pezzi di pane avvelenato per ammazzarli. I topi morivano e topi, carne e pane avvelenato andavano a finire nello stesso impasto.”


Upton Sinclair

“Teddy”, che era rimasto relativamente indifferente quando aveva letto dell’alta percentuale di tubercolosi tra gli addetti alla lavorazione delle carni;  questa volta, esplose in una ben diversa reazione. Gridando di essere stato avvelenato, balzò in piedi e si affrettò a rovesciare il contenuto del piatto fuori della finestra.
Da allora, sembra che Roosevelt fosse divenuto vegetariano.



La storia, di per sé abbastanza divertente, ha, tuttavia, un epilogo serio.
Quello stesso anno, il presidente appoggiò e fece votare al Congresso, una legge contro le sofisticazioni alimentari, il Pure Food and Drug Act, provvedimento che, del resto, i consumatori, allarmati dalle analisi effettuate da alcuni coscienziosi funzionari, richiedevano, già, da alcuni anni.
L’episodio serve anche a rammentare che, in massima parte, le riforme che si riuscirono a realizzare durante la presidenza di Theodore Roosevelt furono dovute proprio al lavoro di uomini come Upton Sinclair, giornalisti e scrittori, che lo stesso Roosevelt, in un momento di collera, aveva bollato di muckrakers [https://www.youtube.com/watch?v=y9_FbPwfUe4], rastrellatori di letame.
 L’epiteto derivava da The pilgrim’s progress from this world to that which is to come [Il viaggio del pellegrino da questo mondo a quello venturo] di John Bunyan – che narra di un tale così innamorato del proprio rastrello da rifiutare la corona dei cieli pur di poter continuare a rimestare con il rastrello tra le immonde cose terrene – e stava a indicare tutta quella generazione di ricercatori e divulgatori di “pubbliche vergogne”, che costituivano la promessa mancata dell’America ai suoi cittadini.
In un Paese, che, nei trenta anni compresi tra il 1870 e il 1900, aveva visto raddoppiare la sua popolazione, con un proporzionale e favoloso aumento della ricchezza nazionale, proliferavano piaghe indegne di una Nazione civile: vergognoso sfruttamento del lavoro delle donne e dei bambini, moltiplicarsi degli slums urbani – veri e propri serbatoi di piaghe sociali, quali la delinquenza, l’alcolismo e la prostituzione, e di malattie fisiche, quali la tubercolosi, la sifilide e la malaria – corruzione del sistema politico, larga percentuale di analfabetismo, concentrazione di immense ricchezze nelle mani di pochi; quando ampi settori del Paese erano, letteralmente, alla fame, mentre le schiere dei reietti e dei diseredati divenivano, ogni giorno, più folte.
Già fin dagli ultimi decenni del secolo XIX, economisti, quali come Henry George e Thornstein Veblen avevano, aspramente, criticato le anomalie del sistema economico americano. 


Jacob Riis



 


Intorno al 1890, Jacob Riis, un immigrato danese che, quale redattore di cronaca nera del giornale The Sun, aveva acquisito una eccezionale competenza in materia, aveva iniziato la pubblicazione di una serie di impressionanti pamphlets, nei quali veniva, realisticamente, descritto l’inferno senza aria, senza luce e senza acqua delle case nei ghetti degli immigrati.


Joseph Lincoln Steffens

Ma fu soltanto verso gli albori del nuovo secolo, quando riviste a grande diffusione, quali McClure’s, Cosmopolitan, Collier’s, Everybody’s, iniziarono ad accettare nelle loro pagine questi argomenti, che lo scandalo di una America molto meno idilliaca e molto meno democratica di quanto ciascuno avesse immaginato, esplose, creando eccezionale sensazione.
La serie più violenta di articoli fu scritta da colui che può venire considerato la figura dominante tra i muckrakers, Joseph Lincoln Steffens e che, più tardi, fu raccolta sotto il titolo di The shame of the cities [La vergogna delle città]. Steffens, prendendo in esame città come Pittsburgh, Filadelfia, Minneapolis, St. Louis, ne metteva in luce la costante corruzione, che caratterizzava le loro amministrazioni municipali: ovunque la violazione della legge era elevata a sistema per la corruzione degli uomini politici; per l’appalto dei pubblici servizi, ridotto a una burla in quanto deciso in anticipo sulla base di criteri estranei alle gare; per l’inerzia della polizia, complice in prospere attività illegali. 


 

David Graham Phillips

Ben oltre la critica della politica locale osò spingersi David Graham Phillips nel suo The Treason of Senate [Il Tradimento del Senato] nel quale venivano documentati i legami di dipendenza tra i senatori e i loro padroni appartenenti al mondo del business.
Nel 1904, Ida Tarbell usciva con una inchiesta, History of the Standard Oil Company [Storia della Standard Oil Company], che rendeva di pubblico dominio i sistemi monopolistici usati dalla compagnia per schiacciare la concorrenza, per guadagnarsi il favore dei politici, per procedere allo sfruttamento più spietato delle risorse naturali.

 Ida Tarbell


Ida Tarbell

Anche nel settore della narrativa ben presto le voci dei romanzieri si unirono a quelle dei muckrakers, che scrivevano sulla stampa periodica o esprimendosi in pamphlets. The Titan [Il Titano] e The Financier [Il Finanziere] di Theodore Dreiser raccontano i torbidi intrighi dai quali traevano vita e potenza le grandi società; The Octopus [La Piovra] e The Pit [La Fossa] di Frank Norris, attaccarono la speculazione sui grani e i sistemi delle grandi compagnie ferroviarie. A essi si aggiunge il citato e ancora più violento libro di Upton Sinclair.
Jack London, che, già, aveva acquistato notorietà con alcuni romanzi a sfondo sociale, può essere annoverato nella schiera dei muckrakers per il suo The Road [La Strada], che descrive la vita dei bums americani.    
Nel contempo, innumerevoli società umanitarie erano sorte per alleviare con attività di beneficenza le sofferenze inflitte a quella enorme maggioranza di persone che, in un contesto sociale così ingiusto, il destino aveva dichiarato perdenti. Il periodo del loro massimo splendore fu, peraltro, relativamente breve, perché non ci volle molto a capire che la strada giusta per rimediare alle piaghe sociali era quella politica delle riforme e non quella del tozzo di pane da gettare a pochi infelici.
Molte furono le richieste espresse in questo senso dal movimento progressista: dalla modificazione del sistema di elezioni dei senatori, che doveva avvenire in modo diretto e non più tramite il filtro corruttore di parlamenti statali, all’istituzione del suffragio femminile, dalla necessità di controlli governativi in materia di banche, ferrovie, pubbliche finanze, disciplina del lavoro, al rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. 
Larga parte di queste istanze era anacronistica e, del resto, troppo grande era il potere dei “maneggioni della politica”, per vedersi sottratti i punti che erano la chiave di volta del loro malgoverno.
Nondimeno, in alcuni Stati, retti da governatori progressisti, il New Jersey con Woodrow Wilson e il Wisconsin con Robert La Follette, passarono provvedimenti molto avanzati come la destituzione dei funzionari dimostratisi indegni delle cariche cui erano stati eletti, il voto segreto, la regolamentazione delle tariffe ferroviarie, la revisione del sistema di tassazione.
Riforme di grande importanza fecero il loro ingresso anche nell’ambito della politica municipale. Nel tentativo di separare l’elemento corruttore della politica dai problemi dell’amministrazione cittadina, ebbero vita speciali commissioni preposte ai singoli settori. Si introdusse, inoltre, la figura del city manager ovvero una sorta di responsabile tecnico della buona gestione municipale. In tale modo, anche in città tradizionalmente corrotte, quali New York, problemi come il risanamento degli slums vennero, per qualche tempo, seriamente affrontati.
Diversamente andarono le cose nell’ambito della politica nazionale. Ad assumere il ruolo di difensore della corrente progressista, della quale i muckrakers erano stati gli organi propulsori non vennero chiamati uomini di sicura fede riformista, quali un William Bryan o un Robert La Follette.
Quando, infatti, nel 1901, il presidente William McKinley[2] venne assassinato da un anarchico originario della Polonia, Leon Czolgosz[3], salì, alla Casa Bianca, il vicepresidente Theodore Roosevelt, sostanzialmente un conservatore, come ampiamente dimostrato dai suoi precedenti politici; ma che circostanze esterne costrinsero ad assumere l’abito del progressista.
Gli elementi che premettero in tale senso furono: il fatto che il movimento progressista, nei primi anni del 1900, era, ormai, divenuto una corrente cui era molto difficile opporsi; il desiderio di tagliare la strada al movimento socialista che, in quegli anni, andava organizzandosi e, soprattutto, il timore di quanto potesse uscire dalle penne dei muckrakers, se appena gliene fosse stata data l’occasione.
Così, con molte parole e pochi fatti, Theodore Roosevelt convinse il popolo che era lui il campione del progressismo.
In realtà, tutta la sua politica interna può essere definita un capolavoro di equilibrismo tra la vocazione di lasciare le cose immutate e il desiderio di sollevare la massima attenzione intorno a problemi, la cui risoluzione, ben raramente, lo vide seriamente impegnato.
Disse di voler combattere in una occasione i trusts ed effettivamente in una occasione fece ingoiare una amara pillola a J. P. Morgan[4], ma si volle, poi, perdere in sottigliezze sulla quantità di bene e di male in essi contenuta.
E il risultato fu che, allo scadere della sua seconda presidenza, i trusts erano più floridi che mai.
 


Nel campo del lavoro Roosevelt svolse una attività di mediazione durante il grande sciopero dei lavoratori del carbone del 1903; ma perse, poi, una infinità di altre occasioni e, certamente, nessuno più di lui mostrò più aperta ostilità per uomini, quali William Bryan ed Eugene Debs che erano gli unici seriamente interessati a risolvere, in termini di equità, le questioni tra capitale e maestranze.
Durante il suo secondo mandato presidenziale Theodore Roosevelt volse la sua attenzione ai superprofitti delle compagnie ferroviarie e, nel 1906, si ebbe lo Hepburn Act, che autorizzava una commissione a fissare delle tariffe massime. Il provvedimento, peraltro, era monco e non tanto perché alle compagnie era stato dato di appellarsi di fronte alle corti federali, quanto perché la commissione non aveva il potere di indagare quali fossero i costi reali delle compagnie.

 Theodore Roosevelt

Più sincera fu la preoccupazione del presidente – “quel maledetto cow boy” come ebbe a chiamarlo Mark Hanna – circa la messa in opera di meccanismi legislativi, che proteggessero il Paese dal dissennato sfruttamento, di cui era stato vittima negli ultimi lustri.
Leggi contro il disboscamento istituzionale dei parchi nazionali, programmi per la regolazione del corso dei fiumi e per l’irrigazione, furono misure varate efficientemente in breve volgere di tempo.
A ben guardare, dunque, il progressismo, durante l’era di Theodore Roosevelt, non fece dei sensazionali passi in avanti.
Vero è, tuttavia, che, durante la sua presidenza, fu tenuta viva nella Nazione la coscienza di problemi che il destino avrebbe consegnato a un altro Roosevelt da risolvere.
Imponente, in ogni modo, il contributo prestato dai muckrakers, con i quali doveva prendere il via una tradizione di grande giornalismo, che non avrebbe trovato paragone in nessun altro Paese.
Fu l’inizio di quello che qualcuno, attribuendo un senso diverso all’espressione, avrebbe, più tardi, chiamato il Quarto Potere.


Daniela Zini
Copyright © 17 novembre 2014 ADZ



[1] Nel 61 a.C., Pompea Silla fu protagonista di un clamoroso scandalo. La notte tra il 4 e il 5 dicembre, si celebravano le feste dedicate alla Bona Dea, interdette agli uomini e officiate da sole donne. I riti, quell’anno, si svolgevano in casa di Cesare, pontefice massimo e neoeletto pretore.
Clodio, che era amante della moglie di Cesare, Pompea Silla, decise di intrufolarsi nella casa.
Cicerone ne parla, così, in una lettera all’amico Tito Pomponio Attico:
“Publio Clodio, figlio di Appio, è stato colto in casa di Gaio Cesare, mentre si compiva il sacrificio rituale per il popolo, in abito da donna, ed è riuscito a fuggire via solo per l’aiuto di una servetta; grave scandalo; sono sicuro che anche tu ne sarai indignato.” 
L’indomani, in tutta Roma, non si parlava d’altro. Cesare ripudiò Pompea. Tuttavia nel processo che seguì, citato come testimone rifiutò di deporre contro Clodio, e si dichiarò convinto della innocenza della moglie. Quando i giudici gli chiesero perché avesse, allora, divorziato, rispose con la celebre frase, divenuta poi proverbiale:
“La moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto.”

[2] Durante la loro storia, gli Stati Uniti d’America hanno visto assassinare 4 dei loro 44 Presidenti. Da Abraham Lincoln a John Fitzgerald Kennedy, passando per James Abram Garfield e William McKinley.

[3] L’attentatore fu condannato alla sedia elettrica e la sentenza di morte venne eseguita, il 29 ottobre 1901, nella prigione di Auburn, nello Stato di New York.
Le sue ultime parole furono:
“Ho ucciso il presidente perché era nemico del popolo, il buon popolo lavoratore. Non me ne dispiace”.
Tale rancore veniva, principalmente, dal fatto che Leon Czolgosz, figlio di un immigrato polacco a Detroit, non era mai riuscito a integrarsi nella società americana e, in più, odiava il “sogno americano” incarnato, proprio in quegli anni, dalla figura del presidente William McKinley.
[4] Nel 2012, la procura di New York denuncia per frode Bear Sterns e Emc Mortgage, del gruppo J. P. Morgan, per la truffa dei mutui subprime. Le perdite della Bear Sterns ammontano a 22,5 miliardi di dollari, hanno provocato la disoccupazione di 7 milioni di persone, negli Stati Uniti d’America, e la crisi che, da un anno, imperversa in tutti i Paesi d’Europa.

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