“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

sabato 1 novembre 2014

DOSSIER TOP SECRET TERRORISMO I. IL TERRORISMO UTILE di Daniela Zini






DOSSIER TOP SECRET
TERRORISMO

 di
Daniela Zini



à mon Père, le premier Homme de ma vie, qui a fait de moi un Homme.
Merci, Papa!
D

Pour transformer le monde, il n’est pas besoin pour toi de la pioche, de la hache et de la truelle et de l’épée. Mais il te suffit de le regarder seulement avec ces yeux de l’esprit qui voit et qui entend. 
Paul Claudel

Qui aimerait être sourd et aveugle pour ne pas voir et entendre les atrocités de ce millénaire?
Grâce à une longue enquête qu’il a menée au Moyen-Orient, aux Etats-Unis, en Amérique latine et en Europe, l’écrivain ouvre les dossiers du terrorisme international. Au terme de son “voyage” à l’intérieur des mouvements subversifs, l’auteur, puisant aux sources les plus secrètes, tire de l’ombre les tueurs sans frontières. Il révèle les complicités dont ils bénéficient dans les Etats qui les protègent. Agents secrets, mercenaires idéalistes et responsables politiques se côtoient dans cette étude minutieuse.
L’idéologie rend sourds et aveugles.
Elle refuse d’écouter ce qui n’entre pas dans son univers sectaire.
La grande majorité des gens sont sourds et aveugles aux problèmes du monde!
Tant qu’ils ne sont pas directement concernés et que les fléaux ne leur tombent pas sur la tête, ils s’en moquent!
Ils ne voient même pas qu’une grande partie de ces problèmes ont une incidence directe sur leur vie.
La Liberté n’est pas une exigence que nous devrions attendre de la Société ou de l’Etat; elle est d’abord une exigence intérieure.
Quand les prisons de nos regards et les tombeaux des mots s’ouvrent, quand les barbelés de nos représentations sont arrachés, quand les écrans et les voiles de nos esprits sont déchirés et que les regard en miroirs sont brisés, alors les regards simples, pauvres et nus se lèvent et, sans appui, marchent à travers les murs. Comme les vitraux d’une cathédrale de lumière, ils dansent les mille couleurs des choses. Sur la montagne vide, par delà la grâce des mots et la lourdeur des choses, les mots se font silence-sonore, ténèbres-lumineuses, absence-présence.
Folie humaine ou sagesse divine?
C’est la douce folie des Enfants, des Artistes et des Saints qui nous invitent à vivre en poésie, accordés avec cet au-delà, qui se voile et se dévoile dans le silence des choses comme dans les secrets de nos histoires.
Ce qu’il y a de plus important dans la vie, c’est d’apprendre à vivre.
Il n’y a rien que les hommes se montrent plus désireux de conserver que la vie, et il n’y a rien qu’ils s’efforcent moins de bien diriger.
Y réussir est chose moins facile qu’on ne pense.
La vie
dit Hippocrate au commencement de ses Aphorismes médicaux,
est courte, l’art est long, l’occasion passagère, l’expérience trompeuse et le jugement difficile.
Le bonheur et le succès ne dépendent pas des circonstances, mais de nous-mêmes.
Plus d’hommes ont dû leur ruine à leurs propres fautes qu’à la malveillance des autres; plus de maisons et de villes ont été anéanties par l’homme que par des tempêtes et des tremblements de terre.
Parler aujourd’hui d’émerveillement peut sembler une folie, mais cette folie n’est-elle pas la plus grande sagesse devant la désespérance de ce monde?
Toute l’histoire de la philosophie, depuis les Pré-socratiques jusqu’à Martin Heidegger tourne autour de ce mystère de l’étonnement devant le sublime de la vie.
Avoir l’esprit philosophique,”,
écrit  Arthur  Schopenhauer,
c’est être capable de s’étonner des événements habituels et des choses de tous les jours.
Et Einstein nous assure:
Celui qui a perdu la faculté de s’émerveiller et qui juge, c’est comme s’il était mort, son regard s’est éteint.
Nous retrouvons chez tous les grands hommes cette illumination du regard. L’homme devient génial quand son moi ne fait pas écran entre le réel et la Vérité; par leur avoir, leur pouvoir, ou leur savoir, les hommes se rendent aveugles.
L’homme d’aujourd’hui tombe volontiers dans l’erreur de croire que tout peut être expliqué, qu’il n’y a plus de mystère. Et que l’émerveillement ne serait que l’effet de la nouveauté sur des esprits ignorants.
L’Humanité occidentale périt de cette perte du sens du merveilleux, qui est une confusion entre problème et mystère. Elle a perdu le sens du réel, en confondant réel, imaginaire et symbolique.
L’idolâtrie des choses ou des idées, et maintenant des images, est une vieille tentation de l’humanité!
S’étonner, c’est se laisser surprendre par les choses les plus simples de la vie.
Entre le choc de l’étonnement et la terre promise de l’émerveillement, il y a un long chemin d’exode, où notre esprit s’éveille et où notre regard se libère.
Il nous est dit au premier chapitre de la Genèse qu’à la fin du sixième jour:
Dieu vit tout ce qu’il avait fait et voici, tout était très bien.
Non seulement bien, mais très bien; et cependant combien peu d’entre nous savent apprécier l’admirable monde où nous vivons?
Plusieurs d’entre nous marchent à travers la vie comme des Fantômes: ils se trouvent dans le monde sans en faire partie. Nous avons des yeux pour ne point voir et des oreilles pour ne point entendre.
Pour voir, il faut regarder.
Regarder, c’est garder, c’est monter la garde, non pour prendre l’Autre en flagrant délit mais pour se laisser surprendre.
Regarder, c’est devenir gardien de l’être, c’est veiller dans l’attente d’une sensation vraie comme dit  Paul Cézanne.
Regarder est beaucoup moins facile que de ne pas regarder, et c’est un don précieux que d’être capable de voir ce qui passe devant nos yeux.
John Ruskin affirme :
Ce que l’esprit humain peut faire de plus grand en ce monde est de regarder et de raconter tout simplement ce qu’il a vu.
Je ne pense pas que les yeux de Ruskin soient meilleurs que les nôtres, mais comme il voit plus de choses avec les siens!
L’émerveillement naît d’abord du silence, et il conduit au silence. Ce silence de soi est la première condition de sa manifestation. Le silence est la trace en nous de l’émerveillement; et celui-ci est proportionnel au silence qu’il fait naître en nous. Quand l’œil écoute la musique du silence, l’esprit perçoit la mélodie secrète des choses. Le silence et l’émerveillement accomplissent ce miracle de nous introduire dans le dialogue avec un au-delà du visible et du lisible.
J’aime le silence.
Il permet d’entendre la mélodie de l’âme. Celle de l’Autre, lorsque je l’écoute se dire, ou la mienne lorsqu’elle murmure en paix.
Le silence me rapproche de l’état de nature, me rappelle que j’en suis un élément.

La nature qui fait toutes choses pour qu’elles répondent à une intention et une destination précises, comme ils le disent justement, n’a pas donné la sensation à l’animal simplement pour pâtir et sentir, mais parce que, entouré d’êtres dont les uns lui sont appropriés et les autres inappropriés, il ne pourrait survivre un seul instant, s’il n’apprenait à se garder des uns et à se mêler aux autres. Or, si la sensation fournit à chacun semblablement la connaissance des uns et des autres, les conséquences de la sensation, la saisie et la poursuite des choses utiles, le rejet et la fuite des choses funestes et pénibles, nul moyen qu’elles se rencontrent chez qui n’a pas reçu par nature la faculté de raisonner, juger, se souvenir et être attentif. Les êtres qu’on dépouillera de toute attente, de tout souvenir, projet ou prépara­tion, de l’espoir, de la crainte, du désir et de l’affliction, il ne leur servira de rien d’avoir des yeux ou des oreilles; et il vaut mieux être débarrassé de toute sensation et de toute imagination qui ne s’accompagnent pas de la faculté qui en fait usage, que d’éprouver peine, douleur et souffrance sans avoir les moyens de repousser ces maux. Et justement le physicien Straton démontre que sans l’intellection absolument aucune sensation ne se produit. Souvent en effet un texte que nous parcourons des yeux, des paroles qui frappent notre ouie nous échappent et nous fuient, parce que notre esprit est occupé à autre chose ; puis il revient: alors il change sa course et poursuit un à un chacun des mots qu’il a laissé échapper. C’est en ce sens qu’il a été dit c’est l’intellect qui voit, l’intellect qui entend: le reste est sourd et aveugle; car l’affection qui a pour siège l’oeil ou l’oreille ne produit pas de sensation sans la présence de la pensée. D’où la réponse du roi Cléomène: il assistait à un banquet où se faisait applaudir un chanteur dont on voulut savoir s’il ne semblait pas habile: Voyez vous-mêmes, demanda‑t‑il, pour moi j’ai l’esprit dans le Péloponnèse. Donc tous les êtres qui possèdent la sensation, nécessairement possèdent aussi l’intellection.
Porphyre, De l’Abstinence, 3, 21.5

Bien que nous ayons une ferme espérance dans les progrès de la race humaine, cependant individuellement, en avançant en âge, nous nous détachons de bien des choses qui, dans notre jeunesse, nous procuraient le plaisir le plus intense. Mais, d’un autre coté, si notre temps a été bien employé, si nous nous sommes prudemment chauffés les mains au foyer de la vie, il se peut que l’âge nous donne plus que nous ne perdons. A mesure que nos forces diminuent, nous sentons moins aussi la nécessité de l’exercice; l’espérance, peu à peu, fait place à la Mémoire.
Celle-ci ajoutera-t-elle à notre bonheur ou non?
Cela dépend de ce qu’aura été notre vie ici-bas.
Il y a des vies qui perdent de leur valeur à l’approche de la vieillesse; chaque jouissance se flétrit l’une après l’autre, et celles mêmes qui subsistent perdent peu à peu de leur saveur. D’autres, au contraire, gagnent en richesse et en paix au-delà de ce que le temps leur a dérobé.
Les plaisirs de la jeunesse peuvent l’emporter en intensité et en saveur, mais ils sont toujours mélangés d’anxiété et d’agitation, et ne peuvent égaler en plénitude et en profondeur les consolations que l’âge apporte comme la plus belle récompense d’une vie exempte d’égoïsme.
Il en est de la fin de la vie comme de la fin du jour: il se peut qu’il y ait des nuages, et cependant, si l’horizon reste clair, la soirée sera belle.
Emanuel Swedenborg suppose que dans le ciel les Anges avancent continuellement vers le Printemps de leur vie, si bien que plus ils ont vécu longtemps, plus ils sont jeunes en réalité.
N’avons-nous pas des Amis qui semblent réaliser cet idéal, qui ont gardé, du moins par l’esprit, toute la fraîcheur de l’enfance?
Voilà une histoire qui devrait faire prendre conscience de la difficulté à accepter la réalité telle qu’elle est.
C’est tellement plus simple de qualifier son contradicteur de fou, d’aliéné, de naïf ou d’imbécile!
Car, même si elle ne fait pas toujours plaisir, même si elle nous dérange dans notre confort et nos idées bien ancrées, même si elle chamboule le bon ordonnancement des choses, même si parfois elle fait peur, je crois qu’il faut pouvoir regarder et entendre la Vérité nue, sans fard et en faisant fi de nos croyances et de nos certitudes.
Et c’est bien là le plus complexe...

Le Bouddha raconta cette histoire à ses moines:
Un jeune veuf se dévouait à son petit garçon. Mais pendant qu’il était en voyage pour son métier, des bandits incendièrent tout le village, le laissant en cendres, et enlevèrent le petit garçon. Quand le père rentra, il ne retrouva que des ruines et en eut le coeur brisé. Voyant les restes calcinés d’un enfant, il crut que c’étaient ceux de son propre fils, prépara une crémation, recueillit les cendres, et les mit dans un sac qu’il emportait partout avec lui.
Un jour, son vrai fils parvint à échapper aux bandits et à retrouver le chemin de la maison, que son père avait reconstruite. Il arriva, tard dans la nuit et frappa à la porte. Le père demanda:
Qui est là?
C’est moi, ton fils. S’il te plait fais-moi entrer!
Le père, qui portait toujours les cendres avec lui, désespérément triste, crut qu’il s’agissait d’un misérable qui se moquait de lui. Il cria:
Va-t-en!
Son enfant frappait et appelait sans cesse mais le père lui faisait toujours la même réponse. Finalement le fils partit pour ne plus jamais revenir.
Après avoir terminé ce récit le Bouddha ajouta:
Si vous vous accrochez à une idée comme à une Vérité inaltérable, quand la Vérité viendra en personne frapper à votre porte, vous ne serez pas capable d’ouvrir et de l’accepter.
[tiré de l’Udana Sutta]
Daniela Zini





I. IL TERRORISMO UTILE
Il terrorismo, spesso, si appella a ideali di progresso; ma serve, sempre, a fare arretrare la società.


 “Vi sono momenti nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.”
                                   Oriana Fallaci                        

Perché si trovano i “manovali” della criminalità politica e non i suoi “cervelli”?
Che nesso vi è tra il Sessantotto e la “strategia della tensione”, che stravolge una parte dell’Europa e, in particolare, l’Italia?
Ci si avvicina, indubbiamente, al vero se a questi interrogativi si risponde, rilevando che il terrorismo dispone di mezzi finanziari molto consistenti, tali che non si possono procurare soltanto con i sequestri, con le rapine e con i ricatti.



Con tutta probabilità è ancora troppo presto, come sostengono i più acuti studiosi e osservatori del mondo contemporaneo, per scrivere e comprendere che cosa sia stato e abbia significato quell’insieme di fatti, di idee e di fermenti, definito per aborrirlo o esaltarlo, con l’etichetta di comodo, inspecifica e imprecisa, di Sessantotto. In qualsiasi modo si voglia e si possa, tuttavia, giudicarlo, una cosa è certa: è la data di una svolta cruciale, in positivo e in negativo, per quanto riguarda, in Italia e nel mondo, il modo di pensare, di sentire e di reagire, il comportamento politico e il costume sociale degli individui e delle collettività.
Il Sessantotto è l’anno in cui molti nodi vengono al pettine della Storia e vi giungono da lontano, dopo un lungo e, spesso, sotterraneo percorso, nelle pieghe più segrete dello sviluppo di società, apparentemente statiche e immutabili, in Oriente e in Occidente.
Ripercorrere il tortuoso itinerario nella sua globalità è, praticamente, impossibile, oggi come oggi. È, invece, inevitabile darne un sintetico conto per quanto attiene i più vistosi, clamorosi e significativi mutamenti. Per comprendere il lacerante tessuto sociale, la psicologia di massa, l’evoluzione della mentalità, individuale e collettiva, che producono le “risaie”, in cui può vivere il moderno terrorismo, è, infatti, impossibile prescindere da ciò che è avvenuto nel Sessantotto.
Vi sono immediati precedenti che non si possono ignorare e riguardano, da un lato, pressoché esclusivamente, i giovani che, poco prima del 1968, hanno tra i 17 e i 25 anni, e, dall’altro lato, la crisi di una serie di “modelli”.
Iniziamo da questi ultimi.
Il socialismo e il comunismo, nel senso delle reali prospettive di trasformazione della società che ispirano, stanno, da tempo, mostrando segni di logoramento.
Nel 1956, il XX congresso del PCUS spiega come e perché l’URSS e il movimento comunista internazionale siano stati vittime di una pericolosissima degenerazione: il culto della personalità.
Ancora nel 1956, i fatti di Polonia e di Ungheria dimostrano, ancora maggiormente e concretamente, che nei Paesi di “socialismo reale” le contraddizioni interne, le lotte tra le classi, il rapporto tra cittadini e Stato siano ben lontano dall’essere stati, in qualche modo, risolti.
Agli inizi degli Anni Sessanta, il dissidio tra la Cina e l’URSS apre ancora più nuovi e irrisolti enigmi.
Come è possibile che le due massime potenze comuniste del mondo, siano rivali?
Miti e pregiudizi della “Vecchia Sinistra Comunista” sembrano, definitivamente, tramontati, si prepara la strada agli scambi di accuse di social-imperialismo e revisionismo, entra, soprattutto, in crisi la credenza nella panacea dell’internazionalismo proletario, del Partito-guida, dello Stato “di tipo nuovo”, riprendono credibilità le “vie nazionali”, il tema del rapporto tra socialismo e libertà, inizia la lunga, spesso, incomprensibile e, ancora più spesso, incompresa, strada dell’”eurocomunismo”. Allo stesso tempo, si prefigura una linea di “Nuova Sinistra”, anche comunista, rispuntano i temi della rivoluzione, la filosofia della violenza, i comportamenti sindacali e in polemica con le centrali. Più che un mondo che nasce e contesta il vecchio, è un mondo che sembra estinguersi per forza di inerzia. Il comunismo internazionale, dove è al potere, si affida alla forza della repressione per mantenersi in sella e giungerà alla sua più vistosa crisi, proprio nel 1968, a Praga, con l’occupazione militare da parte delle truppe del Patto di Varsavia.
Chi può più credere che quegli eserciti appartengano a Nazioni, in cui sono al potere partiti comunisti fino al giorno prima definiti “fratelli”?
Se in casa comunista non vi è da stare allegri, nell’area del socialismo e della socialdemocrazia internazionale non si possono nutrire migliori speranze.
Il modello scandinavo del socialismo offre prove di alta civiltà, i partiti socialisti al governo hanno dato vita a forme assistenziali che curano i cittadini “dalla culla alla tomba”; ma le statistiche informano che i suicidi sono in aumento, che l’alcolismo ha raggiunto una diffusione più che allarmante, che si registrano, ovunque, segni di desideri individualistici che somigliano moltissimo a concreti auspici di ritorno a forme di organizzazione sociale in cui prevalga l’iniziativa privata. 

Se uno lancia un sasso, il fatto costituisce reato. Se vengono lanciati mille sassi, diviene una azione politica. Se si dà fuoco a una macchina, il fatto costituisce reato. Se, invece, si bruciano centinaia di macchine, diviene una azione politica. La protesta è quando io dico che una cosa non mi sta bene. Resistenza è quando io faccio in modo che quello che, adesso, non mi piace non accada più.”
Ulrike Marie Meinhof




Ulrike Marie Meinhof [1934-1976] giornalista e co-fondatrice del gruppo rivoluzionario tedesco-occidentale di estrema sinistra, RAF, Rote Armee Fraktion [Frazione dell’Armata Rossa], conosciuto dalla stampa anche come Banda Baader-Meinhof.


 
Andreas Baader fu il primo leader della RAF. Nel 1968, Baader e la sua compagna Gudrun Ensslin furono condannati per aver posto una bomba incendiaria in un supermercato di  Francoforte. Il 14 maggio 1970, Baader fuggì dalla custodia degli agenti con l’aiuto della giornalista Ulrike Marie Meinhof. Il primo giugno del 1972, Baader e i militanti armati del suo gruppo, Jan- Carl Raspe e Holger Meins, furono catturati in un interminabile conflitto a fuoco a Francoforte. Il 18 ottobre 1977, nel carcere di Stammheim, Baader e Gudrun Ensslin vennero trovati morti. Baader e un altro dei detenuti della RAF, Jan-Carl Raspe, che sarebbe, successivamente, morto in ospedale, presentavano lesioni da armi da fuoco. Ensslin era stata strangolata dal cavo di un altoparlante e un’altra detenuta, Irmgard Möller, che riucì a sopravvivere, fu trovata agonizzante dopo essersi pugnalata al petto.

 Gudrun Ensslin

La socialdemocrazia tedesca è forte in uno Stato forte, non è ancora saldamente al potere; quando vi arriva si trova di fronte a un tessuto sociale, in cui, nel 1968, un attentato incendiario a un supermercato di Francoforte ha fatto finire, nell’aprile, in carcere un giovane pressoché sconosciuto di nome Andreas Baader, che viene liberato, nel maggio, con l’azione di un commando della RAF, Rote Armee Fraktion [Frazione dell’Armata Rossa], diretta da una altrettanto giovane terrorista di nome Ulrike Meinhof.
La socialdemocrazia in Germania conduce il Paese a livelli di vita qualitativamente eccezionali, a una potenza economica, finanziaria e politica che neppure i più ambiziosi sogni di “rinascita tedesca” hanno, mai, accarezzato; ma, al tempo stesso, governa una Nazione che diventa teatro, proprio a partire dal 1968, di inquietanti movimenti giovanili, specie studenteschi e, ancora peggio, di una fitta serie di gesta terroristiche che culminano, circa dieci anni dopo, nel rapimento e nell’assassinio del potentissimo capo della confindustria tedesca,  Hanns-Martin Schleyer[1].    
Nel 1968, l’area del “socialismo reale” [URSS e Paesi nella sua sfera di influenza] è, dunque, in fermento per non dire in crisi; mentre i partiti comunisti, che agiscono al di fuori di essa, cercano, faticosamente e confusamente, una loro diversa identità. Un bilancio non molto più confortante possono farlo i socialisti delle diverse tendenze europee che sono giunti al governo, costretti come sono ad affrontare altri, differenti, ma non meno gravi, problemi.
Il mondo occidentale, democratico e capitalistico, non ha dovuto attendere il 1968 per essere scosso da febbri che denunciano ben più preoccupanti malattie.
Gli Stati Uniti, nonostante la loro forza e la loro ricchezza, covano germi di rivolta civile, fin dagli anni della guerra di Corea [1951], e, attraverso un lungo processo, passato sotto le forche caudine di esplosioni spontanee come gli hippies, la “cultura della droga”, le rivolte dei ghetti metropolitani, abitati da minoranze etniche [neri, portoricani, “bianchi poveri”], giungono fino alla protesta organizzata contro l’intervento militare nel Vietnam.
Vi è bisogno di ricordare che, proprio negli Stati Uniti, è avvenuto, nel 1963, un crimine, un crimine terroristico misterioso e oscuro come l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy?


Vi è bisogno di sottolineare che la nascita ufficiale della contestazione nordamericana risale al 1964 e ha luogo in una delle più antiche e illustri università del Paese: la UC Berkeley?
Ma il fatto che, sia pur “mitologicamente”, accende le polveri che, di là a due anni, prenderanno fuoco, con alterna intensità, in tutto il mondo, avviene a Pechino, il 25 maggio 1966. Una studentessa di filosofia appena ventenne di nome Niè Yuan-tze[2] – e di lei non si sa né si saprà mai niente altro – si reca nella sala mensa numero 1 dell’università e sulla porta di entrata appende il primo dazebao – giornale murale – della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Nella favola propagandistica che seguirà si fa risalire al gesto di Niè Yuan-tse quella deflagrazione che porterà milioni di giovani per le strade della Cina, in nome degli insegnamenti del Grande Timoniere, a battersi contro l’apparato e le alte gerarchie dello stesso partito comunista. La loro parola d’ordine è uno slogan semplice e terribile, di eccezionale efficacia, che ha inventato lo stesso Grande Timoniere, il presidente Mao Tse-tung, e dice:
“Ribellarsi è giusto.”
Per la cronaca il dazebao di Niè Yuan-tsè accusa il rettore dell’Università di Pechino di esercitare, con autoritarismo, le prerogative della sua carica, di ricattare gli studenti con un vero e proprio terrorismo ideologico, di disprezzare la politica in favore della cultura, di tradire le masse, in nome del revisionismo, e conclude esortandolo ad andare “a coltivare crisantemi”. Sono accuse che, con le varianti del caso, verranno riprese in Francia, in Italia, in Germania, negli Stati Uniti, dove gli studenti metteranno sotto accusa non tanto le carenze della scuola e dei metodi didattici quanto la loro soggezione alla logica del “sistema”, alla società, nei cui confronti hanno un atteggiamento – mutuato da una definizione del filosofo, che il 1968 ha reso popolarissimo, Herbert Marcuse – di “Grande Rifiuto”.
Ed ecco il 1968 e il tempo immediatamente successivo: il maggio francese, le turbolenze nei Paesi dell’Est, la nascita del movimento in Italia. Un insieme di avvenimenti, tra la protesta e la insurrezione, la scontentezza e la ribellione, la rivendicazione di diritti civili e la denuncia dei privilegi e delle sopraffazioni di classe, scuote il mondo. Sono scosse che non investono le fondamenta delle istituzioni, ma sono sintomi di un profondo disagio; attribuirne l’origine e la causa a semplici motivi di “cattiva propaganda” significa fermarsi alla superficie degli avvenimenti, nonché attribuire sproporzionate capacità di incidere sulla realtà alla diffusione di determinati ideali, definendoli addirittura pessimi.
La Storia contemporanea ha insegnato pochissime cose sicure, tra queste una soprattutto: non esistono fenomeni che si autoproducono.
Tutto ciò che ci troviamo a dovere affrontare nella società, nel bene e nel male, non solo non è mai del tutto nuovo, ma nasce, sempre, da qualcosa che lo ha generato direttamente o indirettamente. Per giungere al Sessantotto, come abbiamo sinteticamente visto, è stata necessaria una incubazione che risale quanto meno al decennio precedente.
Dal panorama tracciato fin qui abbiamo lasciato fuori una importante componente, quella latino-americana.
Nel Sud America, a partire dagli Anni Cinquanta, si registrano effervescenze sociali e politiche di determinante rilevanza: dalla rivoluzione a Cuba alle guerriglie urbane dei Tupamaros in Uruguay [1967]. Per accennare appena all’influenza dello “stile” latino-americano sul resto del mondo, a ridosso del 1968, citeremo due soli fatti.

Ernesto Guevara de la Serna, più noto come Che Guevara o semplicemente el Che [1928-1967].

Nel 1967, a Parigi, esce il libro di Régis Debray, Rivoluzione nella rivoluzione? [ sulle esperienze di guerriglia in Sud America]: è un’opera che sarà presa a modello – brevemente, ma intensamente – da tutti i movimenti studenteschi europei.
Nello stesso 1967, in ottobre, viene catturato e assassinato, in Bolivia, uno dei massimi teorici e protagonisti della guerriglia della Storia contemporanea, quell’Ernesto “Che” Guevara, che diverrà un idolo dei sessantottini di tutto il mondo.
La guerriglia latino-americana, la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, la guerra del Vietnam non sono pretesti, non sono “invenzioni” di giovani insoddisfatti, sono, piuttosto, i terribili indici di un mondo che sta attraversando una difficile, grave e pericolosissima fase di assestamento, di trasformazione, di ridistribuzione negli equilibri di forze e zone di influenza. Negli Stati Uniti, si sentono minacciose grida – nel corso di situazioni da stato di assedio nei grandi agglomerati metropolitani che assistono all’esplosione dei loro ghetti di colore – stile quelle lanciate dal leader nero più estremista, H. Rap Brown:
“Burn, baby, burn!” [“Brucia, ragazzo, brucia!”]
Nelle capitali europee sfilano cortei studenteschi scandendo parole d’ordine “guevariane” non meno traumatizzanti, come:
“Dieci, cento, mille, Vietnam!”
Ed è in Italia, in particolare, che la rabbia studentesca, la emarginazione giovanile, la incipiente disoccupazione, non certamente più di vecchi mali oscuri della nostra società, della non relativa miopia delle nostre classi dirigenti, della loro mancanza di capacità di programmare l’economia, della loro vecchia abitudine di rifiutare qualsiasi novità, confondendola con chissà quale pericolo di rivoluzione, che rendono, ormai, critica una situazione, di cui solo chi non vuole vedere e non vuole udire non riesce a vedere e udire il superamento del livello di guardia, la probabilità di deterioramento dell’intero ordinamento sociale. 
Nella enorme polvere e nella confusione del Sessantotto e di ciò che immediatamente lo ha seguito in Italia, non si intravedono segni premonitori netti di quel “salto di qualità” compiuto dal terrorismo in Italia. Il Sessantotto a Milano come a Roma, a Trento come a Pisa, come in altre città italiane, sedi di grandi centri universitari, è un fatto di larghe minoranze, che investe una intera generazione e si fa promotore di idee e comportamenti che toccano tutta la vita sociale e politica del nostro Paese;  ma resta, sempre, un fatto di minoranza, di cui risentono molto alla lontana componenti importanti delle forze sociali, come, a esempio, la classe operaia e i lavoratori in genere.
Quali sono in concreto le “eversioni” tipicamente “sessantottesche”?
Non molto di più che battaglie in nome dei diritti civili, che lotte per il riconoscimento del ruolo delle donne sui luoghi di lavoro e nella società, che polemiche, talvolta, degenerate in atti di teppismo, per stabilire rapporti nuovi tra professori e studenti nelle scuole e nelle università. Che insieme a queste caratteristiche, che si possono genericamente chiamare “democratiche”, ve ne siano altre, definibili “classiste”, è indubitabile, ma non sono quelle assimilate e, per così dire, digerite dal contesto della società nazionale. E, del resto, le caratteristiche classiste del Sessantotto preesistevano ai fermenti venuti alla luce in quella data. Erano caratteristiche tipiche di esigue minoranze, e tali sono rimaste. Con ciò si vuole dire che la classe operaia, il movimento dei lavoratori, i partiti di sinistra che, storicamente, si sono affermati, in Italia, dopo il fascismo, con il Sessantotto, hanno avuto poco, per non dire niente da spartire, anche se i sessantottini hanno usato, mutuato e abusato di punti di riferimento culturali e politici, parole d’ordine e concetti di lotta tipici della Vecchia Sinistra.
Parallelamente e indipendentemente dal Sessantotto, nella società italiana, procedono e occupano ruoli sempre più rivelanti sia lo scatto delle agitazioni operaie, politiche e sindacali, che prendono il nome di “autunno caldo” [1969], sia le trame eversive concrete, sanguinose e misteriose che, a partire sempre dal 1969, con l’atroce strage di piazza Fontana, vengono, confusamente, chiamate “strategia della tensione” e anche problema degli “opposti estemismi”.
Sulle vaste e grandi lotte operaie e sindacali, inglobate sotto il nome di “autunno caldo” va fatta, innanzitutto, una considerazione: sebbene condotte in nome di una “linea dura”, non degenerarono, mai, in azioni di violenza, sabotaggio e tanto meno di terrorismo. Si svolsero nell’ambito delle forme rivendicative consentite dalle istituzioni; l’obiettivo dei sindacati, dei partiti politici e delle forze sociali, che le promossero e le appoggiarono, si ricollegò, sempre e rigorosamente, alle norme del dettato costituzionale e non debordò mai al di fuori del quadro democratico del nostro Paese.
Tutto è, ancora, da chiarire e scoprire circa le cosiddetta “strategia della tensione”. La lunga catena di immondi  delitti, di vili assassinii e di assurdi attentati, di gravissimi sabotaggi, rapimenti, sequestri di persone e ricatti, nati contemporaneamente e dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano, per quanto strano e incomprensibile possa risultare e risulti, non solo non è stata ancora, oggi chiarita, ma circa i mandanti, i “cervelli”, che la hanno voluta e diretta, non si è trovato un solo colpevole: finora sono caduti nella rete della Giustizia solo ed esclusivamente dei “manovali” della criminalità politica.


Strage di Piazza Fontana

E allora: quali nessi sussistono tra il Sessantotto, ciò che è accaduto negli anni immediatamente successivi e il terrorismo che ha stravolto gran parte dell’Europa e, in particolare, l’Italia? 
In materia sono fatte diverse ipotesi.
Una ipotesi che, con linguaggio di comodo chiameremo “di destra”, suggerisce che il terrorismo è nato ed è stato allevato dai partiti di sinistra e ha potuto svilupparsi e consolidarsi a causa della debolezza dimostrata dalle istituzioni democratiche del nostro Paese.
Si tratta di una ipotesi che non tiene conto di diversi fattori. Potrebbe reggere o avrebbe senso, sia pure paradossalmente, se il moderno terrorismo avesse riguardato la sola Italia.
Ma così non è!


Giovedì 16 marzo 1978, le Brigate Rosse raggiungono l’apice della loro strategia del terrore: portare l’attacco al cuore dello Stato. Alle 9.02 del mattino, in via Fani all’incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale, a Roma, un commando di brigatisti rossi rapisce il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i cinque componenti della scorta: il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera.

La Germania di Bonn aveva caratteristiche di Stato forte, le sue istituzioni democratiche e giuridiche erano autoritarie e non offrivano spunti per essere accusate di debolezza, eppure fu costretta a fare i conti con un terrorismo agguerrito e micidiale, delle cui esecrabili gesta è inutile fare la cronaca.
L’ordinata Francia di Valéry Giscard d’Estaing, nella quale, da qualche decennio, la sinistra era fuori del gioco governativo e statale, non fu immune da azioni di terrorismo politico internazionale; l’Inghilterra dovette affrontare l’annoso problema del terrorismo irlandese; la Spagna e il Portogallo, fino a non molti anni prima, rette da sistemi politici dittatoriali di destra, non furono, certamente, al sicuro dal contagio di un pericolosissimo terrorismo.
In misura diversa, la democraticissima Olanda ebbe problemi, che, clamorosamente, la travagliarono con ritornante periodicità – il caso dei sud-molucchesi.
Non bastassero queste considerazioni, a smentire l’ipotesi di destra, vi sono anni e anni di azione dei partiti di sinistra e dei sindacati in Italia, e, soprattutto, il fermissimo atteggiamento da essi assunto con la massima chiarezza in difesa dello Stato democratico e delle sue istituzioni. A una corretta analisi dei fatti, l’ipotesi “di destra”, non regge, tutt’al più le si può attribuire credito per un solo aspetto: la parte emergente del terrorismo di casa nostra, i NAP, Nuclei Armati Proletari e le BR, Brigate Rosse, si richiamavano a ideali definibili di sinistra, e ciò doveva avere un significato; quanto meno poteva voler dire che un insegnamento ideologico era stato assimilato male e applicato peggio.
Andare oltre a ciò sarebbe non solo un errore, ma una vera e propria forzatura!
Un’altra ipotesi, di segno opposto, che, con linguaggio altrettanto di comodo, definiremo “di sinistra”, offre interpretazioni non meno confuse e inattendibili del fenomeno terroristico. Per cominciare non lo presenta in modo credibile, attribuendogli, di volta in volta, differenti matrici. Sarebbe il frutto di un non meglio precisato “complotto”, sul quale non vengono, mai, date eccessive spiegazioni.
Un’altra suppone che vi abbiano peso determinante i disegni di non mai indicati servizi segreti italiani, stranieri.
Altra volta ancora si riferisce a “uomini potenti” della finanza, della politica, dello Stato, dell’industria che lo alimenterebbero con sovvenzioni, connivenze, protezioni; quando non addirittura con direttive strategiche.
In una sola questione l’ipotesi “di sinistra” centra in pieno il bersaglio: nel definire il terrorismo uno strumento destabilizzante per scardinare l’ordinamento democratico. A questo riguardo non si può non condividere, tanto più che ricollega, razionalmente, tale mira eversiva a intelligenze con altri terrorismi, stabilendo che il fenomeno non è solo italiano, ma internazionale.
Ma si può fare un’altra serie di ipotesi, al di fuori di quelle “di destra” e “di sinistra”, con buone probabilità di accostarsi a qualcosa di molto vicino alla realtà del terrorismo.
Innanzitutto il rilievo dell’efficienza tecnico-militare del terrorismo, sia di quello italiano sia di quello internazionale.
Chi lo pratica ha raggiunto un livello tecnologico assai sofisticato, che presuppone, tra le altre cose, allenamento atletico-sportivo e nozioni avanzate nell’uso delle armi più moderne. In altri termini, i terroristi delle ultime leve non sono dilettanti, non si affidano alla spontaneità, hanno alle spalle una organizzazione che ne cura l’addestramento fisico, ne garantisce la preparazione tecnica e operativa, li prepara psicologicamente e li rassicura per quanto riguarda rifugi, informazioni, rifornimenti e contatti con l’esterno delle diverse “colonne”. Va da sé che una organizzazione terroristica del genere non si prepara, come è stato giustamente notat, “nel cortile di casa”.
Ciò vuol dire che il terrorismo dispone non solo di mezzi finanziari molto copiosi, tali che non si possono procurare solo con i sequestri, con le rapine e con i ricatti. Il finanziamento di una attività terroristica tanto ampia e considerevole necessita di fonti per così dire sicure e rapide, un sequestro – o altro tipo di “autofinanziamento” del genere – è, sempre, esposto al fallimento, quanto meno lascia spazio a fattori imponderabili, una azione progettata e non portata a compimento per mancanza di fondi sarebbe la fine di ogni sviluppo nelle attività terroristiche. Le fonti di finanziamento, quindi, possono sì trovare in attività criminose parallele il loro sostentamento, ma non in linea primaria né tanto meno unica. Ne consegue che i fondi necessari per tenere in piedi un complesso apparato, clandestino e fiancheggiatore, di gruppi terroristici che coprono una intera area nazionale, come a esempio le BR, in Italia, debbono essere state largamente più abbondanti di quelle occorrenti per progettare e portare a termine le singole azioni. Per quanto fortunate e remunerative possano essere le forme criminali di “autofinanziamento”, non potranno, mai, essere bastanti per reggere le spese di impianto del terrorismo, che sono, ovviamente, permanenti anche dopo lo svolgimento delle diverse azioni.
La clandestinità ha costi di bilancio considerevolissimi e continui, si pensi, per usare le prime e più semplici esemplificazioni che vengono alla mente, al danaro necessario per soddisfare voci come: basi, prigioni, punti di appoggio logistico, rifornimento di armi e vettovagliamento, viagi, assistenza medica, acquisizione di protezioni, eccetera. In altri termini, una organizzazione del genere è presumibile abbia costi di gestione paragonabili a quelli di una media industria in espansione, con personale qualificato e diversificato, e con una esigenza continua di spese esterne di consulenza e di aggiornamento.
La supposizione che il personale di una organizzazione terroristica sia volontario, dotato di spirito di abnegazione, quindi, pochissimo costoso, è valida solo in parte. Certamente, una élite di fanatici caratterizza, sempre, questo tipo di attività, ma non è neppure lontanamente in grado di coprirne l’intero organico e, del resto, il costante contatto con l’esterno implica una disponibilità di mezzi molto al di fuori del comune.
Per comprendere in tutta la sua estensione e profondità il fenomeno del terrorismo, non solo in Italia, è, dunque, necessario accertare quali siano le fonti del suo finanziamento. Un accertamento del genere non è neppure lontanamente stato tentato da chi ha formulato ipotesi “di destra” e di “sinistra”.
Una diversa ipotesi va, infine, avanzata circa le possibili intese tra il terrorismo internazionale – quindi anche italiano – e i diversi servizi segreti delle grandi e delle piccole potenze. Uno scenario non improbabile potrebbe essere questo: diverse agenzie vi sono implicate, ma solo per quanto attiene alla nascita dei diversi gruppi, nelle diverse Nazioni, che, in qualche modo, sono stati aiutati a coagularsi e, poi, abbandonati a una esistenza autonoma, a vivere per così dire di vita propria.
In sostanza: agenzie segrete occidentali e orientali hanno avuto un ruolo da “apprendisti stregoni”, hanno presieduto alla generazione dei gruppi terroristici che, in seguito, per una serie di ragioni diversissime, non sono più risultati controllabili.
Il mostro del terrorismo, evocato con intenti destabilizzanti, è cresciuto a proporzioni tali che è, in certo senso, diventato una controparte in ogni Stato contro il quale agisce.
Se questo scenario corrispondesse, anche limitatamente, alla verità, sarebbe, allora, necessario stabilire come il terrorismo abbia potuto sopravvivere una volta interrotti i rapporti con i servizi segreti che lo hanno, in origine, appoggiato.
Ma elencate le diverse ipotesi sulla natura, sulle origine, sulle caratteristiche generali del terrorismo, restano sempre alcune domande di fondo da porsi.
A chi giova il terrorismo?
Chi sono i terroristi?
Quale ideologia li spinge ad agire?
Che cosa contano di ottenere?
Le forze politiche e sociali, le correnti di opinione pubblica, i gruppi di pressione, che ritengono di trarre vantaggi dal terrorismo hanno, in Italia e fuori,  una caratteristica comune: sono occulte.
A parole, tutti condannano il terrorismo e non potrebbero agire diversamente. Ma nel calibrare le condanne, nel proporre rimedi e forme di lotta contro il terrorismo, si possono assumere atteggiamenti diversissimi e addirittura opposti. Chiunque proponga provvedimenti contro il terrorismo, che smentiscono l’ordinamento democratico, lasciando spazio a iniziative statali e governative che offrono possibilità a “corpi separati” di agire al di fuori e al di sopra delle leggi, non è certamente un fiancheggiatore; ma accetta la logica perversa dei terroristi e attribuisce loro un primo vantaggio, quello di scendere sul terreno di lotta che hanno scelto, l’extralegalità, la contrapposizione di terrore a terrore.
Non si sono sentite anche in Italia, in particolare, dopo la strage di via Fani e l’orribile “esecuzione” di Aldo Moro, richieste di ripristino della pena di morte, di ricorso a mezzi eccezionali, di estensioni di poteri straordinari alla repressione?
Nel contesto del nostro ordinamento democratico – che va riconosciuto, con fierezza, ha retto nel complesso assai bene di fronte a questa terribile prova – hanno diritto di cittadinanza tutte le opinioni, purché non tendano a scardinare il quadro costituzionale; ed è proprio in questo quadro che va, rigorosamente, condotta la battaglia contro il terrorismo, che sarà, inevitabilmente, di lunga durata e potrà essere vinta solo ed esclusivamente nella Democrazia e per la Democrazia.
Chi sono i terroristi, allo stato attuale delle cose, non è possibile dirlo.
Si può, certamente, dire chi non sono i terroristi e, dalla sia pur rapida panoramica che si è tracciata fin qui, l’identikit alla rovescia è molto facile da mettere insieme.
Quale ideologia spinge i terroristi?
Il meno che si può dire è che non è una ideologia costruttiva, che non è una ideologia con possibilità di estensione di massa e di diffusione tra le classi lavoratrici. È, in primo luogo, una ideologia che rifiuta il consenso, che si isola e si richiama a una solidarietà estremamente selezionata, per pochi iniziati, una ideologia – che, per usare un luogo comune,  che ha, tuttavia, una forza espressiva molto convincente – nasce dalla disperazione.
Perché?
Perché nega la politica come mezzo di trasformazione della società, perché rifiuta, anzi non cerca neppure, il consenso e l’alleanza della gente comune, perché intende convincere gli esitanti e gli oppositori con la diffusione della paura.
Il terrorismo, in Italia e altrove, non solo si pone al di fuori dei movimenti tradizionali di emancipazione popolare, ma li osteggia, li colpisce brutalmente, tenta di renderne vani sia i punti di approdo sia gli obiettivi generali.
Che cosa contano di ottenere i terroristi?
Di portare la lotta su un terreno a loro congeniale, con la Democrazia che rinuncia a essere se stessa e adotta sistemi violentemente autoritari.
Mirano, in buona sostanza, a un solo obiettivo centrale: scardinare non tanto lo Stato, ma questo tipo di Stato, lo Stato democratico.
E nel conseguire questo obiettivo, che siano o non siano in buona fede non ha molta importanza – anche se è impossibile giudicarli in buona fede! –, poiché con i loro falsi “gesti esemplari”, con le loro assurde forme di lotta, prima ancora che sul sangue delle loro vittime innocenti, giocano sulla pelle di milioni e milioni di cittadini comuni, sulle loro aspirazioni a una società ordinata, più giusta e felice.


Daniela Zini
Copyright © 1 novembre 2014 ADZ
Chi può dire se, quando le strade si incontreranno, questo Amore sarà nel tuo cuore?




[1] Ex-ufficiale delle SS, Hanns-Martin Schleyer venne sequestrato, il 5 settembre 1977, a Colonia dal gruppo armato Rote Armee Fraktion, dopo un sanguinoso agguato, in Vincenz-Statz-Strasse, terminato con la morte dei quattro uomini della sua scorta. Dopo quarantatré giorni di prigionia, venne ucciso e, il 18 ottobre 1977, il suo corpo venne ritrovato nel bagagliaio di un’auto a Mulhouse.

[2] Il 25 maggio 1966, in Cina, inizia la rivoluzione culturale, quando la studentessa di filosofia Niè Yuan-tze incolla il primo dazebao sulla porta della mensa dell’Università di Pechino. Il manifesto accusa il rettore di gestione burocratica, di terrorismo ideologico, di disprezzo della politica, di tradimento revisionista, e lo invita ad andare a coltivare crisantemi. La rivoluzione culturale avrà grande influenza, anche, in Italia. In alcuni gruppi, come il Manifesto, LC ed AO, sarà una ispirazione per un nuovo modello di costruzione del socialismo, diverso dal modello burocratico sovietico.

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