“Io non ho in mio potere che ventisei soldatini di piombo, le ventisei lettere dell’alfabeto: io decreterò la mobilitazione, io leverò un esercito, io lotterò contro la morte.”

Nikos Kazantzakis

Entrando nella sede delle Nazioni Unite a New York si legge:


Bani adam a’za-ye yek peikarand,
Ke dar afarinesh ze yek gouharand.

Chu ‘ozvi be dard avard ruzgar,
Degar ‘ozvha ra namanad qarar.

To kaz mehnat-e digaran bi ghammi,
Nashayad ke namat nehand adami.

I figli dell’Uomo sono parti di un unico corpo,
Originate dalla stessa essenza.

Se il destino arreca dolore a una sola,
Anche le altre ne risentono.

Tu, che del dolore altrui non ti curi,
Tu non sei degno di essere chiamato Uomo.

Abu ‘Abdallah Mosharref-od-Din b. Mosleh Sa’di, Golestan

traduzione dal persiano di Daniela Zini

Dormire, dormire e sognare…

Sognare di una vita senza sofferenza e senza paura.

Sognare di Esseri capaci di amare oltre il limite, oltre la realtà, oltre ogni cosa, oltre la vita.

Fino dall’Antichità le donne scrittori hanno sognato una nuova era di pace mondiale.

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo o della malvagia natura degli uomini o dei sentimenti nazionalistici.

Certo, il produttore di armi e altri gruppi capitalistici possono avere interesse che scoppi una guerra, ma questo non significa che la loro volontà sia una determinante sufficiente a farla scoppiare. All’interno di ciascuno Stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse che divampino incendi che distruggano città, ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dagli incendi. In ogni Stato l’ordinamento giuridico prevede argini che frenino e contengano le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distruttrici prevalgono in campo internazionale solo perché mancano analoghi argini giuridici.

È probabile che, in certe occasioni, i gruppi capitalistici che ottengono l’appoggio dei governi per conseguire l’esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, l’emissione di prestiti e altri privilegi nei Paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere a essa, facendo nascere attriti e alimentando pericolosi contrasti tra Stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale.

Se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non vi sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale.

L’ordinamento giuridico è, dunque, una necessità, tanto nei rapporti tra singoli individui, quanto nei rapporti tra singoli Stati.

D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica può ingenerarli, così può soffocarli.

Le lingue, le etnie, le religioni, i costumi diversi non impediscono una pacifica convivenza.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo con una nuova organizzazione internazionale.

Quel tentativo fece completo fallimento.

Perché?

Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non vollero entrare nella Società delle Nazioni: mancando gli Stati Uniti, la Società delle Nazioni non aveva il prestigio e la forza sufficienti per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la Società delle Nazioni. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoperare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione fosse portata davanti all’assemblea della Società delle Nazioni, nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano mettere in pericolo i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di un’aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che mere sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo Stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se fossero stati presenti i rappresentanti americani nel consiglio della Società delle Nazioni avrebbero fatto, al pari dei loro colleghi inglesi e francesi, eloquenti discorsi sulla sicurezza indivisibile ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere conto alcuno del diritto e degli impegni presi con la firma del “covenant”.

Vi è, poi, chi ritiene che il fallimento della Società delle Nazioni si debba imputare a un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura: non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale. L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. le operazioni militari, anche se si fossero volute attuare, risultando tanto più costose e avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente era lo Stato che aveva violato la legge, molto facilmente sarebbero servite solo per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, giammai a quelle maggiori – così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe stato solo l’ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli Stati più forti.

Pretendere di costituire una forza armata a disposizione di una Società delle Nazioni di cui facevano parte Stati sovrani, avrebbe, d’altra parte, significato mettere il carro davanti ai buoi, poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessuno Stato avrebbe voluto concorrere alla creazione di un esercito internazionale, atto a imporgli una volontà estranea alla propria.

E seppure, per assurdo, fosse stata superata questa difficoltà, come si sarebbe potuto praticamente organizzare un tale esercito?

La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nel caso in cui avessero dovuto applicare misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà a un tale governo e, infine, se non fosse stata eliminata ogni possibilità di guerra tra gli Stati associati.

Nella nostra infelice epoca, ogni istante che viviamo, è segnato da orribili exploits di guerra e il denaro, del quale avremmo tanto bisogno per debellare Fame e Malattia, dispensato in fumo dagli Stati, sotto la copertura di progetti, presunti scientifici, che malcelano lo scopo di accrescere la loro potenza militare e il loro potere di distruzione futura.

Noi non siamo capaci di controllare né la natura né noi stessi.

Quante guerre risultano dall'incomprensione dell'Altro?

Tutte!
La Seconda Guerra Mondiale ne è un triste esempio.

Un esempio inaudito di intolleranza e di incomprensione che ha portato all'esclusione di tutto un popolo.

La stupidità dell'uomo risiede nel compiacersi a restare ignorante e come dice Albert Einstein:

“Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana; ma per quel che riguarda l'universo, io non ne ho acquisito ancora la certezza assoluta.”

Roma, 20 gennaio 2014

Daniela Zini

lunedì 15 aprile 2019

GESU' E I FANCIULLI di Daniela Zini


GESU’ E I FANCIULLI

“13 Allora gli furono presentati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli sgridarono coloro che glieli presentavano. 14 Gesù però disse: Lasciate i piccoli fanciulli e non vietate loro di venire a me, perché di tali è il regno de’ cieli. 15 E imposte loro le mani, si partì di là.
Matteo 19, 13-15


Pour Toi

Au début j’étais amoureuse
De la splendeur de tes yeux,
De ton sourire,
De ta joie de vivre.

Maintenant j’aime aussi tes larmes
Ta peur de vivre
Et le désarroi
Dans tes yeux.

Mais contre la peur
Je t’aiderai,
Car ma joie de vivre
Est encore la splendeur des tes yeux.

Rome, le 11 août 2011

 
Cari Ragazzi, 
mentre guardavo questo filmato    [http://www.youtube.com/watch?v=zNUxq8rI6lM&feature=player_embedded] ho pensato a Voi Ragazzi, piccoli e grandi dei cinque continenti, Voi, che siete pieni di vita, che studiate, che giocate, che lavorate…
Voi siete gli animatori delle nostre case, delle nostre aule, nel mondo intero…
Sì, ho pensato, subito, a Voi, perché Voi siete sensibili e attenti al dolore e alle sofferenze di quei Ragazzi che, in questo stesso momento, sono, in strada, gli occhi impauriti, pieni di dolore, in cerca della loro famiglia, di un segno di vita e di un senso di tutto ciò che accade loro.
Io mi rivolgo a Voi perché Voi siete generosi, capaci di gesti coraggiosi.
La gatta ama i suoi piccoli. Ma non li distingue più, una volta che sono divenuti adulti. Invece, nel corso del suo cammino, l’uomo è, costantemente, obbligato a scegliere.
Può decidere di far mangiare, prima di lui, la persona che ama.
Mi piace ripetere questa frase:
“L’uomo è l’immagine di Dio.”
Alcuni ci scherzano su, rispondendo:
“Beh, allora Dio non è molto bello!”
Ma io paragono l’uomo a Dio come il sigillo che viene impresso nella cera. Non conosco il timbro, forse, non lo vedrò mai, ma se osservo, con attenzione, me stessa in profondità, scopro l’infinito. L’uomo è immagine di Dio in negativo, perché tutto ciò che grida in lui, tutto ciò che tende a superare la legge naturale, che è soggetta a istinti brutali, rappresenta una scelta.
Non esiste la generosità istintiva.
Se non esistesse nel cosmo quella piccola nullità che è l’uomo, dotato della libertà che gli permette o di raccogliere, da egoista, tutto ciò che trova, anche a scapito degli Altri, o di sforzarsi di aiutare il prossimo a condurre una vita migliore; se non vi fossero gli esseri umani, che non sono altro che polvere infinitesimale del cosmo, l’universo nella sua totalità sarebbe assurdo.
E questo che cosa significa?
Se la libertà non fosse in grado di sprigionarsi in qualche momento cruciale – quel momento che io chiamo attenzione – la vita sarebbe assurda…
 Io Vi domando di trasmettere questo messaggio alle Vostre famiglie, alle persone del Vostro quartiere, alla Vostra scuola, affinché la catena di solidarietà cresca nel mondo intero e divenga un segno di speranza e di amore concreto.
 Io sono sicura che il Vostro cuore Vi suggerirà le parole per fare delle Vostre case, delle Vostre scuole, luoghi di solidarietà.
Restiamo uniti con tutti i Ragazzi del mondo e tra noi: l’unione fa la forza!
Vi ringrazio di cuore.
Crediate in tutto il mio affetto.



“Se vi è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima esaminarlo bene e vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi…”
È questo il pensiero di uno dei massimi pensatori moderni, Carl Gustav Jung.
Riecheggia quanto duemila anni fa affermava Gesù:

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?” 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
6 Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. 7 Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
8 Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. 9 E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
10 Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. 11 [È venuto infatti il Figlio dell’uomo a salvare ciò che era perduto]. 12 Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? 13 Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14 Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.
15 Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16 se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. 17 Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano.
18 In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
19 In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.
20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.”
Matteo, 18, 1-20

La predilezione che Gesù ebbe per i fanciulli ci sembra, oggi, del tutto naturale, siamo portati a considerarla come la manifestazione di un animo particolarmente sensibile e nulla più.
Ma non è così.
L’atteggiamento di Cristo verso l’infanzia era, a quell’epoca, inconcepibile e ha provocato una delle più grandi e silenziose rivoluzioni nella storia dei rapporti umani. Per rendercene conto è utile tratteggiare, almeno a grandi linee, la figura dei ragazzi prima della venuta di Cristo.
Lo scorso secolo, fu rinvenuto un papiro risalente all’anno 1 a.C. È una lettera,  che un egizio, allontanatosi, per qualche tempo, da casa, aveva scritto alla moglie prossima a partorire. La lettera termina con questa raccomandazione:
“Quando avrai partorito il bambino, se è maschio allevalo; se è femmina, uccidila.”
Non si trattava di un padre snaturato, come diremmo, oggi, ma di un bravo cittadino, che agiva come tanti altri bravi cittadini dell’epoca.
A Roma, come ad Atene, un padre aveva diritto di vita o di morte sui neonati fino al riconoscimento della paternità, una cerimonia che si svolgeva una decina di giorni dopo la nascita. Solo dopo tale cerimonia l’uccisione di un fanciullo veniva considerata un omicidio. A Sparta, non era il padre a decidere, ma lo Stato: ogni neonato doveva essere presentato a un collegio di anziani che decideva se farlo vivere o meno. Per i nati gracili o malformati non vi era via di scampo. Esisteva, naturalmente, l’aborto con il quale si tentava di frenare la crescita demografica in tutte le città greche e a Sparta, in particolare. Erano validi anche altri provvedimenti, poi, tornati in uso nella Cina di Mao: proibizione di rapporti sessuali, matrimoni dopo i venticinque anni, segregazione delle donne e quant’altro.
In casi di carestia, bisognava ridurre le forze non produttive. Ovviamemente, si iniziava con l’eliminare i bambini, abbandonandoli in balia degli elementi naturali. Anziché essere uccisi venivano fatti morire di fame e di freddo. Era la cosiddetta “esposizione dei bambini”. A Roma, si usava lasciarli sulla soglia di un tempio, fingendo di sperare in un ipotetico salvatore: a tale scopo, i benestanti mettevano accanto al bimbo un oggetto di valore, i poveri una corona di olivo come portafortuna. Ma lo Stato scoraggiava le adozioni: il padre naturale, infatti, aveva, sempre, diritto sul figlio e poteva riprenderselo quando, cresciuto, era in grado di lavorare.
Le menti più illuminate della civiltà greca non solo approvavano tali pratiche, ma trovavano argomenti convincenti per giustificarle.
Platone insegnava che non bisognava nutrire i figli di genitori miserabili.
“Non è, forse, meglio che muoiano subito piuttosto che vivano una vita grama fatta di stenti e miserie?”,
si diceva, comunemente, tra gli intellettuali dell’epoca. Aristotele considerava pericolosa, per l’equilibrio della polis, la crescita demografica e proponeva che lo Stato intervenisse, perché il diritto alla procreazione fosse riservato solo agli uomini che avessero superato i trentasette anni di età e non avessero ancora raggiunto i cinquantacinque. Si riteneva, comunemente, che la Grecia non potesse nutrire un solo uomo in più: il rapporto tra territorio e popolazione doveva essere mantenuto con tutti i mezzi, per evitare un futuro catastrofico per tutti. Sempre Aristotele invocava la legge perché intervenisse, energicamente, a impedire che venissero allevati bambini con handicap. Anche la miseria era considerata una grave malattia e le famiglie povere dovevano lasciare senza cibo i figli “per non trasmettere loro questa terribile malattia”.
Le preoccupazioni economiche guidavano, dunque, la morale di molti genitori e lo Stato tollerava, volentieri, l’infanticidio in periodi di magra. Solo quando aveva bisogno di soldati per le sue guerre si preoccupava dei bambini e organizzava forme di assistenza alle famiglie povere e numerose.
Abbiamo, naturalmente, parlato di bambini nati liberi; per gli schiavi non vi era nessun tipo di problema: la loro vita non valeva più di quella di un animale da cortile. Anche i figli di ragazze-madri non avevano molte speranze di sopravvivere: la donna “colpevole” veniva cacciata di casa o venduta e il figlio abbandonato o ucciso.
La situazione in Palestina non era come nel resto del mondo. Già, al tempo di Abramo, gli ebrei avevano iniziato a tralasciare le pratiche di uccidere il primogenito, come facevano, invece, tutti gli altri popoli antichi. I loro vicini, i cananei, immolavano un bambino, quando iniziavano i lavori di costruzione di una casa e ne sotterravano il corpo sotto la porta; i filistei non mancavano mai di offrire al loro dio il sangue di ogni primogenito; al momento della fondazione di Gerico, Hiel aveva sacrificato non solo il primogenito Abiram, ma anche Segub, l’ultimo nato.
Il fascino delle civiltà dei popoli che attorniavano i pastori di Israele era forte e, spesso, i figli di Abramo cadevano nella tentazione di imitare i costumi socialmente avanzati dei vicini, ma la voce dei profeti si elevava, ogni volta, ad ammonirli e la legge mosaica puniva con la morte coloro che bruciavano i loro figli e le loro figlie in onore degli dei.
Al tempo di Gesù, la vita di un bambino israelita era, generalmente, considerata sacra al pari di quella di un uomo. Ma un bambino non aveva diritti, solo doveri; era una creatura che doveva essere costruita (il termine figlio, in ebraico, deriva dal verbo costruire). Il padre aveva su di lui una autorità indiscussa. La Bibbia gli raccomandava:
“Fagli piegare il capo fintanto che è giovane. Non risparmiargli i colpi.”,
ma lo avvertiva anche che un bravo genitore non doveva far morire il proprio figlio sotto punizioni eccessivamente dure.
I bambini dovevano, innanzitutto, rispettare i genitori e i vecchi. E se non lo facevano, si raccontava loro l’episodio del profeta Eliseo che, deriso da un gruppo di monelli, aveva invocato su di loro la maledizione divina e… subito erano spuntati dalla foresta due orsi, che avevano sbranato quarantadue fanciulli.
Il Vangelo capovolge la situazione dei bambini.
Il racconto inizia con due protagonisti fanciulli: Giovanni Battista e Gesù. È la prima volta nella storia che un fanciullo sia al centro non solo dell’attenzione e dell’amore, ma anche del rispetto dei genitori, che non lo considerano un essere, che appartiene loro. Gesù è adorato dai pastori e dai magi non per quello che sarà, ma per quello che è:

“11 Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.”
Matteo, 2, 11

Sia Giovanni Battista, sia Gesù manifestano, in giovanissima età, la loro indipendenza dai genitori: il primo, ritirandosi a vivere tra i nomadi del deserto; il secondo, sottraendosi alla loro vigilanza all’età di dodici anni con l’affermare che deve rendere conto delle sue azioni non tanto ai genitori quanto a Dio.
Erode rappresenta, nelle prime pagine del Vangelo, la vecchia concezione: fa uccidere tutti i bambini in età inferiore ai due anni. L’avvenimento non è registrato che dal Vangelo: gli storici pagani non trovavano la cosa così straordinaria da essere ricordata. Macrobio dirà di sfuggita, attribuendo ad Augusto la battuta:

“Melius est Erodis porcum esse quam filium. [È meglio essere un porco di Erode che un suo figlio.]”
Microbio, Saturnalia, II, 4-11

La battuta è ricordata perché in greco la parola porco è simile alla parola figlio. Erode, come giudaizzato, non poteva man­giare porco e, pertanto, non lo uccideva; mentre, di fatto, uccideva i propri figli. Insieme ad Alessandro e ad Aristobulo, Erode aveva fatto uccidere trecento ufficiali, accusati di parteggiare per i due gio­vani. Nel 4 a.C., soltanto cinque giorni prima della morte, aveva fatto uccidere un altro suo figlio, il primogenito Antipatro, che aveva desi­gnato erede al trono: di questa morte era stato cosi soddisfatto che, seb­bene si trovasse in condizioni disperate di salute, era sembrato riaversi e migliorare.
Gesù si salva e con lui, ormai, si salveranno dalla loro condizione di schiavi in balia dell’autorità tutti i fanciulli.
Durante tutta la vita pubblica, Gesù è attorniato da bambini: li considera i suoi migliori discepoli e invita gli stessi Apostoli a prenderli come esempio. La prima volta che Gesù perde la pazienza, è proprio per difendere i bambini, che gli apostoli sgridavano a causa del chiasso che facevano.

“14 Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. 15 In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso.” 16 E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.”
Marco, 10, 13-16

I due primi grandi miracoli che compie avranno come protagonisti una fanciulla e un fanciullo che risusciterà.
Il bambino era l’ultimo gradino della società, un essere in balia dei genitori e della società stessa. Doveva solo pensare a diventare grande, imitando ovviamente l’esempio dei “grandi”, modelli perfetti.
Gesù capovolge la situazione con un paradosso: non i piccoli debbono imitare i grandi, ma gli adulti farsi piccoli.
È la condizione che pone per poter entrare nel Regno dei Cieli.

“1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?” 2 Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: 3 “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4 Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5 E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.”
Matteo, 18, 1-5

I bambini non sono persone di serie B, non sono uomini-in-divenire, ma hanno una loro compiuta personalità, una loro dignità e meritano, pertanto, non solo affetto e amore, ma anche rispetto. Il rispetto non è legato alla potenza e alla salute e all’età, ma deriva dal fatto che tutti gli esseri, belli e brutti, sani e malati, uomini e donne, appena nati o vecchi, sono egualmente figli di Dio. Genitori e società non hanno più dei diritti sui bambini, ma solo dei doveri: proteggerli, nutrirli, educarli, rispettarli.
A tutt’oggi l’insegnamento di Gesù è lungi dall’essere messo pienamente in pratica. Il bambino è, spesso, visto come un investimento.
“Non vi è nessun investimento migliore che mettere latte dentro i bambini.”,
diceva Winston Churchill, ed è, per questo, ancora considerato inferiore se portatore di handicap. Inferiore al punto che alcuni Stati intervengono non più per eliminarli, ma per impedire che nascano…
Come un tempo, lo Stato li considera come futuri soldati o forze di lavoro e, a tale scopo, li programma fino dall’infanzia, maneggiandoli senza quel rispetto alla loro personalità e alle loro capacità che Gesù ha predicato.
Ma il germe rivoluzionario, seminato duemila anni fa, ha, già, da tempo, iniziato a dare frutti positivi e, oggi, almeno sulla carta, tutti gli uomini sono concordi nel riconoscere i diritti dei bambini.


Daniela Zini
Copyright © 20 gennaio 2013 ADZ

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